CONSIDERAZIONI ATTUALI SULLA GUERRA E LA MORTE (1915)


In questa operetta, ingiustamente lodata come esempio di filosofia psicoanalitica, Freud rivela a pieno i limiti di una visione del mondo incentrata su di una concezione biologista e psicologista della natura umana profondamente pessimistica. La natura umana è vincolata ad un fondo pulsionale sostanzialmente asociale che evolve lentissimamente in rapporto alla civiltà, ed è di conseguenza sempre pronto ad affrancarsi dai valori civili e morali. La società è null'altro che una somma di individui, tal che al suo livello possono riprodursi con facilità i fenomeni regressivi propri della psicologia individuale. Su queste basi le riflessioni di Freud sono inesorabilmente inquinate dall'ideologia.

Esse muovono dalla delusione sopravvenuta in conseguenza della grande guerra: "Dalle grandi nazioni di razza bianca dominatrici del mondo, nelle cui mani è affidata la guida del genere umano, che sapevamo intente a perseguire interessi estendentisi al mondo intero, e a cui erano dovuti i progressi tecnici per il dominio della natura nonché i valori della cultura, dell'arte e della scienza, da questi popoli, almeno, ci aspettavamo che giungessero a risolvere per altre vie i loro malintesi e i loro contrasti d'interesse" (p. 124). Invece "la guerra a cui non volevamo credere è scoppiata, e ci ha portato… la delusione. Non soltanto è più sanguinosa e rovinosa di ogni guerra del passato, e ciò a causa dei tremendi perfezionamenti portati alle armi di offesa e di difesa, ma è anche perlomeno tanto crudele, accanita e spietata quanto tutte le guerre che l'hanno preceduta" (p. 126).

Come si spiega questa situazione? Primo, prendendo atto con sconcerto che "lo Stato ha interdetto al singolo l'uso dell'ingiustizia, non perché intenda sopprimerla, ma solo perché vuole monopolizzarla" (p. 127). Secondo, considerando che la brutalità del comportamento dei singoli individui non fa altro che far riaffiorare "le tendenze malvage" (p. 128) e i moti pulsionali egoistici primordiali che l'educazione e l'ambiente civile tengono a freno e assoggettano a costrizione, senza riuscire ad estirparli. L'incivilimento di conseguenza coincide con una struttura di personalità ipocrita, che sovrappone il rispetto delle norme alle pulsioni originarie, pronte ad attivarsi non appena ad esse si offre l'occasione. Un'occasione elettiva ovviamente è la guerra.

Considerazioni del genere Freud ritiene che siano di conforto "in quanto ci mostrano che l'avvilimento e la scorata delusione per il comportamento incivile dei nostri concittadini del mondo in questa guerra erano in realtà ingiustificati. Essi si fondavano sopra un'illusione a cui ci eravamo abbandonati ciecamente. Effettivamente questi nostri concittadini del mondo non sono per nulla caduti tanto in basso quanto supponevamo, e ciò per il semplice fatto che non si trovavano prima alle altezze che avevamo immaginate" (p. 132).

Evidentemente Freud confonde la grande guerra, decisa dagli Stati e condotta dai generali, con un'esplosione di sadismo collettivo. Probabilmente molti soldati, se non fossero stati costretti, non si sarebbero recati al fronte a sfogare i loro "moti pulsionali originari", e, se non fossero stati messi in condizione di operare una scelta del tipo vita mea mors tua, non si sarebbero abbandonati alla ferocia della battaglia.

Il tema della guerra, maldestramente affrontato, porta poi Freud a riflettere sulla morte, e gli esiti non sono migliori. Egli muove dal confronto dell'atteggiamento nei confronti della morte degli uomini primitivi e di quelli civili. Per quanto riguarda i primi, Freud distingue l'atteggiamento nei confronti della morte propria, degli estranei e dei familiari. La prima era irrapresentabile; la seconda insignificante ("la morte altrui gli stava bene, costituiva la distruzione dell'individuo odiato, e l'uomo primitivo non aveva alcuno scrupolo a provocarla. Era certo un essere molto passionale, più crudele e malvagio degli altri animali. Ammazzava volentieri, come fosse una cosa ovvia" p. 140); la terza contrassegnata da un'ambivalenza emotiva ("La legge dell'ambivalenza emotiva, che domina ancora oggi i nostri sentimenti verso le persone che amiamo di più, valeva certamente in forma anche più illimitata nei tempi primordiali. E quindi questi cari morti erano stati anche degli estranei e dei nemici, che avevano suscitato nell'uomo primitivo una certa dose di sentimenti ostili" p. 141). Il lutto ha prodotto sviluppi decisivi a livello culturale: "Di fronte al cadavere della persona amata non sono nate soltanto la dottrina dell'anima, la credenza nell'immortalità e la radice prima del senso di colpa negli uomini, ma anche i primi comandamenti morali. Il rpimo e più importante divieto della coscienza morale che cominciava a destarsi fu "Non ammazzare". Esso si costituì quale reazione al soddisfacimento dell'odio, occultato dal lutto, provato di fronte al morto amato, e fu esteso progressivamente agli estranei non amati e infine allo stesso nemico" (p. 143).

Per quanto riguarda l'uomo contemporaneo, il suo inconscio si comporta nei confronti della morte quasi esattamente come l'uomo delle origini. Esso "non crede alla propria morte, si comporta come fosse immortale" (p. 144), "uccide anche per piccolezze" (p 145) tal che "anche noi, considerati in base ai nostri inconsci moti di desiderio, altro non siamo, come gli uomini primordiali, che una masnada di assassini" (p. 145) e conserva una radicale ambivalenza nei confronti delle persone care. A differenza dei primitivi, però, la coscienza contemporanea, per effetto della cultura, copre e maschera questa realtà. La guerra ha la funzione di smascherarla: "essa elimina le successive sedimentazioni depositate in noi dalla civiltà e lascia riapparire l'uomo primitivo" (p. 147). Dunque "non faremmo meglio a cedere, ad adattarci alla guerra? A riconoscere che col modo nostro, di uomini civili, di trattare la morte abbiamo vissuto al di là delle nostre possibilità psicologiche e che perciò ci conviene abbandonarlo e piegarci alla verità? Non sarebbe preferibile restituire alla morte, nella realtà e nel nostro pensiero, il posto che le compete, dando un rilievo un po' maggiore a quel nostro atteggiamento inconscio di fronte alla morte che ci siamo finoa ad ora sforzati di reprimere con cura?" (p. 147).

Riproponendo lo sterotipo dell'uomo naturalmente malvagio e invitando l'umanità a prenderne atto, Freud ritiene di lanciare un messaggio di amara ma ineludibile verità. C'è però nella trama del suo discorso una contraddizione di grande portata. Riguardo all'atteggiamento nei confronti dei nemici, egli scrive: "E' notevole che i popoli primitivi tuttora viventi sulla terra, e che certo son più di noi vicini all'uomo delle origini, si comportano diversamente (da noi) sotto questo aspetto, o si son comportati diversamente finoa a quando non hanno subito l'influenza della nostra civiltà: Il selvaggio… non è affatto un omicida impenitente; quando rientra vittorioso da una spedizione di guerra, non può penetrare nel suo villaggio o toccare la sua donna prima di avere espiato con penitenze, spesso lunghe e fastidiose, le uccisioni compiute in guerra. Naturalmente ciò si può spiegare facendo ricorso alla sua superstizione: il selvaggio teme la vendetta degli spiriti di coloro che ha ucciso. Ma gli spiriti dei nemici abbattuti altro non sono che l'espressione della sua cattiva coscienza per il sangue versato; al fondo di questa superstizione sta una finezza d'animo di natura morale che in noi uomini civili è andata perduta" (p. 143). Da dove viene mai questa finezza morale se non dall'identificazione con l'altro? Come mai questa finezza, così viva nei primitivi preda dei loro moti pulsionali, si è illanguidita progressivamente nel corso del tempo e in misura direttamente proporzionale alla civilizzazione? E poi, se è vero che essa si è illanguidita via via che la civiltà si è deritualizzata, non sopravvive essa forse nell'inconscio dei reduci la cui vita spesso rimane sconvolta da ciò che hanno visto e da ciò che hanno fatto?

Freud è un pensatore paradossale. Insiste a propagandare la teoria pulsionale e, nello stesso tempo, offre egli stesso gli indizi che la invalidano.