INTRODUZIONE A MELANIA KLEIN


1.

E' difficile mantenere un equilibrio critico nella valutazione del pensiero e dell'opera di Melania Klein. Se per un verso, infatti, è impossibile misconoscere il coraggio con cui essa ha intrapreso il trattamento analitico di bambini piccoli, già preda di una grande sofferenza interiore, rimane il fatto che le conclusioni teoriche cui è pervenuta sulle primissime fasi di sviluppo della personalità, e quindi sulla natura umana, sono, oltre che inverificabili, francamente pregiudiziali. Il problema di fondo è che la Klein si mantiene fedele a Freud proprio in rapporto all'aspetto più caduco del suo pensiero - la teoria delle pulsioni e, in particolare, dell'istinto di morte - e, più realista del re, radicalizza tale teoria fino a pervenire ad esiti assolutamente sconcertanti, che solo i suoi seguaci possono ritenere rivoluzionari.

En passant, rilevo che, in ambito analitico, a partire da Freud, si è definito un criterio epistemologico che, in conseguenza del potere di mistificazione della coscienza, che è un dato di fatto, tende ad assumere come conferma del grado di verità di un'ipotesi la resistenza che essa evoca nell'opinione pubblica e nel senso comune. Più di tutte le altre scuole, il kleinismo ha assunto e fatto proprio tale criterio, la cui banalità si può ricavare dal fatto che, dando ad esso credito, tutte le ipotesi, anche le più strampalate, dovrebbero essere accettate come vere nella misura in cui evocassero nell'opinione pubblica un rifiuto.

Gli esiti cui facevo cenno sono riconducibili schematicamente a quattro nuclei concettuali. Il primo è che il bambino viene al mondo con una dotazione di istinti sessuali e aggressivi più o meno spiccata, sulla base della cui animazione fantasmatica l'attività psichica. Il secondo è che egli è in grado di sperimentare precocemente, a partire dalle prime settimane di vita, l'esistenza di "oggetti", e quindi di stabilire "rapporti oggettuali": si tratta naturalmente di rapporti immaginari, nel senso che gli oggetti, rispettivamente buono e cattivo, sono creati dagli istinti e corrispondono alla loro intensità. Il terzo è che, dato che l'ipotesi di oggetti interni postula un "soggetto", i rudimenti di un io devono essere già presenti nel primissimo periodo della vita infantile. Il quarto è che, in conseguenza dell'attività fantasmatica degli istinti, molto presto nella psiche infantile si definiscono i nuclei di un'istanza antagonistica identificabile con il Super-io, che, producendo sensi di colpa primari, vale a dire senza alcuna mediazione culturale, argina gli istinti stessi.

Che cosa significano nel complesso questi nuclei concetti e quali conseguenze essi implicano? Il significato complessivo è di attribuire alla psiche infantile, fin dalle prime settimane, una struttura embrionale ma completa: un io rudimentale, un super-io, e gli "oggetti". Tale struttura però è completamente pervasa dal gioco fantasmatico delle pulsioni, che è scisso tra la tendenza al legame (eros) e la tendenza all'attacco e alla distruzione del legame, e quindi dell'oggetto (thanatos). La conseguenza di questo è che le vicissitudini dei primi mesi di vita, decisive per tutto l'ulteriore sviluppo della personalità, si svolgono su di un registro che è pressoché totalmente intrapsichico. L'esperienza precoce infantile, in quest'ottica, è necessariamente drammatica, in misura direttamente proporzionale alla più o meno spiccata dotazione individuale di istinti. L'ambiente esterno si riduce ad un contenitore di questo malessere originario, che può funzionare alleviandolo o esasperandolo. Il rilievo assegnato però agli istinti comporta anche la possibilità che in un ambiente ottimale un bambino possa sperimentare vicissitudini interiori destinate inesorabilmente a tradursi, negli anni, in una malattia mentale.

Non ci vuole molto a capire che il radicalismo istintuale di Melania Klein comporta un pregiudizio biologista. Esso implica, infatti, che il fattore decisivo dello sviluppo infantile sia da ricondurre sostanzialmente alla dotazione degli istinti, e in particolare dell'istinto di morte. Rispetto a questo dato, l'ambiente rappresenta una variabile non insignificante ma assolutamente secondaria. In breve: ammala (almeno più facilmente) chi viene al mondo con un corredo intrinsecamente conflittuale e disadattivo, soprattutto in relazione all'intensità dell'istinto di morte. Per quanto le premesse siano diverse, la conclusione è identica a quella cui perviene la neopsichiatria organicistica.

Ancor più rilevante appare questo aspetto se si tiene conto delle due "posizioni" che Melania Klein individua nello sviluppo infantile precoce: la posizione schizo-paranoidea, che si realizza nei primi mesi, in seguito alla quale gli oggetti, investiti dagli istinti proiettivamente, si pongono alternativamente come protettori e persecutori; e la posizione depressiva, che interviene intorno al sesto mese, dovuta all'intuizione che gli oggetti buoni sono minacciati dalla distruttività, in conseguenza della quale il bambino sviluppa un atteggiamento riparativo in rapporto ai primi, che promuove un'apertura al mondo esterno. Se la posizione depressiva fallisce, in conseguenza dell'intensità dell'istinto di morte, facilmente ciò determina una regressione a livello persecutorio o una difesa maniacale. La corrispondenza, almeno descrittiva, di tali posizioni con le dinamiche sottostanti la schizofrenia e la psicosi-maniaco depressiva troppo facilmente portano a pensare che queste malattie, che si manifestano dall'adolescenza in poi, possano essere ricondotte a vicissitudini della vita interiore risalenti al primo anno di vita. Certo, queste vicissitudini sono di ordine psicodinamico. Nella misura in cui, però, esse dipendono dal corredo istintuale, vale a dire da un fattore psicobiologico, il danno che producono è omologabile a quello strutturale ipotizzato dalla neopsichiatria.

2.

Melania Klein e i kleiniani non sembrano mai essersi posti la domanda del perché, nel salto dall'animale non umano all'uomo, l'evoluzione avrebbe dovuto produrre un apparato mentale a tal punto poco funzionale che il rapporto con la realtà esterna si debba definire sulla base di un'angoscia di colpa che argina l'istinto di negarla e di distruggerla. In un'ottica evolutiva, che fa discendere l'uomo da primati sociali, questo è semplicemente assurdo poiché postula che l'istinto sociale, vivo e primario in essi, sarebbe stato sostituito da un istinto asociale o antisociale, tale che la socialità deriverebbe solo dalla prevalenza dell'eros su thanathos.

I kleiniani affermano che questa verità, inconfutabile in quanto ricavata dall'analisi di bambini piccoli, viene respinta solo in nome della difficoltà di accettare una scoperta che urta contro il pensiero comune e la tradizione culturale. Intanto questo non è vero. L'istinto di morte, ipotizzato da Freud e portato alle estreme conseguenze dalla Klein, è, come ho detto più volte nel recensire le opere freudiane, l'espressione radicale di un'antropologia filosofica borghese, il cui primo rappresentante è Hobbes, che attribuisce all'individuo un egoismo primario e incoercibile, quindi asociale. Per quanto riguarda poi la scientificità della scoperta, il discorso è più complesso.

L'errore commesso da Freud di scambiare la fenomenologia della vita interiore dei pazienti, spesso animata da fantasie distruttive e vendicative di ogni genere, come espressione diretta e immediata del carattere pulsionale della natura umana, si è ripetuto anche nella Klein. Tale errore è stato facilitato dall'essersi essa confrontata terapeuticamente con bambini dai tre ai sette anni, la cui struttura di personalità è tale da lasciare pensare ad una maggiore trasparenza di vissuti primari rispetto a quelli dovuti all'interazione con l'ambiente. L'errore è stato anche accentuato dal fatto di avere intrattenuto con i genitori un rapporto sempre formale, tale per cui l'assenza in loro di una patologia psichica evidente non poteva portare ad altro che alla conclusione per cui la drammatica vita interiore dei figli non era riconducibile a livello d'interazione. Se la Klein fosse stata in grado di capire che l'interazione del bambino con il genitore s'intrattiene sulla base di un campo, determinato dall'inconscio genitoriale, che può essere molto più ambivalente, rigido e ingabbiante rispetto al comportamento cosciente genitoriale, essa avrebbe preso atto che i fantasmi rabbiosi e distruttivi che pervadono la psiche di alcuni bambini sono tutt'altro che privi di un certo realismo. Il fatto che molti genitori rimuovano le loro ambivalenze e le loro contraddizioni culturali in rapporto ai figli non significano che le une e gli altri non esistono.

Per questo aspetto, le teorie di Alice Miller, centrate per l'appunto sulla valorizzazione delle ambivalenze e delle contraddizioni culturali genitoriali sembrano più vicine alla verità rispetto a quelle kleiniane.

Una seconda considerazione verte sul fatto che i bambini curati dalla Klein, precocemente disagiati, cristallizzati autisticamente nelle loro rabbie inespresse o spinti impulsivamente ad agirle, sono con evidenza bambini dotati di un potenziale oppositivo estremo. Gran parte degli adolescenti e dei giovani che manifesta disturbi psichici gravi - schizofrenia, psicosi maniaco-depressiva - hanno solo raramente alle spalle una carriera di bambini difficili. Più spesso, la loro carriera è quella di "figli d'oro", apparentemente bene integrati e rispondenti alle aspettative ambientali. In questi casi, l'analisi rivela che essi sono dotati di un bisogno di appartenenza troppo intenso che frustra il dispiegamento del bisogno d'individuazione. Come accordare questo dato con la teoria kleiniana. Certo, si può ipotizzare che in questi soggetti l'angoscia di colpa riferita alla loro distruttività primaria è stato tanto intensa da indurne la rimozione per alcuni anni. Con argomenti di questo genere, però, non si fa scienza: si aggiustano i dati empirici in rapporto ad una teoria onnicomprensiva, che non può essere falsificata in alcun modo. Se questa critica, vanzata da Popper, vale per Freud, essa vale a maggior ragione per la Klein.

E' un fatto che la Klein i bambini li curava, così come è un fatto che gli analisti kleiniani conseguono successi terapeutici in misura non minore rispetto agli altri (cioè comunque scarsi). A riguardo c'è da considerare che ricavare la fondatezza di una teoria psicoanalitica dagli effetti terapeutici equivale a convalidare lo sciamanesimo, che, a detta degli antropologi, consegue risultati positivi in misura non inferiore alla medicina e alla psichiatria.

La realtà, di ordine generale, è che il set terapeutico analitico, in sé e per sé, corrisponde al bisogno dei pazienti di poter rivelare i loro drammi interiori ad un soggetto che li accoglie, li comprende, non avanza giudizi. E' l'atteggiamento di maternage o di paternage proprio dell'analista che, quando corrisponde ad un'autentica disponibilità emozionale nei confronti dell'altro, consegue effetti terapeutici indipendentemente dalle interpretazioni, che possono essere più o meno credibili.

Per quanto riguarda i kleiniani in particolare, occorre tenere conto che la loro concezione atrocemente pessimistica riguardo alla natura umana li induce ad assumere un atteggiamento particolarmente comprensivo nei confronti di soggetti che, ai loro occhi, sono vittime incolpevoli del caso genetico, essendo venuti al mondo con un carico di distruttività di cui non hanno colpa, e che spesso pagano con terribili sensi di colpa. Lo stesso atteggiamento può essere però promosso anche dal considerarli vittime di una congiuntura tra il loro corredo genetico (non malformato) e circostanze ambientali negative per il loro sviluppo.

3.

Per amore di verità, occorre riconoscere che Melania Klein ha scoperto qualcosa di molto significativo attraverso l'analisi dei bambini: l'estrema reattività emozionale in rapporto a interazioni ambientali sostanzialmente negative. Essa è stata però fuorviata, a livello teorico, da due circostanze.

La prima è la sproporzione tra quella reattività, che può giungere a livello di rabbie furibonde, e il campo interattivo, che non si è data cura di esplorare. Faccio un esempio, banale ma significativo. Una madre perfezionista, ossessionata dal problema della pulizia, dell'igiene e dell'ordine è apparentemente molto efficiente nella cura del bambino. La sua fobia dello sporco contrasta però piuttosto gravemente con il fatto che un bambino, impegnato ad esplorare il mondo, è, almeno fino ad una certa età, poco interessato alla pulizia e all'ordine. Il campo nel quale si muove è però tessute di regole implicite che bloccano di continuo il suo bisogno esplorativo, comportano dei richiami e dei rimproveri incessanti, si traducono in lavaggi, cambi d'abbigliamento, riordinamento dei giocattoli pressoché continui, ecc. Si tratta dunque di un campo d'interazione ingabbiante e opprimente. Se un bambino oppositivo s'imbatte in un campo del genere è inevitabile che, dall'epoca in cui comincia a camminare, egli va incontro a reazioni rabbiose direttamente proporzionali ai vincoli posti dalla madre. Se poi egli sviluppa un atteggiamento negativistico per cui, reagendo alle sollecitazioni materne, egli fa sistematicamente il contrario, il circolo vizioso interattivo che s'istaura può assumere una configurazione estremamente drammatica. Preda delle sue fobie, la madre non può fare a meno di stargli addosso; preda del suo bisogno di libertà, il bambino non può fare a meno di arrabbiarsi, protestare e, in conseguenza di questo, sentirsi in colpa, cadere in depressione, avere incubi, ecc. In un caso del genere, la sproporzione tra i vissuti interiori del bambino, che può giungere a vivere la madre come una "strega" che gli toglie il respiro, e il comportamento della madre stessa, che, in ultima analisi, vuole solo mantenerlo pulito, è apparente.

La seconda circostanza, francamente sorprendente, è l'uso del transfert come prova del carattere fantasmatico, intrapsichico dei vissuti infantili, e in particolare delle rabbie. La logica del ragionamento kleiniano è che, se un bambino disturbato, posto in relazione diretta, duale con una terapeuta che non vuole fargli del male, manifesta nei suoi confronti un atteggiamento di ostilità, di diffidenza o di aggressività, è evidente che tale atteggiamento pone in luce una spiccata prevalenza della distruttività (istinto di morte) sul bisogno di legame affettivo. Il problema è che: primo, il bambino nulla sa del ruolo sociale dell'analista, che dunque ai suoi occhi è un'estranea; secondo, che, se egli ha un rapporto disturbato con le figure genitoriali, che ai suoi occhi rappresentano la classe degli adulti, è inevitabile che trasferisca l'ostilità e la diffidenza sull'analista, che appartiene a quella classe. Il transfert però non significa che la sua ostilità sia all'origine, in rapporto all'ambiente interattivo familiare, ingiustificata come appare nel rapporto con l'analista.

Ponendo tra parentesi questi errori interpretativi, c'è da chiedersi infine che cosa ha scoperto la Klein. Io penso che abbia scoperto una verità che ai suoi occhi è apparsa rovesciata. La verità è che la programmazione che sottende lo sviluppo della personalità infantile riconosce, al di là di un bisogno primario di legame e di appartenenza, un bisogno di opposizione funzionale a promuovere l'individuazione. Nella misura in cui quest'ultimo bisogno è particolarmente intenso (senza essere mai patologico) e le circostanze ambientali lo frustrano, lo reprimono o ne inibiscono la manifestazione naturale, esso può essere rimosso (come accade nei bambini d'oro) o, viceversa, esprimersi sotto forma di fantasie rabbiose e di comportamenti aggressivi (come accade nei bambini oppositivi). L'avere identificato in queste fantasie e comportamenti l'indizio di un istinto di morte è il rovesciamento della verità, nella misura in cui un potenziale vitale, com'è quello legato al bisogno d'individuazione, viene ad essere assunto come meramente negativo.

C'è da chiedersi quanto tempo ancora dovrà passare perché la psicoanalisi riconosca nell'ipotetico tanathos una spinta motivazionale che, mossa dalla necessità di promuovere la definizione di un'identità differenziata, vale a dire di un individuo autonomo, ha la stessa dignità del bisogno di appartenenza, e, con la sua intensità, serve a tutelare l'uomo dal pericolo di essere letteralmente risucchiato da questo bisogno.

La teoria kleiniana drammatizza fantasmaticamente la vita interiore del bambino e dell'essere umano. Non c'è bisogno di mettere in campo un conflitto tra eros e tanathos per capire che quell'esperienza è in sé e per sé drammatica semplicemente perché ogni essere umano ha una doppia natura: è un animale sociale che aspira a dotarsi di un'identità differenziata da tutti gli altri e caratterizzata da una volontà propria nell'esercitare la quale egli, pur non potendo trascendere le circostanze ambientali e culturali, può sentirsi libero.

Marzo 2004