Piergiorgio Odifreddi

Perché non possiamo essere cristiani (e meno che mai cattolici)

Longanesi, Milano 2007

1.

Imperterrito, Piergiorgio Odifreddi prosegue la sua battaglia per sostenere le ragioni del libero pensiero, della razionalità e della scienza contro ogni forma di oscurantismo (dal senso comune alla religione).

In questo suo ultimo saggio, l'attacco al Cristianesimo e al Cattolicesimo è frontale. Per un verso, rileggendo i testi sacri, vetero- e neotestamentari, egli ne demolisce l'attendibilità e mette in luce impietosamente le infinite contraddizioni che essi contengono. Per un altro, ripercorrendo la storia della Chiesa, rileva la scarsa fondatezza della sua stessa istituzione, le vicissitudini dottrinarie che hanno portato ad un'ideologia propagandata come verità rivelata, e il suo rapporto molto criticabile con il Potere, quando questo si allea con essa.

Per quanto un po' farraginoso, con qualche digressione di troppo, il saggio rilancia in grande stile - uno stile esplicitamente volterriano - il pensiero storico-critico sulla religione cristiana. Ce n'è sicuramente bisogno, dato che la Chiesa, per arginare l'emorragia dei credenti legata al processo di secolarizzazione, non trova di meglio che sfoderare nuovamente la nostalgia medievale di un primato non solo spirituale ma addirittura intellettuale che la porta a contestare radicalmente il modernismo, una delle cui matrici è per l'appunto la Ragione illuministica e la Scienza.

Il timbro volterriano e provocatorio del saggio di Odifreddi riesce del tutto esplicito fin dall'esordio del primo capitolo il cui titolo è Cristiani e Cretini:

"Cristo è la traslitterazione del termine greco christos, ´'unto', scelto dalla Bibbia dei Settanta per tradurre il termine ebraico mashiah, ´messia', col quale l' Antico Testamento indicava colui che doveva venire a restaurare il regno di Israele.

Fra i tanti sedicenti Cristi o Messia della storia, i Vangeli canonici identificano il loro con Gesù: a sua volta la traslirrerazione di Ye(ho)shua, ´ Dio salva' o ´ Dio aiuta', un nome comune ebraico che secondo Matteo fu suggerito in sogno a Giuseppe da un angelo perché il figlio di Maria ´avrebbe salvato il suo popolo dai suoi peccati'. Cristiano, che ovviamente significa ´seguace di Cristo', nella tradizione evangelica sta dunque a indicare ´seguace di Gesù', secondo un uso che gli Atti degli Apostoli fanno risalire alla comunità di Antiochia.

Col passare del tempo l'espressione è poi passata a indicare dapprima una persona qualunque, come nell'inglese christened, ´nominato' o ´chiamato ', e poi un poveraccio, come nel nostro povero cristo. Addirittura, lo stesso termine cretino deriva da ´cristiano' (attraverso il francese cretin, da chretien), con un uso già arrestato dall'Enciclopedia nel 1754: secondo il Pianigiani, ´perché cotali individui erano considerati come persone semplici e innocenti, ovvero perché, stupidi e insensati quali sono, sembrano quasi assorti nella contemplazione delle cose celesti' .

L'accostamento tra Cristianesimo e cretinismo, apparentemente irriguardoso, è in realtà corroborato dall'interpretazione autentica di Cristo stesso, che nel Discorso della Montagna iniziò l'elenco delle beatitudini con: ´Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli ', usando una formula che ricorre tipicamente anche in ebraico (anawim ruach).

In fondo, la critica al Cristianesimo potrebbe dunque ridursi a questo: che essendo una religione per letterali cretini, non si adatta a coloro che, forse per loro sfortuna, sono stati condannati a non esserlo. Tale critica, di passaggio, spiegherebbe anche in parte la fortuna del Cristianesimo: perché, come insegna la statistica, metà della popolazione mondiale ha un'intelligenza inferiore alla media(na), ed è dunque nella disposizione di spirito adatta a questa e altre beatitudini.

Benché perfettamente soddisfacente nelle sue conclusioni, la critica etimologica sarebbe però facilmente rimuovibile da coloro che trovassero la sua argomentazione troppo debole: in fondo, in quanto Europei (dal greco eurys ops, ´ faccia larga') siamo anche letteralmente dei ´faccioni ', ma questo non ci basta per dedurre che allora abbiamo tutti un' espressione cretina e dunque come Europei non possiamo non dirci Cristiani (anche se qualcuno l'ha fatto, con argomenti non molto più articolati).

Se vogliamo arrivare in maniera convincente alle stesse conclusioni, e cioè che il Cristianesimo è indegno della razionalità e dell'intelligenza dell'uomo, dovremo allora caricarci sulle spalle la Bibbia (dal greco biblia, ´libri') e percorrere la via crucis di una sua esegesi: non soltanto dei Vangeli (dal greco eu angelion, ´buon messaggio' o ´buona novella '), ma anche di ciò a cui essi si sono ispirati in precedenza, e che hanno a loro volta ispirato in seguito, dal Genesi al Catechismo..

Così come, se volessimo dimostrare che il Cristianesimo ha costituito non la molla o le radici del pensiero democratico e scientifico europeo, bensì il freno o le erbacce che ne hanno consistentemente soffocato lo sviluppo, dovremmo turarci il naso e ripercorrerne la storia maleodorante del sangue delle vittime delle Crociate e dei fumi dei roghi dell'Inquisizione." (p. 9 - 10)

Pur ritenendo che il libero pensiero abbia il diritto di spaziare nell'universo delle idee senza limite alcuno e di dare espressione a qualsivoglia emozione, devo dire in anticipo che, se mi trovo d'accordo con molte delle analisi condotte da Odifreddi, il limite del saggio è un eccesso di razionalità. Per quanto creda profondamente nel potere del pensiero critico, identificarlo nell'esercizio della Ragione illuminata o tout-court scientifica, mi sembra riduttivo e pericoloso: riduttivo perché tale esercizio preclude l'accesso alla logica delle emozioni, ovvero dell'inconscio, che ha un suo peso nell'esperienza individuale e collettiva; pericoloso perché, come ho avuto modo di dire più volte, l'esercizio della razionalità è prodigioso finché non urta contro fenomeni che richiedono un approccio dialettico, vale a dire un approccio che, pur essendo razionale, esclude sia una logica lineare sia una logica che distingue a filo netto gli opposti. Imbattendosi in essi, la Ragione non solo sbanda, ma, ahimé, da illuminata diventa stupida e incapace di capire che ciò che appare irrazionale nondimeno ha un senso.

Per capire meglio questo assunto, faccio un esempio pertinente. Dal punto di vista razionale, qualunque credenza religiosa che si ispira alla Bibbia può essere facilmente ricondotta alla paura che l'uomo ha di essere destinato all'annichilimento e al desiderio di scampare ad esso attraverso l'immortalità. Paura infantile, irrazionale e quant'altra mai "cretina" se si considera che essa, in genere, è più intensa in coloro la cui esperienza mondana è già di per sé insignificante.

Ricondurre la fede alla paura di morire, di accettare la finitezza, non è affatto infondato se è vero, ancora oggi, la speranza dell'immortalità si può ritenere la motivazione che sottende la psicologia di numerosi credenti (soprattutto di quelli che credono in ìqualcosa" che assicuri loro la sopravvivenza).

Se si parte, però, dal valorizzare la paura irrazionale della morte come motivazione che costringe un numero indefinito di soggetti a "rincretinirsi" nell'accettare i dogmi e le ubbie ecclesiali, non si coglie un aspetto della storia delle religioni, la cui matrice è biblica, che, forse è più importante. Ad esso ho ispirato il mio saggio (Facci un dio...) che, pur non essendo mai stato pubblicato, ritengo di gran valore. L'aspetto in questione si ricava dall'analisi dei testi.

Fino ad un certa epoca, riconducibile al terzo secolo a. C., la religione biblica, quella fondata da Mosé, è una religione del mondo: essa non comporta alcuna prospettiva trascendente. La predilezione di Dio nei confronti dei giusti, vale a dire di coloro che rispettano i suoi precetti, è attestata dalla felicità terrena, dalla salute, la ricchezza, il prestigio, il numero dei figli, ecc. Ciò significa, né più né meno, non essere vero che la religione riconosce come sua matrice primaria la paura di morire. Almeno per quanto riguarda la religione biblica originaria, si direbbe piuttosto che la matrice sia la paura di vivere nell'indigenza, nel dolore, nell'anonimato e l'aspirazione alla felicità terrena.

Se questo è vero, c'è da chiedersi quando e perché si è reso necessario inventare per tale aspirazione una prospettiva trascendente. I testi biblici a riguardo sono del tutto espliciti. Posto, infatti, che il favore di Dio, nella cornice di una religione mondana, è comprovato da quello che oggi chiameremmo "successo" nella vita, dopo l'insediamento degli Ebrei in Palestina e il definirsi di una stratificazione di classi - i ricchi e i poveri -, si è posto il problema di spiegare perché i giusti soffrono e gli empi godono. Nel pensiero dei profeti è assolutamente chiaro che tale problema, che ha anche un rilievo sociale, facendo riferimento alla distribuzione iniqua della ricchezza, si pone come assolutamente inquietante, perché esso contrasta con l'attribuzione a Dio di una giustizia infinita.

E' dunque l'ingiustizia terrena, che appare storicamente insormontabile, a costringere i teologi biblici a inventare l'al di là, il regno della giustizia ove i meriti saranno premiati e i demeriti puniti.

Se la paura di morire come fondamento della fede è "cretina" nella misura in cui un ente naturale, dotato di un organismo biologico, pretende di trascendere l'ordine cui appartiene, l'aspirazione alla giustizia è una motivazione radicalmente umana, forse la più specifica con la passione della conoscenza. Certo, essa stessa, nel momento in cui identifica la sua compiuta realizzazione nell'aldilà, può essere considerata irrazionale. Ciò nondimeno occorre riconoscere che il grido della creatura oppressa, che risuona ancora oggi sul Pianeta e al quale si dovrà dare una risposta concreta, si è espresso per la prima volta nel contesto della religione bilbica.

2.

Non avrebbe senso un'analisi dettagliata del saggio, che recupera molti temi della tradizione storico critica sulla Bibbia - da Voltaire a Russell appunto - ai quali aggiunge un'analisi della storia della Chiesa fino ai giorni nostri di notevole interesse. Mi sembra più importante focalizzare alcune tematiche alle quali, secondo me, Odifreddi non dà un dovuto rilievo o che si sottraggono alla sua metodologia razionalista.

L'incipit della Bibbia - la creazione del mondo e dell'uomo - è notoriamente contrassegnato da due diverse versioni, che danno immediatamente la prova di un testo che è stato letteralmente montato utilizzando fonti diverse, riconducibili alle rivalità teologiche (e fino ad una certa epoca politiche) tra il regno settentrionale d'Israele e quello meridionale di Giuda.

Per quanto concerne l'individuazione delle fonti dell'Antico Testamento, Odifreddi rende giustamente onore a Wellhausen, il cui lavoro filologico ha raggiunto esiti a tal punto inoppugnabili da costringere la Chiesa ad una laboriosa accettazione ("L'edizione ufficiale CEI della Bibbia non ha dunque difficoltà, oggi, a riconoscere nell'introduzione al Pentateuco che ´nell'opera confluiscono tradizioni e documenti variamente intersecantisi, che si possono scaglionare su un lasso di tempo che va dall'epoca di Mosè (secolo XIII p.e.V.) all'epoca della restaurazione del popolo di Israele dopo l'esilio in Babilonia (secolo V p.e.V.)'" p. 28), anche se nella Costituzione dogmatica del Concilio Ecumenico Vaticano II Dei Verbum si afferma: "La Santa Madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia dell'Antico sia del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa. Per la composizione dei Libri Sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo Egli in essi e per loro mezzo, scrivessero, come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che Egli voleva fossero scritte." (p. 28)

E' evidente, dunque, sin dall'inizio, che l'Antico Testamento è un pastiche, "per non dire più apertamente un irritante e snervante pasticcio." (p. 25)

Le due versioni della Creazione, però, contengono una chiave di straordinaria importanza per la storia della religione cristiana, che Odifreddi trascura (o non coglie). La prima versione, infatti, ha come scenario un contesto nel quale all'uomo è concesso di vivere dei frutti spontanei della terra ("Poi Dio disse: "Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo." Gen, 1, 29); la seconda, viceversa, fa riferimento ad un contesto caratterizzato da un modo di produzione fondato sull'agricoltura ("Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse." Gen, 2, 15).

Sono scenari distanti tra loro decine di migliaia di anni: il primo caratterizzato dalla proprietà comune della terra, il secondo dall'avvento della proprietà privata.

L'interesse di questo rilievo è dovuto al fatto che l'interdetto di consumare i frutti dell'albero della conoscenza è del tutto assente nel primo scenario mentre si realizza nel secondo. Questo porta a pensare che, anziché di un tabù sessuale, come Odifreddi ipotizza, il divieto concernesse piuttosto l'uso dei frutti della terra. La ribellione al Divino proprietario potrebbe essere ricondotta, da questo punto di vista, alla resistenza opposta da popolazioni nomadiche al passaggio alla residenzialità e alla schiavitù.

Questa circostanza non è di poco interesse se è vero che il Cristianesimo trae il suo significato dal sacrificio che Gesù ha fatto della sua vita per rimediare al peccato originale. Pongo tra parentesi il fatto che la necessità teologica di una colpa grave da scontare ha letteralmente costretto la Chiesa ad appropriarsi di tutta la Bibbia. Pongo tra parentesi anche l'infinita crudeltà della riparazione, che fa pensare ad un Dio la cui rabbia può essere soddisfatta solo dal sangue che scorre, e l'alternativa più ovvia - il perdono. Mi preme piuttosto di sottolineare che se il peccato originale è riconducibile ad una ribellione originaria contro la proprietà privata della terra la predicazione di Gesù, ossessivamente incentrata sulla giustizia sociale e sulla contestazione dell'iniqua distribuzione della ricchezza sembra, a distanza di secoli, dar ragione piuttosto ai ribelli che non al Divino Proprietario.

3.

Dal capitolo quinto della Genesi sino alla fine del Pentateuco, la Bibbia narra la storia dei Patriarchi da Abramo a Mosè. Si tratta di una storia così densa di contraddizioni e di eventi inverosimili che applicare ad essa un'analisi razionalista è un gioco sin troppo facile. Odifreddi vi profonde a piene mani il suo spirito caustico, ironico e volterriano. E' una lacuna di poco conto che egli non citi mai un saggio (Lettura laica della Bibbia di Mario Alighiero Manacorda, Editori Riuniti, Roma 1996) dedicato al Pentateuco che, per molti aspetti, ha anticipato la sua analisi.

Nella sua essenzialità, il secondo capitolo, pure denso, non è però dei più felici. Odifreddi cade (volutamente -- suppongo) nella trappola di enfatizzare la conquista violenta della Terra Promessa in nome e sotto la guida del Dio degli Eserciti che, dimentico di essere il Padre di tutti gli esseri umani, concede e impone al suo popolo prediletto di realizzare un genocidio a danno del popolo cananeo. Il suo intento, evidentemente, è di sottolineare in quale misura la violenza sia intrinseca alla religione biblica e a tutte quelle che sono da essa derivate.

Il riferimento al Dio degli Eserciti (Sabaoth) è rimasto vivo nella liturgia sino a qualche tempo fa in virtù del sanctus che si ripete nel corso di ogni Messa, sino ad esitare in un ipocrito éscamotage linguistico:

"E' proprio attraverso il Sanctus che il vergognoso epiteto ha infangato le opere più elevate della nostra cultura, dal Paradiso dantesco alle messe di Bach, Mozart e Beethoven. E la vergogna dev' essere stata percepita dalla Chiesa postconciliare, se essa ha cercato pudicamente di nascondere 1'epiteto dietro la foglia di fico di un fantomatico ´Dio dell'universo ', nella traduzione italiana della sua liturgia:

Santo, Santo, Santo

il Signore Dio dell'universo.

I cieli e la terra sono pieni della tua gloria.

Il che non basta a nascondere il fatto che il Dio degli eserciti è in realtà il capo di Stato Maggiore delle schiere monoteiste che da sempre combattono guerre che i loro fanatici combattenti descrivono come ´giuste' e ´sante': altri due ossimori vergognosi, per i quali George W. Bush e Osama Bin Laden, per ora gli ultimi condottieri cristiano e musulmano ad averli usati, possono rispettivamente ringraziare la Città di Dio di Agostino e il Corano di Maometto." (p. 54)

ìIl connubio tra monoteismo e violenza è entrato nella storia proprio grazie ai libri dell'Antico Testamento: quegli stessi che, secondo la Costituzione Dogmatica Dei Verbum ("Della Parola di Dio") del Concilio Ecumenico Vaticano II, "manifestano a tutti il modo con cui Iddio giusto e misericordioso si comporta con gli uomini" (p. 55)

Se è giusto rilevare i salti mortali che la Chiesa fa per mantenere l'unità della Bibbia nonostante in essa si delineano due religioni radicalmente diverse - l'una monolatrica, incentrata sul terribile Dio veterotestamentario, l'altra monoteistica incentrata sul Padre -, ridurre il Pentateuco alle imprese violente del popolo ebraico (sicuramente enfatizzate dall'esaltazione delle vittorie conseguite) è un approccio contestabile. Quelle imprese, infatti, vanno inquadrate nella storia di un popolo estremamente eterogeneo (quello che si sottrae alla schiavitù egiziana) il quale lentamente sviluppa, alla luce degli insegnamenti mosaici, una vocazione ugualitaria, una cultura identitaria, un'organizzazione sociale comunitaristica. E' insomma la storia di un popolo che si trasforma in etnia, in nazione, in Stato e produce una cultura teologica che non ha uguali nell'Antichità.

Restringendo l'analisi alle storielle dei Patriarchi e esaurendo il discorso sulla religione veterotestamentaria con il capitolo terzo dedicato ai Comandamenti mosaici, Odifreddi pone tra parentesi le vicissitudini teologiche intervenute in seguito agli esili che, con i Profeti, raggiungono un'indubbia dignità filosofica perché affrontano problemi - quali l'origine del male sulla terra, le ingiustizie sociali, il paradosso per cui i giusti soffrono e gli empi godono, ecc. - che fanno parte ancora oggi degli interrogativi con cui l'umanità si confronta.

Ciò significa che una religione sicuramente alle origini mitologica e superstiziosa, o se si vuole "cretina", ha nondimeno costretto un intero popolo, che l'ha assunta come fondamento della sua identità, ad interrogarsi di continuo sulla condizione umana e sulle vicende storiche. I risultati teologici di tale riflessione possono essere ritenuti, come sono, poco razionali, ma non se ne può negare la densità.

3.

Il capitolo quarto su Gesù pone, più di tutti gli altri, di fronte al valore e ai limiti del metodo analitico adottato da Odifreddi. Esso, infatti, è quasi perfetto sotto il profilo filologico che concerne le testimonianze storiche su Gesù, le radici profetiche dei testi evangelici, l'epoca di composizione, le fonti dei Vangeli, la selezione culturale che ha prodotto il Canone espungendo una ricca letteratura apocrifa, ecc.

Riguardo a quest'ultimo aspetto, Odifreddi scrive:

"Fin dagli inizi era chiaro che i Vangeli non erano opere storiche ma devozionali, che parlavano di un personaggio più o meno ideliazzato e mitizzato, quando non semplicemente inventato. E, naturalmente, non c'erano soltanto i quattro Vangeli canonici e le loro supposte perdute fonti: esistevano anche i cosiddetti Vangeli apocrifi, ´rimossi' (da apo, ´via ', e kryptein, ´nascondere '), che furono appunto dismessi dalla Chiesa come non autentici...

Quanto al canone del Nuovo Testamento, che oltre ai quattro Vangeli canonici comprende gli Atti di Luca, ventuno Lettere degli Apostoli e l'Apocalisse di Giovanni, esso non è che una scelta tra i molti Vangeli, i molti Atti, le molte Lettere e le molte Apocalissi della tradizione, benché si tratti di una scelta condivisa da quasi tutte le Chiese cristiane." (p. 100-101)

La selezione culturale operata dalla Chiesa su di una vastissima letteratura è fuor di dubbio, come pure che essa ha tentato di espungere gli elementi mitologici, superstiziosi e romanzeschi sparsi in quella letteratura a piene mani e di ridurre le infinite contraddizioni inerenti la vita di Gesù.

Ciò nondimeno, la selezione si può considerare felice perché, dal confronto con i Vangeli apocrifi, i Vangeli canonici risultano indubbiamente i migliori, anche se manifestamente orientati a sottolineare la divinità di Gesù e il significato salvifico del suo sacrificio.

Come però l'assiduo lavoro dei Sacerdoti del Tempio nel VI secolo a.C., cui si deve il "pastiche" dell'Antico Testamento, non è riuscito a rimuovere tutte le contraddizioni dei testi su cui si è esercitato, la stessa cosa - mutatis mutandis - si può dire dei Vangeli la cui lettura, se condotta con metodo indiziario, è molto più proficua dell'approccio razionalista di Odifreddi.

E' certo che anche i Vangeli canonici sono il frutto di un'attenta elaborazione di testi preesistenti, ma, dato che romanzare un'esperienza reale è più difficile che inventarne una ex-novo, essi lasciano comunque trapelare indizi che non avvennero senso se non fossero ricondotti ad una personalità storica.

Il Gesù Profeta, che propone un ideale di perfezione irraggiungibile ("Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento"). E poiché non si può trasgredire nemmeno uno di questi precetti, benché minimo, gli unici compimenti possibili ai comandamenti saranno ulteriori restrizioni di quelli negativi, e ulteriori estensioni di quelli positivi. Così non solo non si deve uccidere, ma nemmeno ´adirarsi col proprio fratello'. Non solo non commettere adulterio, ma nemmeno ´guardare una donna per desiderarla'. Non solo non dire falsa testimonianza, ma ´non giurare affatto'. Non solo amare il prossimo, ma ´amare i nemici'. L'irrealistico ideale proposto dal Gesù Profeta è dunque, esplicitamente, un'irraggiungibile perfezione: ´Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste'" p. 107) e parla in parabole perché solo ai discepoli ("A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri solo in parabole, perché vedendo non vedano e udendo non intendano" p. 110) non è, come pensa Odifreddi, un Predicatore mistico ed esaltato. E' viceversa un Ebreo che ha perduto ogni speranza in un popolo che, a partire dai suoi capi religiosi, ha smarrito la retta via della salvezza, non crede più che sia possibile istaurare sulla terra il regno della giustizia e aspira solo all'Apocalissi che concederà scampo solo ai pochi eletti.

Il Gesù Mago. "che effettua prodigi sempre di dubbia veridicità, e spesso di scarsa intelligenza o poca utilità, e che assomiglia più ad un ciarlatano o un imbroglione che a un guru o un santone" p. 111), è in realtà un essere perfettamente consapevole delle mediocri aspettative magiche di un popolo che aspira ad essere liberato dal dolore e dalla malattia. Egli cede a tali aspettative per pietà, e forse con un forte imbarazzo teologico visto che, se la miseria ha un'origine sociale, la malattia e la morte sono distribuite casualmente dall'imperscrutabile volontà divina. E' lo stesso Gesù, però, che, attaccando frontalmente le autorità costituite e recandosi provocatoriamente a Gerusalemme, cerca per sé il dolore del martirio e la morte.

Il Gesù Messia, infine, pur avendo accolto nelle file degli Apostoli e dei discepoli dei soggetti animati da un fanatismo politico rivoluzionario, ispirato a restaurare il primato politico e spirituale del popolo ebraico, non ha alcun intento politico. La verità che rende liberi, infatti, non riguarda infatti la libertà civile, l'essere o no sottomessi ad un potere pagano, ma l'anima. Essa promuove l'affrancamento dai lacci dei doveri parentali, delle tradizioni burocratiche e cristallizzate, delle passioni politiche, ecc.

Se si leggono i Vangeli tenendo conto dei tentativi che gli evangelisti hanno fatto di romanzare una vicenda umana e le interpretazioni ecclesiali, che in gran parte si riconducono alla religione paolina, la realtà che affiora è quella di un Gesù dolente, che trova sollievo sono nel ritirarsi dal mondo, immergendosi nella natura o nella preghiera, o nel contatto coi bambini; di un Gesù disperato in rapporto all'esistente, che non vede altro rimedio che fuoriuscire da esso; di un Gesù, infine, che oppone alla disperazione solo la certezza di una fine imminente del mondo, alla quale farà seguito la separazione definitiva dei buoni e dei giusti dai cattivi e dagli ingiusti.

E superfluo dirlo: un solo filosofo sembra aver colto, nella sua follia, lo spessore della figura di Gesù. E' Nietzsche, laddove scrive che, in senso proprio, è esistito un solo cristiano: Gesù stesso.

In questo senso Odifreddi ha perfettamente ragione nel suggerire che l'edificio cristologico è l'opera di cretini (a partire da Paolo di Tarso).

4.

Da pag. 155 alla fine il libro è un'analisi della storia del Cristianesimo e del Cattolicesimo con le sue eresie, i suoi dogmi, i compromessi con il Potere, l'accumulo di ricchezza, ecc. Si tratta, sicuramente, della parte più riuscita del saggio, che consente ad Odifreddi di esprimere al meglio la sua vis critica e polemica dall'analisi della falsa Donazione di Costantino ai recenti scandali economici (IOR) e sessuali che hanno investito sacerdoti, vescovi e cardinali.

A questo fiume di fango, intrecciato alle amenità dei dogmi (trinitario, inerenti la verginità di Maria, l'infallibilità pontificia, ecc.), la Chiesa potrebbe opporre agevolmente, dato che lo fa ogni volta che viene attaccata, la sua dedizione ai poveri e agli oppressi, le opere di bene, la difesa di valori fondamentali per la civiltà, ecc. A tutti questi aspetti - è vero - Odifreddi non dedica attenzione alcuna. Chi leggesse il suo libro proveniendo da un altro Pianeta, potrebbe, di conseguenza, facilmente identificare la Chiesa con un'associazione a delinquere. Ciò, se squilibra il giudizio complessivo del libro sul Cristianesimo, nulla toglie al fatto che le imputazioni sono reali e inoppugnabili.

Più volte mi sono chiesto perché non si sia mai riunita una Commissione laica interdisciplinare con l'intento di editare la Bibbia con un commento privo di quanto di ipocrita, ridicolo e patetico si dà nell'esegesi ecclesiale. La risposta è che i laici preferiscono lavorare in proprio e che un'opera del genere, oltre ad essere estremamente impegnativa, sarebbe considerata un sacrilegio. Rilancio la proposta. Il grido della creatura oppressa che, nei secoli, si è espressa attraverso l'aspirazione ad un giustizia oltremondana richiede ben altra risposta.