Erich Fromm

L’Arte di amare

Mondadori, Milano 1986

1.

I libri divulgativi che mirano a fornire al pubblico le chiavi per risolvere problemi psicologici di vario genere sono un indice abbastanza attendibile della diffusione sociologica dei problemi stessi. La letteratura divulgativa abbondantissima degli ultimi anni, il cui comune denominatore è la banalità, verte insistentemente su tre tematiche: la felicità, l’amore e l’educazione dei figli. Essa, dunque, segnala uno stato di crisi che investe la qualità della vita individuale, i rapporti di coppia e il sistema familiare come agenzia di riproduzione sociale.

La crisi non è nuova se su ciascuna di tali tematiche si possono reperire, nella letteratura di qualche decennio fa, dei “classici” che l’hanno inaugurata: La conquista della Felicità di B. Russell, L’arte di amare di E. Fromm e La politica della famiglia di R. D. Laing.  Come ho accennato nella recensione del libro di Russell, ponendo a confronto i capostipiti con gli epigoni, l’impressione immediata è che: primo, le tematiche critiche segnalate dagli uni si sono approfondite ed estese; secondo, la psicologia e la psicosociologia hanno perduto uno spessore culturale e si limitano a sfornare ricette buone a tutti gli usi (e, naturalmente, inutili).

Pubblicato nel 1956, appena un anno dopo Psicoanalisi della società contemporanea, L’Arte di amare è, forse, il saggio più famoso di Fromm: ancora oggi, a distanza da oltre quarant’anni dalla prima pubblicazione italiana, esso viene di continuo ristampato, nonostante le prime righe della prefazione scoraggino chi è alla ricerca di formule magiche:

“La lettura di queste pagine potrebbe essere una delu­sione per chi si aspetta una facile istruzione sull'arte di amare. Questo volumetto, al contrario, si propone di dimostrare che l'amore non è un sentimento al quale ci si possa abbandonare senza aver raggiunto un alto li­vello di maturità. Vuole convincere il lettore che ogni tentativo d'amare è destinato a fallire se non si cerca di sviluppare più attivamente la propria personalità; che la soddisfazione, nell'amore individuale, non può esse­re raggiunta senza la capacità di amare il prossimo con umiltà, fede e coraggio. Senza queste virtù è impossibi­le amare veramente.” (p. 9)

Di fatto, si tratta di un saggio esiguo ma denso, nel quale Fromm riversa i frutti di una riflessione incessante sull’uomo e sui fatti umani.

Affronterò l’analisi cercando di enucleare la trama concettuale del lavoro per poi concedermi alcune riflessioni critiche.

2.

Per quanto la formula vincente del titolo sia stata successivamente abusata dagli eredi di Fromm, che hanno tratto dai suoi scritti L’Arte di vivere e L’Arte di ascoltare, qui essa corrisponde alle intenzioni e alle convinzioni dell’autore, il quale inaugura così il saggio:

“È l'amore un'arte? Allora richiede sforzo e saggezza.

Oppure l'amore è una piacevole sensazione, qualcosa in cui imbattersi è questione di fortuna? Questo volu­metto contempla la prima ipotesi, mentre è fuor di dubbio che oggi si crede alla seconda.

La gente non pensa che l'amore non conti. Anzi, ne ha bisogno; corre a vedere serie interminabili di film d'amore, felice o infelice, ascolta canzoni d'amore; ep­pure nessuno crede che ci sia qualcosa da imparare in materia d'amore.” (p. 13)

“Questo atteggiamento - che niente è più facile che amare - ha continuato ad essere il concetto prevalente sull'amore, ad onta dell'enorme evidenza del contrario. Non vi è impresa o attività che sia iniziata con simili speranze e illusioni, che tuttavia cada così regolarmen­te, come l'amore. Se ciò avvenisse per qualsiasi altra at­tività si sarebbe impazienti di conoscere le ragioni del fallimento, o d'imparare a comportarsi meglio, oppure si abbandonerebbe quell'attività. Ma l'ultima ipotesi è improbabile, in materia d'amore; soltanto un mezzo sembra esista per evitare il fallimento del proprio amo­re: esaminare le ragioni e studiare il significato della parola «amore».

Il primo passo è di convincersi che l'amore è un'arte così come la vita è un'arte” (p. 16)

Il termine arte ha in Fromm un significato complesso. Esso fa riferimento ad una capacità che va acquisita attraverso lo sviluppo della personalità e comporta sia una comprensione profonda di se stessi, degli altri e della vita, sia una pratica orientata a risolvere i problemi intrinseci alla complessità dell’esistenza. L’arte di vivere è funzionale a realizzare appieno le potenzialità umane. L’amore per la vita, espressione massima di tali potenzialità, è, secondo Fromm, l’unica valida soluzione del problema esistenziale di fondo: l’esserci, l’essere gettato nel mondo, che si realizza con la fuoriuscita dal grembo materno, con il crollo del narcisismo originario e con la scoperta progressiva della finitezza, della solitudine, della vulnerabilità e della precarietà:

“L'uomo - di qualsiasi età e civiltà - è messo di fronte alla soluzione di un eterno problema: il problema di come superare la solitudine e raggiungere l'unione…

È un problema che nasce da un unico terreno: la situazione umana, le con­dizioni dell'esistenza umana.” (p. 23)

A questa condizione, filogeneticamente riconducibile alla perdita di un apparato istintivo che, negli altri animali, promuove un adattamento non problematico all’ambiente, e quindi ad una separazione dalla natura, che si ripete all’interno di ogni esperienza ontogenetica, Fromm ha dedicato pagine eccellenti in Psicoanalisi della civiltà contemporanea.

Ne L’Arte di amare egli, dandone come scontata la conoscenza, si limita ad analizzare le molteplici soluzioni che, nel corso dello sviluppo storico, la cultura ha prodotto:

 “La soluzione varia. Il pro­blema può essere risolto mediante il culto per gli ani­mali, col sacrificio umano e la conquista militare, con l'indulgere alla lussuria, con un'ascetica rinuncia, con un lavoro intenso, con la creazione artistica, con l'amo­re per Dio e per l'uomo. Le soluzioni sembrano molteplici ma in realtà sono li­mitate, e sono soltanto quelle proposte dall'uomo nelle varie civiltà in cui è vissuto.” (p. 23)

A quelle maturate nel corso della storia, la nostra civiltà ne ha aggiunte due di grande significato: la ricerca della massima sicurezza attraverso il lavoro produttivo, la ricchezza e l’acquisizione di uno status privilegiato, e il conformismo, inteso come legame formale con gli altri e strumento di normalizzazione. Si tratta, però, “di soluzioni parziali al problema dell'esistenza. La soluzione completa sta nel­la conquista dell'unione interpersonale, nella fusione con un'altra persona, nell'amore.

Il desiderio di fusione interpersonale è il più potente. È la passione più antica, è la forza che tiene unita la raz­za umana, la tribù, la famiglia, la società. Il mancato raggiungimento di questa unione significa follia e di­struzione. Senza amore, l'umanità non sopravviverebbe un solo giorno.” (p. 30)

Ciò nondimeno, amore è un termine a tal punto abusato nella pratica della vita quotidiana, nella letteratura e a livello di senso comune, che, non appena ci si chiede a che cosa esso propriamente si riferisca, ci si trova in difficoltà. Tutti sanno che l’amore è un sentimento che tende a stabilire un unione tra il soggetto e l’”oggetto” amato. Ma sono tutte forme di amore quelle che tendono verso l’unione interpersonale?

 

3.

In ordine alla sua concezione generale dell’evoluzione della personalità (dall’immaturita all’autorealizzazione), Fromm distingue due forme di unione: quelle simbiotiche e quelle mature.

Le unioni simbiotiche sono quelle che tentato di riprodurre a livello adulto il modello della relazione tra madre e feto, nel tentativo di realizzare una fusione psicologica dei soggetti, i cui corpi solo rimangono indipendenti.

Le unioni simbiotiche danno luogo a configurazioni caratterizzate dal fatto che un soggetto si sottomette completamente all’altro, il quale domina e controlla. La forma passiva di tali unioni è il masochismo; quella attiva il sadismo.

Fromm ritiene che le unioni simbiotiche, anche se talora hanno una lunga durata, sono forme di amore parziali, perché l’angoscia che le sottende orienta i soggetti verso un obbiettivo irrealizzabile: il diventare psicologicamente una cosa sola.

L’amore maturo è facilmente distinguibile da quello fusionale:

“In contrasto con l'unione simbiotica, l'amore maturo è unione a condizione di preservare la propria integrità, la propria individualità. L'amore è un potere attivo dell'uomo; un potere che annulla le pareti che lo sepa­rano dai suoi simili, che gli fa superare il senso d'isola­mento e di separazione, e tuttavia gli permette di essere se stesso e di conservare la propria integrità. Sembra un paradosso, ma nell'amore due esseri diventano uno, e tuttavia restano due.” (p. 32)

Il riferimento all’amore come non già solo sentimento ma potere attivo è, nell’orizzonte della cultura, una novità. Fromm se ne rende conto:

“Se diciamo che l'amore è un'attività, dobbiamo chiari­re il significato della parola «attività».” (p. 33)

La spiegazione del significato è la seguente:

“L'amore è un sentimento attivo, non passivo; è una conquista, non una resa. Il suo carattere attivo può es­sere sintetizzato nel concetto che amore è soprattutto «dare» e non ricevere.” (p. 33)

“Per la persona attiva, dare ha un senso completa­mente diverso. Dare è la più alta espressione di poten­za. Nello stesso atto di dare, io provo la mia forza, la mia ricchezza, il mio potere. Questa sensazione di vita­lità e di potenza mi riempie di gioia. Mi sento traboc­cante di vita e di felicità. Dare dà più gioia che ricevere, non perché è privazione, ma perché in quell'atto mi sento vivo.” (p. 34-35)

“La sfera più importante del dare, tuttavia, non è quel­la delle cose materiali, ma sta nel regno umano. Che co­sa dà una persona a un'altra? Dà se stessa, ciò che possiede di più prezioso, dà una parte della sua vita. Ciò non significa necessariamente che essa sacrifichi la sua vita per l'altra, ma che le dà ciò che di più vivo ha in sé; le dà la propria gioia, il proprio interesse, il proprio umori­smo, la propria tristezza, tutte le espressioni e manife­stazioni di ciò che ha di più vitale. In questo dono di se stessa, essa arricchisce l'altra persona, sublima il senso di vivere dell'altro, sublimando il proprio. Non dà per ri­cevere; dare è in se stesso una gioia squisita. Ma nel dare non può fare a meno di portare qualche cosa alla vita dell'altra persona, e colui che riceve si riflette in essa; nel dare con generosità, non si può evitare di ricevere ciò che le viene dato di ritorno. Dare significa fare anche dell'altra persona un essere che dà, ed entrambi divido­no la gioia di sentirsi vivi. Nell'atto di dare nasce qualco­sa, e un senso di mutua gratitudine per la vita che è nata in loro unisce entrambe. Ciò significa che l'amore è una forza che produce amore; l'impotenza è l'incapacità di produrre amore.” (p. 35-36)

Il carattere attivo dell’amore non si riduce però al dare. Esso implica anche “certi elementi comuni a tutte le forme d'amore. Questi sono: la premura, la responsabilità, il rispetto e la conoscenza.” (p. 37)

Di questi elementi, il più pregnante sembra la conoscenza. L’amore autentico riguarda un essere nella sua particolarità, per quello che esso è veramente con i suoi pregi, i suoi limiti e i suoi difetti. Esso prescinde sia dall’idealizzazione, che attribuisce al partner qualità che non ha, sia dall’aspettativa perfezionistica che egli corrisponda in tutto e per tutto ai propri bisogni e ai propri desideri.

 

4.

Il carattere attivo dell’amore segna un discrimine tra l’amore infantile e quello adulto:

“Per la maggior parte dei bambini prima dell'età degli otto-dieci anni, il problema è quasi esclusivamente quello di essere amati per quello che sono. Il bambino di quest'età non ama ancora; risponde con gratitudine, con gioia all'amore. A questo punto dello sviluppo del bambino, subentra un nuovo elemento nel quadro: il desiderio di produrre amore mediante la propria atti­vità.” (p. 49-50)

“L'amore infantile segue il principio: amo perché sono amato. L'amore maturo se­gue il principio: sono amato perché amo. L'amore im­maturo dice: ti amo perché ho bisogno di te. L'amore maturo dice: ho bisogno di te perché ti amo.” (p. 50)

Ma che cosa significa maturità in rapporto all’amore? Nel rispondere a questa domanda, Fromm esprime due concetti di particolare importanza.

Il primo concerne il fatto che l’amore maturo richiede una personalità che abbia raggiunto almeno un grado minimo di autonomia psicologica, in difetto della quale è inevitabile che le relazioni d’amore assumano un significato che va al di là della solidarietà: diventano relazioni di dipendenza simbolica che funzionano come protesi dell’io.

Tenendo conto dell’importanza che nell’esperienza evolutiva hanno non solo i genitori reali ma anchei loro tipi ideali, gli archetipi rappresentati nell’inconscio infantile, Fromm giunge alla seguente conclusione:

“La persona matura è arrivata al punto in cui è madre e padre di se stessa. Ha, per così dire, una coscienza materna e paterna. La coscienza materna dice: «Non c'è peccato, né delitto che ti possa privare del mio amore, del desiderio che tu sia vivo e felice.» La coscienza paterna dice: «Hai sbagliato, non puoi sfuggire alle conseguenze del tuo errore e devi cambiare strada, se vuoi che io ti ami.» La persona matura si è liberata dalle figure esteriori del padre e della madre e li ha ricreati in se stessa. In contrasto col concetto freudiano del super-ego, se li è costruiti inte­riormente non incorporando madre e padre, ma co­struendo una coscienza materna sulle sue capacità d'amore, ed una coscienza paterna sulla ragione e sul giudizio. Inoltre, la persona umana ama con entrambe le coscienze, materna e paterna, ad onta del fatto che esse sembrino contraddirsi l'una con l'altra.” (p. 53)

Il secondo concetto sottolinea che l’amore, prima ancora di essere un’esperienza relazionale, è una capacità acquisita dalla personalità:

“L'amore non è soltanto una relazione con una partico­lare persona: è un'attitudine, un orientamento di carat­tere che determina i rapporti di una persona col mon­do, non verso un «oggetto» d'amore. Se una persona ama solo un'altra persona ed è indifferente nei con­fronti dei suoi simili, il suo non è amore, ma un attac­camento simbiotico, o un egotismo portato all'eccesso. Eppure la maggior parte della gente crede che l'amore sia costituito dall'oggetto, non dalla facoltà d'amare.” (p. 56)

Se la capacità di amare è una, è evidente che si danno differenze tra le varie forme d'amore, legate all'oggetto amato.

A secondo dell’oggetto, si possono distinguere: l’amore fraterno, l’amore materno, l’amore erotico, l’amore per se stessi, l’amore per Dio.

La forma più fondamentale d'amore, è l'amore fraterno. Con questo intendo senso di respon­sabilità, premure, rispetto, comprensione per il prossi­mo; esso è caratterizzato dall'assenza di esclusività. Se io ho sviluppato la capacità d'amare non posso fare a meno di voler bene ai miei fratelli. Nell'amore fraterno c'è il desiderio di fusione con tutti gli uomini, c'è il bi­sogno di solidarietà umana.” (p. 57)

“L'amore fraterno è amore tra esseri simili; ma, in realtà, anche tra simili che non sono sempre «simili»: infatti, poiché siamo esseri umani, siamo tutti bisogno­si di aiuto. Oggi io, domani tu. Ma questo bisogno di aiuto non significa che uno è indifeso e l'altro potente. La debolezza è una condizione transitoria; la capacità di stare ritto e camminare coi propri piedi è lo stato normale e permanente.

Eppure, l'amore per l'essere indifeso, l'amore per il povero e per lo straniero, sono il principio dell'amore fraterno.” (p. 57-58)

Riguardo all’amore materno, Fromm sormonta lo stereotipo della madre che dà tutta se stessa al bambino. La cura, la protezione sono essenziali a promuovere uno sviluppo il cui obbiettivo è però la separazione del figlio dalla madre:

“Il bambino deve crescere. Deve emergere dal grembo materno; diventare un essere completamente indipendente. La vera essenza dell'amore materno è di curare la crescita del bambino, e ciò significa volere che il bambino si separi da lei. Qui sta la differenza con l'amore erotico. Nell'amore erotico, due persone distin­te diventano una sola. Nell'amore materno, due perso­ne che erano una sola, si separano. La madre deve non solo tollerare, ma desiderare e sopportare la separazio­ne del figlio.” (p. 61)

Nell’analisi dell’amore erotico, Fromm sottolinea non solo l’esclusività della relazione, ma anche – cosa piuttosto inconsueta nella letteratura psicologica, il suo carattere di contratto che muove dal sentire ma si traduce in atto di volontà e di responsabilità:

“Nell'amore erotico c'è un'esclusività che manca nell'amore fraterno e materno. Il carattere esclusivo dell'amore erotico richiede ulteriori chiarimenti…

Amare qualcuno non è solo un forte sentimento, è una scelta, una promessa, un impegno. Se l'amore fosse solo una sensazione, non vi sarebbero i presupposti per un amore duraturo. Una sensazione viene e va. Come pos­so sapere che durerà sempre, se non sono cosciente e responsabile della mia scelta?

Tenendo conto di questi elementi, si arriva alla con­clusione che l'amore è essenzialmente un atto di vo­lontà, e che di conseguenza non importa chi ne sia l'og­getto. Sia il matrimonio combinato da altri, sia esso il risultato di una libera scelta, basterebbe un atto di vo­lontà a garantire la durevolezza dell'amore. Questo punto di vista sembra non tener conto del carattere pa­radossale della natura umana e dell'amore erotico. Tut­ti noi siamo Uno, eppure ognuno di noi è un'entità uni­ca, separata. Nei nostri rapporti col prossimo si ripete lo stesso paradosso. In quanto Uno, possiamo amare tutti nello stesso modo, nel senso di amore fraterno. Ma in quanto esseri distinti, l'amore erotico esige pre­rogative strettamente individuali, che esistono tra de­terminate persone, e non certo tra tutte.” (p 64-65)

L’amore per se stessi, considerato solitamente una forma di narcisismo o di egoismo, è valorizzato da Fromm come uno degli indizi della personalità matura:

“Se è virtù amare i miei vicini come esseri umani, deve essere virtù, e non vizio, ama­re me stesso, poiché anch'io sono un essere umano. Non esiste concetto d'umanità in cui io stesso non sia incluso. Una dottrina che proclami una simile esclusio­ne è contraddittoria.” (p 67)

“Non solo altri, ma anche noi stessi siamo l'oggetto dei nostri sentimenti e attitu­dini; le attitudini verso gli altri e verso noi stessi sono fondamentalmente congiuntive. Rispetto al problema in questione ciò significa: l'amore per se stessi si trova in coloro che sono capaci di amare il prossimo.” (p. 67)

“Il mio io deve essere un oggetto di amore tanto quanto ogni altro essere. L'affermazione della propria vita, felicità, crescita, libertà è determinata dalla propria capacità di amare, cioè nelle cure, nel ri­spetto, nella responsabilità e nella comprensione. Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche se stesso; se può amare solo gli altri, non può amare completamente.

Se l'amore per se stessi non è disgiunto dall'amore per gli altri, come ci spieghiamo l'egoismo, che ovviamente esclude qualsiasi interesse genuino per gli altri? L'egoi­sta s'interessa solo di se stesso, vuole tutto per sé, non prova gioia nel dare, ma solo nel ricevere. Vede il mondo esterno solo dal punto di vista di ciò che può ricavarne; non ha interesse per i bisogni degli altri, né rispetto per la loro dignità e integrità. Non riesce a vedere altro che se stesso; giudica tutto e tutti dall'utilità che gliene deri­va; è fondamentalmente incapace d'amare. Questo non prova che l'interesse per gli altri e l'interesse per se stessi sono alternative inevitabili? Sarebbe così se l'egoismo e l'amore per se stessi fossero la stessa cosa. Ma questa convinzione è l'errore che ha suscitato tante conclusioni errate riguardo il nostro problema. Egoismo e amore per se stessi, anziché essere uguali, sono opposti. L'egoista non ama troppo se stesso, ma troppo poco; in realtà odia se stesso. Questa mancanza di amore per sé, che è solo un'espressione di mancanza di produttività, lo la­scia vuoto e frustrato. È solo un essere infelice e ansioso di trarre dalla vita le soddisfazioni che impedisce a se stesso di raggiungere. Sembra interessarsi troppo di sé, ma in realtà non fa che un inutile tentativo di compen­sare la mancanza di amore per sé. Freud sostiene che l'egoista è un narcisista, che ha concentrato su se stesso ogni capacità d'amore. E vero che gli egoisti sono incapa­ci di amare gli altri, ma sono anche incapaci di amare se stessi.” (p. 68-69)

Lo spazio inusitato di 17 pagine su 140 che Fromm dedica all’amore per Dio ha una precisa funzione filosofica. Ebreo di origine, studioso del Cristianesimo e del Buddismo, Fromm non crede in senso confessionale, ma è uno spiritualista. Il suo spiritualismo, però, non fa riferimento all’anima, ma all’intuizione  di un’unità profonda del cosmo che orienta l’uomo a coltivare la vita e ad amare l’altro. La sintesi del suo pensiero è la seguente:

“La persona veramente reli­giosa, se segue l'essenza dell'idea monoteistica, non prega per qualche cosa, non si aspetta niente da Dio; non ama Dio come un figlio ama il padre o la madre; ha acquisito l'umiltà di conoscere i propri limiti al pun­to di rendersi conto che non sa niente di Dio. Dio di­venta per lei il simbolo in cui ogni uomo, a uno stadio precedente della sua evoluzione, ha espresso la totalità di ciò per cui l'uomo lotta, il regno spirituale dell'amo­re, della giustizia. Ha fede nei principi che Dio rappre­senta; crede nella verità, vive per l'amore e la giustizia, e considera tutto della sua vita prezioso in quantoché gli dà la possibilità di arrivare a un più completo svi­luppo del suo potere umano, come la sola realtà che conti, come l'unico oggetto di «fondamentale interes­se»; e di conseguenza non parla di Dio, e neppure ne menziona il nome. Amare Dio, se dovesse usare questa parola, significherebbe, allora, desiderare il raggiungi­mento della piena capacità di amare, per la realizzazio­ne di ciò che «Dio» rappresenta in se stesso.

Sotto questo aspetto, la conseguenza logica del pen­siero monoteista è la negazione di tutta la «teologia», di tutta la «scienza di Dio».

Eppure resta una differen­za tra un simile punto di vista, così poco teologico, e un sistema monoteistico come lo troviamo, ad esempio, nel primo buddismo o nel taoismo.

In tutti i sistemi teistici, anche in uno non teologico, mistico, esiste il presupposto della realtà del regno spiri­tuale, come un uomo trascendentale, che dà significato e valore ai poteri spirituali dell'uomo e alla sua lotta per la salvezza dell'anima. In un sistema non teistico non esistono regni spirituali al di fuori dell'uomo, o superiori a lui. Il regno dell'amore, della ragione e della giustizia, esiste come una realtà solo perché un uomo è stato capa­ce di sviluppare in sé questi poteri attraverso il processo della propria evoluzione. Sotto questo punto di vista la vita non ha nessun significato, tranne il significato che l'uomo stesso le dà; l'uomo è completamente solo se non aiuta il suo prossimo.” (p 78-79)

 

5.

Questa tematica, così apparentemente lontana dall’accezione corrente dell’amore, in realtà, secondo Fromm, è decisiva perché si dia un amore autentico. L’unità del tutto è infatti in antitesi con il culto dell’io, che è il maggiore ostacolo sulla via di una relazione d’amore:

“La condizione essenziale per la conquista dell'amore è il superamento del proprio narcisismo. L'orientamento narcisistico serve a far sentire come realtà solo ciò che esiste dentro di noi, mentre i fenomeni del mondo esterno non hanno realtà in se stessi, ma sono consi­derati solo dal punto di vista dell'utilità o del pericolo che rappresentano per noi. Il polo opposto del narcisi­smo è l'obiettività; è la facoltà di vedere la gente e le cose così come sono, obiettivamente, e di essere in grado di separare questo quadro obiettivo da un qua­dro formato dai propri desideri e timori.” (p. 125)

“L'amore, essendo su­bordinato all'assenza relativa del narcisismo, richiede lo sviluppo dell'umiltà, dell'obiettività e della ragione. La propria intera vita dev'essere dedicata a questo scopo.” (p. 127)

Dedicare l’intera vita a coltivare la capacità di amare anche all’interno di un rapporto duale significa che l’amore diventa un’esperienza che mantiene una tensione evolutiva dei soggetti verso un livello di integrazione sempre più elevato della personalità:

“L'amore è possibile solo se due persone comunicano tra loro dal profondo del loro essere, vale a dire se ognuna delle due sente se stessa dal centro del proprio essere. Solo in questa «esperienza profonda» è la realtà umana, solo là è la vita, solo là è la base per l'amore. L'amore, sentito così, è una sfida continua; non è un punto fermo, ma un insieme vivo, movimentato; anche se c'è armonia o conflitto, gioia o tristezza, è d'impor­tanza secondaria dinanzi alla realtà fondamentale che due persone sentono se stesse nell'essenza della loro esistenza, che sono un unico essere essendo un uno unico con se stesse, anziché sfuggire se stesse. C'è solo una prova che dimostri la presenza dell'amore: la profondità dei rapporti, e la vitalità e la forza in ognu­no dei soggetti.” (p. 102-103)

“La pratica dell'arte d'amare richiede la pratica della fede” (p. 129). E’ questa la conclusione niente affatto sorprendente del discorso di Fromm, che fa naturalmente riferimento alla fede nell’umano che viene così illustrata:

Nel­la sfera delle relazioni umane, la fede è una condizione indispensabile per l'amicizia e per l'amore. «Aver fede» in un'altra persona significa aver fiducia nella stabilità delle sue qualità fondamentali, della sua indole, del suo amore. Con ciò non voglio dire che una persona non possa cambiare le proprie opinioni; l'importante è che resti salda nei suoi principi, nel suo rispetto per la vita e per la dignità umana. Nello stesso modo abbiamo fede in noi stessi. Siamo consci dell'esistenza di un nostro io, di quella parte intima della nostra personalità che resta immutata, e che resiste durante tutta la vita, ad onta del­le circostanze e di ogni eventuale cambiamento d'opi­nione e di sentimenti. È la parte intima, il vero significa­to della parola «io», sulla quale si fonda la coscienza del nostro vero essere. Se non abbiamo fede nella soprvvivenza del nostro io, la nostra libertà è minacciata e noi diventiamo succubi di altre persone la cui approvazione diventa per noi un'affermazione della nostra persona­lità. Solo colui che ha fede in se stesso è in grado di esse­re fedele agli altri, lui solo può avere la certezza di essere per loro, in un tempo futuro, com'è oggi e che, di conse­guenza, sentirà e agirà come ora sente e agisce. La fede in se stessi è una condizione della propria capacità di promettere e poiché, come Nietzsche disse, l'uomo può essere definito dalla sua capacità di promettere, la fede è una delle condizioni dell'esistenza umana. Ciò che con­ta, in relazione all'amore, è la fede nel proprio amore e nella propria capacità di suscitare l'amore negli altri.” (p. 129-130)

“La fede negli altri ha la sua massima espressione nel­la fede per la specie umana. Nel mondo occidentale questa fede era espressa in termini religiosi nella reli­gione ebraico-cristiana, e in linguaggio secolare ha tro­vato la sua espressione più alta nelle idee umanistiche e sociali degli ultimi centocinquant'anni. Come la fede nel bambino, essa è basata sul concetto che le poten­zialità dell'uomo sono tali che, in condizioni adatte, egli sarà in grado di costruire un ordine sociale gover­nato dai principi dell'eguaglianza, della giustizia e dell'amore. L'uomo non ha ancora conquistato tale or­dine e perciò la convinzione che riuscirà a farlo richie­de fede. Come ogni fede razionale anche questa non è una vaga speranza, bensì fondata sull'evidenza delle passate conquiste della razza umana, e sull'intima esperienza di ogni individuo, sulla propria esperienza di ragione e d'amore.

Mentre la fede irrazionale si fonda sulla sottomissio­ne a un potere forte, irresistibile e onnisciente, e nell'ab­dicazione del proprio potere e della propria forza, la fe­de razionale si fonda su principi opposti. Abbiamo fede in un'idea perché è il risultato del nostro spirito di osser­vazione e del nostro pensiero. Abbiamo fede nella po­tenzialità degli altri, in noi stessi e nella specie umana perché abbiamo sperimentato lo sviluppo della nostra potenzialità, la forza del nostro potere di ragione e d'amore.” (p. 131)

Tenendo conto di questi principi, e dell’analisi che Fromm ha già svolto della civiltà occidentale, non è sorprendente che, affrontando il problema delle relazioni d’amore nel contesto di essa, le conclusioni siano radicalmente negative:

“Parlando dell'amore nella civiltà occidentale moder­na, ci domandiamo se la struttura sociale della civiltà occidentale e lo spirito che ne deriva siano propizi allo sviluppo dell'amore. La risposta è negativa. Nessun os­servatore obiettivo della nostra vita occidentale può dubitare che l'amore - l'amore fraterno, l'amore mater­no e l'amore erotico - sia un fenomeno relativamente raro, e che il suo posto sia stato preso da tante forme di pseudo-amore che in realtà sono altrettante forme del­la disintegrazione dell'amore.” (p. 91)

 

6.

E’ evidente che un’analisi critica del saggio di Fromm condotta oggi, se non può trascurare la complessa trama di concetti che in esso sono esposti, deve partire proprio dall’ultimo punto: aggiornare il discorso sull’amore nel nostro contesto.

Purtroppo l’aggiornamento  è molto facile: lo stato delle relazioni sentimentali, sia a livello adolescenziale e giovanile che adulto, è assolutamente penoso. Trovare una coppia che si avvicini sia pure lontanamente al modello ideale di Fromm è come cercare l’ago in un pagliaio. C’è una conflittualità permanente che circola nei rapporti duali, ora più ora meno aspra: quanto basta a far sì che le persone non stanno mai tranquille.

A cosa si deve questo stato di guerra universale che talora, pateticamente, viene contrabbandato come una prova dell’intensità dei sentimenti, talaltra ricondotto ad una sorta di legge universale?

Le cause sono molteplici.

Una prima causa, di ordine storico, è dovuta al fatto che la relazione duale viene vissuta come un fatto esclusivamente privato. Che questo accada agli adolescenti, che spesso utilizzano le relazioni duali per individuarsi rispetto alle famiglie e al gruppo degli amici, non è sorprendente, come pure che, in età giovanile, i fidanzati prescindano del tutto dal fatto che il loro rapporto, se ha una prospettiva duratura, comporta l’imparentamento di due nuclei familiari,e  che quindi esso coinvolge di fatto altre persone. Ciò che sorprende è che, anche coloro che contraggono il matrimonio, ascoltano gli articoli di legge del codice civile e hanno bisogno di testimoni per sancire la loro unione (residui rappresentanti della comunità), pensano che l’unione coniugale sia un accordo privato e non un contratto stipulato agli occhi della società.

La privatizzazione dei rapporti duali mette fuori gioco il controllo sociale che in passato permetteva alla generazione precedente di mantenere un ruolo in qualche misura giudicante, direttivo e talora correttivo sui coniugi.

L’allentamento del controllo sociale è un fatto irreversibile e, in una certa misura, anche positivo, perché accorda ai fidanzati e ai coniugi una libertà che in passato non avevano. Ma a questo, come ad ogni altro livello dell’organizzazione sociale, la diminuzione del controllo comunitario sulla vita dei soggetti dovrebbe essere compensato da un accresciuto senso di responsabilità personale. Per ora questo non è avvenuto.

Una seconda causa è dovuta al fatto che l’avvio sempre più precoce delle esperienze sentimentali (dai 14-15 anni in su) fa sì che le persone non concludono il loro tragitto evolutivo sino ad un livello minimale di indipendenza psicologica: la trasferiscono semplicemente dalla famiglia originaria al rapporto con il partner (o con i partner che si succedono). La conseguenza di questo è che con una frequenza impressionante i rapporti si organizzano sul registro della simbiosi o comportano comunque un’elevata componente di dipendenza simbolica. Sono dunque rapporti strutturalmente instabili, destinati ad entrare in crisi quando si realizza un reciproco “soffocamento” o quando uno dei due sviluppa un orientamento claustrofobico.

Una terza causa, correlata alla precedente, è che, nella misura in cui i soggetti investono nel rapporto una quota di dipendenza simbolica, essi si sentono in una condizione di debolezza e di precarietà. Questo vissuto, anche quando riguarda entrambi i partner, dà luogo costantemente all’adozione di una logica di potere mirante a limitare il pericolo di potersi ritrovare in balia dell’altro e di poter essere abbandonati. La logica di potere si traduce nel tentativo di mantenere una situazione dominante all’interno del rapporto e di instaurare sull’altro una forma di controllo. Dato che la difesa viene adottata di solito da entrambi i soggetti, essa dà luogo ad un’éscalation di conflittualità più o meno manifesta, che esita quasi sempre nella crisi del rapporto.

Least but not last, occorre considerare che mediamente uomini e donne canalizzano nei rapporti una quota di bisogni nevrotici e di fantasmi riconducibili all’universale diffidenza nei confronti dell’altro, che è un tratto dominante della nostra cultura. In genere, i soggetti femminili hanno un bisogno di controllo maggiore rispetto a quello maschile e si rapportano al partner sulla base del fantasma dell’uomo cacciatore o, per dirla in termini più correnti, del “figlio di puttana”. I soggetti maschili riversano nel rapporto un bisogno di accudimento che tentano di mascherare sottomettendo la donna e riversano nella relazione il fantasma della donna che, soddisfacendo il loro bisogno di accadimento, tenta di condizionarli e di soggiogarli.

Le relazioni d’amore, insomma, oggi sono caratterizzate da due aspetti fondamentali: un bisogno incessante di stare in coppia dovuto ad un difetto di indipendenza psicologica e una serie di vissuti persecutori e di strategie difensive che non consentono di stare tranquilli e di realizzare l’obbiettivo proprio degli affetti, quello di una relazione condivisa nella quale ogni soggetto, riversando la sua umana debolezza, si sente rafforzato nella sua identità e sente di poter contare sull’altro.

 

7.

Detto questo sullo stato attuale dei rapporti d’amore, qualche osservazione in merito alla teoria illustrata nel saggio s’impone.

Il modello normativo di Fromm – quello dell’uomo maturo -, implicito in tutte le sue analisi, sembra un po’ troppo scopertamente una “proiezione” del suo personale tragitto di esperienza: è insomma quello di un “saggio” dotato di grande intelligenza, sensibilità, cultura, capacità di introspezione, ecc., o, per essere più precisi, di un introverso che ha raggiunto una soglia molto elevata di autorealizzazione.

Se questo è vero, si tratta di un modello troppo elevato per la media delle persone.

Essendo impossibile imputare a Fromm un narcisismo intellettuale estraneo al suo modo di essere, è chiaro che questo “abbaglio”  riconosce un motivo più profondo.

Tale motivo è un umanitarismo portato alle estreme conseguenze. Fromm ha un’elevata concezione della natura umana e delle sue potenzialità: una concezione che lo induce a cogliere con estrema lucidità la sostanziale miseria psicologica prodotta dal nostro sistema socio-culturale. Egli, però, facendo leva su quelle potenzialità, ritiene che ogni uomo possa percorrere un tragitto di individuazione fino a realizzare una personalità altamente differenziata e integrata.

L’umanitarismo di Fromm è la proiezione su tutta l’umanità di quello che io definisco il sogno introverso, vale a dire il sogno di un mondo di esseri sensibili, coltivati, empatici, coscienti dei propri diritti e rispettosi di quelli degli altri. Senz’altro chi questo sogno riesce, almeno parzialmente, a realizzarlo può giungere all’amore universale e, dunque, ad amare autenticamente anche un partner.

Guai a noi, però, se la pratica dei sentimenti richiedesse obbligatoriamente di pervenire ad un tale livello di autorealizzazione, di trasparenza e di perfezione morale.

Se fosse vero questo presupposto, occorrerebbe pensare che, non solo nel presente ma anche nel passato, l’amore autentico è stato un fatto eccezionale. Per quanto concerne l’amore universale per la vita e per tutti gli esseri umani, ciò è senz’altro vero. Per quanto concerne l’amore duale, i sentimenti privati, il discorso è diverso.

Le difficoltà che incontrano le coppie oggi, cui ho fatto cenno, sono assolutamente incommensurabili a quelle incontrate dall’umanità in passato.

Ciò dipende dal fatto che, in passato, la relazione di coppia aveva una funzione primaria di solidarietà sociale: condividere la vita significava rendere più lievi, in virtù dell’unione, le pene che essa comporta, sentire di poter contare su qualcuno, e privilegiare l’allevamento dei figli rispetto alla qualità del rapporto di coppia.

La natura “contrattuale” dei rapporti privati, che Fromm sottolinea efficacemente, era accettata e riconosciuta senza difficoltà, inserendosi in un orizzonte sociale tale per cui la solitudine poneva a rischio, se non la stessa sopravvivenza, l’integrazione del soggetto nella comunità.

Ciò non significa che i rapporti di coppia fossero burocratizzati. Di fatto questo poteva accadere, come pure che essi cadessero in spirali di violenza. Più spesso però la condivisione delle pene e, in misura di gran lunga minore, delle gioie della vita, coincideva con un volersi bene che, in un certo numero di casi, giungeva anche all’amore in senso proprio.

In breve, nel passato dell’umanità, i rapporti di coppia sono stati vissuti con più “saggezza”.

Se questo è vero, c’è da chiedersi perché la nostra società distorce il passato ricostruendolo univocamente come impregnato di violenza, sopraffazione, dolore, ecc. E’ semplice: perché anche da questo punto di vista, essa ha bisogno di sentirsi evoluta. Il problema è che non è vero. Sotto questo profilo essa si è piuttosto involuta.

Per restaurare una capacità autentica di amare non c’è bisogno, per fortuna, di arrivare a realizzare il modello di Fromm. C’è bisogno, piuttosto, di un po’ più di benevolenza, indulgenza, comprensione, solidarietà e, sulla base di una reciproca attrazione, volontà di costruire insieme qualcosa.