Antony Storr

Solitudine
Mondadori, Milano 1989

1.

Antony Storr è stato uno psichiatra e uno psicoanalista eterodosso e controcorrente - uno scettico eclettico piuttosto che un convertito, secondo le sue stesse parole -,  che, pur avendo avuto una formazione junghiana, ha sempre rivendicato una notevole indipendenza rispetto a qualsivoglia scuola. Di formazione umanistica, egli ha espresso più volte la sua insofferenza nei confronti della psichiatria nosografica, contestando il rigido confine tra salute e malattia mentale e giungendo a scrivere: “Il sano è più malato, e il malato più sano di quanto si pensa comunemente.”

Dal 1960 al 1996, Storr ha pubblicato numerosi saggi - tra i quali Integrity of the Personalità 1960, The Dynamics Of Creation 1972, Jung 1973, The Art Of Psychotherapy 1979, Solitude 1989, Freud 1989, Music And The Mind 1993, e Feet Of Clay 1996 -, che lo hanno reso famoso.

Solitudine, che si può ritenere il capolavoro di Storr, ha avuto un grande successo. A distanza di oltre un quarto di secolo dalla sua pubblicazione, una rilettura è necessaria. La struttura del testo, infatti, può facilmente indurre a pensare che il contenuto dell’opera verta sulla psicologia del genio  sull’intreccio tra genialità e introversione. Io ritengo viceversa che le intuizioni di Storr siano estensibili tout-court al modo di essere introverso, indipendentemente dal tasso di genialità che, come ho scritto più volte, riguarda solo una minoranza di introversi.

La rilettura è resa più agevole dal tenere conto della biografia dell’autore che, come accade talora agli introversi, segue fedelmente le orme della favola del brutto anatroccolo che si trasforma in cigno. Le ipotesi di fondo di Solitudine, infatti, sono manifestamente tratte dall’esperienza personale dell’autore che, pur avendo raggiunto un elevato grado di autorealizzazione, non si può ritenere e, con ogni probabilità, non si riteneva un genio.

Antony Storr viene al mondo con le stimmate di un’introversione precoce e marcata: ultimo di quattro figli, è un bambino sensibile, solitario, mutacico e, per di più, cagionevole di salute. Solo a otto, scampato ad una setticemia che ne ha messo in gioco la sopravvivenza, anni, egli prende a frequentare la scuola, ma l’esperienza è traumatica. Il piccolo Storr non ama giocare, non lega con gli altri, si isola: è letteralmente un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro. I coetanei, che non lo capiscono, lo prendono in giro e lo sottopongono ad angherie di ogni genere che egli, sprovvisto di qualunque aggressività, subisce e di cui non fa cenno ai suoi. Nonostante la vivace intelligenza, l’infelicità estrema che si determina nella sua anima incide anche sul rendimento scolastico, che rientra nell’ambito di un’aurea mediocrità. Storr, poco supportato da un contesto familiare piuttosto freddo sotto il profilo affettivo, si sente inadeguato e privo di valore, finché non scopre di avere una spiccata attitudine musicale. L’apprendimento e la pratica della musica preservano il suo equilibrio emozionale e la sua salute mentale. E’ un’attitudine a tal punto spiccata che, oltre a cantare in un coro, Storr diventa un eccellente violista e pianista.

Nonostante questo, il suo modo di essere, isolato e dedito unicamente alla musica, non riscuote l’approvazione dei parenti: egli non è quello che essi si aspettano che sia, e sono molto preoccupati per il suo futuro.

La svolta decisiva avviene nel 1939, allorché il suo tutor, avendo intuito le sue straordinarie qualità umane, approva caldamente il suo progetto di dedicarsi alla psichiatria. In questa prospettiva, Storr intravede la possibilità di acquisire un’identità professionale prestigiosa, di essere di aiuto ad altri e di poter coltivare i suoi molteplici interessi.

Frequentando l’Università, laureandosi, specializzandosi e sottoponendosi ad un training junghiano, egli acquisisce una piena consapevolezza del suo valore. Avvia la pratica privata, poi, portata avanti unitamente all’insegnamento universitario.

Solo intorno ai quarant’anni, Storr, che continua a coltivare la musica, intuisce la sua attitudine alla scrittura. I suoi libri hanno un inaspettato successo, che dura nel corso degli anni.

Riceve infine una serie di riconoscimenti ufficiali di grande portata: è eletto Emeritus Fellow of Green College (1984), Fellow of the Royal Society of Literature (1990) and Honorary FRCPsych (1993).

La sua straordinaria umanità e cultura è riconosciuta da tutti, e si esprime soprattutto nel rapporto con i pazienti e gli studenti.

Muore nel 2001, a 80 anni, famoso e appagato.

2.

Alla luce di queste note biografiche, che pongono in luce un tragitto tipico nell’ambito dell’introversione – con una carriera infantile stentata e dolorosa e un’evoluzione successiva che pone in luce  potenzialità superiori alla media -, è più agevole comprendere la suggestione di un saggio che dà forma ad alcun nuclei di verità inerenti la condizione introversa che l’autore ha sperimentato in prima persona.

Anche se il pensiero di Storr non ha nulla di radicale, la tesi fondamentale del saggio di comporta la contestazione di un codice normativo corrente (all’epoca e ancora oggi), facente parte del senso comune e alimentato, con alcune eccezioni riconducibili soprattutto al campo junghiano, dagli psicoanalisti, secondo il quale la personalità matura è caratterizzata in primo luogo dalla capacità di intrattenere relazioni interpersonali e di costruire legami affettivi stabili e duraturi. Storr pone esplicitamente in dubbio che “i rapporti affettivi costituiscano l’unica fonte di salute e di felicità” (p. 18): molte forme di terapia analitica – scrive (id.) -, prestando esclusiva attenzione ai rapporti interpersonali, non prendono in considerazione altre vie di realizzazione personale e disattendono lo studio dei meccanismi di compensazione nell’individuo che venga a trovarsi isolato. Queste vie alternative di realizzazione concernono rapporti con il mondo che Storr definisce impersonali, vale a dire la pratica dell’introspezione e di interessi culturali, talora creativi, che richiedono una capacità che, di solito, non viene considerata nella valutazione della maturità di una personalità : “il sapere stare soli.” (p. 22)

Riprendendo alla lettera il titolo di un saggio di Winnicott – La capacità di essere solo -, il secondo capitolo approfondisce questa tematica,giungendo ad una conclusione di grande interesse: “E’ necessario sviluppare nell’uomo la capacità di stare solo se si vuole che il cervello funzioni perfettamente e se si desidera sfruttare appieno il suo potenziale più elevato. Gli esseri umani sono spesso estranei ai loro desideri e bisogni più profondi. Imparare, pensare, rinnovarsi e mantenersi in contatto con il proprio mondo interiore diviene più semplici se si è soli.” (p. 42)

E’ ovvio che la capacità in questione è una potenzialità intrinseca al cervello umano, che si realizza solo a partire da una determinata fase dello sviluppo. Si danno bambini che manifestano precocemente la tendenza a stare da soli e ad abbandonarsi a giochi nei quali si esprime una grande fantasia. E’ fuor di dubbio però che l’avvio e l’evoluzione della personalità avviene per un lungo periodo sulla base di un bisogno di socialità affettiva primaria.

Ciò significa che, anche se si danno visibilmente differenze tra la propensione alla socialità (soprattutto in rapporto ai coetanei) tra i bambini, la capacità di stare da solo viene acquisita  lentamente, dall’adolescenza in poi.

Non c’è alcunché di soprendente in questo se si considera che il bisogno di individuazione si definisce sullo sfondo di quello di appartenenza e assume un valore progressivamente maggiore via via che l’individuo si avvicina all’adolescenza. Esso si può ritenere psicodinamicamente primario nel corso di questa, essendo deputato ad indurre una prima differenziazione della personalità individuale sulla base del calco della personalità infantile, emotivamente e culturalmente dipendente dalle richieste ambientali.

Al di là dell’adolescenza, la tradizione psicoanalitica dà per scontato che, sciolti i legami di dipendenza infantili dalle figure genitoriali, l’individuo si realizzi attraverso la socialità, manifestando la capacità di coltivare relazioni interpersonali di vario genere che, alla fine, tendono a confluire verso un legame affettivo duale in una certa misura stabile e duraturo.

Storr contesta che questo criterio possa essere esteso a tutti gli esseri umani. Egli lo ritiene limitativo per due aspetti.

 Per un verso, infatti, esso nega che la capacità di stare da solo svolga una funzione importante in età adulta, laddove invece essa è il fondamento dell’introspezione, del necessario confronto che l’essere umano dovrebbe intrattenere con se stesso per affrancarsi da condizionamenti sociali alienanti e per procedere verso un maggiore sviluppo delle proprie potenzialità.

Per un altro verso, ancora più importante, quel criterio trascura il fatto che in alcuni soggetti il bisogno di individuazione, in età adulta, sembra naturalmente rivolto piuttosto verso la pratica di interessi culturali e creativi che non verso quella dei rapporti interpersonali e affettivi.

Scrive Storr:

“Il fatto di non riuscire a stabilire, o a mantenere, quel tipo di rapporti affettivi, che i teorici delle relazioni oggettuali affermano essere la prima fonte di soddisfazione o di significato dell’esistenza, non implica che una persona non possa beneficiare di altri tipi di rapporti meno personali. Se infatti per molti è certamente più difficile dare un senso alla propria vita al di fuori di legami affettivi molto stretti, altri individui possono condurre un’esistenza equilibrata e soddisfacente basata su una combinazione di lavoro e di relazioni piuttosto superficiali.” (p. 26)

Il lavoro in questione non è ovviamente un qualunque lavoro, e tanto meno un impegno strumentale orientato ossessivamente al successo, al denaro, ecc. L’attività che, in alcun soggetti, compensa la carenza di rapporti interpersonali intimi e che, al limite, induce a non avvertirne un profondo bisogno così come accade comunemente, è quella creativa, che dà spazio all’immaginazione.

Questa capacità della mente umana serve a gettare un ponte tra il mondo esterno reale e i mondi possibili che essa consente di intuire e di esplorare. Oltre ad essere causa di un’insoddisfazione esistenziale irriducibile, in quanto riferita alla finitezza umana, l’immaginazione comporta di certo il rischio che il soggetto si perda sul terreno di mere fantasticherie. Essa però è fondamentale in rapporto all’evoluzione culturale della specie, poiché “una razza di uomini che fosse priva di immaginazione non solo non sarebbe in grado di concepire una vita migliore in termini materiali, ma non conoscerebbe neanche la religione, la musica, la letteratura, la pittura.” (p. 85)

Dunque, “ci sono ottime ragioni biologiche per accettare il fatto che l’uomo è strutturato in maniera da possedere un interiore universo fantastico che differisce, pur conservando legami con esso, dal mondo esterno. Il divario esistente tra queste due realtà è alla base dell’immaginazione creativa. Le persone che realizzano il proprio potenziale creativo tendono costantemente a colmare la distanza che esiste tra la realtà esterna e quella interna, investono il mondo di significato poiché non rinnegano né l’oggettività del reale né la propria soggettività.” (p. 88)

Gli esseri umani non sono dotati di un’immaginazione creativa della stessa intensità. Nessuno però può esserne del tutto sprovvisto, e quindi esonerato dal coltivarla, perché “se la persona guarda al mondo esterno semplicemente come a qualcosa a cui ci si deve adattare, e non come ad uno spazio all’interno del quale la soggettività può trovare la propria realizzazione, la sua individualità scompare e la vita diviene futile e priva di significato.” (p. 91)

Ritengo che quest’ultima considerazione sia particolarmente importante per evitare un possibile fraintendimento del saggio.

Le psicobiografie, sintetiche ma suggestive, attraverso le quali Storr accredita le sue ipotesi riguardano, infatti, univocamente personaggi di grande levatura nel campo della scienza, dell’arte, della letteratura, della filosofia (Newton, Kant, Beethoven, Mendellshon, Kafka, Wittgenstein, ecc.

Da ciò si può essere indotti facilmente a pensare che un’esperienza di autorealizzazione centrata più sulla pratica di rapporti impersonali che su quella degli affetti riguardi solo i geni. In realtà essa si impone ai geni introversi come una vocazione equivalente ad un destino, ma, a mio avviso, sia pure in misura diversa, rappresenta una potenzialità intrinseca al modo di essere introverso.

Il tema dell’introversione compare nel capitolo VII, il cui titolo è Solitudine e carattere.

Storr riprende da Jung la distinzione tra estroversione e introversione e la riconduce ad un problema di fondo intrinseco all’esperienza di ogni essere umano: il “dover trarre un significato dalla propria esistenza.” (p. 113)

Intrinseco ad ogni esperienza umana, in quanto affrancata da rigidi vincoli istintuali, che comportano l’adattamento al mondo così com’è, e costretta a costruire e ad inventare un mondo adatto ai suoi bisogni, il dare senso alla vita non è un optional, bensì una necessità psicologica. Tale necessità è in assoluto più evidente negli introversi, che, in genere, non possono astenersi dal riflettere per “scoprire un ordine e un significato nell’esistenza che non si ricollega in primo luogo ai rapporti personali.” (p. 182) Negli introversi geniali, tale necessità coincide talora con l’esigenza primaria di proteggere il loro mondo interiore dalle interazioni sociali e di mantenere un’elevata libertà dai vincoli e dai doveri inerenti la vita affettiva. L’orientamento verso il raccoglimento interiore e la coltivazione della solitudine creativa, anche intesa semplicemente come dimensione che consente di arrivare a definire una visione del mondo personale  differenziata rispetto al senso comune, è, a mio avviso, un tratto tipico di tutti gli introversi.

Una contrapposizione rigida tra estroversione e introversione, però, non ha senso. Si tratta infatti di due dimensioni che, facendo riferimento ai due mondi – quello esterno e quello interno – nella cui interfaccia si declina l’esperienza umana, sono presenti in ogni soggetto secondo una gamma indefinita di combinazioni che non riconosce alcuna forma pura. Alla luce di questo, le conclusioni cui perviene Storr appaiono vicine alla verità:

“Anche se l’uomo è un essere socievole, che ha certamente bisogno di interagire con gli altri, ci sono considerevoli differenze nella profondità delle relazioni che i vari individui stabiliscono reciprocamente. Tutti gli esseri umani sentono la necessità di avere degli interessi oltre che dei rapporti personali; tutti sono predisposti sia all’impersonale che al personale. Gli avvenimenti della prima infanzia, le doti e le capacità innate, le differenze di carattere e una schiera di altri fattori possono esercitare un’influenza determinante sul fatto che gli individui, per dare un significato alla loro vita, si rivolgano prevalentemente verso gli altri o scelgano invece la solitudine... Le esistenze più serene sono probabilmente quelle in cui non si idealizzano come uniche vie di salvezza né i rapporti interpersonali né gli interessi di tipo impersonale. Il desiderio e la ricerca di completezza devono comprendere entrambi gli aspetti della natura umana.” (p. 235) Tale completezza, come dovrebbe essere ovvio, può realizzarsi anche secondo formule più spostate dall’una o dall’altra parte.

3.

Antony Storr non è stato certo il primo a sottolineare il valore e il significato della capacità di stare soli, vale a dire, per essere più precisi, di stare con se stessi. Il suo saggio però ha il merito di avere riproposto questa tematica in un periodo storico-culturale particolare. Sul finire degli anni ’80 l’ondata della contestazione sessantottina al modo di essere borghese, che aveva accentuato fino all’estremo la socialità condivisa in opposizione all’individualismo, si andava esaurendo e, al suo posto, si andava profilando il rilancio dell’individualismo borghese con una forte connotazione estroversa, incentrata sull’intraprendenza, la spigliatezza, la competitività, l’acquisizione di uno status privilegiato, ecc.

Dato che quest’ultimo modello si è successivamente esteso sino a rappresentare un codice normativo univoco, che privilegia la capacità di public relations rispetto a qualunque altra dimensione di autorealizzazione, il saggio di Storr si pone ancora oggi come un valido contrappeso a tale codice, e un incentivo rivolto agli introversi affinché essi non tradiscano a loro vocazione riflessiva.

Al di là dell’equivoco, che ho rilevato, per cui il testo può far pensare che le ipotesi di Storr siano valide solo per gli introversi geniali – equivoco serio, che può sprofondare nella disperazione gli introversi che non dispongono di capacità creative eccezionali -, aggiungerei qualche riflessione forse di interesse.

La contrapposizione tra rapporti personali e rapporti impersonali mi sembra linguisticamente infelice. I rapporti personali hanno come referente l’altro, quelli impersonali come referente immediato se stessi o, se si vuole, il proprio Sé. Stare in solitudine significa stare con se stessi: si tratta insomma pur sempre di un rapporto personale, anche se non interpersonale.

Gli introversi che prediligono lo stare con se stessi, il raccoglimento interiore scoprono, poi, in genere che la loro mente si esalta, sperimentando il piacere del proprio funzionamento, quando essa si abbandona alla riflessione o si rapporta ad oggetti esterni carichi di significato emozionale. Tra questi oggetti si dà la Natura, in tutti i suoi aspetti, da quelli che pongono problemi di comprensione scientifica a quelli che evocano una sorta di fusione poetica o, al limite, mistica; la Cultura, intesa come patrimonio prodotto da altri mondi soggettivi con i quali si entra in rapporto, e l’Umanità nel suo insieme. In senso proprio solo il rapporto con la Natura, dunque, si può ritenere impersonale. Ciò vale peraltro massimamente per gli scienziati, che devono pervenire alla formulazione di teorie e di leggi universali; per i poeti, essa spesso assume un significato antropomorfico.

Giustamente Storr rileva l’angustia della teoria analitica delle relazioni oggettuali, che identifica gli oggetti con le persone in carne ed ossa (o, a livello psicopatologico, con i fantasmi). Egli però non giunge esplicitamente ad affermare che, tra gli oggetti con cui l’uomo può relazionarsi in maniera significativa, si danno anche quelli culturali, il rapporto con i quali equivale però ad una comunicazione interpersonale (o tra mondi di esperienza separati talora nello spazio e nel tempo) mediata dagli stessi.

Per quanto concerne, poi, il rapporto con l’Umanità, in molte esperienze introverse si realizza la paradossale associazione tra un umanitarismo intenso e profondo, spesso sotteso da una comprensione, e da una pietas di grado elevato e un rapporto disagevole con gli esseri umani in carne ed ossa. Non si va lontano dal vero sostenendo che gli introversi amano l’Uomo per ciò che egli potrebbe diventare, e che di fatto si è già oggettivato sul piano dell’arte, della scienza, della letteratura, della filosofia, ecc., mentre amano di meno l’uomo così com’è, vivendolo, in media, come un impasto di banalità, senso comune, superficialità, ecc. Forse esagerano nel giudizio, poco comprensivo del fatto che gli esseri umani fanno quello che possono e subiscono in maniera profonda i condizionamenti storico-culturali. Non hanno però tutti i torti nel rilevare che essi, in genere, vengono meno al dovere, intrinseco ad ogni esistenza umana, di interrogarsi su se stessi, sullo stato di cose esistente nel mondo, e, nella misura in cui è possibile, di evolvere cercando di migliorarsi.

La genialità è un dono della natura, la creatività una dote distribuita secondo uno spettro molto ampio. In ogni uomo, però, associato ad un orientamento adattivo, si dà un potenziale evolutivo che può essere messo a frutto. Il problema, per l’appunto, è che la realizzazione di tale potenziale dipende dalle circostanze ambientali, ma anche dalla capacità di stare da soli.

 

Appendice

Riporto in inglese la biografia di Antony Storr più completa reperibile su Internet, alla quale ho attinto, pubblicata originariamente su Psychiatric Bulletin (2001) 25: 365-366 © 2001 The Royal College of Psychiatrists.

 

“Born in London, Storr was a solitary, friendless child plagued by frequent illness, including severe asthma and septicaemia, from which he nearly died. He was the youngest of four children, separated by 10 years from his closest sibling. His father, Vernon Faithfull Storr, Sub-Dean of Westminster Abbey, was 51 when Anthony was born and his mother, Katherine Cecilia Storr, was 44, from whom he seemed to have inherited a tendency to occasional episodes of depression.

Virtually an only child, Storr was affected by the trauma, shared by most boys of his class and time, of being sent away to a boarding prep school at the age of 8. There, and later at Winchester College, he was bitterly unhappy. Extremely slow to make friends, and showing little proficiency for games, he was bullied and made only average academic progress. Though utterly miserable, it never occurred to him to complain to his parents, or attempt to run away, because boarding school was then a fact of life. But the sense of being a loner never left him, and was to affect the course of his career, as well as the content of his books. What preserved his sanity and emotional equilibrium was a growing passion for music. From an early age he attended performances in Westminster Abbey and was later allowed to sit in the organ loft, an enormous thrill.

At Winchester he sang in the choir, played the viola in the orchestra and piano solos in concerts. He always maintained that he would much rather have been a professional musician than a psychiatrist or writer, had he been blessed with the necessary talent and training; he freely acknowledged that his friendship with artists of the calibre of Alfred Brendel, and the musicologist Hans Keller, meant far more than would have equivalent friendships with Freud, Jung or Adler.

Storr's decision to become a psychiatrist was made soon after he went up to Christ's College, Cambridge, in 1939. His moral tutor was C.P. Snow, who became a lifelong friend. "I owed him a tremendous debt", Storr told me. "He was the first person who made me feel I might be any good at anything; I had disappointed parents and teachers by not doing nearly as well as I should have. When I told Snow tentatively that I might go into psychiatry, he said, ‘I think you'd be very good at it"’.

After 2 years at Cambridge, Storr was given a wartime courtesy degree, without taking a tripos, and continued his medical studies at Westminster Hospital (1941-1944), where he won prizes for medicine and surgery. He gained the MRCP in 1946.

His asthma precluded military service and, after a period as house physician at Runwell Hospital, he went to the Maudsley (1947-1950), where he survived the ordeal of being Professor Sir Aubrey Lewis' first senior registrar on his newly-formed professional unit. Lewis, a brilliant but obsessional polymath, was highly critical of his staff and undermined the confidence of some of the less tough who worked for him. Storr stuck it for nearly 2 years, then asked to be moved, thus effectively ruining his prospects for advancement within the psychiatric establishment. "I owed Lewis one thing, at least," admitted Storr "once you had suffered the experience of presenting a case at one of his Monday morning conferences, no other public appearance, whether on radio, TV or the lecture platform, could hold any terrors for you."

He obtained the DPM in 1951 and, developing an interest in analytical psychotherapy, went into analysis with Jung's English friend and colleague, Dr E. A. Bennet, and later became a member of the (Jungian) Society for Analytical Psychology. He practised psychotherapy privately and, from 1961, combined his practice with various hospital appointments as a consultant.

Storr's reputation as a writer and broadcaster began with publication of his first book, The Integrity of the Personality, in 1960. He was 40, and, up to that point, had not thought of himself as a writer. "I just felt the need to explain to myself what the hell I thought I was doing", he said. "For me, that is the motive for writing anything. I get intrigued by a puzzle, and writing a book is the best way to solve it." During the following years he published 11 other books of which the most notable were The Dynamics Of Creation (1972), Jung (1973), The Art Of Psychotherapy (1979), Solitude (1989), Freud (1989), his favourite, Music And The Mind (1993), and Feet Of Clay (1996).

Although he did a Jungian training, Storr declined to be labelled a Jungian, preferring to remain "an eclectic sceptic rather than a convert". His books reflected this lack of dogmatism. His love of music and literature, together with his medical and psychiatric training, enabled him to bridge the ‘two cultures’ defined by his friend, Snow.

Storr's particular gift for rendering difficult concepts accessible, as well as his lucid, immensely readable style, made his books as appealing to lay people as to professionals, and his sales reflected this. All but two of his 12 titles have remained in print and, while sales were steady in the UK, they did particularly well in the US, where Solitude sold 100 000 copies. The Essential Jung (1983) sold 50 000 worldwide, Freud sold 30 000 and Jung 75 000. The books were translated into 24 languages, including Korean and Malaysian, and Storr was especially charmed when Solitude was translated into Chinese for the Republic of Inner Mongolia.

He served as a member of the Parole Board (1976-1977) and the Williams Committee on Obscenity and Film Censorship (1977-1979), and his need to penetrate the mysteries of deviant or violent behaviour was apparent in his books on sexual deviation (1964), human aggression (1968) and human destructiveness (1972). At the same time, his understanding of human psychopathology gave him a rich appreciation of the creative possibilities inherent in mental suffering, and the powerful potential for self-healing to be found in artistic and intellectual creativity. This made him impatient with the medical model for psychiatry and its obsession with its symptomatic classification. "I want to show", he wrote, "that the dividing lines between sanity and mental illness have been drawn in the wrong place. The sane are madder than we think, the mad saner."

In 1974 Storr gave up private practice in favour of a teaching appointment at the Warneford Hospital, Oxford; a post he held until his retirement in 1984. He was very happy in Oxford, enjoying dining rights at Wadham College and becoming a Fellow of Green College.

A number of honours were granted him in appreciation of his contribution to psychiatry and literature. He was elected Emeritus Fellow of Green College (1984), Fellow of the Royal Society of Literature (1990) and Honorary FRCPsych (1993). The generosity of spirit, so apparent in his writing, was no less evident in his personality and was freely expressed in the warm support and encouragement he gave to younger psychiatrists, psychotherapists and writers, as well as to the patients from all walks of life who came to consult him. He died on 17 March 2001, aged 80. Storr was twice married, first to Catherine Cole, the writer with whom he had three daughters before a divorce in 1970. They survive him, as does his second wife, Catherine Peters.”