VITTORIO ZUCCONI

GEORGE: VITA E MIRACOLI DI UN UOMO FORTUNATO
Feltrinelli, Milano 2004

1.

Il libro di Zucconi non è, come lascerebbe pensare il titolo, una biografia dell'attuale Presidente degli Stati Uniti, anche se in esso non mancano riferimenti biografici e aneddoti di ogni genere. Si tratta piuttosto del tentativo di affrontare un problema che agli occhi degli Europei appare misterioso: l'ascesa al vertice della nazione più potente al mondo di un uomo di mediocri qualità, dotato di furbizia ma senza alcuno spessore culturale, la cui vita sino a quarant'anni è stata una sequela di comportamenti disordinati e i cui tentativi imprenditoriali sono stati sistematicamente contrassegnati da fallimenti.

Per spiegare questo mistero, Zucconi, pur abbandonandosi ad una scrittura di taglio giornalistico, inquadra la vicenda personale di Bush nel contesto della società americana, della sua storia, della singolarità della sua democrazia e della psicologia sociale degli elettori. Il quadro sociologico che viene fuori presenta degli aspetti poco noti agli Europei, d'indubbio interesse. Su questi è opportuno soffermarsi preliminarmente.

Che l'elezione di Bush sia stata il frutto di un imbroglio elettorale è ormai al di fuori di ogni ragionevole dubbio. Per spiegare quest'imbroglio, occorre ricondursi al carattere singolare del sistema elettorale americano ("un meccanismo unico nelle grandi democrazie" p. 42). La preoccupazione dei padri fondatori, espressa dalla Costituzione era quella di "dimostrare la centralità dei singoli stati rispetto al potere federale" (p. 42), vale a dire "togliere ai futuri presidenti ogni tentazione di considerarsi monarchi elettivi" (p. 42). In ordine a ciò, "un presidente non viene eletto a suffragio universale diretto, come molti credono, ma attraverso un ingranaggio, o un cuscinetto istituzionale, chiamato "collegio presidenziale". Ciascuno dei cinquanta stati dell'Unione […] vota […] per una lista di persone sotto l'etichetta del partito del candidato che successivamente, nel mese di dicembre, voteranno per il presidente. Ogni stato ha un numero di delegati pari alla somma del numero dei senatori (che sono sempre due) e il numero dei deputati, che varia secondo la popolazione dello stato… Ogni delegazione statale […] viene eletta ad un solo e unico scopo, quello di girare il voto sul candidato del suo partito… Chi avrà avuto il maggior numero di questi voti elettorali espressi dalle liste dei delegati nei diversi stati, diventerà presidente e questo spiega perché si possano vincere le elezioni anche avendo preso molti meno voti popolari dell'avversario…

Il vizio di questa macchina […] sta nel fatto che la conquista degli stati importanti, come la California, New York, il Texas, la Florida, con la loro ricchissima dote di delegati, è necessaria e sufficiente a vincere e la vittoria, anche per un solo voto popolare, nei "Big States" condiziona le scelte dei candidati e la loro propaganda. Producendo personaggi che sono capaci grandi stati o gruppi di stati importanti, ma non necessariamente di governare." (pp. 42-43)

Ora, Bush è stato dichiarato vincitore in Florida e quindi presidente per 537 voti su sei milioni espressi. Il problema è che: primo, in quello stato, governato dal fratello minore di Bush, 28000 elettori (in larga maggioranza democratici) si sono visti negare il diritto di voto da una colossale purga delle liste effettuata sulla base di reati pregressi; secondo, che l'ago della bilancia, perfettamente equilibrato, si spostò dalla parte di Bush in seguito all'arrivo per corrispondenza di cinquemila voti da truppe militari dislocate oltremare Un buon numero delle schede elettorali non portavano neppure il timbro degli ufficiali postali militari e pervennero oltre il tempo massimo. Furono conteggiate ugualmente per rispetto dei ragazzi al fronte.

La vittoria fu comunque assegnata non dalle urne, ma dalla Corte suprema, con 5 voti contro 4. E' superfluo aggiungere che tra i votanti a favore c'erano delle buone conoscenza della famiglia Bush.

Un'elezione insomma illegittima, riguardo alla quale Zucconi scrive: "Sulla presidenza di un uomo che ha assunto a propria dottrina quella di esportare la democrazia, peserà, ironicamente, sempre il sospetto di non essere stato eletto democraticamente." (p. 40)

Si potrebbe pensare ad un'anomalia nel contesto di una nazione ritenuta culla della democrazia moderna, e il cui modello riconosce numerosi ammiratori in Europa. Ma non è così. La rassegna che Zucconi fa di altri imbrogli elettorali, dal 1800 ad oggi, è abbastanza agghiacciante. L'elemento in comune sembra essere la vittoria di personaggi con credenziali che sembrerebbero poco adatte a ricoprire un ruolo di grande responsabilità. Le spiegazioni possibili per questo stato di cose sono tre. La prima, che vale per ogni tempo, è questa: "La mediocrità generale del leader è stata, nella storia americana, la prima garanzia non scritta che il "sistema" sarebbe sempre sopravvissuto a loro." (p. 48) Le altre due sono più recenti. Per un verso, infatti, è in gioco il livello culturale dell'elettorato: negli Stati Uniti "l'istupidimento collettivo da tv, da videogame, da monotonia culturale di sobborgo, da shopping è, come tutto in America, ancora più avanzato di quanto sia da noi in Europa." (p. 33) Per un altro verso, "si può persino azzardare l'ipotesi che se l'intelligenza è la capacità di vedere la complessità dei problemi e delle situazioni, di valutare ogni possibile conseguenza della propria mossa come ga lo scacchista, sia un handicap e non un vantaggio per chi deve guidare (non amministrare) e ispirare organismi infinitamente complessi e multidimensionali come sono le nazioni moderne e deve comandare e decidere, non scrivere saggi o relazioni. Un certo elemento di stupidità e d'ignoranza, il possedere poche idee ma chiare, può essere un formidabile vantaggio per un leader politico, soprattutto in sistemi istituzionali, come quello americano, nel quale al capo dell'esecutivo, al presidente, non viene chiesto di analizzare, ma di sintetizzare e di decidere." (p. 32)

L'America di base è conservatrice, dotata di scarsa cultura storica, incline a valutare i problemi in termini egoistici, tendenzialmente isolazionista, profondamente etnocentrica e, nello stesso tempo, affetta da un'atavica avversione nei confronti dello Stato federale. Se a questo si aggiunge la presenza di cinquanta milioni di aderenti a varie forme di fondamentalismo protestante e l'esistenza di una lobby affaristica che influenza potentemente la vita politica, l'affermazione di George Bush junior, conservatore, convertito al cristianesimo in età adulta e appartenente ad una famiglia che deve la sua fortuna al petrolio, non è affatto sorprendente.

2.

Certo, la biografia dell'attuale presidente fino a quarant'anni non avrebbe permesso a nessuno di presagire una carriera così prestigiosa.

Nato da una famiglia arricchitasi con il petrolio, con alle spalle un nonno banchiere accusato dal governo federale di essere un agente finanziario dei nazisti negli Stati Uniti (e ciononostante divenuto senatore), George trascorre un'infanzia serena. L'esperienza scolastica è piuttosto mediocre. Adolescente, George si dedica a ragazzate di ogni genere, conquista le coetanee, trascura lo studio. Iscritto coi soldi del papà in un'università prestigiosa, Yale, è arrestato tre volte: la prima, per aver rubato decorazioni natalizie in un drugstore; la seconda, per aver demolito, completamente ubriaco, una porta del campo da football dopo una vittoria della sua squadra; una terza, perché guidava la macchina in stato di ubriachezza. Un figliolo selvaggio, secondo la madre. A 23 anni incontra Laura, che sposa dopo sette anni. Continua a bere e torna a casa regolarmente ubriaco, finché la moglie non lo pone di fronte all'aut-aut: o la famiglia o la bottiglia. George rinsavisce, grazie anche all'incontro con la religione. Da allora, Cristo diviene il suo filosofo politico preferito.

Si dedica agli affari: tutte le aziende che egli amministra affondano, ma egli ne ricava sempre strabilianti guadagni. In un caso almeno è dimostrato che egli aveva usufruito di un investimento legato ad un riciclaggio di denaro sporco, In un altro caso, forte è il sospetto che egli abbia commesso il reato di insider trading.

Imprenditore di successo per sé e di rovina per gli azionisti, George infine si dà alla politica. Governatore del Texas, si segnala solo per non avere concesso mai la grazia ad alcun condannato a morte. Eletto il padre alla Presidenza degli Stati Uniti, egli gli sta accanto e fa la gavetta. Morde il freno sotto Clinton e, infine, giunge al'inaspettato traguardo.

In virtù di quali doti? Il titolo del primo capitolo è L'idiota. Tale è il giudizio che danno di lui gli intellettuali progressisti e non pochi democratici. Zucconi non lo condivide a pieno. I limiti culturali di Bush sono fuori discussione. Egli è un estroverso, che ha ereditato dalla famiglia l'arte di accattivarsi le persone ("Per i Bush, quello di trovare un rapporto, una "connection" con la persona che hanno di fronte è un istinto irresistibile, perché le loro fortune sono tutte tessute con i fili delle conoscenze" p. 26), non cela la sua ignoranza perché sa che questo aspetto lo accomuna e lo rende ben accetto all'America di base, ha un'intelligenza o meglio un fiuto politico formidabile, sapendo quello che la gente vuol sentirgli dire, fa leva su valori elementari privi di sfumature corroborati da dichiarazioni esplicite di fede religiosa.

Egli è, insomma, la persona giusta per incarnare il conservatorismo americano, alimentare l'isolazionismo orgoglioso, far vibrare le corde del patriottismo americano, veicolare la protesta dei ceti alti e medi contro le tasse, ergersi a tutore della sicurezza dei cittadini contro la criminalità comune e internazionale (meno, ovviamente, contro quella finanziaria), ecc. Un uomo capace di commuoversi pubblicamente e senza remore. Un presidente quasi perfetto nel solco della tradizione americana, che tale è apparso ai suoi concittadini dopo l'attentato dell'11 settembre.

L'unico neo, forse, dopo una carriera di vita incredibilmente fortunata, è che, essendo stato eletto per curare gli affari interni, la storia lo ha messo di fronte a problemi di politica estera che sembrano andare al di là delle sue capacità.

3.

La prontezza con cui Bush, dopo l'11 settembre, ha deciso di dichiarare guerra al terrorismo ha raccolto intorno a lui la nazione. Dopo l'impresa dell'Afghanistan, fallita nell'obiettivo primario di assicurare alla giustizia Bin Laden vivo o morto, quella dichiarazione ha assunto una configurazione a tutto campo, traducendosi nella teoria della guerra preventiva, il cui primo passo è stato l'invasione dell'Iraq. La teoria non è farina del sacco di Bush. Essa è stata messa a punto dai falchi della sua amministrazione (Cheney, Wolfowitz, Rumsfeld), che, collaboratori poco ascoltati del padre, hanno preso sotto tutela il figlio, più malleabile. Bush l'ha adottata per due motivi: primo, perché, essendo ispirata al principio di difendere la sicurezza dell'America, si tratta di un formidabile strumento di lotta politica, che ha messo in un angolo i democratici ("La guerra al "terrore" è una coperta ideologica perfetta che può essere estesa in ogni direzione, usata per coprire tutto, sollevata quanto basta per mostrare un successo e poi riposta sopra, per giustificare ogni azione e chiudere ogni dibattito."p. 157); secondo, perché essa dà modo a Bush di ambire al ruolo di Salvatore della patria, anzi di tutta la civiltà occidentale e cristiana contro la barbarie dell'integralismo islamico. Egli è il difensore del Bene contro il Male, secondo una visione adialettica della realtà storica che gli integralisti islamici utilizzano, in termini rovesciati, contro l'Occidente.

Zucconi si chiede quanto c'è di autentico e quanto di opportunistico nella fede dai chiari accenti biblici sbandierata da Bush in ogni occasione. La testimonianza dell'uomo non può essere minimizzata. Nato episcopale, diventato poi presbiteriano, egli è passato al metodismo a quarant'anni dopo una folgorazione sulla via di Damasco dovuta all'incontro con William Franklin Graham, "il papa dell'America protestante". Alla folgorazione, Bush riconduce la "moral clarity", la chiarezza etica di cui si vanta e per cui chiede di essere giudicata. Che in termini di principi, quella chiarezza si riduca al manicheismo senza sfumature tra il Bene e il Male, che gli attira le simpatie dei cinquanta milioni di fondamentalisti cristiani (di tutte le specie), "rinati" come lui in Cristo, è già di per sé inquietante. Solo un'ignoranza totale della cultura contemporanea, della storia e della realtà storica può suffragare una distinzione del genere. Il problema e che quella "chiarezza, che i suoi fan invocano come una sorta di giudizio divino conclusivo, sembra diventare un poco più torbida a mano a mano che la necessità del realismo inquinano la limpidezza delle intenzioni." (p. 104) Essa infatti si riduce al principio per cui "purché si stia dalla parte di Washington, ogni peccato è perdonato, ogni trave diventa una pagliuzza." (p. 105) In conseguenza di questo principio, di realpolitik più che etico, la dittatura talebana e quella di Saddam Hussein vengono perseguite, mentre altri stati canaglia (Iran, Corea del Nord) vengono rispettati, il dittatore pakistano diventa un alleato, il dispotico Putin un amico, ecc. Insomma, "nell'opportunistica teologia secondo George, e i suoi apostoli dell'egemonia americana, non è peccato possedere armi nucleari, finanziare il terrorismo antindiano in Kashmir, costruire missili a lunga gittata, prendere il potere con un golpe militare, mantenersi al potere con leggi di comodo." (p. 105)

Verrebbe da dire che è quasi un bene che il manicheismo di Bush sia un po' strabico, altrimenti per effetto di un Giudizio universale l'intero pianeta sarebbe già stato messo a fuoco e fiamme.

E' difficile considerare la conversione di Bush un evento privato senza un risvolto psicoanalitico, Egli, oppresso sino a quarant'anni dal puritanesimo dell'ambiente familiare, ha espresso la sua opposizione violando il codice morale interiorizzato, votandosi ad una vita disordinata che è passata attraverso il rifiuto del sacro dovere di studiare, la goliardia, la baldoria, l'abbandono ai piaceri della carne, il furto, l'alcolismo e l'irresponsabilità del capo-famiglia alcolizzato. La folgorazione sulla via di Damasco, che evidentemente ha posto questi comportamenti sul conto del maligno, ha prodotto una ristrutturazione della personalità che ha fatto affiorare la rigidità dei valori che sottendono ogni esperienza opposizionistica, trasformandolo in un cristiano fondamentalista, bisognoso, per confermarsi, di un Nemico sul quale proiettare il disordine. Egli non è diventato un moralista paranoico solo perché, fortunatamente, l'integralismo islamico gli ha offerto la possibilità di dare corpo ai suoi fantasmi. Se appena, liberatosi da tempo dei fumi dell'alcool, si liberasse dai più venefici fumi dell'ideologia conservatrice, corroborata dalla religione, egli potrebbe scoprire traumaticamente che il Nemico, rivendicando sin dall'inizio lo sgombero della terra sacra dell'Arabia dalle basi militari statunitensi, colà piazzate da George Bush senior, intorno alle quali si sono creati i consueti giri di prostituzione, alcool, droga, adotta una logica speculare rispetto alla sua, e altrettanto rigida.

4.

Nel capitolo conclusivo del libro, Zucconi afferma che "George W. Bush può essere l'eccesso, ma non l'eccezione nella storia americana." (p. 188) Ciò in ordine al fatto che "l'intreccio esasperante d'idealismo e prepotenza, di generosità e ingordigia, di sensibilità culturale e ottusità provinciale, è una costante nella lunga avventura americana e separare i due filoni del carattere e del comportamento di questo paese è impossibile quanto arbitrario." (p.187)

C'è del vero in queste affermazioni. Nel suo sforzo di contestualizzare storicamente e culturalmente Bush e la sua Amministrazione conservatrice, iscrivendoli in una tradizione americana di lunga data, Zucconi però non sembra tenere conto di alcuni aspetti che li rendono diversi e più inquietanti.

In primo luogo, l'intreccio tra potere politico e grandi capitali, che ha avuto sempre un certo peso, si configura oggi come così stretto che le lobbies affaristiche non si sono limitate, come in passato, a sovvenzionare e far vincere il candidato repubblicano. Esse sono a tal punto rappresentate a livello governativo da configurare un regime che qualche politologo statunitense ha già definito plutocratico. Caratteristica propria di questo regime, che maschera la sua natura dietro un atteggiamento sterilmente compassionevole nei confronti dei ceti meno abbienti, è di accantonare ogni principio di chiarezza morale e di equità sociale in nome della logica capitalistica, divenuta vieppiù virulenta dacché essa ha assunto un orientamento marcatamente volto alla speculazione finanziaria. Da questo punto di vista, i rapporti di affari tra il clan Bush e il clan Bin Laden, ricostruiti puntualmente nel saggio, sono assolutamente inquietanti.

In secondo luogo, lo strapotere statunitense, seguito alla fine della guerra fredda e al crollo del comunismo, comporta il rischio che, sotto la spinta della destra conservatrice, il mondo divenga una scacchiera sulla quale gli Stati Uniti giocano una partita che, all'insegna di esportare la libertà e la democrazia, tenta d'imporre al mondo intero i loro interessi, le loro esigenze, i loro valori in una spirale che, trovando degli ostacoli, può diventare facilmente distruttiva, giocata cioè all'insegna della legge del più forte.

In terzo luogo, c'è da considerare che se gli americani hanno il diritto di amministrare la loro nazione come meglio credono, il sistema elettorale che, per scongiurare il rischio di un potere centrale troppo forte, può portare alla Presidenza personaggi mediocri, diventa pericolosissimo nel momento in cui il Presidente degli Stati Uniti deve confrontarsi con problemi di ordine internazionale di grande portata, che egli non è in grado di capire e di analizzare. Nessuno, fino a qualche anno fa, avrebbe puntato un solo centesimo su George Bush junior. Il fatto che, rappresentando l'America di base, immersa nella sua pigra ignoranza, e l'America dei grandi capitali, egli disponga di un potere dalle cui decisioni (ecologiche, economiche, politiche, militari) dipendono i destini dell'intero pianeta, non si può ritenere una circostanza intrinseca alla tradizione americana. Esso è anche assolutamente inquietante e drammatico.

Nulla vieta agli americani di eleggere Presidente un individuo umanamente simpatico e estroverso, dotato di fiuto politico, saldamente ancorato alla tradizione, ma, nello stesso tempo, ignorante, dogmatico e convinto di avere una missione sacra da assolvere. Nulla vieta al resto del mondo di non essere loro grato di una scelta del genere.

Maggio 2004