PSICHE

Dizionario storico di psicologia, psichiatria, psicoanalisi, neuroscienze

A cura di Francesco Barale, Mauro Bertani, Vittorio Gallese, Stefano Mistura, Adriano Zamperini
Einaudi, Torino 2006

1.

Un’opera impegnativa ed ambiziosa, che concerne l’apparato psichico - dagli aspetti genetici e neurofisiologici a quelli inerenti l’attività mentale e il disagio psichiatrico – merita un’analisi dettagliata e una valutazione critica, tanto più se la sua presentazione editoriale suona così:

“Non sono pochi i dizionari dedicati alle discipline cosiddette «psy»: psichiatria e psicoterapia, psicoanalisi, psicologia e, più di recente, neuroscienze. Ma tutti rigidamente distinguono le varie aree, e danno scarso rilievo ai rapporti tra discipline diverse da quelle del campo della «psiche», spesso trascurando il travagliato processo di formazione dei concetti fondanti.

I duecentocinquanta lemmi di questo dizionario, viceversa, intendono ovviare a questi limiti: l’opera mette in relazione tutti i saperi che afferiscono al campo della «psiche»; sottolinea il reticolo di interrelazioni, influenze e debiti reciproci, nonché dei trasferimenti di apparati categoriali e di problemi da un ambito all'altro; ricostruisce il processo di formazione e consolidamento di ciascun sapere coinvolto e del suo impianto teorico complessivo.

Grande attenzione è pure rivolta ai contesti socio-politico-culturali e alle credenze e ideologie condivise entro cui si sono mossi i principali studiosi.”

L’ambizione è esplicitata nella densa introduzione in questi termini:

“Grazie agli sviluppi della ricerca biomedica e tecnoscientifica, siamo alle soglie della realizzazione di un sogno che se forse non è millenario, certo è diventato oggi assai influente e una posta in gioco decisiva negli sviluppi futuri delle nostre società: quello di una spiegazione virtualmente integrale e scientificamente rigorosa dello psichismo umano, di cui siamo ormai in grado di indicare il substrato organico, insieme ai correlati anatomo-fisiologici e biochimici delle istanze alla cui luce è stato a lungo concepito, e agli eventuali disfunzionamenti nel sistema di relazioni tra memoria procedurale e memoria dichiarativa che alterano i processi del pensiero.” (p. X)

Il sogno la cui realizzazione, secondo i curatori, è alle soglie, vale a dire un sapere integrato sullo psichico umano o meglio una panantropologia, è peraltro il punto di arrivo di un lungo tragitto storico, che nel libro viene ricostruito nei suoi vari piani disciplinari e che il lettore è invitato ad organizzare autonomamente a seconda dei suoi bisogni:

“La storia che il lettore deve allora ricostruire - poiché è affar suo tracciare un percorso all'interno del dizionario, per il quale la sola regola della successione alfabetica vale come decostruzione implicita di qualunque gerarchia o attribuzione di rilevanza - è storia del modo in cui i saperi intorno alla psiche si sono sviluppati e poi organizzati in movimenti, istituzioni, scuole, programmi di ricerca, società. Storia, inoltre, del modo in cui, all'interno del «sistema» che così hanno formato, hanno preso parte alla costruzione della nostra idea di normalità, di anomalia e infine di patologia, alla definizione dell'«intelletto comune sano e malato» non più in relazione alla vita dello spirito, bensì in relazione al tipo di soggettività necessaria alle società del controllo e della normalizzazione. Per fare ciò, è stato necessario mettere a confronto i saperi sulla psiche tanto con la riflessione filosofica quanto con gli sviluppi delle scienze biomediche, e insieme con la storia dei grandi dispositivi del manicomio, dell'ospedale, della penalità, ecc., nella persuasione che la riflessione sullo «psichismo» umano nasca nel punto di intersezione di tutto ciò.” (p. XII)

Ho raccolto l’invito nella maniera più semplice: estrapolando per ogni nucleo disciplinare (psicologia, psichiatria, psicoanalisi e psicoterapie, neuroscienze) le voci ad esso inerenti (vedi la tabella sottostante), ordinandole in maniera sistematica, per sormontare il limite dell’elenco alfabetico, e leggendole come se facessero parte di un manuale, senza peraltro trascurare le correlazioni.

Trattandosi di un Dizionario, e dunque di un’opera di consultazione, non ho ovviamente letto tutti i lemmi. Ne ho letti con attenzione un numero rilevante per ogni disciplina per valutare la rispondenza dell’opera agli intenti degli autori. Penso pertanto di essere in grado di formulare qualche giudizio critico.

L’ordinamento del materiale, che consiglierei agli autori di adottare nel caso il Dizionario dovesse giungere ad una seconda edizione, è il seguente:

 

Psicologia                 Psichiatria                Psicoterapia                 Neuroscienze             Autori

Adattamento

Acting (in e out), enactment, agire

Alleanza terapeutica

Cervelletto

Abraham, Karl

Affetto, attività/passività

Allucinazione

Amnesia, ricordo di copertura

Corteccia cerebrale

Adler, Alfred

Aggressività

Alcolismo

Analisi, processo psicoanalitico

Cervello

Basaglia, Franco

Altruismo

Angoscia

Analisi transazionale

Corpo calloso

Bateson, Gregory

Ambiente

Anoressia e bulimia

Anima/Animus

Corpo

Bianchi, Leonardo

Apparato psichico

Ansia

Associazione, libera associazione, attenzione fluttuante

Biofeedback

Binswanger, Ludwig

Apprendimento

Autismo cosiddetto «infantile» (disturbo autistico

Castrazione

Gangli della base

Bion, Wilfred Ruprecht

Attaccamento

Autismo schizofrenico

Colpa, senso di colpa

Innato/acquisito

Bleuler, Eugen

Archetipo

Catatonia

Complesso

Inibizione

Brentano, Franz

Atteggiamenti e opinioni

Delirio (paranoia)

Comunità terapeutica

Istinto

Bruner, Jerome Seymour

Attenzione

Demenza

Controtransfert

Neuroni

Eccles, John Carew

Autorità/autoritarismo

Diagnosi psichiatrica

Corpo (alterazioni del vissuto corporeo)

Neuroni specchio

Edelman, Gerald Maurice

Azione

Ebefrenia, eboidofrenia

Costruzione, ricostruzione, interpretazione

Neurotrasmettitori

Ferenczi, Sándor

Campo

Disturbo postraumatico da stress

Difesa, meccanismi di

Plasticità

Freud, Anna

Bisogni

Depressione

Economica, dinamica, energetica

Recettori

Freud, Sigmund

Campo, teoria di

Dipendenza patologica

Edipo

Reti neurali

Golgi, Camillo

Carattere

Elettroshock

Desiderio

Sinapsi

Jackson, John Hughlings

Comportamento e azione

Epidemiologia psichiatrica

Dissonanza cognitiva

Stress

James, William

Conoscenza

Équipe terapeutica

Elaborazione psichica, abreazione, legame

Sincronizzazione

Janet, Pierre

Comprensione

Etnopsichiatria

Etnopsicoanalisi

Sonno

Jaspers, Karl

Comunicazione

Famiglia del paziente psichiatrico

 

Fantasia, fantasma (originario)

 

Jung, Carl Gustav

Coscienza (1)

Genetica in psichiatria

Formazione dello psicoanalista

 

Klein, Melanie

Coscienza (2)

Guarigione

Fusione, fusionalità

 

Koffka, Kurt

Coscienza (3)

Legislazione psichiatrica

Fase e organizzazione

 

Köhler, Wolfgang

Cultura

Nosografia

Ideale dell’Io, idealizzazione

 

Kraepelin, Emil

Creatività

Istituzioni psichiatriche

Identificazione/introiezione, interiorizzazione

 

Kretschmer, Ernst

Decisione

Ipnosi

Immaginario

 

Lacan, Jacques

Emozioni (1)

Lesione

Isteria

 

Laing, Ronald David

Emozioni (2)

Malattia maniaco-depressiva (disturbo bipolare)

Narcisismo

 

Lewin, Kurt

Empatia (1)

Ossessione (disturbo ossessivo-compulsivo)

Introspezione

 

Luciani, Luigi

Empatia (2)

Nevrosi

Lavoro (del lutto, del sogno, terapeutico)

 

Lurija, Aleksander Romanovi

Esperimento

Personalità, disturbi della

 

 

Mead, George Herbert

Genere

Perizia psichiatrica

Negazione

 

Minkowski, Eugène

Funzione

Perversione

Oggetto totale, oggetto parziale

 

Moruzzi, Giuseppe

Gioco

Psichiatria di comunità

Piacere/realtà (esame/principio)

 

Pavlov, Ivan Petrov

Gruppo (1)

Psichiatria biologica

Primario (processo, scena, rimozione)

 

Piaget, Jean

Gruppo (2)

Psichiatria interpersonale

Psicodramma

 

Sherrington, Charles Scott

Identità

 

Psicoterapia centrata sul cliente

 

Skinner, Burrhus Frederic

Illusione

 

Psicoterapia cognitivo-comportamentale

 

Vygotskij, Lev Seminovi

Imitazione (1)

Psicofarmaci

Psicoterapia corporea

 

Wertheimer, Max

Imitazione (2)

Psicosi

Psicoterapia della Gestalt

 

Winnicott, Donald Woods

Influenza, processi di Informazione

Psicosomatica (ipocondria)

Narrazione

 

Wundt, Wilhelm Max

Intelligenza

Riabilitazione psichiatrica

 

 

 

Intercultura

Normalità/anormalità

Pulsione/istinto, libido

 

 

Linguaggio (1)

Ritardo mentale

Relazione oggettuale

 

 

Linguaggio (2)

Schizofrenia

Regressione

 

 

Mappa

Salute/malattia

Rimosso, rimozione

 

 

Memoria (1)

Sviluppo, disturbi specifici dello

Ripetizione, coazione a ripetere, destino

 

 

Memoria (2)

Suicidio

Sogno (1)

 

 

Mente

Violenza e malattia mentale

Sogno (2)

 

 

Motivazione

Vulnerabilità

Scissione

 

 

Osservazione

 

Simbolo

 

 

Percezione (1)

 

Sublimazione

 

 

Percezione (2)

 

Stadio

 

 

Pensiero

 

Sviluppo

 

 

Personalità

 

 

 

 

Psicologia del Sé

 

Terminazione, terminabilità, fine dell’analisi

 

 

Pregiudizio e stereotipi

 

Topiche

 

 

Posteriorità

 

Training autogeno

 

 

Psicologia dell’Io

 

Transfert

 

 

Ragionamento

 

Trauma

 

 

Rappresentazione (1)

 

Vergogna

 

 

Rappresentazione (2)

 

 

 

 

Relazione

 

 

 

 

Ruolo

 

 

 

 

Sessualità

 

 

 

 

Spazio

 

 

 

 

Temperamento

 

 

 

 

Schema

 

 

 

 

Scienza cognitiva

 

 

 

 

Sensibilità

 

 

 

 

Simulazione

 

 

 

 

Test

 

 

 

 

Tipo, tipologia

 

 

 

 

Trasformazione

 

 

 

 

Visione

 

 

 

 

Vita artificiale

 

 

 

 

Uomo/computer (interazione)

 

 

 

 

 

2.

La valutazione complessiva dell’opera è sostanzialmente positiva per quanto concerne il numero di informazioni che contiene, aggiornate agli sviluppi più recenti. Una menzione particolare merita il dizionario degli autori, che, pur nella sua stringatezza, fornisce per ciascuno, oltre che i dati biografici e l’analisi delle opere principali, una valutazione complessiva del suo pensiero.

Dei quattro dizionari “specialistici”, il più completo, come si rileva anche visibilmente dalla tabella, è quello di psicologia. Quasi tutte le voci sono redatte con cura e offrono una panoramica dello stato dell’arte abbastanza esauriente. Volendo essere pignoli non si capisce perché, complementarmente alla coscienza, non sia stata dedicata un lemma all’inconscio.

 La lacuna è sorprendente per più aspetti. L’inconscio è indubbiamente una scoperta freudiana, ma le sue vicissitudini nel corso della storia della psicoanalisi fanno pensare che una teoria dell’inconscio psicoanalitico è ancora di là da venire. Nel dizionario dedicato alla psicoanalisi e alla psicoterapia se ne parla ovviamente di continuo, ma secondo le varie prospettive teoriche affiorate nel corso del tempo.

Ridurre, peraltro, oggi l’inconscio alla sua definizione psicoanalitica non sembra pertinente, dopo che Le Doux, che pure accetta quella definizione, ha chiarito che la maggior parte delle attività mentali, dalla valutazione emozionale delle percezioni, al pensare, al sentire, ecc. avvengono a livello inconscio.

La lacuna può essere giustificata dal fatto che, qualunque sia la definizione che se ne dà, l’inconscio è la dimensione mentale in assoluto più ricca di valenze emozionali. Una teoria dell’inconscio non è sovrapponibile ad una teoria delle emozioni, non fosse altro che perché l’inconscio pensa e produce motivazioni comportamentali, ma di certo non può darsi senza di essa.

Ora, come ho già avuto modo di accennare più volte, la teoria delle emozioni è il buco nero delle scienze psicologiche, nel cui ambito si danno frammenti di discorsi, di ipotesi, di elaborazioni che sembrano ancora molto distanti da uno statuto minimamente scientifico. Per prendere atto di questa singolare lacuna, basta pensare al fatto che ancora oggi non c’è accordo neppure sul numero di emozioni che si può ritenere rappresentare il bagaglio di base della mente umana.

 Non è dunque certo colpa degli autori se i due articoli dedicati alle emozioni, per quanto dettagliati, risultano insoddisfacenti. Il testo è il seguente (il corsivo è mio):

 “Emozioni (1)

 

Le emozioni sono state da sempre centrali nella storia dell’esperienza e del pensiero, poiché sono implicate inestricabilmente in ogni evento umano. Un incontro amoroso, un successo sul lavoro, la morte della madre, una lite con un amico, sono tutte circostanze che hanno un forte rilievo nella nostra vita e suscitano uno stato emotivo.

Con il nome di «passioni», cioè cose che ci accadono, le emozioni (termine recente, non registrato prima dell’800) sono considerate essenziali nella filosofia greca classica. Il loro stesso nome suggerisce l’idea che siano eventi in qualche modo fuori dal nostro controllo, un dato culturale confermato dalla storia letteraria di eros, la più potente delle passioni. In Sofocle le passioni sono chiamate «forze aliene», in Euripide «forze incontrollabili», nel Fedro di Platone «un tipo di follia». Ma già Aristotele appare più disposto ad accettarne la natura intrinsecamente umana. Questo tema continua ad essere presente in tutta la storia del pensiero occidentale.

La psicologia sperimentale, dai suoi esordi negli ultimi decenni dell’800 fino agli anni ’60 del ’900, ha mostrato una grande resistenza a prendere in considerazione questo tema e a sottoporlo a studi rigorosi. Anzi, si potrebbe pensare che lo studio delle emozioni abbia subito una qualche sorta di censura, ispirata al clima del positivismo e del comportamentismo. D’altra parte, S. Freud e il movimento psicoanalitico, che incentravano la teoria e la pratica clinica sulla vita affettiva, non solo hanno usato una terminologia diversa, ma hanno inserito l’emotività in un sistema teorico che ha tenuto alla larga gli psicologi di altro orientamento. Solo fra gli anni ’60 e ’70 qualche voce fra gli psicologi sperimentali inizia a reclamare per le emozioni un posto adeguato. Ma, in generale, lo studio delle emozioni è stato stranamente trascurato in favore di altri argomenti come la percezione, la memoria, la motivazione.

Le definizioni di «emozione» che si trovano nella letteratura psicologica sono numerose perché a ciascuna definizione corrisponde un diverso modo di considerare l’emozione, spesso una diversa teoria, più o meno sviluppata e coerente. Su alcuni punti comunque vi è accordo, e cioè che l’emozione è un insieme complesso di interazioni tra fattori soggettivi e oggettivi, mediati dai sistemi neurali e ormonali.

L’emozione è in genere indotta da un evento nel mondo esterno (chiamato talvolta antecedente emozionale o evento emotigeno), suscita un’esperienza consapevole di piacere o dispiacere, uno stato più o meno accentuato di attivazione fisiologica (o arousal), ha un contenuto specifico che dà il suo colore a ogni diversa esperienza emotiva, si presenta con un volto caratteristico e con una specifica tendenza all’azione. L’emozione influenza profondamente i processi cognitivi, in particolare la memoria, la percezione e le decisioni. L’emozione attiva adattamenti fisiologici diffusi e specifici che sono congrui rispetto ai comportamenti indotti dall’emozione in questione; in linea di massima, e certamente a livello filogenetico, questi comportamenti sono diretti a uno scopo e hanno una funzione adattiva. Le emozioni si distinguono dagli stati d’animo, perché questi ultimi non conseguono a eventi precisi, sono stati affettivi dei quali si ha una consapevolezza più sfocata e imprecisa, generalmente non si accompagnano a modificazioni fisiologiche o a specifiche tendenze all’azione.

Le diverse teorie delle emozioni hanno posto in primo piano l’uno o l’altro degli aspetti costitutivi, a partire dal famoso studio di Ch. Darwin L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali (1872), che sostiene che l’espressione delle emozioni fondamentali è universale e che le emozioni servono alla sopravvivenza dell’individuo e della specie. Questa posizione è stata ripresa da P. Ekman (1984) e dai suoi collaboratori nel laboratorio di San Francisco. Altri teorici hanno messo invece l’accento sull’aspetto cognitivo del processo emotivo, che si svilupperebbe attraverso diversi livelli di valutazione della realtà (appraisal); il più autorevole sostenitore di questa posizione è lo statunitense R. Lazarus. Un altro importante studioso contemporaneo, l’olandese N. Frijda (1986), ha approfondito il ruolo delle tendenze all’azione che si accompagnano a ogni emozione, mentre K. Scherer, che lavora a Ginevra con la sua équipe, studia da tempo l’aspetto interculturale delle emozioni.

Le tradizionali ricerche psicologiche sulle emozioni si sono concentrate sugli antecedenti emozionali, sulla funzione delle emozioni, sulle loro manifestazioni espressive e comportamentali, sullo sviluppo emotivo nelle diverse età della vita, sugli aspetti linguistici, sul profondo influsso che le emozioni hanno sui vari processi cognitivi. Queste ricerche riguardano sia le emozioni considerate fondamentali, sia l’infinita gamma delle emozioni complesse, che possono variare nel tempo e da cultura a cultura. Le emozioni fondamentali riconosciute dagli studiosi sono: gioia, tristezza, paura, rabbia e disgusto. Altri studiosi aggiungono la sorpresa o l’accettazione o l’aspettativa.

Fra le emozioni complesse ve ne sono alcune circoscritte a una particolare cultura, come ad esempio la giapponese amae, cioè il sentimento rasserenante di essere affidato e protetto; e ve ne sono altre oggi praticamente scomparse dal sentire comune, come l’accidia, definita in passato come tiepidezza nell’amare Dio.

Le principali domande alle quali la psicologia sperimentale ha cercato di dare una risposta sono le seguenti: 1) quali sono gli antecedenti tipici di una data emozione in una data cultura? Oppure, quali sono gli antecedenti universali, nel caso si concepisca l’emozione come fondamentale e primaria per la specie umana?

Le ricerche in questo ambito comprendono una raccolta ragionata di eventi, di pensieri, di valutazioni, di reazioni fisiologiche, ecc., che generalmente precedono la risposta emotiva e ne vengono considerati la causa.

2) Qual è la ragione per cui esistono le emozioni? Hanno una funzione adattiva per l’individuo e per la specie? Tendono sempre a migliorare l’interazione fra individui e il rapporto del singolo con l’ambiente, oppure a volte sono elementi di disturbo? In particolare, le reazioni fisiologiche, le espressioni emotive e le tendenze all’azione che si accompagnano a un particolare vissuto emotivo sono utili o dannose?

In sintesi, le ricerche confermano la tesi che le emozioni siano essenzialmente delle reazioni funzionali, cioè risposte che esistono nella specie umana perché tendono a migliorare l’interazione dell’individuo con l’ambiente, aumentando le sue possibilità di sopravvivenza e di riproduzione.

3) I processi cognitivi superiori, e specialmente le capacità di valutazione, giudizio, pensiero e ragionamento, sono ostacolate o facilitate da fattori emotivi? Ovvero, quando e in che modo l’attivazione emozionale, e le emozioni specifiche, influenzano i processi cognitivi? E quali sono le conseguenze di queste eventuali «pressioni» dell’emozione sulla ragione?

In genere, il rapporto fra processi cognitivi e processi emotivi viene considerato un rapporto fra principî diversi per motivi essenzialmente culturali, sia perché il nostro modo di pensare predilige la contrapposizione di principî opposti, sia perché si tende a denominare in modo peculiare fasi diverse di un unico processo di elaborazione mentale. In altre parole, è vero che gli stati emotivi guidano decisamente la nostra attenzione, le nostre preferenze, i nostri giudizi e i nostri processi inferenziali, ma non si tratta di errori o di «servizi deviati» del pensiero. Al contrario, poiché l’emozione ha come fine immediato quello di segnalare dov’è il nostro interesse e quali sono gli scopi per noi prevalenti, ne consegue che anche l’elaborazione cognitiva è determinata in tal senso.

Vediamo come questi punti si concretizzano in un breve quadro delle cinque emozioni fondamentali.

L’esperienza di gioia è stata definita come una somma di attivazione e di piacere. La sua manifestazione, inconfondibile e universale, è il sorriso. La precocità del sorriso e i suoi effetti seduttivi sulla persona a cui è diretto sarebbero geneticamente programmati per assicurare al neonato un’interazione positiva con la madre, e in genere con le persone da cui esso dipende per la sopravvivenza. La gioia si prova e si manifesta in seguito alla gratificazione dei bisogni essenziali, in primis l’apparizione della persona amata, e in seguito al soddisfacimento di una richiesta o alla realizzazione di un desiderio. Al primo posto fra tutte le esperienze di gioia pura c’è l’innamoramento ricambiato. La funzione della gioia sarebbe quella di favorire l’attività; quando la gioia si concretizza in un desiderio erotico, le modificazioni dell’organismo sia nell’uomo che nella donna preparano al rapporto sessuale. La gioia e l’allegria hanno inoltre un ottimo effetto sulla memoria.

Tutte o quasi le ricerche sperimentali confermano che il buon umore ha degli effetti positivi sulle capacità di apprendimento, specialmente se si è allegri durante la fase di presentazione o di studio del materiale da ricordare. Questo fenomeno è stato spiegato con la maggiore attivazione generale che si accompagna agli stati euforici. Ancora più marcato dell’effetto quantitativo è l’effetto qualitativo: la gioia e l’allegria fanno venire in mente dei contenuti a tonalità positiva e sono questi contenuti specifici che vengono ricordati meglio nei compiti di memoria. Inoltre, gli effetti di un sentimento di gioia rilevati in modo costante e attendibile sono: a) valutazione positiva di se stessi; b) valutazione positiva delle proprie azioni passate; c) migliore valutazione degli altri. Un fenomeno socialmente molto rilevante riguarda l’associazione fra il buonumore e il comportamento altruistico. Sembra infatti che le persone, quando sono allegre, siano più inclini del solito a rendersi utili, a prestare denaro, a rispondere ai sondaggi, a lavorare con gli altri e per gli altri, a dare dei consigli e così via.

Gli antecedenti della tristezza e del dolore umano sono essenzialmente di tre tipi: 1) le sofferenze che hanno origine e sede nel corpo, dal più banale urto contro una punta aguzza ai dolori continui e laceranti di un malato terminale; 2) la perdita o le ansie legate ai rapporti interpersonali, che iniziano con l’angoscia di abbandono del bambino piccolo per accompagnare tutta la vita affettiva, quando ogni legame soddisfacente può riserbare le sofferenze della separazione o della morte; 3) le frustrazioni e le delusioni causate dalla discrepanza fra aspirazioni e conquiste, fra le nostre ambizioni e i risultati effettivamente raggiunti.

L’espressione del viso, le modificazioni fisiologiche e il comportamento generale sono abbastanza simili: gli occhi si socchiudono o  si chiudono, gli angoli esterni di occhi e di sopracciglia si abbassano, la bocca si apre e si piega all’ingiù. Dal punto di vista cognitivo il fenomeno più rilevante è una massiccia concentrazione dell’attenzione su stimoli interni e/o esterni, senza peraltro che tale attenzione porti necessariamente a ulteriori elaborazioni dello stimolo. Al contrario, nelle fasi di tristezza acuta le attività cognitive risultano danneggiate.

La funzione della tristezza non è immediatamente apparente, anzi essa sembra talvolta un’emozione del tutto disfunzionale. Si sostiene però che questo stato emotivo, caratterizzato da un basso livello di attivazione, abbia lo scopo di indurre un risparmio energetico, tanto più opportuno quanto più grave è stata la perdita subita. I segnali esterni della sofferenza inoltre suscitano la solidarietà degli altri membri del gruppo e sostengono l’individuo in una fase di debolezza sociale.

La rabbia è una delle più precoci fra le emozioni, insieme alla gioia e al dolore. Le due cause prototipiche sono la presenza di un ostacolo al soddisfacimento di un desiderio e l’imposizione di un danno. La rabbia, anche nelle sue forme più nette, sembra essere abbastanza frequente. Se si considerano emozioni meno intense, come l’irritazione, tutti dicono di aver provato questo sentimento almeno una volta durante la settimana, e la grande maggioranza almeno una volta al giorno. Uno dei punti salienti ed espliciti dell’educazione dei bambini nella nostra cultura punta alla repressione della collera manifesta. I movimenti sintomatici del viso sono l’aggrottare violento delle sopracciglia e lo scoprire e digrignare i denti, oppure lo stringere fortemente le labbra, mentre gli occhi appaiono lampeggianti.

Le sensazioni soggettive più comuni sono: calore, irrigidimento della muscolatura, irrequietezza estrema, paura di perdere il controllo. La voce molto spesso si alza di volume e di intensità, il tono può essere minaccioso o stridulo o sibilante. Nell’organismo intervengono tutte quelle modificazioni che sono tipiche di una forte attivazione del sistema nervoso autonomo, cioè accelerazione del battito cardiaco, aumento della tensione muscolare e della sudorazione, aumento della pressione arteriosa e irrorazione dei vasi sanguigni periferici. Queste modificazioni sono funzionali al vissuto, che è di grande impulsività e di forte propensione ad agire, con modalità aggressive o di difesa, poco importa. La rabbia è certamente uno stato emotivo che crea nell’organismo un propellente energetico utilizzabile per passare alle vie di fatto, siano queste azioni o, come accade più spesso, solo espressioni verbali. Circola nel senso comune occidentale l’idea che controllare o soffocare la rabbia faccia male alla salute, o comunque che sfogare la rabbia equivalga a liberarsi dalla rabbia, come se si trattasse di una specie di catarsi. La maggior parte degli studi empirici, al contrario, testimonia che le persone che esprimono immediatamente e più energicamente la propria rabbia la vivono per un tempo più lungo. Inoltre vi sono numerosissime ricerche che mostrano come le persone più ostili e aggressive – maschi e femmine di varie età – siano più colpite da disturbi alle coronarie.

Dagli studi condotti in molte culture, sembra che almeno la metà delle persone con cui ci si arrabbia siano persone a cui si vuole bene: innamorati, amici, parenti. Qual è il motivo? Le persone a cui siamo affettivamente legate sono quelle che più facilmente possono infliggerci delle sofferenze e inoltre sono quelle con cui passiamo molto tempo. In campo lavorativo, ci si arrabbia più spesso con i superiori, con i sottoposti o con i nostri pari grado? La risposta cambia a seconda che ci si riferisca ai sentimenti di collera o alle manifestazioni di collera. Le persone che hanno autorità e potere su di noi sono più spesso oggetto della nostra ostilità, che però viene poco manifestata o solo in forme distorte e indirette.

Le persone che dipendono da noi sono oggetto di irritazione frequente, che in questo caso viene facilmente manifestata, se non addirittura amplificata a scopo implicitamente pedagogico.

Il vissuto soggettivo della paura, invece, è segnato da forte spiacevolezza, allarme e tentativo di evitare qualcosa o qualcuno che appare minaccioso o pericoloso. Nei casi in cui l’emozione venga accentuata dall’insorgere improvviso dello stimolo pauroso, si hanno fra gli «ingredienti» alcuni sintomi caratteristici della sorpresa. D’altra parte può capitare che un evento inaspettato, in sé non pauroso, susciti però un sobbalzo di paura, come il riflesso di evitamento che segue in modo automatico qualunque stimolo intenso e inatteso (un forte rumore, un lampo di luce, la perdita di un punto di appoggio). Altri elementi costanti dell’esperienza di paura sono la tensione, che può giungere fino a una sorta di immobilità («essere paralizzati dalla paura») e il restringimento dell’attenzione a una parte limitata dell’esperienza. La funzione della paura è chiarissima: è un segnale di allarme che attiva nella coscienza e nell’organismo delle risposte rapidissime che inducono a evitare il pericolo. La paura ha una faccia caratteristica: bocca semiaperta con gli angoli verso il basso, occhi sbarrati, cioè aperti e fissi, sopracciglia avvicinate con la parte interna spesso all’ingiù, fronte aggrottata, cioè solcata da rughe sia orizzontali che verticali in corrispondenza con il corrugamento delle sopracciglia. I muscoli dell’intero viso sono in tensione e l’espressione può restare statica per qualche istante. Le cause esterne e interne della paura dipendono in grande misura dalla percezione e valutazione dello stimolo, che può variare da un individuo all’altro.

Il disgusto è un’emozione connessa essenzialmente con il cibo e con il rifiuto della contaminazione. Il termine «disgusto», essendo morfologicamente derivato e opposto a «gusto», trasmette il suo significato originario di sgradevolezza connessa con l’ingerimento del cibo. Ciò nonostante, l’emozione del disgusto insorge anche in assenza di stimolazioni delle papille gustative – sono anzi i casi più frequenti –, in risposta ad altri stimoli visivi, olfattivi e tattili che fanno parte dell’esperienza complessa di piacere/dispiacere associata al cibo. Ma anche certi animali, o parti di esseri animati, ispirano delle emozioni di forte disgusto. Vedere, toccare o essere colpiti dall’odore di qualcosa che ispira repulsione spinge – come ci dice anche l’etimologia di quest’ultimo termine – ad allontanare dal proprio campo percettivo l’oggetto disgustoso, distogliendo lo sguardo, scuotendo le dita, o sputando se lo si era già messo in bocca. È interessante notare che vista, olfatto e tatto, i veicoli privilegiati dell’esperienza di disgusto, sono anche i sensi che tipicamente trasmettono le esperienze estetiche. La persona che prova disgusto ha un’espressione facciale assai caratteristica e poco controllabile. Essa consiste principalmente nell’arricciare le narici, rovesciare le labbra e allargare la bocca come per spingere fuori il suo contenuto. Nei casi più intensi di disgusto si prova nausea e può esservi anche la reazione di vomito, che ottiene letteralmente l’effetto di espellere dal corpo l’oggetto che si rifiuta. Il corpo intero si allontana e si contrae, mentre si emettono delle vocalizzazioni riconoscibili come segnali di ribrezzo. Il disgusto è considerato un’emozione primaria o fondamentale non solo per la presenza fissa e universale dell’espressione facciale, ma per il valore adattativo che alcuni vi riconoscono. L’esperienza di disgusto protegge dal rischio di entrare in contatto e specialmente di ingerire sostanze potenzialmente dannose; è quindi decisamente connesso all’alimentazione e agli oggetti considerati quali possibili cibi.

Il concetto di «competenza emotiva» è stato introdotto stabilmente da C. Saarni (1990). Secondo la sua definizione, si tratta della capacità di regolare la propria esperienza emotiva e di gestire in modo ottimale i propri rapporti interpersonali. Altri psicologi (Goleman, 1995) preferiscono usare il termine «intelligenza emotiva», con significato molto simile.

La competenza emotiva è una capacità che si sviluppa con l’età e che può essere ampliata e perfezionata attraverso l’apprendimento intenzionale quando si diventa consapevoli della sua rilevanza. Possedere un buon grado di competenza emotiva equivale all’essere socialmente integrati e personalmente equilibrati. Una buona competenza emotiva, inoltre, rafforza l’autostima, e questa sicurezza personale permette di affrontare situazioni emotivamente nuove e difficili, perfezionando così ulteriormente le proprie capacità. La competenza emotiva riguarda sia il livello intrapsichico, cioè si esercita nel rapporto interno con le proprie emozioni, sentimenti e stati d’animo, sia il livello interpersonale, quando la comprensione del quadro emotivo degli altri facilita il raggiungimento degli obiettivi sociali.

 La competenza emotiva si articola in diverse capacità specifiche, come la comprensione delle emozioni proprie e altrui, la capacità di esprimere le emozioni anche a parole, l’empatia, la percezione delle emozioni negli altri. Queste capacità possono essere più o meno sviluppate in ogni singolo individuo.

È piuttosto raro incontrare una persona che eccella in un ambito mentre è molto carente in un altro, ma è possibile che nella stessa persona vi sia un diverso grado di abilità in ambiti diversi.

Valentina D’Urso

 

Emozioni (2)

Con la parola «emozione» definiamo un aspetto multidimensionale della nostra esperienza di vita. Nell’accezione di senso comune, quando parliamo di emozioni ci riferiamo infatti a un ampio spettro di condizioni affettivo-emotive.

Queste comprendono stati spesso prolungati caratterizzati da un particolare umore – le cosiddette emozioni di sfondo –, passioni tipicamente sociali quali l’amore, l’invidia, la gelosia o l’odio per qualcuno, così come improvvise brevi e intense esperienze reattive a stimoli esterni. R. Adolphs (2002) ha sottolineato come sia contemporaneamente possibile concepire singole emozioni, percepite come entità distinte, e considerarle altresì come spazi temporanei di intersezione all’interno di un continuum di stati definibili, ad esempio, in termini di motivazione e allertamento. Il carattere complesso e polimorfo dei fenomeni sottesi alla pluralità di significati attribuibili alla parola «emozione» ha fatto recentemente mettere in discussione l’utilità di utilizzare questo termine per denotare un fenomeno unitario (Griffiths, 1997).

Nel più freddo linguaggio delle neuroscienze delle emozioni, vivere un’emozione può essere definito come esperire soggettivamente una serie di risposte fisiologiche interne al corpo (quali la modificazione della frequenza cardiaca e respiratoria, della pressione arteriosa, della sudorazione), dotate di un variabile grado d’intensità, che possono accompagnarsi o meno a comportamenti espliciti, spesso manifestati in specifici distretti corporei, quali la muscolatura del volto e del corpo o l’emissione vocale. Vivere un’emozione si configura quindi come uno stato complesso, volto ad attribuire un valore per l’organismo che l’esprime a un evento o situazione, accompagnato da gradi variabili di consapevolezza di quello stesso stato. È esperienza comune sentirsi chiedere conto, con nostra sorpresa, di un apparente stato emozionale di cui eravamo assolutamente inconsapevoli fino al momento in cui ci è stata rivolta la domanda. Possiamo trovarci in un dato stato emozionale ed esprimerlo col nostro corpo in maniera manifesta agli altri senza esperirne pienamente il contenuto, in quanto contenuto di una specifica emozione.

Ma che cos’è esattamente un’emozione? E da dove si deve partire per fornirne una caratterizzazione biologica, o più specificamente neuroscientifica? Una descrizione per certi versi accurata di alcuni aspetti fisiologici delle emozioni viene fornita da Cartesio nel suo trattato sulle Passioni dell’anima (1649), dove all’interno di una visione dualistica della natura umana le emozioni vengono da un lato caratterizzate come sensazioni, da un altro ne viene fornita una descrizione che oggi chiameremmo mentalistica. È interessante notare come Cartesio rilevi il carattere di disposizione all’azione delle passioni degli uomini che dispongono l’anima a «volere le cose cui predispongono il loro corpo». Nell’opera di Cartesio si può già intravedere anche sul tema delle emozioni la tensione fra due tendenze contrapposte, che non cesseranno mai di informare il dibattito teorico-scientifico sul problema mente/corpo.

La prospettiva monista di Spinoza si concretizza nell’Etica (1677) in una teoria delle emozioni viste come modificazione corporea che può aumentare o diminuire la nostra capacità di influenzare in modo fisico la realtà. Le emozioni secondo Spinoza possono essere distinte in emozioni passive, originate dal mondo esterno, e attive, risultato della nostra propria natura. La teoria delle emozioni di Spinoza presenta aspetti di grande modernità nell’asserire l’intima incarnazione del pensiero nel corpo che lo esprime rappresentadovisi. Spinoza attribuisce infatti al corpo vivente un ruolo determinante nella generazione dell’attività mentale, considerata come l’idea pensata del corpo, secondo un’impostazione ripresa da A. Damasio (2003).

Un moderno approccio biologico alle emozioni si può fare iniziare dalla pubblicazione nel 1872 del libro Sull’espressione delle emozioni negli animali e nell’uomo, dove Ch. Darwin fece ampio ricorso al lavoro sperimentale pionieristico del neurologo francese G.-B. Duchenne, che stimolando elettricamente i muscoli facciali di soggetti volontari, e fotografandone le corrispondenti espressioni prodotte, fornì per la prima volta una descrizione scientifica dell’anatomia funzionale dell’espressione facciale delle emozioni cosiddette di base (Duchenne, 1869). Nel suo libro Darwin confutò le tesi proposte qualche anno prima da Sir Ch. Bell sulla supposta unicità dell’espressione delle emozioni umane, secondo Bell espressamente modellate dall’intervento del Creatore. A questa teoria Darwin contrappose la tesi della continuità evolutiva tra l’espressione delle emozioni nell’uomo e nel mondo animale. Egli sosteneva che le risposte emozionali sono il risultato di un processo evolutivo che ha trasformato comportamenti funzionali utilitaristici, originariamente parte di un bagaglio ereditario di espressioni istintive, in espressioni cariche di valenza comunicativa. Un altro straordinario aspetto del contributo di Darwin è rappresentato dalla tesi dell’universalità dell’espressione delle emozioni di base quali gioia, rabbia, paura e disgusto, espresse in maniera simile dai membri di tutte le comunità umane viventi sul pianeta.

La teoria darwiniana dell’universalità delle emozioni sarà oggetto di aspre critiche negli anni seguenti, mossegli soprattutto dai sostenitori della tesi secondo cui l’espressione delle emozioni è il prodotto di influenze socioculturali di tipo locale. Tra i vari sostenitori del relativismo socioculturale delle emozioni vanno ricordati gli antropologi M. Mead e G. Bateson. Nella seconda metà del ’900 i lavori di P. Ekman fornirono sostegno empirico all’originale intuizione di Darwin. Va aggiunto però che l’universalità dell’espressione delle emozioni di base non implica necessariamente l’universalità degli stimoli atti a produrle.

L’originale approccio biologico alle emozioni di Darwin si riverberò, pochi anni più tardi, nella teoria delle emozioni proposta contemporaneamente e indipendentemente da W. James (1884) e dallo psicologo danese C. Lange, nota anche come teoria di James-Lange delle emozioni (James e Lange, 1885). Secondo questa teoria, l’esperienza cosciente di un evento esterno o interno che chiamiamo emozione deriverebbe dalla percezione delle modificazioni corporee associate all’evento scatenante, mediate dall’attivazione del sistema nervoso autonomo. Secondo la famosa formulazione di James, non piangiamo perché siamo tristi, ma piuttosto siamo tristi perché piangiamo, cioè la percezione delle modificazioni corporee è l’emozione.

Questa teoria suscitò grandi controversie, ma esercitò anche una fortissima funzione di stimolo allo studio dei meccanismi neurofisiologici alla base del comportamento emozionale.

Nel 1892 il fisiologo F. Goltz, con una serie di esperimenti di lesione sul cane, dimostrò che la corteccia cerebrale non era necessaria per l’espressione di risposte integrate di rabbia. L’evocazione di risposte caratterizzate da forte aggressività in risposta a stimoli del tutto innocui venne definita da W. Cannon e S. Britton (1925) come «falsa rabbia», una reazione caratterizzata da un’intensa attivazione del sistema autonomo simpatico, accompagnata da aumento della frequenza cardiaca, della pressione arteriosa, della sudorazione, e da fenomeni di piloerezione. Una lesione del tronco dell’encefalo a livello del mesencefalo riduceva grandemente la capacità di emettere risposte emozionali integrate (Woodworth e Sherrington, 1904). Tutti questi studi suggerivano che il comportamento emozionale potesse in larga misura dipendere da strutture nervose localizzate tra mesencefalo e corteccia cerebrale.

Questa ipotesi venne verificata sperimentalmente da Ph. Bard, che nel 1928 dimostrò il ruolo dell’ipotalamo e del talamo ventrale nel mediare le reazioni di falsa rabbia, attraverso l’attivazione del sistema simpatico e la conseguente manifestazione di comportamenti aggressivi.

Cannon (1929) suggerì che la rimozione delle influenze inibitorie normalmente esercitate dalla corteccia cerebrale liberava i centri diencefalici talamo-ipotalamici, attivando i meccanismi neurovegetativi caratteristici delle abnormi reazioni emotive della «falsa rabbia». Secondo Cannon e Bard, i centri talamo-ipotalamici mediavano, da un lato, l’attivazione dei meccanismi responsabili delle reazioni emotive comportamentali e, dall’altro, l’attivazione dei centri corticali superiori, responsabili dell’esperienza cosciente del contenuto emozionale. Cannon e Bard ribaltarono così la tesi proposta da James e Lange. Sostennero che l’esperienza emotiva può sussistere anche in assenza dei correlati neurovegetativi, come dimostrato dal permanere di reazioni emozionali in animali deafferentati, cioè privi delle sensazioni corporee, centrali per James nell’evocare l’esperienza dell’emozione.

Secondo Cannon, l’aspecificità delle reazioni neurovegetative (si può rabbrividire per il freddo oltre che per la paura) sarebbe inconciliabile con lo specifico contenuto fenomenico delle emozioni. Oggi sappiamo come le reazioni emozionali neurovegetative siano in realtà seppur parzialmente differenziate, cioè specifiche di alcune emozioni di base come gioia, dolore o paura. La contrapposizione tra queste due teorie esemplifica il contrasto sempre presente all’interno del dibattito scientifico sulle emozioni, tra concezioni che privilegiano la priorità dei fattori cognitivi nel determinare i contenuti fenomenici dell’esperienza emozionale, e concezioni che invece fanno derivare questi ultimi dal corpo e dalle sue azioni.

Nel 1937 l’anatomico J. Papez propose un modello delle emozioni che, pur seguendo Cannon e Bard nell’attribuire un ruolo fondamentale all’ipotalamo e alla corteccia, cercava per la prima volta di definirlo in termini di specifici circuiti nervosi. Papez delineò la struttura di un circuito neurale specifico per le esperienze affettivo-emotive, che da lui prese il nome.

L’importanza del modello di Papez consiste – al di là degli aspetti confutati da ricerche più recenti – nell’avere proposto per la prima volta un modello neurofisiologico integrato delle emozioni che attribuiva a parti diverse del cervello funzioni diverse. Questo circuito comprende l’ipotalamo, i nuclei talamici anteriori, la corteccia cingolata (nota anche come «lobo limbico», secondo la definizione originariamente datane da P. Broca) e l’ippocampo.

Secondo Papez la corteccia cingolata sarebbe l’area corticale responsabile dell’esperienza emotiva, ricevendo le informazioni sensoriali afferenti dal talamo ventrale e dalla neocorteccia cerebrale, attraverso le connessioni, rispettivamente dirette, e indirette attraverso l’ippocampo, di queste due strutture con l’ipotalamo. Nel modello di Papez l’ipotalamo svolge il ruolo centrale di assegnare un significato emozionale ai dati sensoriali provenienti dal mondo esterno, generando le corrispondenti risposte neurovegetative e comportamentali. Il ruolo della corteccia cingolata sarebbe invece quello di elaborare i contenuti coscienti dell’esperienza emozionale.

Questo modello ricevette un’apparente conferma empirica dalla pubblicazione nello stesso anno, da parte di H. Klüver e P. Bucy (1937), dei risultati di un esperimento condotto nella scimmia di ablazione della corteccia del lobo temporale e delle sottostanti regioni dell’ippocampo e dell’amigdala. Nelle scimmie prive del lobo temporale mancavano completamente i segni comportamentali dell’aggressività o della paura. In seguito alla lesione, gli animali divenivano abnormemente docili e mostravano l’incapacità di riconoscerengli oggetti («cecità psichica»), associata adnabnormi comportamenti alimentari e sessuali.

Secondo Klüver e Bucy la distruzione dell’ippocampo era responsabile dell’incapacità di questi animali di attribuire una valenza emotiva agli stimoli sensoriali. In realtà ogginoi sappiamo che l’ippocampo rientra tra le strutture coinvolte in funzioni di tipo mnesico, e attribuiamo la multiforme sintomatologia prodotta dall’ablazione temporale all’associazione di disturbi di agnosia visiva (dipendenti dalla lesione della corteccia inferotemporale) a disturbi della sfera emotivo-affettiva (legati alla lesione dell’amigdala e delle sue connessioni).

Il fisiologo statunitense P. MacLean, formulando la teoria del cervello tripartito (1970), introdusse la nozione di «sistema limbico», definito come un sistema integrato deputato al controllo delle emozioni. Secondo Maclean l’attuale struttura del cervello umano sarebbe il risultato della stratificazione evolutiva di tre sistemi, indicati rispettivamente con il nome di: 1) «cervello rettile», comprendente i gangli della base e le strutture del tronco dell’encefalo; 2) «cervello viscerale», corrispondente al circuito di Papez, indicato con il nome di «sistema limbico»; 3) neocorteccia. Il modello di Maclean e la correlata introduzione del concetto di «sistema limbico» domineranno il campo per molti anni. Di questo modello verranno progressivamente abbandonati sia l’eccessivo schematismo che il ruolo centrale per le emozioni assegnato da MacLean all’ippocampo.

La ricerca neuroscientifica nel corso degli ultimi trent’anni ha approfondito lo studio dei meccanismi alla base dei nostri comportamenti emotivi. Tale approccio, fondato sullo studio di modelli animali, sullo studio clinico dei pazienti e quello sperimentale di soggetti volontari sani, ha aumentato le nostre conoscenze relativamente ai meccanismi neurochimici e all’anatomia funzionale dei circuiti cerebrali che presiedono ad aspetti importanti della sfera affettivo-emotiva. Questi studi hanno messo in crisi il concetto di «sistema limbico», inteso come circuito cerebrale integrato che presiede al controllo e all’espressione delle emozioni, mettendo piuttosto in luce la multistratificazione funzionale e la complessità dei meccanismi nervosi sottesi alla sfera emozionale del comportamento.

Nell’attuale panorama della ricerca neuroscientifica sulle emozioni si distinguono posizioni come quella di J. Panksepp (1998) che, basandosi su un’attività di ricerca condotta quasi esclusivamente sui ratti, propone un modello evolutivo delle emozioni privilegiandone gli aspetti sottocorticali. Secondo Panksepp le emozioni di base come la paura, la rabbia, la gioia, le motivazioni primarie e gli affetti sensoriali come il dolore sarebbero determinati dall’attività di una serie di circuiti sottocorticali comuni a tutti i mammiferi, comprendenti strutture del tronco dell’encefalo, come la sostanza grigia periacqueduttale mesencefalica, connesse con regioni diencefaliche del vecchio «lobo limbico», come ipotalamo e amigdala. Questi circuiti controllano il comportamento appetitivo e la ricerca di ricompense, la rabbia/collera, l’ansia e la paura, e il cosiddetto «sistema del panico», concernente situazioni sociali di attaccamento/distacco.

Partendo da un modello in apparenza di taglio radicalmente riduzionista, Panksepp dialoga con la psicoanalisi giungendo fino a suggerire una possibile omologia tra i sistemi sottocorticali dell’istintività emozionale da luistudiati e il freudiano mondo dell’Es.

Fondamentali sono anche i contributi di J. Le- Doux (1996), incentrati soprattutto sullo studio dei circuiti nervosi e dei meccanismi neurofisiologici alla base della paura, e delle reazioni comportamentali e del condizionamento ad essa connessi. Queste ricerche hanno evidenziato il ruolo chiave dell’amigdala nell’orchestrazione di una serie di complessi meccanismi caratterizzanti vari aspetti della vita di relazione, e in particolare delle emozioni.

L’amigdala, un complesso di nuclei localizzati nella porzione mediale del lobo temporale, dalla vaga forma di mandorla che le dà il nome, è coinvolta nei mammiferi in generale, e nell’uomo in particolare, nell’apprendimento e nei processi di memorizzazione implicita, nell’influenza emozionale dei processi attentivi e percettivi, nella regolazione del comportamento emotivo e sociale (Phelps e Le Doux, 2005). L’amigdala riceve afferenze viscerali dal corpo attraverso la proiezione vagale dal Nucleo del Tratto Solitario. Riceve inoltre connessioni sensoriali attraverso due vie principali. Una, rapida, convoglia informazioni di tipo più «elementare», provenienti dal talamo. L’altra, più lenta, connette l’amigdala con cortecce sensoriali e multimodali che restituiscono un modello degli stimoli molto più elaborato e complesso. L’amigdala proietta al nucleo basale di Meynert, che a sua volta controlla l’eccitabilità di molteplici regioni della neocorteccia, attraverso la diffusa innervazione colinergica di questa via di proiezione. Questo circuito nervoso è alla base della facilitazione attentiva evocata da molti degli stimoli che percepiamo quotidianamente. Tra questi, in particolare, dagli stimoli che evocano paura o avversione. Non è necessario che questi siano percepiti coscientemente per evocare attraverso l’amigdala una congruente reazione emotiva. Lo stimolo o l’evento evoca prima di essere percepito coscientemente l’attivazione del circuito nervoso che modula la risposta dell’organismo, che può anche essere protratta nel tempo. Le implicazioni cliniche di questi risultati sono evidenti. Soggetti con lesione dell’amigdala manifestano problemi sociali, consistenti soprattutto nell’incapacità di valutare l’affidabilità del prossimo e riconoscerne le emozioni dall’osservazione della mimica facciale. Questa sintomatologia diviene ancora più evidente quando una lesione interessa la corteccia orbitofrontale, situata nella parte ventrale e mediale del lobo frontale e connessa con l’amigdala.

Da tutte queste ricerche emerge la continuità evolutiva dei meccanismi che regolano il comportamento emozionale. A questo livello di indagine e formalizzazione teorica, il sistema delle emozioni è interpretato come un meccanismo implicito e molto efficace di validazione del significato degli stimoli con cui l’organismo normalmente interagisce. Il «valore» positivo o negativo per l’organismo di alcune modalità d’interazione con il mondo viene attribuito, consolidato o estinto dall’attivazione di tali arcaici meccanismi, in gran parte sottocorticali.

Un altro contributo molto importante, sia per i risultati conseguiti sul campo che per l’influente teoria dei «programmi d’affetti» da essi generato, è quello di P. Ekman (1972; 1992). Ai suoi lavori di studio crossculturale dell’espressione e comprensione delle emozioni si deve la definitiva affermazione su base scientifica del concetto darwiniano dell’universalità dell’espressione delle emozioni cosiddette «di base». Secondo Ekman i «programmi d’affetti» sono meccanismi coordinati di risposta automatici, stereotipati e a breve latenza (per molti aspetti simili a riflessi), che si configurano come espressioni facciali particolari e variazioni dei parametri neurovegetativi dell’organismo, controllati da vari centri limbici come ipotalamo e amigdala. Questi meccanismi, pur presentando un polimorfismo interindividuale, sono universali, comuni a tutte le culture del pianeta. Il vantaggio adattativo per un organismo vivente in possesso di tali programmi consisterebbe nella capacità di apprendere il significato degli eventi dell’ambiente circostante semplicemente decodificando lo stato emozionale indotto da simili eventi negli altri. Ekman ha anche sottolineato l’indipendenza delle risposte emozionali dalla valutazione cognitiva consapevole. Un limite di questo modello sta forse nella sua limitatissima applicabilità a emozioni cognitive di ordine superiore, come invidia, senso di colpa, imbarazzo, gelosia, ecc. Alcune di queste emozioni complesse sono inoltre espresse solo da alcune culture, come ad esempio ciò che i giapponesi definiscono amae, una sorta di senso di gratificazione derivante dal dover dipendere da altri. Le basi neurofisiologiche di tali emozioni rimangono quasi del tutto inesplorate.

I circuiti nervosi responsabili dell’elaborazione delle informazioni emotivo-affettive sono almeno in parte lateralizzati. Studi condotti su soggetti sani e su pazienti neurologici hanno mostrato una prevalenza dell’emisfero di destra nella percezione delle emozioni negative, mentre più controversa è l’attribuzione di una specializzazione funzionale dell’emisfero di destra per le emozioni in generale.

Uno dei contributi neuroscientifici più influenti e stimolanti alla comprensione delle emozioni e del ruolo da esse svolto in ambito cognitivo è senza dubbio quello di Damasio e della sua scuola. Damasio, forse più di altri, ha saputo fornire un modello integrato delle emozioni che abbraccia non solo gli aspetti istintuali, ma si spinge anche al mondo dei sentimenti, vale a dire alla dimensione cosciente dell’esperienza emotiva. Le emozioni sono inoltre viste come un ingrediente essenziale e ineliminabile per comprendere la reale natura dei processi decisionali umani, per lungo tempo ritenuti l’esclusivo prodotto logico-deduttivo di una supposta mente razionale. Per Damasco le nostre decisioni sono sempre influenzate dalle passate esperienze, registrate dal sistema emozionale in termini di valenza affettiva. Queste esperienze lasciano delle tracce   e vengono rievocate da «marcatori somatici », cioè da particolari stati del corpo. Attraverso uno studio prevalentemente clinico condotto su pazienti neurologici (1995; 2000; 2003), Damasio ha distinto tre differenti livelli di esperienza emozionale. Il primo livello è quello dell’emozione vera e propria, la risposta biologica comportamentale e del mezzo interno a una particolare tipologia di stimoli.

Il secondo livello, quello dei «sentimenti» dell’emozione, può o meno affiorare al livello di coscienza. Infine, il terzo livello è occupato dalla consapevolezza cosciente dell’esperienza del sentimento dell’emozione.

Mentre il primo livello anche per Damasco coincide essenzialmente con i programmi d’af- meccanismi corticali superiori. Uno dei meccanismi che permettono di provare emozioni consisterebbe nell’attivazione di un circuito nervoso di tipo «come se», cioè un circuito di simulazione. In particolare, l’attivazione di un circuito costituito dalle aree corticali sensorimotorie, dall’amigdala, dalla corteccia insulare frontale e da quella orbito-frontale consentirebbe l’esperienza cosciente dell’emozione.

Un recente studio condotto dal gruppo di Damasco su oltre cento pazienti neurologici che avevano sofferto danni cerebrali di vario tipo ha dimostrato che i pazienti con lesioni alle cortecce fronto-parietali mostravano i deficit più gravi nel riconoscimento e denominazione delle emozioni di base (Adolphs et al., 2000). L’integrità del sistema sensori-motorio appare quindi cruciale per il riconoscimento delle emozioni altrui. Il sistema sensori-motorio media infatti il processo di ricostruzione di come ci sentiremmo se fossimo noi a provare quelle stesse emozioni. Riconosciamo cioè le emozioni degli altri mediante la simulazione incarnata degli stati corporei ad esse correlati.

Il meccanismo di simulazione può interessare livelli diversi, come l’attivazione delle muscolatura facciale e corporea o modificazioni di tipo neurovegetativo. Questi ultimi sembrano dipendere dall’attivazione dell’insula anteriore. Una conferma empirica al ruolo della simulazione nella comprensione degli stati emotivi altrui e dal ruolo in essi giocato dall’insula viene da recenti studi di brain imaging, i quali dimostrano che l’insula anteriore si attiva sia durante l’esperienza soggettiva di un’emozione di base come il disgusto che durante l’osservazione della stessa emozione espressa dalla mimica facciale altrui. Altri studi mostrano il coinvolgimento dell’insula sia nell’esperienza soggettiva del dolore che nell’esperienza del dolore altrui (Gallese, Keysers e Rizzolatti, 2004). Il settore anteriore dell’insula, la cui stimolazione elettrica evoca senso di nausea o vomito, riceve ricche connessioni dalle strutture gustative e olfattive e dai settori anteriori della corteccia del solco temporale superiore, dove sono stati descritti neuroni che rispondono all’osservazione dei volti.

L’insula anteriore associa quindi stimoli olfattivi, gustativi e visivi alle correlate risposte autonomiche e viscero-motorie e alle sensazioni viscerali da esse generate.

Questi recenti sviluppi della ricerca neuroscientifica suggeriscono che il senso delle emozioni altrui è costruito e compreso anche grazie a un meccanismo di simulazione che produce nell’osservatore uno stato corporeo condiviso con l’attore di quella espressione (Gallese, 2005). È la condivisione dello stesso stato corporeo tra osservatore e osservato a consentire questa forma diretta di comprensione, che potremmo definire «empatica» (Gallese, 2003). A. Goldman e Ch. Sripada (2005) hanno definito questo meccanismo di simulazione come «risonanza diretta».

Vittorio Gallese”

Nonostante l’abbondanza delle informazioni, gli articoli rivelano - direi impietosamente- lo stato dell’arte che vige nell’ambito delle discipline umane e sociali sul tema delle emozioni.

Studiare la neurobiologia delle emozioni negli animali è di enorme interesse, a patto di tener conto del fatto che, nel passaggio dall’animale all’uomo, le emozioni di base si sono alquanto complessificate e  arricchite.

La mancanza dall’elenco fornito dalla D’Urso dell’allarme può essere giustificata dal fatto di farlo rientrare nella paura. Di fatto, nell’animale l’allarme è il presupposto della paura, un radar che induce l’attivazione di questa in presenza di un pericolo. Il problema è che nell’uomo il sistema di allarme sconfina ampiamente dai limiti di un sistema deputato all’identificazione dei pericoli. Un tratto essenziale dell’emozionalità umana è, infatti, un’ansia pervasiva che fa riferimento non solo a pericoli reali, ma alla consapevolezza del soggetto umano di esistere come ente vulnerabile e finito.

L’ansia umana ha una matrice esistenziale irriducibile alla teoria adattiva intesa in senso proprio. Certo, l’uomo deve adattarsi anche alla realtà del suo destino mortale, ma è evidente che questo adattamento non è altro che l’accettazione di un dato contro cui egli nulla può, posto che non si consideri quella matrice destinata a produrre la religione.

L’ansia esistenziale introduce nell’orizzonte dell’esperienza umana l’intuizione della finitezza. E’ evidente che tale intuizione non potrebbe darsi senza il riferimento a qualcosa che la trascende: l’infinito. Solo l’uomo può provare una gioia, un amore, una rabbia, un dolore infiniti. La tendenza delle emozioni umane all’infinitizzazione è un dato del tutto estraneo all’esperienza di ogni altro animale.

La finitudine come prodotto dell’intuizione emozionale dell’infinito risulta ancora più sconcertante se si tiene conto che essa, la quale restituisce all’uomo il valore infinitesimale del suo esserci, coincide con la presenza, nella soggettività, di un’altra emozione che la psicologia non riconosce: il senso di dignità e di giustizia.

Questa emozione specie-specifica sottende per alcuni aspetti la rabbia umana e la differezia da quella che sperimentano gli altri animali, il cui significato adattivo è di promuovere una difesa attiva dalle “aggressioni”. Nell’uomo, pur funzionando anche su questo piano, la rabbia sembra intrecciarsi con un senso di pari dignità e di giustizia che la evoca ogniqualvolta, fin da epoche precoci dello sviluppo, il soggetto sente lesa dall’altro la sua imperscrutabile dignità.

Il problema della psicologia evidentemente, quando essa si confronta con il tema delle emozioni, sta nel voler mantenere una continuità tra l’uomo e l’animale che, sotto il profilo evolutivo, è ovvia, ma non tiene conto dei rilevanti cambiamenti avvenuti nel corso dell’ominazione e dell’antropogenesi. Negli animali l’emozionalità riguarda prevalentemente il rapporto dell’individuo con l’ambiente esterno fisico, al quale appartiene anche il predatore. Si dà anche un’emozionalità sociale, sia in rapporto al branco che al partner, ai figli e al rivale, ma, tranne che nelle scimmie, essa ha un rilievo secondario rispetto all’adattamento all’ambiente.

Nell’uomo viceversa è il rapporto con l’ambiente fisico del tutto secondario rispetto alla socialità, che governa emozionalmente la vita del soggetto dall’inizio alla fine.

Sulla base di questo dato, la teoria delle emozioni va riformulata.

3.

Il dizionario di psicologia, pur mantenendo un notevole equilibrio, risente fortemente dell’influenza del cognitivismo, la corrente più attiva negli ultimi anni. In conseguenza di questo, esso ha tutti i pregi e i limiti della cosiddetta scienza cognitiva, molto versata nell’analisi delle singole funzioni mentali (percezioni, attenzione, memoria, rappresentazione, ecc.), ma, come accennato, letteralmente incapace di valutare adeguatamente il ruolo dell’emozionalità, e dunque difettosa nel ricostruire un quadro integrato dell’esperienza soggettiva.

A maggior ragione, riesce quasi paradossale il contrasto tra il dizionario di psicologia e quello di psicoterapia, radicalmente impregnato di un freudismo, esteso agli epigoni più fedeli (M. Klein, Bion, ecc.) che appare del tutto fuori luogo e fuori stagione.

Tributare a Freud un omaggio che ne mantiene viva la genialità e anche il coraggio è perfettamente legittimo; trasformarlo in un’icona di culto, senza riuscire a distinguere ciò che della sua opera è vivo da quello che è morto, mi sembra invece pedissequo.

E’ difficile dar conto di questo aspetto, che, per chi ha affrontato Freud criticamente, appare addirittura irritante.

La psicoanalisi, com’è noto, è una congerie di teorie, ipotesi, interpretazioni della psiche umana e dei suoi meccanismi, che, nel corso del tempo si è ingrossata come un torrente limaccioso. Al suo interno, si danno intuizioni di elevatissimo valore mescolate con altre dubbie o francamente insostenibili.

Una ricostruzione critica della psicoanalisi, e il tentativo di organizzare i dati in una forma scientifica, postula delle opzioni di fondo.

Non si può ignorare che Freud ha indagato i fenomeni psicopatologici con l’intento esplicito non solo di renderli comprensibili, alla luce delle dinamiche inconsce ad essi sottostati, ma di pervenire ad una teoria della natura umana.

Per quanto ambizioso, quest’ultimo intento rimane importante per una disciplina che non può prescindere dall’interazione tra cervello e mente, e vuole pervenire ad una teoria psicosomatica globale dell’attività mentale umana.

Esso però non è riconosciuto dai curatori, che citano spesso l’istinto di morte come se non si trattasse di un’aberrazione ideologica. E’ vero che le voci del dizionario sembrano privilegiare l’attribuzione alla natura umana di un bisogno sociale primario. A riguardo, però, occorre essere chiari. Riconoscere la socialità dell’uomo è ormai un truismo. Si tratta di stabilire il peso che essa esercita  non solo nell’evoluzione della personalità, ma soprattutto nella sua strutturazione.

Con la teoria del Super-Io, Freud ha valutato come preponderante tale peso in conseguenza della prolungata dipendenza dell’infante dalle figure adulte e del conflitto edipico. La valutazione di Freud è imprescindibile dalla teoria della natura umana, vale a dire dalla necessità della società di indurre l’interiorizzazione di un controllo repressivo sulle pulsioni in difetto del quale l’ordine della cultura si dissolverebbe.

Se si prescinde dalla teoria delle pulsioni, occorre dare un nuovo senso al ruolo del Super-Io, che, ancora oggi, rivela in tutte le esperienze psicopatologiche il suo primato dinamico a livello inconscio.

Le voci del dizionario attestano, invece, che quel ruolo è considerato costitutivo della teoria freudiana, sicché il superamento dell’ottica pulsionale induce a mettere da parte il punto di vista strutturale.

In conseguenza di questo, la psicoanalisi sembra ridursi ad una serie di dinamiche e di meccanismi che affondano le loro radici in un inconscio che, per non essere strutturato e governato da leggi, sembra sostanzialmente descrivibile ma non scientificamente teorizzabile.

4.

La parte più deludente dell’opera è, ahimé, il Dizionario di psicopatologia e psichiatria.

L’intuizione di Freud, secondo la quale la psicopatologia è la dimensione esperienziale che, più di ogni altra, apre l’accesso ai “misteri” della mente, e va dunque indagata per mettere a fuoco le dinamiche intrapsichiche non meno dei loro correlati psicosomatici, viene a questo livello del tutto soppiantata da una pedissequa descrizione delle malattie che segue per molti aspetti l’impianto schematico dei manuali diagnostici più accreditati (DSM, IC). Qua e là si dà qualche riflessione critica, ma nel complesso i lemmi sembrano scritti da specialisti folgorati sulla via di Damasco delle neuroscienze che – dalla genetica alla biochimica e alle tecniche di neuroimaging – avrebbero sostanzialmente suffragato i presupposti di fondo della psichiatria organicistica.

La possibilità che quei dati possano essere utilizzati per pervenire ad un modello psico-somatico piuttosto che somato-psichico dei disturbi mentali non viene presa neppure in considerazione.

Per fornire la misura di una “scelta”, che ritengo sciagurata, riproduco la voce dedicata alla depressione:

 

“Depressione

Il termine depressione deriva dal verbo «deprimere », portare giù, a un livello più basso, affondare. Nel linguaggio corrente indica uno stato d’animo caratterizzato da tristezza, insoddisfazione, noia, svogliatezza e da un’inclinazione pessimista dei pensieri e delle previsioni.  Questa tonalità affettiva fa parte del normale registro delle emozioni umane. È una condizione che capita a tutti di attraversare, più o meno spesso, di solito passeggera e lieve abbastanza da non alterare granché la vita quotidiana; si tende a metterla in connessione con eventi che sembrano capaci di spiegarla.  Nel linguaggio psichiatrico, invece, la parola depressione designa uno stato mentale patologico espresso da una serie di sintomi che, con varia intensità, compongono la «sindrome depressiva».

Secondo la teoria ippocratica e le interminabili riprese successive che hanno dominato la medicina occidentale fino al XVIII secolo, quattro umori (sangue, flegma, bile gialla e bile nera o atrabile) si mescolano nel corpo umano e il loro equilibrio (eutimia) corrisponde alla buona salute. La prevalenza dell’uno o dell’altro umore determina il temperamento: sanguigno, flemmatico, collerico (bilioso) o melanconico.  Quattro sono gli umori come sono quattro gli elementi (acqua, terra, aria, fuoco) e quattro le qualità (caldo, freddo, secco, umido): il corpo dell’uomo è un microcosmo, è lo specchio dell’universo. Gli umori sono liquidi che circolano o ristagnano. La rottura della loro armonia, la loro separazione, il raffreddamento o il riscaldamento, la stasi, l’ispessimento o l’essiccazione provocano malattie. E l’atrabile è responsabile della melanconia.

La teoria degli umori apparterrebbe all’archeologia della medicina se uno dei quattro non fosse entrato a far parte, profondamente, della nostra cultura e del nostro linguaggio: la bile nera, la melanconia, la depressione, in virtù delle quali parliamo ancora, nelle nosografie psichiatriche più moderne, di disturbi dell’umore. Umori, umore. La parola ha a che fare con quello che è umido, liquido, fluido; una materia fluttuante che scorre, cambia, prende forme sempre diverse. L’umore è vagabondo, inafferrabile, poco prevedibile, testimone dell’impossibilità di controllare e dominare del tutto se stessi: l’Io non è padrone in casa propria, come ricorda da un secolo la psicoanalisi.  La teoria degli umori, in fondo, non è mai morta sul piano immaginario. La concezione freudiana della libido piena di continue metafore idrauliche (flusso, blocco, fissazione, spostamento, sublimazione, ecc.) non allude anch’essa a qualcosa che scorre, si arresta, prende forme continuamente diverse con effetti talora di malattia? Non c’è forse qualcosa di umorale nell’ipotesi cha collega i disturbi mentali alle vicissitudini del flusso, da cellula a cellula, dei neurotrasmettitori? E l’uso degli psicofarmaci non è diretto a ristabilire un equilibrio nell’ambiente liquido interno?

Nell’antichità, come ha ricordato J. Starobinski, i medici curavano le passioni del corpo e i filosofi le malattie dell’anima: analogie, incertezze e confusioni tra le une e le altre erano – come sono tuttora – frequenti.

Nel mondo cristiano comparve poi una nuova domanda rispetto alla quale la depressione si presentava sfuggente: era malattia o peccato?  Toccò ai Padri della Chiesa, come san Gerolamo, il compito di dirimere il dubbio diagnostico e di chiarire se la persona in esame era colpita da affezione melanconica, tale da richiedere un trattamento medico, o era colpevole di un peccato di tristezza, di un attacco accidioso. Si riteneva che l’accidia – caratterizzata da pesantezza, torpore, disperazione, tristezza muta, afonia spirituale – venisse dal corpo e che diventasse peccato mortale quando l’anima se ne compiaceva e con volontà perversa vi si abbandonava.

L’accidia era collegata all’ira e gli accidiosi erano definiti iracondi amari, l’amaro della bile nera. Nel settimo canto dell’Inferno gli accidiosi sono stati posti proprio accanto agli iracondi, anzi sotto, sommersi dalle acque melmose dello Stige: non abbiamo ricordato che il verbo latino deprimere vuol dire spingere giù, affondare? Nella Commedia l’afonia spirituale degli accidiosi si riflette nella punizione di contrappasso che scontano: i tristi coperti dal fango – che allude all’umore nero – non hanno più la «parola integra» e possono emettere solo gorgoglii indistinti. San Tommaso accusava gli accidiosi di ingratitudine verso Dio e il suo dono della luce, e Dante li definì uomini sempre tristi, anche quando l’aria è dolce e allietata dal sole. Si tratta di straordinarie intuizioni che riguardano l’altra scena della depressione, il suo versante inconscio, l’invidia e la rabbia che sottendono la tristezza, come hanno ben chiarito gli studi psicoanalitici del ’900, a partire da quelli di S. Freud.  Negli stessi anni di Freud e di E. Kraepelin, K. Jaspers ha proposto una psicopatologia generale il più possibile libera da vincoli teorici e da necessità diagnostiche. Grazie alla sua influenza lo studio psichiatrico dei disturbi dell’umore e degli stati depressivi ha guadagnato in cura e finezza. Particolare curioso, la Depression Rating Scale di M. Hamilton (1967) è stata ispirata dal pensiero di Jaspers. La tristezza depressiva ha sempre reclamato un rimedio che passasse per la parola o per un medicamento o per un regime da applicare alla vita quotidiana. Non siate solitari e non siate inattivi, raccomandava R. Burton in Anatomia della malinconia (1621) come ricetta pratica contro la melanconia.

Mentre la psicoanalisi sviluppava la «cura di parola» degli stati depressivi, nuove terapie somatiche si affacciavano alla ribalta. L’elettroshock, inventato da U. Cerletti e L. Bini nel 1938, si dimostrò presto una tecnica che poteva sbloccare in molti casi stati melanconici gravi. Vent’anni dopo, l’ingresso in campo dei primi farmaci capaci di cambiare l’umore segnò un’altra rivoluzione. La scoperta degli effetti antidepressivi dell’imipramina, il più antico triciclico, è legata al nome di R.  Kuhn, psichiatra poco conosciuto che lavorava in un piccolo ospedale cantonale svizzero.  La molecola era stata prodotta dai laboratori Geigy di Basilea con l’idea di cercare un nuovo neurolettico, sulla linea della clorpromazina.  Una volta verificata la sua inefficacia nella schizofrenia, l’imipramina sarebbe stata abbandonata se Kuhn non avesse avuto la curiosità di interessarsi agli effetti eccitanti del farmaco – segnalati come danni collaterali nelle prime sperimentazioni – e l’intelligenza provarlo in pazienti melanconici gravi. Kuhn ebbe tenacia e mano felice anche nel somministrarlo a lungo perché, come tutti gli antidepressivi, l’imipramina ha un tempo latenza terapeutica di qualche settimana. I risultati furono pubblicati nel 1957 e il Tofranil apparve subito come una possibile alternativa all’elettroshock.

In pochi decenni il numero dei farmaci antidepressivi è salito rapidamente, dagli inibitori delle monoaminossidasi o imao (anni del ’900) agli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina o isrs (anni ’80).  Con le nuove molecole non è tanto aumentata l’efficacia quanto sono diminuite frequenza gravità degli effetti collaterali. Questo favorevole ha provocato un enorme aumento delle prescrizioni e dell’uso, aumento spesso ingiustificato, e ha incoraggiato l’idea curare la vita e ogni sua quota d’infelicità allo stesso modo della malattia depressiva.  Le manifestazioni della depressione possono essere raggruppate in quattro settori principali: alterazioni emotive, cognitive, psicomotorie e vegetative. Nelle alterazioni «emotive » la tristezza è radicale, persistente, incontrollabile e si pone come un cambiamento, forma di accentuazione o di frattura, rispetto allo stato d’animo consueto. Il quadro emotivo è dominato dallo scoraggiamento, dal disinteresse per tutto, dall’anestesia affettiva (sensazione dolorosa di non provare più sentimenti), dall’anedonia (perdita della capacità di provare piacere), dal dolore morale (sofferenza psichica profonda, lancinante). Nelle alterazioni «cognitive» la memoria e la capacità di attenzione e di concentrazione possono risultare indebolite. Pensieri e giudizi sono dominati dal pessimismo, da un senso d’impotenza colpevole, dalla svalutazione di sé. L’interesse per il presente è scarso, prevalgono ruminazioni sul passato. Compaiono l’idea (quasi sempre) e la tentazione e il gesto talora) del suicidio. In molti casi di alterazione «psicomotoria», invece, si osserva un rallentamento sia dei movimenti che delle associazioni mentali. Forza, energia, capacità d’iniziativa sono diminuite. Nel caso delle alterazioni «vegetative», infine, calano sia il senso di fame che il desiderio sessuale. Sono frequenti disturbi del sonno e varie sensazioni dolore e malessere fisico.

Le forme più lievi di depressione sono compatibili con una vita relativamente normale.  Le forme più gravi («maggiori» nel lessico anglosassone) interrompono il corso abituale di un’esistenza; la «melanconia» ne è il prototipo.  Sintomi di tipo depressivo possono essere indotti da cause riconoscibili, come l’ipotiroidismo o certi farmaci, o possono far parte delle manifestazioni di una schizofrenia o di una demenza. In tutti questi casi si parla di stati depressivi «secondari» a malattie descritte da un’altra diagnosi. L’espressione «depressione iatrogena» è riservata, in particolare, ai casi in cui trattamenti farmacologici, interventi chirurgici o psicoterapie mal condotte sembrano all’origine di sintomi depressivi in un soggetto che non ne aveva mai sofferto prima.

La classificazione delle depressioni primarie è un capitolo specialmente controverso. I maggiori sistemi nosografici in uso, il DSM-IVTR e l’ICD-10, propongono due cataloghi, forse sovrabbondanti, che in parte coincidono e in parte divergono, soprattutto per una diversa organizzazione gerarchica delle categorie diagnostiche.

Proviamo a tracciarne i profili nelle loro linee generali. Nella sezione dedicata ai disturbi dell’umore, il DSM-IV-TR ha scelto, prima di tutto, di separare i «disturbi depressivi» dai «disturbi bipolari» (bipolare I, bipolare II e ciclotimico), sulla base della presenza, nella storia clinica di questi ultimi, di almeno un episodio maniacale, ipomaniacale o misto. I disturbi depressivi, poi, sono stati distinti in:

1) disturbo depressivo maggiore - episodio singolo, diagnosi da porre la prima volta che la malattia si presenta nel corso di una vita;

2) disturbo depressivo maggiore ricorrente, diagnosi da porre quando si sono già ripetute più volte, a distanza di tempo, varie crisi depressive;

3) disturbo distimico, quando il malessere dura da almeno due anni e non sono mai stati presenti, tutti insieme, i sintomi richiesti per la diagnosi di depressione maggiore. 

Il quinto capitolo dell’ICD-10 ha diviso invece il blocco dei disturbi dell’umore in cinque categorie diagnostiche principali: episodio maniacale, disturbo bipolare, episodio depressivo, disturbo depressivo ricorrente e disturbi dell’umore persistenti (distimia e ciclotimia). 

Dopo aver riportato le posizioni dei due maggiori sistemi nosografici contemporanei vogliamo richiamare brevemente alla memoria, in ordine alfabetico, alcune espressioni storiche che fanno ancora parte del lessico psichiatrico anche se, per lo più, non figurano nelle due classificazioni né compongono una sistematica clinica unitaria e condivisa.  È detta depressione «agitata» quella in cui prevale un’agitazione psicomotoria intensa e improduttiva.  Depressione «anaclitica» è il modo in cui R. Spitz chiamò, nel 1946, i sintomi di un bambino privato della madre dopo aver avuto con lei un rapporto normale per i primi sei mesi di vita. L’attributo è esteso talvolta a quei casi di depressione che intervengono in età adulta, in occasione di separazioni e abbandoni, sullo sfondo di una personalità dipendente.

Nella letteratura psichiatrica francese, la depressione è definita «atipica» quando sintomi depressivi si intrecciano con sintomi di tipo schizofrenico, come bizzarrie e disturbi del corso del pensiero. Gli psichiatri di lingua inglese, invece, chiamano atipiche le depressioni con sintomi vegetativi rovesciati rispetto a quelli consueti: ipersonnia, iperfagia, aumento di peso.

Si parla di depressione «bipolare» per gli episodi depressivi che occorrono nel corso di una malattia maniaco-depressiva, quindi con una storia di crisi maniacali o miste (disturbo bipolare I) o ipomaniacali (disturbo bipolare II).

La depressione «confusa» è un quadro di sintomi complicato da diminuzione della vigilanza, disturbi della memoria e disorientamento nello spazio e nel tempo.

Quello di depressione «endogena» è stato all’origine un concetto eziologico, usato per indicare le forme che insorgono in assenza di eventi scatenanti rintracciabili o di una personalità di tipo depressivo. Si riteneva plausibile attribuirla a cause biologiche intrinseche all’individuo, costituzionali. Oggi l’espressione non si applica più tanto sulla base di ipotesi causali quanto piuttosto per segnalare la presenza di sintomi di tipo melanconico, quindi come sinonimo di melanconia. Nel 1974 lo psichiatra americano D. Klein propose di sostituire i termini endogena ed esogena, riferiti alla depressione, con «endogenomorfa» ed «esogenomorfa », proprio per mettere in chiaro la mancanza di pregiudizi eziopatogenetici.  Torniamo a quei sintomi depressivi ai quali compete ancora l’attributo ippocratico «melanconici ». Ecco un elenco sintetico: rallentamento psicomotorio, anoressia, calo ponderale, ponderale, insonnia della seconda metà della notte, ritmo circadiano marcato con peggioramento dei sintomi al mattino e attenuazione verso sera, anestesia affettiva, anedonia, convinzione di inguaribilità.

Sono stati descritti vari tipi di melanconia.  Melanconia «involutiva» è il nome dato alle forme che esordiscono tardi, in età senile, spesso con un quadro pseudodemenziale che può porre problemi non semplici di diagnosi differenziale.  Nelle melanconie «ansiose» o «agitate » lo stato di agitazione psicomotoria è il sintomo maggiore. Talora la diagnosi è depistata e il rischio di suicidio aumenta. Nella melanconia «stuporosa» il soggetto è immobile, amimico, obnubilato; non mangia e non beve, con i rischi vitali conseguenti. Si parla di melanconia «cronica» quando i sintomi si protraggono per anni, mentre di solito durano da sei a ventiquattro mesi. Deliri e, talora, allucinazioni sono presenti nella melanconia «delirante ». I contenuti più comuni dei deliri melanconici sono temi di colpa, rovina economica, malattia: temi coerenti con l’alterazione depressiva, verso il basso, dell’umore (deliri catatimici). In certi casi, invece, i contenuti del delirio appaiono meno congrui rispetto al tono dell’umore come quando compaiono idee di persecuzione senza temi di colpa. È l’evoluzione nel tempo della patologia, più che l’enunciato del delirio, a fondare la diagnosi di melanconia delirante.

Su tutti i temi di delirio, compresi quelli depressivi dei quali stiamo parlando, la cultura alla quale si appartiene esercita potenti azioni patoplastiche. Nei soggetti depressi provenienti da culture non occidentali, per esempio, i temi di persecuzione sono più frequenti di quelli di colpa. Questo elemento può complicare la diagnosi transculturale di melanconia delirante.

Una rara varietà di delirio melanconico che ha affascinato molti psichiatri e psicoanalisti è quella descritta nel 1882 da J. Cotard con il nome di délire de négation. Il malato affetto da sindrome di Cotard nega l’esistenza dei suoi organi, del suo corpo, degli oggetti, del mondo e, insieme, è abitato da un paradossale sentimento di enormità e di immortalità infelice: sente di occupare l’universo, un universo privo di vita, per un tempo senza fine. Il delirio di negazione si può manifestare in forma acuta o cronica, nel quadro di una psicosi senile.  Quando prevalgono sintomi somatici privi di spiegazioni organiche, per esempio dolori ribelli a qualsiasi antalgico, si usa parlare di «depressione mascherata». Sono stati chiamati «nevrotici» gli stati depressivi legati a organizzazioni conflittuali del soggetto secondo la teoria psicoanalitica.

Anche le espressioni «depressione psicogena», «esogena», «reattiva» partivano da ipotesi eziologiche: l’idea che in in un certo numero di casi fosse preminente il peso di fattori di ordine psicologico, rappresentati da tratti stabili di personalità o da reazioni contingenti a eventi traumatici.

Depressione «psicotica» era ed è usato come sinonimo di melanconia delirante. «Ricorrenti » sono state definite le depressioni che tendono a recidivare. Quando sono stati presenti nella storia clinica episodi maniacali o misti o ipomaniacali si iscrivono nella cornice di un disturbo bipolare e si parla anche, come abbiamo già visto, di depressioni bipolari. In caso contrario si è usata e si usa a volte l’etichetta «depressione unipolare». «Ricorrenti brevi» sono state denominate le crisi depressive rapide che durano pochi giorni e hanno una grande tendenza a recidivare. Le depressioni «stagionali», infine, sono quelle che precipitano regolarmente nello stesso periodo dell’anno, per lo più in autunno-inverno, forse collegate alla diminuzione delle ore di luce. 

Sono numerose le persone che presentano i sintomi di una depressione maggiore, il 2-3% della popolazione generale; e ancora di più quelle che rientrano nelle diagnosi correnti di depressione lieve o moderata (distimia): 10-15%. La prevalenza (numero di casi attivi in un certo momento) è maggiore nelle donne (donne:uomini, circa 2:1) per una incidenza (numero di casi nuovi per anno) effettivamente superiore e non, come a volte si è pensato, per una durata più lunga degli episodi. Molti studi portano a ritenere che la differenza sia legata a fattori sociali piuttosto che genetici e ormonali. Fra l’altro, la fascia d’età in cui è più marcata è quella compresa tra i 20 e i 60 anni, quando i ruoli sociali degli uomini e delle donne sono più chiaramente distinti.  Incidenza e prevalenza sono più elevate nelle classi socioeconomiche povere, fra le persone meno istruite, disoccupate, separate, divorziate, vedove. Si è fatta l’ipotesi di una selezione sociale negativa dei soggetti con tendenze depressive ma le ricerche non hanno potuto dimostrare una mobilità sociale verso il basso. Il profilo genetico ha un certo peso, soprattutto nella depressione maggiore.

Studi epidemiologici su gemelli hanno attribuito ai fattori genetici l’11% della varianza e agli accadimenti recenti il 15%. I fatti della vita, remoti e recenti, contano molto nel predisporre alla depressione o nel precipitare una crisi.  Ma la rete dei modulatori è vasta e intricata e può rendere il peso degli stessi eventi diverso da persona a persona e da momento a momento. 

Il ruolo dei neurotrasmettitori è da qualche decennio fra i maggiori campi di ricerca, anche per le applicazioni di tipo psicofarmacologico.  L’ipotesi aminica è stata certamente suffragata da studi come quelli che hanno trovato bassi livelli di 3-metossi-4-idrossi-fenilglicol (mhpg, metabolita della noradrenalina) nelle urine dei depressi o come quelli che hanno trovato, post mortem, bassi livelli di serotonina (5-HT) e dei suoi metaboliti nei cadaveri di suicidi. Punti oscuri e contraddizioni importanti restano, stimolo e sfida per gli studi neurobiologici.

In alcuni casi, l’insorgenza di sintomi depressivi può essere collegata a cause riconoscibili (depressioni secondarie): endocrinopatie (ipotiroidismo, iperparatiroidismo, malattia di Cushing), traumi craniocerebrali, neoplasie (in particolare del pancreas, del cervello e del polmone), malnutrizione compresa quella da anoressia nervosa (con la mediazione di un deficit di vitamina B12), farmaci e droghe d’abuso (per es. corticosteroidi, metildopa, propanololo, cimetidina, alcol, astinenza da amfetamine), demenza che può esordire con i sintomi di una depressione così come è possibile il contrario (pesudodemenza depressiva), schizofrenia. 

Gli stati depressivi si distribuiscono lungo un gradiente di gravità molto ampio, di cui il trattamento deve tenere conto. Tra i farmaci, nessun antidepressivo è in grado finora di produrre effetti terapeutici prima di 10-14 giorni.  Triciclici e serotoninergici sono le classi più utilizzate, eventualmente in sequenza quando la prima scelta non funziona; si sa ancora poco sui rischi e sui benefici di una loro eventuale associazione. Aggiungere sali di litio può servire in certe depressioni resistenti. Un antipsicotico come il risperidone è utile nel trattamento delle depressioni agitate, anche in quelle dell’età senile, o accompagnate da sintomi psicotici. In generale, le depressioni con sintomi melanconici sono le più sensibili al trattamento farmacologico. L’elettroshock trova ancora un’indicazione riconosciuta in rari casi di depressione grave, resistente ai farmaci, con elevato rischio di suicidio, specie se complicata da un delirio. La prevenzione di ricadute e recidive, molto comuni, impone di continuare i trattamenti farmacologici per almeno sei mesi dopo la remissione dei sintomi.

Una psicoterapia è più efficace dei soli farmaci nel ridurre il rischio di nuovi episodi.

Massimo Cuzzolaro”

Sotto il profilo informativo, la voce si può ritenere abbastanza esauriente. Certo non c’è alcun riferimento al fatto che la sindrome depressiva, che in passato riconosceva una distinzione tra depressioni nevrotiche o psicogene e depressioni psicotiche, è stata arbitrariamente unificata dalla psichiatria per ricondurne la genesi ad una predisposizione genetica e la causalità ad un difetto biochimico. Oggi per depressione in psichiatria s’intende una malattia biologica tout court influenzata dalle circostanze di vita e dall’esperienza soggettiva, che però vengono ritenuti fattori patoplastici che possono cioè mantenerla in latenza o attivarla.

L’articolo poi pur riconoscendo che esistono punti ancora oscuri, dà credito all’ipotesi aminica, che appare invalidata dal periodo di latenza con cui i farmaci agiscono. Se, peraltro, agiscono. E’ ormai riconosciuto, infatti, che una quota piuttosto elevata di depressioni oppongono resistenza ai trattamenti farmacologici e che, anche nei casi in cui la sintomatologia migliora più o meno nettamente, in non pochi casi residua un vissuto – l’anedonia – per cui i soggetti soffrono, anche se conducono un’esistenza apparentemente normale.

 La voce concede alla psichiatria una dignità scientifica che essa non ha, dando per scontato che esista la depressione come malattia in senso proprio, che le sue manifestazioni sintomatiche possano essere descritte e ricondotte entro quadri sindromici come accade per ogni malattia medica, e che l’efficacia delle cure biologiche rappresenti la conferma dell’assunto di base.

Si dirà che un Dizionario di Psichiatria non può prescindere da quello che è l’orientamento prevalente degli specialisti. Ma allora c’è da chiedersi quale significato possa avere l’aggettivo critico con cui l’Opera viene titolata.

Un Dizionario critico di psichiatria, a mio avviso, deve partire dalla demistificazione dell’ideologia psichiatrica, mantenere il riferimento ai dati maturati in seno alla psicopatologia e cercare di ordinarli in uno schema che prescinda dalla nosografia. Ciò non significa negare che esiste la sofferenza mentale né che essa richiede di essere interpretata e spiegata scientificamente. Se non si fa questo lavoro, si rimane inesorabilmente dentro l’ideologia psichiatrica e si reifica la sofferenza identificandola con una malattia in senso proprio.

Le stesse considerazioni possono essere fatte per tutte le voci dedicate ai disturbi psichici.

Non è un paradosso che le voci di psicopatologia (come per esempio ansia) siano in genere più articolate, più sottili, più profonde. La psicopatologia implica l’analisi dei vissuti, dei sintomi e dei comportamenti sotto il profilo fenomenologico e dinamico, affrancato, dunque, dal problema della causalità. Se quello che in esse viene esposte, però, è vero, posto che i sintomi, i vissuti e i comportamenti psicopatologici sono tratti dalle esperienze psichiatriche, risulta evidente che lo schema nosografico è fittizio, se non altro perché esso ritaglia sindromi fittizie, che praticamente non esistono allo stato puro, all’interno di un universo, quello psicopatologico, che appare un continuum.

Questo dato, ormai  riconosciuto anche dagli psichiatri, postula da solo una ristrutturazione paradigmatica dei fenomeni psicopatologici di cui, nel Dizionario critico, non v’è traccia.

5.

Non ci si può aspettare molto da un’opera scritta a più mani e, forse, con un impianto progettuale più espositivo e descrittivo che non critico. E’ evidente che, enfatizzando nell’Introduzione, l’approccio storico-critico alle scienze della Psiche, i curatori intendevano sottolineare lo sforzo di ricostruire la storia dei concetti, delle ipotesi e delle teorie nel corso del tempo, punteggiato qua e là da sfumate valutazioni.

Applicato alla Psichiatria, che è il nodo cruciale nel campo in questione, l’aggettivo critico non può avere altro significato che non sia riconducibile ad un approccio radicale e demistificante. Di questo, nei due volumi praticamente non si trova traccia. Non si tratta di un tributo ad un orientamento eclettico che non rifiuta di riconoscere quel che di vero può esserci stato ed esserci in tutti gli studiosi e le correnti. Si tratta di un appiattimento ideologico, oserei dire di stampo riformista, che muove – presumibilmente – dal presupposto per cui con tutti i suoi orrori (manicomiali) la psichiatria ha svolto comunque una funzione positiva mantenendo viva l’attenzione sui fattori biologici che s’intrecciano con i disturbi mentali.

Considero questo un grave fraintendimento, Nessuno tra gli antipsichiatri più radicali ha mai negato che, nelle esperienze psicopatologiche, fossero in gioco anche squilibri funzionali dell’apparato cerebrale. Da questo punto di vista, il problema sta nel valutare adeguatamente tali fenomeni disfunzionali e integrarli in una teoria psicosomatica della malattia mentale.

Nel momento in cui, invece, la psichiatria afferma che tutte le malattie mentali sono tout-court malattie del cervello, che si attivano ed evolvono con il concorso dei fattori ambientali e comportano anche una partecipazione patoplastica del soggetto, ma la cui causa primaria sta in una predisposizione genetica morbosa, essa sostiene semplicemente il falso.

Ciò che è falso va dimostrato essere tale e denunciato.

Forse ci sono pochi ambiti della realtà sociale e del campo della cultura rispetto ai quali il radicalismo critico possa svolgere una funzione positiva. Uno di questi è di sicuro legato alla teoria e alla pratica psichiatrica corrente.

Detto fuor dei denti: un Dizionario veramente critico di psichiatria, psicologia e neurobiologia deve ancora vedere la luce.