Eugenio Borgna

Come se finisse il mondo. Il senso dell’esperienza schizofrenica

Feltrinelli, Milano, 1995 (ristampa 2002)

1.

Eugenio Borgna appartiene alla corrente psichiatrica della fenomenologia esistenziale, che riconosce le sue matrici nella filosofia di E. Husserl, M. Scheler, N. Hartmann, M. Heidegger e M. Merlau-Ponty, e i suoi rappresentanti in ambito psicopatologico in K. Jaspers, E. Minkowsky e L. Binswanger. Per un’analisi storico-critica di tale corrente, rinvio alla sezione della storia della psichiatria.

Qui basterà dire che la psichiatria fenomenologia si contrappone radicalmente per un verso alla psichiatria organicistica e, per un altro, alla psichiatria dinamica di matrice psicoanalitica. Il motivo univoco di questa contrapposizione sta, sostanzialmente, nella negazione della possibilità di spiegare scientificamente i fenomeni psicopatologici sulla base di una causalità biologica e/o psicologica.

Alla spiegazione, la psichiatria fenomenologia sostituisce la comprensione dell’esperienza soggettiva come uno dei possibili modi di essere significativi offerti all’uomo gettato nel mondo e costretto a fare i conti con le strutture trascendentali dell’esistenza (l’esistere in un tempo e in uno spazio vissuti, l’essere con gli altri, la progettualità, ecc.). In virtù di questo assunto, la psichiatria fenomenologia elimina la rigida scissione tra normalità e malattia mentale, che sono solo diversi modi di essere, più incline il primo ad attestarsi su soluzioni abitudinarie e socialmente condivise, più esposto l’altro ad una pericolosa esplorazione di territori inquietanti della mente.

Devo confessare anticipatamente che, nonostante lunghe letture dedicate a Jaspers, a Minkowsky e a Biswanger, non ho mai subito il fascino della psichiatria fenomenologico-esistenziale, se non nell’uso singolare che di essa ha fatto R. D. Laing ibridandola con la psicanalisi e la teoria sistemica e relazionale. Devo dare ragione anticipatamente di questo atteggiamento critico.

L’assunzione di ogni esperienza soggettiva come espressione di un modo d’essere significativo mi è sembrata sempre fondamentale per un approccio alla psicopatologia affrancato da ipoteche nosografiche. Non ho mai, pertanto, considerato un caso che i rappresentanti più noti dell’antipsichiatria – Laing e Basaglia – avessero una formazione fenomenologia. Cionondimeno, il rifiuto della psichiatria fenomenologia di prendere in considerazione la possibilità di giungere a spiegare scientificamente i fenomeni psicopatologici, prescindendo da una genesi biologica, e anzi cooptando il bios in un’ottica psicodinamica, mi è sempre sembrata un’opzione ideologica.

Positiva nel promuovere la restituzione ai pazienti psichiatrici di una dignità negata dall’essere assunti come portatori di una malattia, tale opzione, nella sua versione originaria, consegna la comprensione della psicopatologia a “specialisti” versati nel porre in gioco il loro modo di essere per aprirsi al rapporto con altri modi di essere lontani dall’esperienza comune, incomprensibili per i pazienti stessi e per la coscienza sociale. In un’ottica fenomenologica, il ruolo dello psichiatria è quello di un soggetto che, affrancandosi dai codici normativi, entra in rapporto con i pazienti per fornire ad essi, perduti in un loro mondo, una presenza capace di arginare le angosce e di ristabilire un rapporto comunicativo: di reintegrare, in breve, la loro capacità di una relazione comunicativa autentica, attentata dalle incrinature intervenute nelle loro strutture trascendentali.

Il rifiuto di qualsivoglia spiegazione scientifica dei fenomeni psicopatologici (sia pure fornita in termini adeguati all’oggetto particolare), mette tra parentesi il problema, ritenuto enigmatico, della causalità. Questa messa tra parentesi, impedendo l’elaborazione di una teoria coerente atta ad integrare i fattori biologici, psicologi e socioculturali, comporta una sorta di agnosticismo che non esclude la partecipazione di alcuno di essi alla genesi del disagio psichico. La psichiatria fenomenologica è avversa a qualunque forma di riduzionismo psichiatrico – il biologismo, lo psicologismo, il sociologismo -, ma è anche incapace o indifferente riguardo alla necessità di dare un peso ai diversi fattori che integrano l’esperienza umana. Il modo di essere, l’apertura al mondo, la progettualità li trascende e li rende quasi insignificanti. Essa, insomma, ha un’indubbia vocazione umanitaristica, che, a livello di pratica terapeutica ha un grande significato, imponendo la sospensione di ogni pregiudizio nei confronti del malato di mente. Il suo limite sta però nel non poter fornire altra risposta che non sia l’incontro intersoggettivo tra diversi mondi di esperienza vissuti.

In difetto di una risposta esplicativa, il mondo della psicopatologia si configura come un mondo tragico, che aggetta sugli abissi della mente e dell’esistenza stessa, la cui cifra è il dolore e l’oscurità. Se questo è vero per tutti i fenomeni psicopatologici, lo è a maggior ragione per quelli che, ricondotti nell’ambito della schizofrenia, appaiono come i più misteriosi. Scrive Borgna: “Le tenebre conoscitive scendono implacabili e radicali, su quelle che sono le esperienze psicotiche: le esperienze schizofreniche in particolare, ma anche le esperienze depressive (endogene) e quelle maniacali.” (p. 18)

2.

Le tenebre conoscitive che, come vedremo, non sono costitutive dell’oggetto, ma del rifiuto di ritenerlo conoscibile, vale a dire esplicabile, rendono del tutto impropri, nell’ottica fenomenologia, gli approcci alla cui critica è dedicato il primo capitolo: l’encefalo-iatria, che fa riferimento a disfunzioni cerebrali, e la socio-iatria, che assume le circostanze ambientali come causa del disagio psichico. A tali approcci, Borgna oppone la rivoluzione copernicana della fenomenologia:

“La psichiatria si fonda e si realizza solo nella misura in cui si confronti con la realtà umana e sociale dell’esperienza psicotica fuori da ogni retroterra ideologico e si trasformi in struttura dialettica di dialogo e di incontro psicoterapeutico. Mettendo-fra-parentesi (epochizzando in senso husserliano) il problema della natura delle esperienze psicotiche (che cosa esse siano nelle loro fondazioni causali), che solo una forzatura ideologica dei fatti può permettere di spiegare, e attenendoci invece a un’analisi fenomenologia indirizzata a cogliere senza pregiudizi le “cose stesse” nella loro evidenza e nella loro immediatezza, la realtà psicotica della schizofrenia (le sue dimensioni umane complesse e contraddittorie) si coglie al di là di ogni sua riduzione naturalistica. A questa dimensione profonda e radicale dell’esperienza psicotica (di quella schizofrenica in particolare) non si giunge se non mediante la rivoluzione copernicana del pensiero conoscitivo che la fenomenologia ha portato nel cuore delle scienze umane.” (p. 25)

Il cuore di tale rivoluzione è il seguente:

“Nella tesi che le “malattie” in psichiatria siano modi dell’umano dotate di senso, è immanente la contestazione (il rifiuto) di ogni forma di cosificazione e di “violenza” che abbia a devastare, nel segno di una normalità astratta e aproblematica, la sensibilità e la fragilità infinita di chi sia risucchiato nell’abisso-senza-fondo di un’esperienza psicotica.” (p. 26)

La condivisione ovvia di quel rifiuto, lascia nondimeno aperta la questione se l’abisso-senza-fondo in questione sia un dato intrinseco all’esperienza psicotica, o non sia piuttosto la conseguenza di un presupposto, ahimé, ideologico in virtù del quale la fenomenologia scambia l’apparenza per l’essenza, vale a dire la tragicità dell’esperienza schizofrenica come sua essenza piuttosto che come conseguenza del modo in cui il soggetto recepisce e significa sconvolgimenti del suo mondo interiore (inconscio) che, nelle loro matrici, sono psicodinamicamente comprensibili.

A questo riguardo, mi viene da citare una metafora della quale ho abusato nei miei saggi, ma che continua ad apparirmi densa di significati: quella del terremoto, che, in Star Male di Testa, è riportata nei seguenti termini:

“Come la mente, anche la Terra riconosce una superficie apparentemente solida e rassicurante, al di sotto della quale si danno processi dinamici costantemente impegnati a cercare un equilibrio. In alcuni punti si danno delle faglie sismiche, vale a dire degli strati geologici instabili che, un giorno o l'altro, necessariamente si mettono a scorrere alla ricerca di una migliore sistemazione. Quando questo accade, gli effetti in superficie sono più o meno devastanti. I primitivi, che erano preda delle apparenze, consideravano i terremoti come dovuti agli spiriti maligni o alla rabbia degli dei. Anche oggi i terremotati s'incazzano a morte con la Terra che distrugge le casa e manda al creatore alcuni parenti, e, casomai, partecipano alla celebrazione della messa (non si sa mai). Nessun geologo però ritiene che i terremoti rappresentino una malattia. Gli effetti in superficie, vissuti soggettivamente, non corrispondono insomma a quello che è il significato naturale del fenomeno. Per i conflitti psicodinamici vale lo stesso discorso. La loro attivazione e la loro evoluzione può produrre a livello cosciente uno sconvolgimento terribile, ma ciò non è dovuto alla loro "malignità" bensì agli strumenti di cui la coscienza dispone per interpretarne gli effetti, vale a dire i sintomi.”

Se si omologano ad un sisma gli sconvolgimenti che sopravvengono nelle crisi acute psicotiche e nel corso delle recidive schizofreniche, riesce immediatamente evidente che il loro significato va ricondotto ai processi dinamici sottostanti che, essendo solitamente rimossi dalla coscienza, si manifestano attraverso segni che attestano semplicemente le loro potenzialità destrutturanti nell’immediato e, in prospettiva, ristrutturanti. La ristrutturazione dipende però dal mettere il soggetto in condizione di capire quello che è veramente accaduto interpretando e elaborando i suo vissuti, che non sono l’espressione di un modo di essere altro, che aggetta sugli abissi della mente e si riconduce alle strutture trascendentali dell’esistenza, ma, molto più banalmente, di interpretazioni errate che il soggetto fornisce di emergenze inconsce significative.

La destrutturazione psicotica riguarda lo statuto della coscienza: per capirla, occorre partire dal fatto che tale statuto è di norma alienato, vale a dire sempre illusorio. Borgna è preciso nel definire la coscienza dell’io, compromessa dalla destrutturazione psicotica:

“C’è in noi l’esperienza immediata e incontestabile di esistere (siamo e ci sentiamo, viventi al di là di ogni dubbio, di essere separati e distinti gli uni dagli altri (non ci confondiamo e non ci identifichiamo, con le persone e le cose che sono fuori di noi), di essere liberi e autonomi nell’articolazione degli atti psichici (i pensieri, i sentimenti, le immaginazioni, gli atti di volontà, che nascono in noi, appartengono a noi: non sono di altri), di essere gli stessi nel fluire del tempo (ciascuno di noi cambia, nel corso della vita, ma non cambia la coscienza di una continuità storica che ci fa essere, e ci fa sentire, la stessa persona che si era nelle diverse età della vita) e, infine, di non essere scissi e divisi, di non essere “s-doppiati” nell’unità del nostro (del mio) io.” (p. 102)

Egli però non prende in esame che la coscienza dell’io può corrispondere ad un processo più o meno rilevante di falsificazione sistematica rispetto alla nostra realtà interiore. A non volere considerare i singoli aspetti, basta considerare che, data la doppia natura dell’uomo – essere radicalmente sociale e bisognoso di appartenere ad un gruppo dotato di una sua identità culturale, di sue tradizioni e di suoi valori, e, nello stesso tempo, consapevole della sua identità individuale, dei suoi bisogni e dei suoi diritti -, data insomma la polarità socio-centrica e quella ego-centrica che caratterizzano ogni esperienza soggettiva e, a livello inconscio, si riconducono a logiche profondamente diverse, un certo grado di scissione e di sdoppiamento è costitutivo di ogni personalità.

Secondo Borgna, “quando precipitiamo nel gorgo della metamorfosi psicotica dell’esistenza, la coscienza dell’io (la nostra improblematica e ovvia modalità di vivere nel mondo) si trasforma radicalmente nelle sue dimensioni costitutive (nelle sue articolazioni), anche se in misura diversa in ciascuna di esse.” (p. 103)

Perché non pensare che quella metamorfosi significa semplicemente che una determinata coscienza, nella misura in cui è falsificata rispetto alla struttura conflittuale degli assetti interiori, giunge ad un punto psicodinamico di catastrofe tale per cui si danno solo due possibilità: la destrutturazione psicotica, come effetto del terremoto inconscio, e, in prospettiva, la ristrutturazione della coscienza dell’io su di un registro più consapevole e integrato o, meglio ancora, più dialettico nella sua capacità di mediare istanze sociocentriche e istanze egocentriche? Certo, per pensare questo occorre accettare che, nella schizofrenia, non sono in gioco le strutture trascendentali dell’esistenza, quanto piuttosto la struttura conflittuale tra quelle istanze quando esse, in conseguenza dell’interazione con l’ambiente e la storia interiore del soggetto, si scindono opponendosi irriducibilmente e, in difetto di una mediazione dell’io, che non ne ha alcuna consapevolezza, autoalimentandosi vicendevolmente.

3.

Con ciò, giungiamo ad un altro punto critico dell’epistemologia psichiatrica. Se si ricostruisce la storia interiore di un soggetto schizofrenico, quella realmente vissuta e memorizzata a livello inconscio, e se, in conseguenza di tale ricostruzione, si mette a fuoco la scissione intervenuta tra polarità sociocentrica e polarità egocentrica, si giunge a disporre di una chiave che permette di interpretare tutti i sintomi, i vissuti e i comportamenti psicopatologici, posto che le interpretazioni tengano conto dei messaggi che l’inconscio lancia per segnalare l’instabilità del conflitto psicodinamico (non più contenibile dalla coscienza dell’io nella misura in cui essa è mistificata), del modo emozionale, cognitivo e culturale con il soggetto si rapporta ad essi, decodificandoli e significandoli, e della ipercodifica degli stessi che interviene laddove il soggetto non è aiutato a capirne il reale significato (che è potenzialmente ristrutturativo o implica comunque la necessità di una ristrutturazione).

Ora la fenomenologia, affascinata dalle apparenze e impegnata a ricondurla alle essenze dell’esistenza, non tiene in alcun conto la storia interiore dei soggetti, che s’intreccia, senza identificarsi, con quella personale, sociale e culturale. Non sorprende pertanto che le esperienze riferite da Borgna siano praticamente quasi mute a riguardo. In conseguenza di questo, esse sembrano precipitare nel gorgo della psicosi più o meno repentinamente senza alcun motivo apparente.

Le storie riportate nel libro sono tutte restituite sulla base di ciò che i soggetti sperimentano a partire dall’insorgenza della psicosi. Sono dunque storie “cliniche” nel senso letterale della parola, prive di spessore biografico Claudia, che sta facendo il liceo con buoni risultati, ammala repentinamente e inaspettatamente a diciotto anni; Michele, medico ospedaliero, trentacinque anni con una sintomatologia delirante; Silvia, che ha ventott’anni ed è sposata da sei anni, sviluppa fulmineamente, “(al di là di ogni motivazione)”, una catatonia; (p.83), una catatonia; Alessandra, che ha trent’anni e ha frequentato una scuola media superiore, manifesta per qualche anno una sintomatologia apparentemente depressiva, che in realtà è dissociativa; Raffaele, sensibile, creativo (ha imparato a suonare il pianoforte, il violino e la chitarra) e incline periodicamente a lasciare la casa dove vive con i genitori, a ventitre anni è colto da impulsi aggressivi che attribuisce all’influenza di volontà a lui estranee; Margherita, orfana di padre a cinque anni e vissuta con una madre ansiosa, diplomata, sposata e impiegata, a ventisette anni sviluppa un delirio persecutorio associato alla tentazione del suicidio.

Senza il retroterra biografico, l’emergenza dei vissuti psicotici sembra veramente configurare una metamorfosi radicale, una sorta di cambiamento gestaltico del modo di essere, che porta il soggetto sul terreno inquietante e enigmatico dell’alienità. E’ questo terreno che interessa la psichiatria fenomenologia e, dunque, anche Borgna perché esso consente, in virtù di una trasformazione radicale dei significati, di approdare eideticamente alla struttura trascendentale dell’esistenza che, nella psicosi, si perde “nella vertigine dell’estraneità e della dissociazione, dell’angoscia e della tristezza rovente” (p. 213):

“ Quando si giunga a sorpassare le strutture rigidamente cliniche della psichiatria…, e ci si confronti con l’esperienza psicotica (quella schizofrenica in particolare) nella sua radicale dimensione fenomenologia e antropologica, non si può non essere sconvolti e affascinati (insieme) da cose che la raison geometrica e astratta non riesce nemmeno a intravedere: dalla metamorfosi del tempo e dello spazio, dalla nostalgia di infinito e di comunicazione, dal volare radente della déraison che scava negli abissi vertiginosi e bianchi, dal divampare di una sensibilità e di una fragilità tumultuose e frenetiche, dai ghirigori ghiacciati (dalle linee spezzate e zigzaganti) delle emozioni e del pensiero, dalla regione inquieta e senza fondo della sofferenza e della stupefazione, dai volti angosciati e tumefatti che si perdono in lontananze irraggiungibili.” (p. 40) Nell’ottica fenomenologia, non si è molto lontani, insomma, da una mistica della follia. Se questo orientamento comporta nella pratica un rispetto profondo e commosso dello schizofrenico, che diventa, suo malgrado, una sorta di esploratore di un altro mondo mentale rispetto a quello quotidiano, esso però, nonostante una metodologia dichiarata come copernicana, non è molto fedele a ciò che i vissuti psicotici suggeriscono. Il vissuto più costante, sia esso espresso verbalmente, mimicamente, gestualmente o sul piano del comportamento globale, è l’angoscia catastrofica, che Borgna riconduce al tema esistenziale-letterario della fine del mondo (da qui il sottotitolo). In tale angoscia, egli coglie “il vento gelido della déraison che, nella sua implacabilità, è come una finestra spalancata sull’insondabile mistero della vita e della morte, della libertà e dell’illibertà, della speranza e dell’angoscia.” (p. 54)

Ma si tratta proprio di un vento gelido che spira dalla profondità dell’esistenza o non piuttosto di un flusso di messaggi inconsci che attestano l’attività di un nucleo conflittuale che il soggetto non riesce a decifrare? Entriamo nei particolari, utilizzando i vissuti che Borgna ha scrupolosamente registrato.

Claudia: “Come sono cambiata in questi anni: quando ero più giovane, facevo tanti sport: sciavo, nuotavo, andavo a cavallo, giocavo a palla a volo; ero brava a scuola ed ero entrata al conservatorio per lo studio del pianoforte e del violoncello. Ho rimorso per il fallimento della mia vita: nono ho finito gli studi, ho interrotto tutte le belle attività che facevo… Per anni ho tenuto una facciata ma dietro sapesse cosa c’era… Tutto un mondo fuori e un altro mondo dentro. Ho sempre dei problemi con mia madre: non capisce quanto le voglia bene. Ma devo separarmi da lei: voglio avere una vita mia. Dite a mia madre che le voglio bene e che non posso stare senza lei.” (pp. 49-51)

Michele: “Mi vogliono uccidere: mi vogliono far fuori. Sono tutti coalizzati contro di me: sia nell’ambiente di lavoro sia nella mia famiglia… Sono vivo per miracolo: è da molto tempo che mi fanno una guerra terribile… Quando ho voluto diventare più autonomo da mio padre, sono nate tutte le lotte che sono venute fuori. Mio padre non può vedermi. Ho dovuto interrompere il mio fidanzamento con una ragazza a cui volevo bene, perché mio padre non voleva. Mio padre ha cercato di farmi del male; questa persona terribile che è mio padre. Anche se è stato lui che mi ha fatto studiare.” (pp. 70-71)

Silvia, bloccata dalla catatonia, esprime solo parole spezzate e frammentate che “rimandano ai temi iniziali: alla morte che sta per giungere e alla fine imminente e incombente: sono gli altri che non consentono a Silvia di vivere e che vogliono la sua morte; ma poi è lei stessa a chiedere di essere condotta a morte e a dire di desiderarlo.” (p. 84)

Alessandra: “Sono indifferente a tutto. Ho la mente divisa in mille pezzi che cerco di rimettere insieme. Anche se la mamma è là fuori, questo non cambia niente per me: l’ho già uccisa dentro di me. Sono un’assassina: per me non può più cambiare nulla… Sento un impulso pazzesco a uccidermi e ad uccidere… Avevo paura che i miei genitori morissero e, per combattere questo pensiero, li ho uccisi per vedere se avessi potuto sopravvivere in un’isola deserta… Non mi sento più degna di vivere. Mi taglierei con un’accetta le mani e i piedi… Non so più niente, non so perché voglio uccidermi, è un’idea che ho sempre avuto. Non posso guarire: devo espiare.” (pp. 98-99)

Raffaele: “Sarà perché da quando ero bambino, mi sono sempre rinchiuso nel mio mondo?.. Il mio mondo è un mondo triste, un mondo solitario, senza relazioni, senza comunicazione: non c’è nessuno che divida con me i miei pensieri e le mie meditazioni. Vorrei essere in un mondo di relazioni. Sono distante dalle cose, da tutte le cose. E a volte è un bene perché non penso a quello che vorrei essere e a quello che vorrei avere: un lavoro in regola, la famiglia, dei figli, degli amici sinceri. La gente mi sembra falsa, vuota, lavora come un robot, ma senza uno scopo, un fine. Passeggiando per le strade del mio paese sento, a volte, la malignità, la stupidità della gente, la sua incapacità a entrare in profondo. (p. 121-122)

Margherita: “Tutti mi sono contro. Non capisco perché tanto odio contro di me… Ieri, alcune persone sono venute a chiedere un catino: era per raccogliere il mio sangue. Mi strapperanno gli occhi, mi taglieranno le gambe per simulare un incidente… Sono torturata dalle voci: ma forse è la voce di Dio, ed è per questi che obbedisco, anche se a volte non mi sembra la voce di Dio perché mi ordina cose strane… Se tutto ciò che io vivo è una malattia, so dopo tanti anni che è inguaribile; se non è una malattia, significa che tutti mi vogliono male e mi sono contro, ed è altrettanto impossibile pensare di continuare così. Nell’un caso e nell’altro, è meglio farla finita.” (pp. 133-134)

E’ assolutamente evidente che le tematiche comuni a questi vissuti sono il conflitto interpersonale, talora riferito alla famiglia, talaltra al mondo nella sua totalità, associato ad un senso di colpa più o meno grave, che comporta l’aspettativa di essere esclusi dal contesto sociale o di escludersi da esso attraverso l’isolamento o la morte volontaria. La fine del mondo, implicita in tutte le esperienze psicotiche, è da ricondursi univocamente a tale aspettativa, che ha poco a che vedere con le strutture trascendentali dell’esistenza, e molto più semplicemente fa riferimento al peso che la socialità, la relazione tra io e Altro, reale e immaginaria, esercita negli strati profondi della mente umana.

Ho scritto in Miseria della neopsichiatria:

“Per quanto sia ricca di vissuti complessi, articolati, talora organizzati sotto forma di sistema di pensiero, talaltra caotici e indecifrabili, la psicopatologia schizofrenica appare a ben vedere riconducibile ad un tema univoco, che si ripete all'infinito nelle diverse esperienze, e appare come il nucleo psicodinamico del delirio: l'essere l'io in guerra con un mondo sociale (rappresentato interiormente secondo modalità antropomorfiche o simboliche) che lo sovrasta, e l'essere egli, quali che siano le difese che adotta, destinato a soccombere.

Un'esperienza schizofrenica è, infatti, caratterizzata da una perdita di contatto col mondo reale e dalla produzione soggettiva - espressa dalle allucinazioni, dalle interpretazioni deliranti, dai vissuti emozionali e dai comportamenti che ad essi fanno seguito - di un mondo dereistico che finisce con l'assorbirla. Per quanto dereistico, però, il delirio ha una connotazione affatto particolare: esso implica sempre e comunque una relazione con persone o anche con agenti impersonali ma antropomorfici (Dio, spiriti, extraterrestri, ecc.) che si rapportano al soggetto per inviargli dei messaggi, influenzarlo, guidarlo, manipolarlo, invaderlo, rubargli i più intimi pensieri, accusarlo, minacciarlo, torturarlo, punirlo. L'influenzamento, il riferimento e la persecuzione sembrano esaurire le caratteristiche di questo singolare ‘rapporto’ sociale.

In conseguenza del delirio, il soggetto è inesorabilmente in comunicazione con qualcuno, è in una relazione sociale necessaria, irresolubile da parte sua, per quanto sul registro dereistico. L'estensione sociale del delirio è varia potendo essa coinvolgere una sola persona, più persone, tutto il mondo o anche agenti extramondani. E' difficile minimizzare questo dato. La perdita di contatto con il mondo reale, con le persone in carne ed ossa, che può giungere in alcuni casi ad una totale chiusura autistica, al venire meno d'ogni comunicazione interpersonale, è compensata da una socializzazione forzata in conseguenza della quale il soggetto si ritrova esposto senza difese a relazioni invasive, più o meno turbanti, angosciose e minacciose, che egli non può troncare.

Il delirio schizofrenico è dunque sempre, nel suo nucleo più profondo e quali che ne siano le manifestazioni, una particolare esperienza sociale, che mette in gioco ovviamente il sociale interiorizzato . La relazione in questione nel delirio schizofrenico è di solito una relazione negativa, che sembra attestare, da parte delle persone che si rapportano al soggetto, un atteggiamento ostile che va dall'accusa alla presa in giro, dall'influenzamento alla manipolazione, dal controllo alla presa totale di possesso del suo corpo e della sua mente. Ciò permette di comprendere lo stato d'animo del soggetto che spazia, di volta in volta, dal fastidio all’intolleranza e alla rabbia cieca e vendicativa. Ma questo stato d'animo non è privo d'ambivalenza.

Accade infatti, con una frequenza che i manuali ignorano, che il soggetto delirante, tra i vari tentativi che fa per dare senso a ciò che gli accade, imbocchi anche uno strano canale interpretativo che lo induce a pensare che l'intenzione di coloro che lo perseguitano non è necessariamente negativa: potrebbero per esempio guidarlo, proteggerlo o al limite fargli compagnia; potrebbero tormentarlo al fine di renderlo degno di raggiungere un obbiettivo esaltante (l'onnipotenza sociale e spirituale). L'ambivalenza del soggetto delirante nei confronti dei persecutori è densa di significati. Attesta infatti che anche coscientemente, nella mente umana, il sociale rimane un orizzonte non trascendibile. Per quanto, attraverso la mediazione della storia interiore, il rapporto col sociale possa risultare doloroso, nessuno può ma - cosa più importante - nessuno vuole, consciamente o inconsciamente, liberarsi di esso.

Una relazione immaginaria con esseri umani o antropomorfici che viola, in forme diverse, i diritti dell'individuo alla privacy psicologica, che lo espone senza scampo a messaggi, influenze, minacce; una relazione negativa e al tempo stesso ambivalente; una relazione infine necessaria poiché è imposta dalla volontà altrui e contro la quale il soggetto, in conseguenza della sua impotenza, non ha difese adeguate: questo è il nucleo proprio e specifico d'ogni delirio schizofrenico. E' sorprendente che la letteratura specialistica che, confrontandosi con la schizofrenia cade spesso nella trappola delle apparenze, pervenendo a giudicarla come una condizione esistenziale abissalmente oscura e indecifrabile, non abbia quasi mai colto questo aspetto strutturale, peraltro evidente.

Il delirio è la produzione immaginaria di un mondo sociale regolato da strane leggi in virtù delle quali un soggetto, privato della sua intimità, diventa trasparente e preda degli altri, potendo essere di conseguenza controllato, influenzato, guidato, manipolato come un burattino o impunemente minacciato. Estrapolando questo dato, il più significativo e costante in assoluto, dall'insieme dei dati psicopatologici, si può affermare che il delirio schizofrenico è immediatamente, a livello di esperienza soggettiva, la prova del primato del sociale sull'individuale. E, trattandosi di una produzione immaginaria, del primato del sociale interiorizzato, di una parte della mente che rappresenta la società e che, all'interno della soggettività, laddove si dà un conflitto tra l'individuo e il mondo, svolge la funzione di un cavallo di Troia, che finisce comunque con il riabilitare il controllo sociale.”

Penso che il conflitto intrinseco alle esperienze psicopatologiche, e a quelle schizofreniche in particolare, possa essere compreso e spiegato solo ricostruendo, a livello di vita interiore, la scissione del patrimonio di bisogni (di appartenenza/integrazione sociale e di opposizione/individuazione), la cui conseguenza è la contrapposizione irriducibile tra le due logiche che sottendono la coscienza dell’io: quella sistemica, per cui l’io non è altro che membro di un gruppo nei cui confronti ha dei doveri, e quella antitetica, per cui l’io è un ente distinto da tutti gli altri, dotato di suoi diritti e di una volontà propria che si può esprimere anche sul piano del dissenso rispetto a quella altrui. A questo livello esplicativo la psichiatria fenomenologia non può giungere in nome stesso dei suoi presupposti teorici e metodologici.

Borgna fa continuo riferimento alla necessità di un intervento psicoterapeutico, associato alla farmacoterapia, nelle esperienze schizofreniche. Egli però non fornisce alcuna interpretazione dei vissuti psicopatologici. La psicoterapia fenomenologia-esistenziale si limita a fornire al paziente una disponibilità all’ascolto che rimedia al suo isolamento e gli consente di sentire che il senso tragico della sua esperienza è intersoggettivamente condiviso. Nessuno può dubitare che questo aiuto sia essenziale. Il problema è che esso non basta. Il dramma della psicosi non ha rapporto con gli abissi della mente, ma con gli assetti profondi della personalità laddove il conflitto strutturale, una volta originatosi, può scorrere come un fiume sotterraneo ingrossandosi finché non erompe in superficie devastando il falso io che lo ha tenuto sino allora sotto controllo.

4.

Affascinata dalla complessità delle esperienze schizofreniche, che sembrano aggettare nei territori che la fenomenologia filosofica ha identificato come le strutture trascendentali dell’esistenza, la psichiatria fenomenologia sembra paradossalmente non tenere conto della teoria dei sistemi complessi, uno dei quali è per l’appunto l’apparato mentale umano considerato nel suo duplice aspetto biologico e psicologico. Uno degli assiomi di tale teoria verte sul fatto che, dato un sistema complesso in equilibrio, una variazione minima dei fattori che lo sottendono può provocare effetti catastrofici di destrutturazione e ristrutturazione del sistema stesso. E’ quanto accade nelle esperienze schizofreniche.

Insomma, la complessità filosofica della mente umana è una cosa, la complessità psicodinamica un’altra. La prima, che coincide con una varietà infinita di pensieri, emozioni, motivazioni, fantasie, consci e inconsci, è di fatto inspiegabile anche solo a livello di una singola esperienza soggettiva. La seconda, viceversa, è spiegabile sulla base di una matrice conflittuale praticamente costante le cui potenzialità di espressione fenomenica, che passano anche attraverso la ricchezza dell’inconscio e della coscienza individuale, sono praticamente indefinite.

Espresso il mio disaccordo sulle “tenebre conoscitive” che connoterebbero le esperienze schizofreniche come comprensibili fenomenologicamente, ma non spiegabili scientificamente, devo aggiungere che il libro di Borgna, se si mettono tra parentesi i presupposti ideologici su cui si basa, è ricchissimo di intuizioni e di spunti su cui riflettere. Affrancata dal letto di Procuste della nosografia, la psicopatologia implica una tensione conoscitiva che, se viene praticata per anni nel contatto con i pazienti, non può non esitare in un progresso della conoscenza. Faccio qualche esempio. La negazione della schizofrenia come malattia in senso proprio si realizza anche “negando l’esistenza di “sintomi” e riconvertendo questa denominazione in quella di “segni”… segni di una realtà umana dilemmatica e lacerata dalle antinomie ma consegnata al senso: non alla insignificanza degli eventi naturali.” (p.28)

A differenza dei sintomi medici, che all’origine sono solo indizi di una disfunzione organica e diventano segni solo perché il paziente e il medico li decodificano, i sintomi psicopatologici sono segni all’origine, vale a dire sono messaggi che l’inconscio invia alla coscienza per segnalare una situazione problematica interiore che pone a rischio la stabilità della struttura della personalità ed è incompatibile con la coscienza dell’io, nella misura in cui questa si è edificata rimuovendo quella problematica. Ma se questo è vero, perché pensare che i segni psicopatologici possano essere recepiti solo nell’ottica fenomenologia della comprensione del modo di essere che essi determinano e non decodificati come un linguaggio che, interpretato, porta al cuore del problema?

Assumendo i sintomi come segni, sia l’esordio che l’evoluzione delle esperienze schizofreniche assumono un significato diverso rispetto a quello assegnato dalla nosografia. L’esordio è spesso preceduto dallo “stato d’animo delirante”, la Wahnstimmung, cui Borgna dedica pagine penetranti. Egli scrive:

“In questa condizione climatica, che non è ancora delirio, ma che prepara il delirio, ogni comunicazione con il mondo diventa incerta e problematica: nascono in essa articolazioni cosali e interpersonali immerse in un orizzonte di significatività indeterminata e indefinita; e si ha in esse il presentimento di un senso (delirante) che non è possibile afferrare e tematizzare.” (p. 63)

Lo stato d’animo delirante, di fatto, corrisponde all’attivazione del conflitto giunto ad un livello critico tale per cui la rete di significati adottata dall’io cosciente viene messa in crisi perché essa non è adeguata a contenere i messaggi che provengono dall’inconscio. Esso è riconducibile, né più né meno, ad uno stato di anomia per cui i significati acquisiti perdono valore prima di essere sostituiti dai nuovi. In tale stato, l’io cosciente ha l’intuizione che tutta la realtà è aperta al gioco della significazione, ma non riesce a cogliere che significati vaghi e inquietanti. In realtà, l’attivazione del conflitto prepara l’avvento di significati già determinati a livello in coscio, e si tratta di significati che attestano univocamente la scissione tra la logica sistemica e quella antitetica. Si tratta in ultima analisi di significati che attestano un problematico rapporto tra io e Altro. Nella misura in cui il soggetto non può decodificarli in questi termini, è inevitabile che si realizzi infine un delirio, che traduce il problema in termini univoci di minacciosità del sociale e/o di pericolosità del soggetto.

Sia lo stato d’animo delirante che l’emergenza del delirio sono circostanze critiche, quindi acute anche se la strutturazione del delirio può avvenire in forma strisciante. Se questo è vero, e lo è tanto più da un punto di vista psicodinamico che considera i segni psicopatologici come espressione di uno stato di attivazione del conflitto, il concetto di inguaribilità della schizofrenia va riformulato. Essa infatti va considerata “come un’esperienza psicotica acuta che solo a causa di influenze ambientali, sociali e istituzionali) si sottrae alla sua evoluzione originariamente episodica e contingente, facendosi (artificialmente)esperienza psicotica cronica. La cronicità viene (così) interpretata come sovrastruttura inessenziale e artefattuale, imposta dall’esterno e dall’ambiente. Le cose cambiano radicalmente nelle loro premesse teoriche e nelle loro consefìguenze pratiche: la schizofrenia è identificata con la schizofrenia acuta e questa, solo se deformata dalle condizioni ambientali e sociali, si tra forma in schizofrenia cronica.” (p. 76)

In Miseria della psichiatria e in altri articoli, io sono stato più radicale.

“Per quanto concerne l'evoluzione determinata dagli psicofarmaci, il discorso, allo stato attuale dei fatti, è complesso. L'utilità sintomatica dei neurolettici nel diaframmare la coscienza dalle irruzioni inconsce è fuori di dubbio, e si fonda, con ogni probabilità, sulla capacità di inibire i circuiti interneuronali che consentono tali irruzioni. Si tratta per l'appunto di un effetto sintomatico che non può incidere sulla matrice strutturale conflittuale se non evitando che i flussi di pensiero e di emozioni da essa prodotti, caratteristicamente scissi e ambivalenti, ingombrino, restringendolo, il campo della coscienza. L' ideologia neo-psichiatrica, in una grande maggioranza dei casi, esaurisce nella cura farmacologica il progetto terapeutico al quale, tutt’al più, si associa qualche intervento riabilitativo. Ciò a maggior ragione se i farmaci, come accade con frequenza a livello soprattutto di prime crisi, danno luogo ad una remissione dei sintomi. In tale caso, per un eccesso di prudenza del tutto ingiustificato, i dosaggi vengono mantenuti a livelli piuttosto elevati.

Essendo psicodinamici, i conflitti che sottendono la schizofrenia non possono che evolvere. Se l'evoluzione avviene in conseguenza di una psicoterapia, che cerca di ridurre la distanza tra la coscienza e i conflitti stessi e promuoverne un'elaborazione, l’esperienza soggettiva, anche quando non si riesce ad incidere sul nucleo delirante, si mantiene su di un registro che rimane sempre aperto ad un salto di qualità. Se viceversa l'evoluzione dei conflitti avviene sotterraneamente, in virtù della rimozione promossa dai farmaci, è inevitabile che dopo periodi di intervallo più o meno lunghi si realizzino delle destrutturazioni sempre più drammatiche. Ciò naturalmente viene attribuito al processo morboso e, di conseguenza, dà luogo a prescrizioni vieppiù pesanti. Per questa via, tranne rari casi, l’obbiettivo del contenimento dei sintomi, nei quali la neo-psichiatria identifica la malattia, dà luogo, nel corso degli anni, ad un peggioramento iatrogenetico.

In virtù dell'uso sconsiderato degli psicofarmaci insomma la neo-psichiatria prende due piccioni con una fava: conferma il suo crescente potenziale terapeutico e, nel contempo, il carattere morboso della schizofrenia e la fatalità, in molti casi, del suo decorso.” In breve – questo è il senso del discorso - la schizofrenia non esiste mai come malattia d’esordio. Si danno solo, per alcuni anni, episodi psicotici più o meno strutturati la cui comprensibilità psicodinamica, applicando un adeguato codice interpretativo (quello riferito alla scissione dei bisogni), è sempre elevata.

La schizofrenia in senso proprio - di condizione psicopatologica che ingombra quasi tutto lo spazio della coscienza e determina comportamenti ritualizzati o ambivalenti – è solo l’esito tardivo di un’evoluzione determinata dall’ambiente e, in particolare, dall’intervento psichiatrico che, con gli psicofarmaci, decapita, e neppure sempre, i sintomi, ma non affranca il soggetto da una conflittualità che sotterraneamente si autoalimenta e infine diventa pervasiva e talora disgregativa dell’io cosciente. L’esperienza psicotica, insomma, è l’espressione di una conflittualità latente che l’io cosciente non riesce a decodificare nei suoi significati autentici. La schizofrenia, viceversa, è l’esito di un’esperienza psicotica prolungata nel tempo i cui messaggi non sono né recepiti né elaborati dal soggetto. Spesso, troppo spesso è una malattia iatrogena.

Giugno 2005