Norberto BOBBIO

DESTRA E SINISTRA
Donzelli, Roma 1995

1.

L'agile per quanto denso saggio di Bobbio ha avuto un successo inatteso la cui eco, per alcuni aspetti, perdura ancora. Nonostante la maestria e la cultura dell'autore, temo che questo successo sia un indizio piuttosto inquietante. Trattandosi infatti di un saggio politico, è difficile pensare che i lettori non appartengano ad un'élite che s'interessa per l'appunto di politica. Se essi però hanno avuto bisogno di chiarirsi le idee sulla distinzione elementare tra destra e sinistra, ciò significa che la confusione ideologica, dopo la caduta del muro di Berlino e il trionfo del sistema liberale e capitalistico, ha assunto una dimensione inquietante. Consapevole di questa confusione, presumibilmente, Bobbio ha scritto il libro. Quanto abbia contribuito a dissolverla è l'oggetto di questa recensione.

La trama concettuale del saggio è abbastanza semplice da sintetizzare.

Nel primo capitolo. Bobbio prende atto che la distinzione tra destra e sinistra - "termini antitetici, che da più di due secoli sono impiegati abitualmente per designare il contrasto delle ideologie e dei movimenti, in cui è diviso l'universo, eminentemente conflittuale, del pensiero e delle azioni politiche" (p. 31) - è contestata da più parti e con varie argomentazioni. A seconda dei punti di vista, tale distinzione: avrebbe perso senso in seguito alla crisi delle ideologie, delle quali rappresentava una categoria fondamentale; apparirebbe del tutto inadeguata ad esprimere i diversi interessi e le parti che si muovono all'interno delle grandi società democratiche; ignorerebbe la presenza ormai prevalente di un Centro (Terzo incluso) che media e attira verso di sé gli opposti schieramenti politici; trascurerebbe la nascita di una Terza via (Terzo includente) che, a differenza del Centro, si propone di andare al di là della contrapposizione tradizionale; non comprenderebbe movimenti, come per esempio i Verdi, che non sono facilmente inquadrabili né nella destra né nella sinistra, potendo fluttuare tra l'una e l'altra; non terrebbe conto di nuovi problemi di natura morale e giuridica (come quelli di cui si occupa la bioetica) che non rientrano nell'ambito di quelli tradizionalmente affrontati dalla destra e dalla sinistra; non terrebbe conto adeguatamente della crisi della sinistra, che si andrebbe dissolvendo; infine minimizzerebbe il fatto che gli opposti schieramenti ormai dicono su per giù le stesse cose, formulano, a uso e consumo degli elettori, più o meno gli stessi programmi, e si propongono gli stessi fini immediati.

Bobbio non nega il diverso valore e il peso di tali contestazioni. Egli ritiene però che nessuna di esse abbia il potere d'invalidare la distinzione tra destra e sinistra che, di fatto, si ripropone anche nel pensiero di chi la nega. Il motivo, illustrato nel terzo capitolo, è semplice: "Sino a che ci saranno conflitti, la visione dicotomica non potrà venire meno, anche se con il passare del tempo e col mutare delle circostanze l'antitesi un tempo principale potrà diventare secondaria, e viceversa." (p. 69)

Con questa distinzione s'interseca quella tra moderatismo e estremismo. C'è un moderatismo di destra e uno di sinistra, come peraltro un estremismo di destra e uno di sinistra. Il carattere proprio del moderatismo è l'accettazione del metodo e del regime democratico; quello proprio dell'estremismo è la contestazioni, in toni, forme e prospettive diverse, della democrazia. Gli estremisti di destra ritengono che essa rappresenti il trionfo della massa mediocre sull'élite; quelli di sinistra le imputano di essere un quadro di regole formali che impediscono ipocritamente la realizzazione dei diritti dei cittadini.

Posta la distinzione tra destra e sinistra, si tratta di definire i criteri in base ai quali essa può essere caratterizzata. Il capitolo quarto e il quinto sono dedicati appunto ad un'analisi dei criteri proposti da vari autori. La conclusione dell'analisi è la seguente: "Esaminando le interpretazioni precedenti, non possiamo fare a meno di constatare che, nonostante la diversità dei punti di partenza e delle metodologie usate, una certa aria di famiglia esiste tra loro, tanto da apparire come variazioni di un unico tema. Il tema che ritorna in tutte le variazioni è quello della contrapposizione fra visione orizzontale o ugualitaria della società, e visione verticale o inegualitaria. Dei due termini, quello che ha mantenuto valore più costante è il primo. Si direbbe quasi che la coppia ruoti attorno al concetto di sinistra e le variazioni di esso siano soprattutto dal lato delle diverse possibili contrapposizioni al principio di uguaglianza, inteso ora come principio inegualitario ora come principio gerarchico." (p. 97)

Il termine uguaglianza, suggestivo in sé e per sé, ha però una notevole complessità semantica: "Il concetto di eguaglianza è relativo, non assoluto. E' relativo almeno a tre variabili di cui bisogna sempre tener conto ogni volta s'introduce il discorso sulla maggiore o minore sulla maggiore o minore desiderabilità e/o sulla maggiore o minore attuabilità dell'idea dell'eguaglianza: a) i soggetti tra i quali si tratta di ripartire i beni o gli oneri; b) i beni e gli oneri da ripartire; c) il criterio in base ai quali ripartirli. In altre parole, nessun progetto di ripartizione può evitare di rispondere a queste tre domande: "Eguaglianza, sì, ma tra chi, in che cosa, in base a quale criterio? Combinando queste tre variabili, si possono ottenere… un numero enorme di tipi diversi di ripartizione che possano tutte chiamarsi egualitarie, pur essendo diversissime tra loro." (pp.100-101) In altri termini, "secondo la maggiore o minore estensione dei soggetti interessati, la maggiore o minore quantità dei beni da distribuire, e in base al criterio adottato per distribuire quel certo bene a un certo gruppo di persone, si possono distinguere dottrine più o meno egualitarie." (p. 104)

La combinazione delle variabili dà dunque luogo ad uno spettro che va dall'estremo dell'egualitarismo radicale all'estremo opposto dell'inegualitarismo radicale. E' fuor di dubbio, secondo Bobbio, che la sinistra e la destra, nelle loro molteplici varietà, ricoprono totalmente questo spettro. La sinistra è tendenzialmente egualitaria, la destra tendenzialmente inegualitaria.

Chiarire il significato di queste opposte tendenze postula anzitutto tenere conto che, al di là del fatto che si danno diseguaglianze naturali e diseguaglianze sociali, gli uomini sono eguali per certi aspetti e diseguali per altri: "sono eguali se si considerano come genus e li si confronta a un genus diverso come quello degli altri animali e degli altri esseri viventi, da cui li differenzia qualche carattere specifico e particolarmente rilevante, come quello che per lunga tradizione ha consentito di definire l'uomo animal rationale. Sono diseguali tra loro, se li si considera uti singoli, cioè prendendoli uno per uno. Tra gli uomini tanto l'eguaglianza quanto la diseguaglianza sono fattualmente vere, perché le une e le altre sono confermate da prove empiriche irrefutabili. Ma l'apparente contradditorietà delle due proposizioni "Gli uomini sono eguali" e "Gli uomini sono diseguali" dipende unicamente dal fatto che, nell'osservarli, nel giudicarli e nel trarre conseguenze pratiche, si metta l'accento su ciò che hanno in comune o piuttosto su ciò che li distingue. Ebbene, si possono chiamare correttamente egualitari coloro che, pur non ignorando che gli uomini sono tanto eguali quanto diseguali, apprezzano maggiormente e ritengono più importante per una buona convivenza ciò che li accomuna; inegualitari, al contrario, coloro che, partendo dallo stesso giudizio di fatto, apprezzano e ritengono più importante, per attuare una buona convivenza, la loro diversità. Si tratta di un contrasto tra scelte ultime di cui è difficile sapere quale sia l'origine profonda: ma è proprio il contrasto tra queste scelte ultime che riesce, a mio parere, meglio di ogni altro criterio a contrassegnare i due opposti schieramenti che siamo ormai abituati per lunga tradizione a chiamare sinistra e destra. A questo contrasto di scelte ultime si accompagna anche una diversa valutazione del rapporto tra eguaglianza-diseguaglianza naturale e eguaglianza-diseguaglianza sociale. L'egualitario parte dalla convinzione che la maggior parte delle diseguaglianze che lo indignano, e vorrebbe far sparire, sono sociali e, in quanto tali, eliminabili; l'inegualitario, invece, parte dalla convinzione opposta, che siano naturali e, in quanto tali, ineliminabili." (pp. 108-109)

Dunque, "la destra è più disposta ad accettare ciò che è naturale, e quella seconda natura che è la consuetudine, la tradizione, la forza del passato. L'artificialismo della sinistra non si arrende neppure di fronte alle palesi diseguaglianze naturali, a quelle che non possono essere attribuite alla società: si pensi alla liberazione dei matti dal manicomio. Accanto alla natura matrigna c'è anche la società matrigna. Ma da sinistra si è generalmente propensi a ritenere che l'uomo sia capace di correggere tanto l'una quanto l'altra." (pp. 109-110)

Ciò giustifica il fatto che, mentre la destra tende ad enfatizzare i diritti naturali dell'individuo, tra i quali primario è la libertà, la sinistra tende a ritenere non meno importanti i diritti sociali: il diritto all'istruzione, il diritto al lavoro, il diritto alla salute: "tutti e tre mirano a rendere meno grande la diseguaglianza tra chi ha e chi non ha, o a mettere un numero di individui sempre maggiori in condizione di essere meno diseguali rispetto a individui più fortunati per nascita e condizione sociale." (pp. 113-114)

Il rapporto tra eguaglianza e libertà è un rapporto complesso. Come il termine eguaglianza non ha senso se non si risponde alle tre domande: "Tra chi? in che cosa? Con quale criterio?", così il termine libertà ha un significato puramente emotivo se, posta l'ingiunzione "Tutti gli uomini devono essere liberi", "non si risponde alla domanda: "Tutti proprio tutti?", e se non si offre una giustificazione alle eccezioni, come gli infanti, i pazzi… In secondo luogo, se non si precisa che cosa s'intende per libertà, dal momento che altro è la libertà di volere, cui si riferisce la disputa sul libero arbitrio, altro è la libertà di agire, cui è particolarmente interessata la filosofia politica, che ne distingue diversi sensi, quali la libertà negativa, la libertà di agire propriamente detta e la libertà come autonomia e obbedienza alle leggi che ciascuno prescrive a se stesso." (pp. 115-116)

Eguaglianza e libertà sono due ideali altamente significativi e che hanno profonde risonanze nell'anima umana. Come insegna però la storia "nessuno dei due ideali può essere attuato sino alle estreme conseguenze senza che l'attuazione dell'uno limiti quella dell'altro." (p. 116) In generale, "ogni estensione della sfera pubblica per ragioni egualitarie, potendo essere soltanto imposta, restringe la libertà di scelta nella sfera privata." (p.118)

Accanto alla diade eguaglianza-diseguaglianza, dalla quale nascono dottrine e movimenti egualitari e inegualitari, occorre, dunque, "collocare una diade non meno storicamente importante: libertà-autorità. Da questa derivano dottrine e movimenti libertari e autoritari" (p.121)

Il rapporto tra le due diadi è più complesso di quanto solitamente si pensa attribuendo alla sinistra egualitaria la tendenza a limitare la libertà individuale e alla destra inegualitaria la tendenza opposta ad esaltarla. Posto che "il criterio per distinguere la destra dalla sinistra è il diverso apprezamento rispetto all'idea dell'eguaglianza, e che il criterio per distinguere la'al moderata da quella estremista, tanto nella destra quanto nella sinistra, è il diverso atteggiamento rispetto alla libertà, si può ripartire schematicamente lo spettro in cui si collocano dottrine e movimenti politici, in queste quattro parti:

  1. all'estrema sinistra stanno i movimenti insieme egualitari e autoritari, di cui l'esempio storico più importante […] è il giacobinismo
  2. al centro-sinistra, dottrine e movimenti insieme egualitari e libertari, per i quali potremmo oggi usare l'espressione "socialismo liberale"
  3. al centro-destra, dottrine e movimenti insieme libertari e inegualitari, entro cui rientrano i partiti conservatori
  4. all'estrema destra, dottrine e movimenti antiliberali e antiegualitari, [quali] il fascismo e il nazismo." (p. 123)

Dato che "il grande problema della diseguaglianza tra gli uomini e i popoli di questo mondo è rimasto in tutta la sua gravità e insopportabilità" (p. 125) e che "la spinta verso una sempre maggiore eguaglianza tra gli uomini è […] irresistibile" (p. 132), "la distinzione tra la destra e la sinistra, per la quale l'ideale dell'eguaglianza è sempre stata la stella polare cui ha guardato e continua a guardare, è nettissima." (p. 128) In breve: "Il comunismo storico è morto. Ma la sfida che esso aveva lanciata è rimasta." (p. 128) Raccogliere e portare a compimento questa sfida non può avvenire che nell'ottica del centro-sinistra, vale a dire di un modello socialdemocratico che riesca a coniugare valori egualitari e valori libertari.

2.

Il grassetto nel testo è mio, ed è il punto da cui intendo partire per commentare il saggio di Bobbio. L'origine della distinzione tra orientamenti egualitari e inegualitari non è tanto profonda quanto pensa l'autore. Essa, infatti, non deriva solo dall'apprezzamento di ciò che accomuna gli uomini - l'appartenenza ad una stessa specie - e di ciò che li diversifica - l'essere ciascuno di essi unico e irripetibile sia sotto il profilo genetico che psicologico e comportamentale -, bensì da una diversa concezione della natura umana.

Secondo gli egualitari, l'uomo ha una natura radicalmente sociale: l'appartenenza ad un gruppo è dunque un dato primario e l'individuo, quali che siano le sue capacità personali, in tanto raggiunge il suo statuto di soggetto consapevole e libero in quanto ente sociale. In conseguenza di ciò, egli rimane per sempre in debito nei confronti del gruppo: ha insomma dei doveri sociali ai quali vanno subordinati (non sacrificati) i diritti individuali.

Secondo gli inegualitari, il dato primario è l'individuo, che viene prima della società, la quale rappresenta semplicemente un'aggregazione se non addirittura una somma di individui liberi. Tale aggregazione implica dei doveri sociali, che però vanno intesi solo come limiti della libertà individuale nella misura in cui il suo esercizio impedisce a qualcun altro di esercitarla o la danneggia.

Posta in questi termini, la valutazione delle due concezioni può avvenire su di un piano storico e scientifico: la prima, se non del tutto vera, si approssima molto alla verità, la seconda, se non del tutto falsa, è terribilmente superficiale. L'individuo è un'invenzione recente nella storia dell'umanità. Dopo una lunghissima gestazione, nel corso della quale egli è stato sempre dipendente dal gruppo, dalla comunità, dalla società, si è affacciato alla ribalta della storia con la Rivoluzione francese. Ciò non significa che prima di allora non esistessero individui: la loro coscienza, semplicemente, comportava come orizzonte dell'esperienza personale il gruppo da cui dipendevano. L'invenzione cui ho fatto cenno riguarda l'individuo borghese che pensa di essere causa sui e attribuisce alle sue capacità ciò che riesce a fare, ignorando che, senza il patrimonio culturale accumulato nel corso della storia e senza una quota di risorse sociali messe a sua disposizione, quelle capacità non si sarebbero potute esprimere.

La distinzione tra sinistra e destra non sta dunque tanto nel rilevare rispettivamente ciò che vi è di comune e ciò che vi è di diverso tra gli individui, bensì nel considerare o nell'ignorare il peso che la società ha nel contribuire alla differenziazione e all'affermazione dell'individuo. In conseguenza di questo, la sinistra ritiene che egli debba sempre e comunque qualcosa alla società; la destra, al limite, lo ritiene affrancato da ogni altro dovere che non si riduca al rispetto formale delle leggi che regolano la convivenza civile, il cui significato è d'impedire che l'esercizio della libertà dell'uno ponga ostacoli a quello di un altro.

E' evidente che, in sede politica, in questione è essenzialmente il patrimonio e il reddito. Considerandolo prodotto dall'individuo in quanto tale, a misura delle sue capacità, e in quanto ente sociale, la sinistra ritiene che almeno in parte esso debba essere ridistribuito alla società. La destra viceversa ritiene che lo Stato abbia un potere minimo sul reddito e sul patrimonio personale, che non dovrebbe eccedere il pagamento dei beni sociali che l'individuo utilizza.

La diade eguaglianza-diseguaglianza assunta come centrale da Bobbio nella distinzione tra sinistra e destra si fonderebbe dunque su una diade più profonda, che si potrebbe formulare nei termini di debito-credito. La sinistra ritiene che ogni uomo sia in debito con la società e che il debito cresca quanto più egli riesce ad utilizzare le risorse sociali nel produrre ricchezza. La destra viceversa ritiene che la produzione della ricchezza sia un merito individuale, che ricade comunque a vantaggio di tutta la società, tal che l'individuo che la produce dovrebbe essere piuttosto agevolato che non costretto a restituire parte della sua ricchezza.

Questa diade è probabilmente sfuggita a Bobbio perché, all'epoca in cui il libro è stato scritto, il neoliberismo, pur essendosi avviato già da alcuni anni, non aveva assunto la virulenza ideologica che ha assunto con la presa del potere da parte della destra conservatrice americana (e dai suoi emulatori nostrani). Tale presa di potere ha portato in luce un'ideologia che non rientra puntualmente nel terzo schieramento di Bobbio. Essa infatti non è solo libertaria e inegualitaria, ma ritiene che, al di là del mercato, lo Stato debba farsi carico di provvedere ad aumentare i privilegi di chi già ha: che sia cioè, in nome della società tutta, in debito con chi produce ricchezza.

Questo dato, relativamente nuovo, va al di là della distinzione di Bobbio tra destra e sinistra. Esso implica infatti, al di là della meritocrazia, che la società tutta, a partire dallo Stato, debba mettersi a servizio del Capitale, inteso come valore assoluto, al fine di valorizzarlo del tutto indipendentemente dal problema della ridistribuzione che, frammentandolo, può piuttosto rallentare la sua valorizzazione. La destra conservatrice mira insomma a reintegrare nel presente il potere dei grandi proprietari agrari prima dell'avvento del capitalismo, sostituendo al latifondo, bene immobile per eccellenza, il denaro che può oggi valorizzarsi fluttuando ai quattro angoli del pianeta.

La destra conservatrice, dunque, s'identifica sempre più nettamente con la difesa ad oltranza dei diritti di proprietà dei capitalisti. Se vuole tornare ad assumere un'identità definita, la sinistra non può limitarsi a reiterare la formula della mediazione tra eguaglianza e diseguaglianza o quella, ancora meno concreta, tra efficienza ed equità. Ferma restando la tutela della libertà individuale (di tutti i cittadini, però, e non solo di un'èlite), essa deve assumere necessariamente un atteggiamento critico nei confronti del capitalismo. Nello stesso tempo, deve farsi carico di un compito culturale di grande portata: sradicare la concezione astratta dell'individuo borghese, e rilanciare quella dell'individuo, unico e irripetibile certo, ma non per effetto di un'autopoiesi, bensì delle risorse sociali messe a sua disposizione e dell'uso che egli ne fa.

Maggio 2004