Jacques Attali

Breve storia del futuro

Fazi Editore, Roma 2007

1.

In un'epoca di crisi che, nonostante lo sforzo dei politici occidentali per rassicurare la popolazione sulla salute del Sistema, molti avvertono come epocale e destinata ad esitare in una discontinuità qualitativa, vale a dire in un cambiamento radicale, i saggisti critici – sociologi, politologi, economisti, ecc. - si sentono investiti del ruolo oneroso di analizzare le cause della crisi e di anticiparne gli sviluppi futuri.

Jacques Attali ha le carte in regola per cimentarsi nel ruolo di Profeta. Plurilaureato (in Ingegneria, Economia, Scienze politiche), docente di Economia teorica all'École Polytechnique, consigliere politico di Mitterand dal 1981 al 1990, subito dopo la caduta del muro di Berlino, egli ha capito immediatamente i pericoli legati al trionfo del capitalismo e la necessità di opporre ad esso modelli di sviluppo alternativi.

Nel 1991, fonda la European Bank for Reconstruction and Development con sede a Londra, un'istituzione che promuove investimenti nei paesi dell'ex impero sovietico. Nel 1998, lancia «PlaNet Finance», un'organizzazione no profit che finanzia attività contro la fame e la povertà nel Terzo Mondo attraverso il microcredito. Infine avvia «Entreprendre en banlieue», un finanziamento a fondo perduto ai disoccupati e agli esclusi per creare la loro piccola impresa (principalmente attività sartoriali, artigianato, piccola ristorazione).

L'attività frenetica di economista “sociale”, non gli impedisce di scrivere numerosi saggi, alcuni di grande interesse (Europa, Europe 1994, Dizionario del XXI secolo 1999, Karl Marx ovvero lo spirito del mondo 2006, L'Uomo nomade 2006).

Nonostante una profonda conoscenza di Marx, Attali, non è mai stato un marxista canonico, bensì un esponente di spicco del socialisme libéral, gruppo composito all'interno della galassia della sinistra francese.

Invitato da Sarkozy a fare parte del governo di centro-destra, non ha esitato a dare la sua adesione.

Breve storia del futuro permette di comprendere le ragioni di questa scelta, che lo ha esposto a critiche piuttosto pesanti da parte del Partito Socialista.

Come altri sociologi, Attali ha una percezione drammatica della crisi in cui versa il mondo contemporaneo e prevede scenari di catastrofico sviluppo. Al tempo stesso, in virtù del suo attivismo pragmatico sul fronte dell'economia sociale (vale a dire incentrata su scambi significativi tra esseri umani non mediati dal denaro) e del suo entusiasmo per la tecnologia, egli – a differenza per esempio di Bauman e U. Beck -, è sostanzialmente speranzoso, se non ottimista, sulla possibilità che la crisi si risolva positivamente con un salto critico di qualità sulla via di un mondo pacificato, equo ed umano all'insegna di una democrazia globale matura.

Non si tratta, ovviamente, di un ottimismo di maniera. Il saggio, tra l'altro, non è estemporaneo, facendo riferimento ad un tragitto intellettuale nel corso del quale Attali ha messo a fuoco nuovi concetti acquisiti dalla sociologia contemporanea.

Tra questi, il più interessante, forse, è consegnato a L'Uomo Nomade -, nel quale, dopo avere rievocato il contributo che i nomadi hanno dato allo sviluppo della civiltà, inventando il fuoco, i linguaggi, le religioni, l'equitazione, l'agricoltura, l'allevamento, la lavorazione dei metalli, la navigazione, la ruota, la democrazia, il mercato, la musica, le arti, Attali prende atto del nuovo nomadismo legato alla globalizzazione che vede una crescente circolazione di uomini, oggetti, idee, destinati a segnare la fine dell'ultimo impero stanziale (gli USA), e a competere per rimpiazzarlo con “valori” - mercato, democrazia, fede – capaci di diffondersi su tutto il Pianeta con modalità reali o virtuali.

Breve storia del futuro è un saggio di poco più di duecento pagine, estremamente denso. Conscio di questa densità, Attali ha scritto una prefazione che sintetizza le tematiche affrontate come a voler fornire al lettore un baedeker. Cito integralmente alcuni passi:

“È oggi che si decide cosa sarà il mondo nel 2050 e si prepara quello che sarà nel 2100. A seconda di come ci comporteremo, i nostri figli e i nostri nipoti abiteranno un mondo vivibile o passeranno un inferno, odiandoci a morte. Per lasciar loro un pianeta abitabile, dobbiamo prenderci la briga di pensare al futuro, di capire da dove viene e come agire su di esso. E possibile: la Storia obbedisce a leggi che permettono di prevederla e indirizzarla.

La situazione è semplice: le forze del mercato controllano il pianeta. Ultima espressione del trionfo dell'individualismo, questo mercato trionfante del denaro spiega il grosso dei più recenti sussulti della Storia: per accelerarla, negarla, dominarla.

Se questa evoluzione andrà a termine, il denaro porrà fine a tutto ciò che possa nuocergli, compresi gli Stati, che distruggerà a poco a poco, persino gli Stati Uniti d'America. Diventato l'unica legge del mondo, darà vita a quello che chiamerò “iperimpero”, inafferrabile e planetario, creatore di ricchezze commerciali e di nuove alienazioni, di estreme fortune e di estreme miserie. La natura sarà sistematicamente depredata, e tutto diverrà privato, compreso l'esercito, le forze di polizia e la giustizia. L'essere umano sarà allora bardato di protesi, prima di diventare lui stesso un artefatto, venduto in serie a consumatori diventati a loro volta artefatti. Poi l'uomo, divenuto ormai inutile alle proprie creazioni, scomparirà.

Se l'umanità farà marcia indietro di fronte a questo futuro e interromperà la globalizzazione con la violenza, ancor prima di essersi liberata delle sue alienazioni antecedenti, precipiterà in una successione di barbarie regressive e di battaglie devastatrici, utilizzando armi oggi impensabili, contrapponendo Stati, gruppi religiosi, entità terroristiche e pirati privati. Chiamerò questa guerra “iperconflitto”. Quest'ultimo potrebbe persino far scomparire l'umanità.

Infine, se si riuscirà a contenere la globalizzazione senza rigettarla, a circoscrivere il mercato senza abolirlo, a far divenire planetaria la democrazia facendola però restare concreta, a far cessare il dominio di un impero sul mondo, allora si aprirà un nuovo infinito di libertà, responsabilità, dignità, progresso, rispetto dell'altro. Ciò che chiamerò “iperdemocrazia”. Questa ci condurrà all'insediamento di un governo mondiale democratico e di un complesso di istituzioni locali e regionali. Permetterà a tutti, per mezzo di un lavoro reinventato grazie alle favolose potenzialità delle future tecnologie, di andare verso la gratuità e l'abbondanza, di giovarsi in modo equo dei benefici dell'immaginazione commerciale, di preservare la libertà sia dai propri eccessi che dai nemici, di lasciare alle generazioni che verranno un ambiente più tutelato, di far nascere, da tutte le saggezze del mondo, nuovi modi di vivere e di creare insieme.

Possiamo allora raccontare la storia dei prossimi cinquant'anni: il dominio dell'impero americano, provvisorio come quello di tutti i suoi predecessori, avrà fine prima del 2035; e poi si scateneranno l'una dopo l'altra tre ondate del futuro: iperimpero, iperconflitto e poi iperdemocrazia. Due, a priori, mortali. La terza, a priori, impossibile.

Probabilmente questi tre futuri si mescoleranno tra loro; già si accavallano. Io credo nella vittoria, intorno al 2060, della iperdemocrazia, forma superiore di organizzazione dell'umanità, espressione ultima del motore della storia: la libertà.” (pp. 5-6)

“Tutto avrà inizio con uno sconvolgimento demografico. Nel 2050, a meno di una catastrofe maggiore, la Terra sarà popolata da 9,5 miliardi di esseri umani, ossia 3 miliardi più di oggi. Nei paesi più ricchi, la speranza di vita si avvicinerà al secolo e la natalità probabilmente stagnerà ancora intorno alla soglia minima di riproduzione. Di conseguenza, l'umanità invecchierà. In Cina si conteranno 360 milioni di abitanti in più, 600 milioni in più in India, 100 milioni in più in Nigeria e in Bangladesh, 80 in più negli Stati Uniti, 9 in più in Francia, 10 in meno in Germania e forse 30 in meno in Russia. Due terzi del pianeta vivranno in città la cui popolazione sarà raddoppiata, così come dovrebbe raddoppiare la quantità di energia e di prodotti agricoli consumati, e sarà raddoppiato anche il numero di persone in età da lavoro. Più dei due terzi dei bambini nati in quell'anno vivranno nei venti paesi più poveri.

E avranno luogo ben altri sconvolgimenti, impossibili da prevedere con sufficiente precisione: osservandola alla distanza, la Storia fluisce effettivamente in un'unica caparbia direzione, molto particolare, che nessuna scossa, per quanto prolungata, è riuscita fino a oggi a deviare in modo duraturo: di secolo in secolo, l'umanità impone il primato della libertà individuale su qualsiasi altro valore. Passando attraverso il progressivo rigetto della rassegnazione di fronte a ogni forma di schiavitù, attraverso i progressi tecnici che permettono di ridurre ogni fatica, attraverso la liberalizzazione dei costumi, dei sistemi politici, dell'arte e delle ideologie. In altre parole, la storia umana è quella dell'emergere della persona come soggetto di diritto, autorizzato a pensare e a gestire il proprio destino, libero da ogni obbligo che non sia il rispetto del diritto dell'altro alle medesime libertà.

Questo sviluppo, sempre riservato ai più ricchi, porta a richiamare costantemente in causa i poteri in carica e a far nascere nuove potenze. In particolare, per far emergere questo primato dell'individuo sulla società, le popolazioni hanno progressivamente elaborato diversi sistemi di ripartizione dei beni preziosi. Per moltissimo tempo, ne hanno lasciato la responsabilità all'arbitrio dei capi militari, dei sacerdoti e dei principi alla guida di regni e imperi. Poi, una nuova classe dirigente, più ampia e mutevole, quella dei commercianti, ha immaginato nuovi meccanismi – rivoluzionari – di spartizione delle ricchezze: il mercato e la democrazia. Venuti alla ribalta circa trenta secoli fa, si sono progressivamente imposti, e ormai forgiano una parte crescente della realtà del mondo, condizionando l'avvenire.

Progressivamente, e malgrado reazioni sempre più violente, il mercato ha trasformato, su territori sempre più vasti, la maggior parte dei servizi (l'alimentazione, l'abbigliamento, il tempo libero, le abitazioni, i trasporti, le comunicazioni), dapprima resi gratuitamente – di buon grado o sotto costrizione – in servizi commerciali. Poi li ha trasformati in oggetti industriali prodotti in serie, in veri strumenti dell'autonomia individuale.

Così, progressivamente, la libertà commerciale ha contribuito a far nascere la libertà politica, dapprima per una minoranza, poi per molti, almeno formalmente, e su territori sempre più vasti, rimpiazzando quasi ovunque il potere religioso e militare. A conti fatti, la dittatura ha consentito la nascita del mercato, che ha generato la democrazia. Quindi, a partire dal XII secolo, si sono instaurate le prime “democrazie di mercato”.

Sempre progressivamente, si è esteso anche il loro spazio geografico, e il centro di potere sull'insieme di queste democrazie di mercato si è a poco a poco spostato verso ovest: nel XII secolo è passato dal Vicino Oriente al Mediterraneo, poi al mare del Nord, all'oceano Atlantico e, infine, oggigiorno, al Pacifico. Nove “cuori” si sono quindi succeduti: Bruges, Venezia, Anversa, Genova, Amsterdam, Londra, Boston, New York e, oggi, Los Angeles. II complesso del mondo, a parte la Cina e il Medio Oriente, è ormai parte attiva di questo Ordine mercantile.

Ancora progressivamente, la competizione ha condotto a concentrare i poteri sui mercati e sulla democrazia – supposti come ugualmente accessibili a tutti – nelle mani di nuove élite mutevoli, padrone del capitale e del sapere, scavando nuove disuguaglianze.

Se questa storia multimillenaria continuerà ancora per un mezzo secolo, il mercato e la democrazia si estenderanno ovunque siano ancora assenti. La crescita accelererà, il livello di vita si innalzerà, la dittatura scomparirà dai paesi in cui ancora regna. Ma la precarietà e la slealtà diventeranno la regola. L'acqua e l'energia si faranno più scarse, il clima verrà posto in pericolo, le disuguaglianze e le frustrazioni si aggraveranno, i conflitti si moltiplicheranno, si innescheranno grandi movimenti di popolazione.

Intorno al 2035, alla fine di una lunghissima battaglia, e nel cuore di una grave crisi ecologica, gli Stati Uniti, impero ancora dominante, saranno vinti da questa globalizzazione dei mercati, in particolare finanziari, e dal potere delle imprese, in particolare di quelle delle compagnie di assicurazioni. Prostrati finanziariamente e politicamente, come gli altri imperi prima di loro, gli Stati Uniti cesseranno allora di amministrare il mondo. Resteranno la maggiore potenza del pianeta, non verranno rimpiazzati da un altro impero né da un'altra nazione dominante. Il mondo diverrà, provvisoriamente, “policentrico”, controllato da una striminzita decina di potenze regionali.

Poi, intorno al 2050, il mercato, per natura senza frontiere, prevarrà sulla democrazia, istituzionalmente circoscritta a un territorio. Gli Stati si indeboliranno, nuove tecnologie nanometriche ridurranno i consumi di energia e trasformeranno gli ultimi servizi ancora collettivi: la sanità, l'educazione, la sicurezza e la sovranità; e faranno la loro apparizione nuovi fondamentali oggetti di consumo, che definisco “sorveglianti”, che permetteranno di misurare e controllare la conformità alle norme: ciascuno diverrà il proprio medico, professore, controllore. L'economia sarà sempre più economa in energia e acqua. L'autosorveglianza diverrà la forma estrema della libertà e la paura di non essere conforme alle norme ne sarà il limite. La trasparenza diverrà un obbligo, chiunque non vorrà rendere noti le sue appartenenze, i suoi costumi, il suo stato di salute e il suo livello di formazione sarà sospettato a priori. L'innalzamento della durata della vita porrà il potere nelle mani dei più vecchi, che tenderanno a indebitarsi. Gli Stati si eclisseranno di fronte alle imprese e alle città. Degli “ipernomadi” dirigeranno un impero hors sol, aperto, senza centro: un iperimpero. Tutti saranno leali solo con se stessi, le imprese non si riconosceranno più alcuna nazionalità, i poveri costituiranno un mercato come tutti gli altri, le leggi verranno sostituite con dei contratti, la giustizia con l'arbitrato, le forze di polizia con mercenari. Emergeranno nuove diversità, ci saranno spettacoli e sport per distrarre i sedentari, mentre immense masse di nomadi miserabili, gli “infranomadi”, premeranno alle frontiere, alla ricerca di qualcosa con cui sopravvivere. Compagnie di assicurazioni, divenute regolatrici del mondo, fisseranno le norme alle quali gli Stati, le imprese e i privati dovranno piegarsi. Organismi amministrativi privati veglieranno, per conto di questi assicuratori, perché queste norme vengano rispettate. Le risorse si faranno più scarse, i robot più numerosi. Il tempo, anche quello più intimo, verrà quasi interamente occupato dall'utilizzo delle merci. Un giorno, persino, ciascuno proporrà di autocurarsi, poi di produrre delle protesi da solo, e infine di essere donato. L'uomo diventerà allora un artefatto consumatore di artefatti, un cannibale mangiatore di oggetti cannibali, vittima di mali nomadi.

Tutto questo non potrà certo accadere senza terribili scosse: ben prima della scomparsa dell'impero americano, ben prima che il clima diventi quasi insopportabile, alcune popolazioni si disputeranno dei territori, avranno luogo innumerevoli guerre, e nazioni, pirati, mercenari, mafie, movimenti religiosi si doteranno di nuove armi, strumenti di sorveglianza, di dissuasione e di impatto, utilizzando le risorse dell'elettronica, della genetica e delle nanotecnologie. Inoltre, l'avvento dell'iperimpero porterà ciascuno a essere il rivale di tutti. Ci batteremo per il petrolio, per l'acqua, per conservare un territorio, per lasciarlo, per imporre una fede, per combatterne un'altra, per distruggere l'Occidente, per far prevalere i suoi valori. Prenderanno il potere dittature militari, confondendo eserciti e polizie. Scoppierà, forse, una guerra più micidiale dell'altra, un iperconflitto che cristallizzerà tutti gli altri, annientando l'umanità.

Intorno al 2060, ma non prima, a meno che l'umanità non scompaia sotto un diluvio di bombe, né l'impero americano, né l'iperimpero, né l'iperconflitto saranno più tollerabili. Nuove forze, altruiste e universaliste, già attive oggi, prenderanno il potere a livello mondiale, sotto l'imperio di una necessità ecologica, etica, economica, culturale e politica. Queste forze si ribelleranno alle esigenze della sorveglianza, del narcisismo e delle norme. E condurranno progressivamente a un nuovo equilibrio, questa volta planetario,, tra il mercato e la democrazia: l'“iperdemocrazia”. Istituzioni, mondiali e' continentali, organizzeranno allora, grazie alle nuove tecnologie, la vita collettiva. Porranno dei limiti all'artefatto commerciale, alla modifica della vita e alla valorizzazione della natura, favoriranno la gratuità, la responsabilità, l'accesso al sapere. Renderanno possibile la nascita di un'“intelligenza universale”, mettendo in comune le capacità creatrici di tutti gli esseri umani, per superarle. Si svilupperà una nuova economia, detta “relazionale”, producendo servizi senza cercare di trarne profitti, in concorrenza con il mercato. Prima di porvi fine, esattamente come il mercato pose fine, qualche secolo fa, al feudalesimo...

Così riassunto, ciò che precede potrebbe apparire evidentemente caricaturale, perentorio e arbitrario. Ma lo scopo di questo libro è di mostrare che questa è tuttavia l'immagine più verosimile del futuro. Non certo quella che auspico: scrivo questo libro perché il futuro non assomigli a quello che temo sarà, e per dare un aiuto al dispiegamento delle formidabili potenzialità oggi in atto.” (pp. 8-13)

2.

Rispetto ad altre ipotesi, come quella di Fukuyama sulla fine della storia, vale a dire sul trionfo finale del liberismo e del capitalismo, elaborate un po' alla rinfusa, quelle di Attali hanno il pregio di fondarsi su di una solida concezione storica che deve molto a Marx. Prima di dedicarsi alle previsioni sugli sviluppi futuri, egli traccia un sintetico bilancio del passato dell'umanità al fine di ricavare da esso un criterio o un principio tendenziale dello sviluppo storico. Tale principio sarebbe riconducibile all'affermazione della libertà individuale su qualunque altro valore.

Se questo è vero, non c'è da sorprendersi che la classe che più di ogni altra ha fatto proprio tale valore – la classe mercantile – abbia segnato profondamente la storia del mondo moderno e contemporaneo, affidandone la realizzazione alla democrazia, al mercato e al capitalismo.

Attali ha una concezione sostanzialmente positiva della classe mercantile, la cui intraprendenza e la cui creatività l'hanno portata nel corso dei secoli ad esplorare sempre nuove vie di sviluppo. L'evoluzione ha riconosciuto sempre un “cuore”, che Attali identifica con una città laddove si è ritrovata congiunturalmente riunita “una classe creativa (armatori, industriali, mercanti, tecnici, finanzieri), caratterizzata dal gusto per il nuovo e dalla psssione per la scoperta” (p. 38) Le nove forme assunte dall'ordine mercantile vanno dalla Bruges medioevale alla contemporanea Los Angeles, che, dopo Boston e New York, ha assicurato agli Stati Uniti l'egemonia economica, tecnologica, culturale e politica.

La nona forma è però giunta alla fine:

“La fine della nona forma già si preannuncia, così come, prima di essa, si è preannunciata con molto anticipo quella di tutte le forme precedenti.

Inizialmente, l'Ordine mercantile soffre di numerose contraddizioni interne. I deficit esteri esplodono e il loro finanziamento dipende sempre di più dall'estero. Mentre, nel 1985, il deficit estero americano (corrispondente al 2,8 per cento del PIL) era finanziato da governi esteri solo nella misura dell'8 per cento, nel 2006 corrisponde al 5,2 per cento del PIL ed è finanziato dall'estero per più del 30 per cento. Inoltre, i due terzi delle riserve mondiali, stimate in dollari, di cui 2 trilioni solamente in Asia, dal 2002 hanno perso un terzo del loro valore in euro.

Eccessivo, senza limiti, il sistema finanziario americano prolifera fuori da ogni controllo ed esige una redditività che l'industria non può raggiungere, al punto che le imprese industriali prestano ormai al settore finanziario il denaro che guadagnano, piuttosto che reinvestirlo nelle proprie attività. Di conseguenza, le automobili, gli elettrodomestici, i televisori e i telefoni americani non sono più della migliore qualità al mondo. E le imprese americane crollano sotto i debiti nei confronti dei propri pensionati.

Peraltro, una parte dell'industria americana è minacciata da Internet: tutto ciò che può essere dematerializzato viene progressivamente scambiato in modo gratuito. Le major vendono già meno CD rispetto a dieci anni fa, e i tentativi per sostituire le vendite di CD con le vendite di file digitali falliscono: nel 2006, su 20 miliardi di file digitali musicali scaricati attraverso il mondo, ne sono stati acquistati meno di un miliardo.

Anche i lavoratori salariati sono sempre più indebitati, in particolare quelli impiegati in due imprese pubbliche (Fannie Mae, seconda impresa degli Stati Uniti, e Freddie Mac, la quinta), che possiedono e garantiscono 4 trilioni di dollari di prestiti ipotecari, debito moltiplicato per quattro in dieci anni. Il tasso di risparmio dei salari americani non va oltre lo 0,2 per cento, il più basso al mondo, mentre era al 10 per cento fino al 1980. Il debito delle famiglie americane nei confronti degli enti emissori di carte di credito, nel 2006, supera diversi anni di entrate. La concorrenza dei creditori è implacabile: mentre appena vent'anni fa i banchieri storcevano il naso quando il 30 per cento delle entrate di una famiglia veniva destinato al rimborso dei suoi debiti, oggi considerano il livello del 50 per cento assolutamente tollerabile.

Del resto, le disuguaglianze tra gli americani più ricchi e gli altri diventano più profonde: il reddito dello 0,01 per cento dei più ricchi (fondamentalmente, gli attori dei mercati finanziari) è passato da, 50 volte il salario medio di un operaio nel 1975, a 250 volte quello stesso salario, trent'anni dopo. La metà della ricchezza creata tra il 1990 e il 2006 è andata a beneficio dell'1 per cento delle famiglie. Dal 1973, il salario di un operaio americano è sceso in rapporto alla concorrenza dovuta all'immigrazione e a quella dovuta alle delocalizzazioni. I lavoratori salariati americani lavorano oggi in media 46 settimane, ossia 6 in più rispetto agli europei, e rispetto a questi ultimi dispongono della metà di settimane di ferie.

Anche in California, nonostante il salario orario minimo sia in linea di massima di 8 dollari, un bambino su cinque vive al di sotto della soglia di povertà. Tre milioni e mezzo di sedentari americani si ritrovano per almeno tre mesi all'anno senza un riparo, e circa un bambino nero su dieci e un bambino di origine ispanica su venti abitano per almeno due mesi l'anno in un rifugio. Lo stesso succede a una persona anziana su dieci. A New York, più di 38.000 persone vengono ospitate ogni notte in ricoveri municipali, tra loro, 16.800 bambini e quasi altrettanti vecchi. Nel 2006, 41 milioni di americani non sono stati aiutati per niente e 31 milioni sono privi di ogni genere di assicurazione.

Su scala mondiale, i contrasti sono ancora più estremi: mentre, nel 1950, la metà della popolazione mondiale – ossia 1,2 miliardi di persone – viveva sotto la soglia della povertà assoluta, stimata a i dollaro al giorno, oggi la metà dell'umanità sopravvive con meno di 2 dollari al giorno, nuova soglia della povertà, e 1,3 miliardi non dispongono di più & 1 dollaro. Il salario orario minimo di un californiano è quattro volte maggiore rispetto al salario giornaliero di un terzo dell'umanità. La metà degli abitanti del globo non ha un dignitoso accesso né all'acqua corrente, né all'istruzione, né alla sanità, né al credito, n.i all'alloggio.

Il 78 per cento degli abitanti delle città del Sud vive in tuguri. In Etiopia, sono il 99,4 per cento. Le città crescono in maniera disordinata: Dakar, Kinshasa e Lagos hanno visto la loro popolazione moltiplicarsi per quaranta, tra il 1950 e il 2006. Si contano 200.000 bidonville sparse in tutto il mondo. I quarantanove paesi più poveri del pianeta, che raggruppano Vi l per cento della popolazione mondiale, ricevono ancora solo lo 0,5 per cento del PIL mondiale.

L'agricoltura mondiale ristagna, mentre la popolazione mondiale aumenta sempre più in fretta e soffre ancora la fame. La quantità di calorie a disposizione di ogni abitante del pianeta è aumentata solo del 3 per cento, tra il 1994 e il 2006. Ben 850 milioni di persone si trovano in una situazione di malnutrizione, ossia come mai era accaduto prima, 1 miliardo (di cui i due terzi sono femmine) è analfabeta, e più di 150 milioni di bambini tra i 6 e gli 11 anni non vanno a scuola.

La crescita aggrava la miseria di molti. Una parte importante dei beni esportati a bassissimo prezzo (vestiti, giocattoli, articoli sportivi) verso i magazzini europei e americani viene fabbricata da lavoratori ultrasfruttati nei paesi più poveri dell'Asia e dell'America Latina.

Nel 2006, 250 milioni di bambini nel mondo (di cui un quarto con meno di 10 anni) lavorano illegalmente e, tra loro, 180-milioni in condizioni di sfruttamento intollerabile. E 10 milioni sono vittima di schiavitù e prostituzione. Nello stesso anno, 22.000 bambini sono deceduti per incidenti sul lavoro. In Bangladesh, per esempio, il salario minimo mensile delle imprese di esportazione non supera i 10 dollari al mese e non viene rivalutato dal 1994, nonostante le sommosse; i bambini lavorano sette giorni su sette; ora, i salari rappresentano in realtà meno del I O per cento dei costi di produzione. E nessuno controlla niente.

In Africa, la situazione è peggiore: tra il 1987 e il 2006, il reddito per abitante è diminuito di un quarto. Tra il 1970 e il 2006, la sua quota nei mercati mondiali si è ridotta della metà e il suo debito si è moltiplicato per 20, uguagliando ora la sua produzione totale. Nel 2006, l'AIDS, malattia comparsa all'inizio degli anni Ottanta, colpisce qui 30 milioni di persone, tra cui molti adulti con meno di 40 anni (insegnanti, giovani funzionari, poliziotti, soldati), distruggendo l'infrastruttura umana di questi paesi. Solo 27.000 ricevono una cura, poiché il costo della triterapia è 12.000 volte più elevato di quanto ogni africano spenda annualmente in medicine.

Lì, dove lo status delle donne è particolarmente alienato dall'Africa del Nord al nord dell'India, e qualunque sia la religione – la miseria è cosa perfino peggiore.

Di fronte a questo terribile ritardo, i movimenti di popolazione diventano più rapidi. In Africa, in particolare, più di un quinto degli abitanti non vive nel posto in cui è nato. Ed è lo stesso anche per un quinto degli abitanti dell'Australia, per un dodicesimo di quelli degli Stati Uniti, per un ventesimo di quelli dell'Unione Europea.

Inoltre, la violenza non è mai cessata: anche se non c'è una guerra dichiarata, la scomparsa dello scontro Est-Ovest porta alla luce del sole gli scarti Nord-Sud. Dappertutto ci sono guerre civili, dai Balcani all'America Latina, dall'Africa al Medio Oriente.” (pp. 85-88)

L'Impero americano sta, insomma inesorabilmente tramontando: “l'attuale forma di capitalismo è soggetta alle stesse minacce di quelle che hanno superato le forme precedenti: la sua sicurezza è in pericolo, la classe creativa non è più leale, i progressi tecnici sfruttabili industrialmente sono sempre più lenti, l'industria è sempre meno redditizia, la speculazione finanziaria sempre più sfrenata., Le disuguaglianze si fanno più gravi, monta la rabbia e si sviluppa un indebitamento consistente.” (p. 92)

Gli esseri umani, soprattutto gli occidentali, avvertono l'imminenza della crisi e si difendono come possono: “Da una parte, per proteggersi dai rischi, la risposta razionale di ogni attore del mercato sarà (è già) di assicurarsi, ossia di proteggersi dalle alee del futuro. Le “compagnie di assicurazioni” (e gli istituti di copertura dei rischi dei mercati finanziari) completeranno i regimi di sicurezza sociale e diventeranno – se non lo sono già – le prime industrie del pianeta, dal punto di vista delle loro cifre d'affari e dei profitti che realizzeranno. Per i più poveri, le microassicurazioni saranno uno strumento essenziale per la riduzione dell'insicurezza.

Dall'altra parte, per sfuggire alla precarietà, ciascuno vorrà divertirsi, ossia allontanarsi, proteggersi dal presente. Le “industrie della distrazione” (turismo, cinema, televisione, musica, sport, teatro, giochi e spazi cooperativi) diventeranno – se non lo sono già – le prime industrie del pianeta per il tempo che occuperà la consumazione dei loro prodotti e dei loro servizi. I media avranno un'influenza crescente sulla democrazia e sulle scelte dei cittadini.

Le une e le altre fungeranno da pretesto per attività illegali: il racket rappresenta la forma criminale delle assicurazioni, e il commercio sessuale e le droghe rappresentano le forme criminali della distrazione.

Tutte le imprese, tutte le nazioni si organizzeranno intorno a queste due esigenze: proteggere e distrarre. Proteggersi e distrarsi dalle paure del mondo.” (pp. 104-105)

3.

I motivi dell'inesorabilità della crisi sono due: la privatizzazione di tutti i servizi, che toglierà allo Stato gran parte delle sue funzioni e del denaro di cui dispone attraverso le tasse, e la rivendicazione da parte degli esseri umani di tempo libero. I due fattori sono correlati tra loro. La rinuncia da parte dello Stato a gestire i servizi sociali e la necessità degli individui di darsi da fare per assicurarseli con denaro proprio determinerà un ritmo di vita affannoso e precario.

La fine dell'Impero, secondo Attali, è già in corso. Essa è dovuta in gran parte al fatto che l'Economia, in virtù della tecnologia e della sua estensione a livello globale, erode lentamente ma inesorabilmente il potere dello Stato, inducendo una privatizzazione di tutti i servizi.

L'iperimpero - il primo scenaro descritto da Attali - coincide per l'appunto nella “decostruzione” dello Stato dovuta allo sviluppo stesso del capitalismo e delle sue tecnologie:

“Queste tecnologie interverranno nel momento in cui le spese mutualizzate diverranno sempre più consistenti. Paese dopo paese, settore dopo settore, ridurranno progressivamente il ruolo dello Stato e delle istituzioni pubbliche di previdenza. Così, la parte delle spese collettive nel reddito nazionale di ciascun paese, dopo essere aumentata, diminuirà considerevolmente.

La crescita dei mercati nel mondo policentrico agirà allora nella stessa direzione di queste tecnologie e contribuirà anch'essa al considerevole indebolimento degli Stati. Inizialmente, le grandi imprese, appoggiandosi a migliaia di società specializzate, influiranno sui media – con il ricatto alla pubblicità – alfine di orientare le scelte dei cittadini. Successivamente indeboliranno gli Stati.

In un primo tempo, quando le ricche minoranze si renderanno conto di avere maggiore interesse a che un settore sia sottomesso al mercato piuttosto che al voto, faranno di tutto perché questo settore venga privatizzato. Così, per esempio, quando una minoranza ricca penserà che il sistema pensionistico per ripartizione non sia più conforme ai propri interessi farà in modo, allacciando alleanze temporanee, che venga trasformato in un sistema pensionistico per capitalizzazione, in modo che le proprie pensioni non dipendano più da una decisione della maggioranza, che potrebbe esserle sfavorevole. Allo stesso modo per la sanità, la polizia, l'istruzione, l'ambiente.

In seguito, il mercato, per natura planetario, trasgredirà le leggi della democrazia, per natura locale. I membri più ricchi della classe creativa (alcune centinaia di milioni sui due miliardi di detentori di azioni, di beni attivi mobili e di sapere nomade) considereranno la propria permanenza in un paese (compreso quello di nascita, foss'anche uno dei paesi dominanti dell'ordine policentrico) come un contratto individuale che non prevede alcuna lealtà e alcuna solidarietà con i compatrioti. Ed espatrieranno, se riterranno di non aver avuto abbastanza in cambio.

Allo stesso modo, quando le imprese – comprese quelle delle nazioni divenute padrone dell'ordine policentrico – riterranno che il sistema fiscale e il diritto loro applicabili non siano i migliori a cui possano aspirare trasferiranno i loro centri di decisione fuori dal proprio paese d'origine.

Gli Stati si faranno allora concorrenza attraverso una considerevole riduzione delle imposte sul capitale e sulla classe creativa, privandosi progressivamente della parte fondamentale delle proprie risorse. Esangui, e spinti anche dalla comparsa degli autosorveglianti, gli Stati abbandoneranno al mercato la responsabilità della proposta della maggior parte dei servizi rilevanti relativi all'istruzione, alla salute, alla sicurezza e persino alla sovranità.

Dapprima delocalizzando i servizi pubblici nei paesi a basso costo di manodopera, poi privatizzandoli. A quel punto le imposte diminuiranno, i redditi minimi e i regolamenti a protezione dei più deboli verranno spazzati via. La precarietà diverrà generalizzata.

A causa dell'assenza dello Stato, le imprese favoriranno pertanto sempre più i consumatori a discapito dei lavoratori, i cui redditi diminuiranno. Le tecnologie dell'autosorveglianza organizzeranno e accelereranno questo processo, favorendo il consumatore a discapito dell'utente del servizio pubblico, il profitto a discapito del salario, dando sempre maggior potere alle compagnie di assicurazioni e di distrazione e ai produttori di autosorveglianti.

Comincerà allora, al più tardi intorno al 2050, una lenta decostruzione degli Stati nati più di mille anni fa. La classe media, attore principale della democrazia di mercato, ritroverà la precarietà alla quale credeva di essere sfuggita distinguendosi dalla classe operaia; il contratto avrà sempre più la meglio sulla legge; i mercenari sugli eserciti e la polizia; gli arbitri sui giudici. I giuristi specializzati in diritto privato faranno furore.

Per un certo periodo, gli Stati dei paesi dominanti dell'ordine policentrico potranno ancora stabilire alcune regole di vita sociale. La maggiore età politica si legherà a quella economica, ovvero all'età in cui il bambino diventerà un consumatore autonomo. In tutti i paesi, i partiti politici, nel completo smarrimento, cercheranno – sempre più invano – dei campi di competenza: né la sinistra né la destra potranno impedire la progressiva privatizzazione dell'istruzione, della sanità, della sicurezza, delle assicurazioni, né la sostituzione di questi servizi con oggetti prodotti in serie, né, ben presto, l'avvento dell”iperimpero”. La destra ne accelererà persino l'avvento con alcune privatizzazioni. La sinistra farà altrettanto, offrendo alla classe media i mezzi per accedere in modo più equo alla mercificazione del tempo e al consumo privato.

L'appropriazione pubblica delle grandi imprese non sarà più una soluzione credibile, e il movimento sociale non avrà più la forza di opporsi alla mercificazione del mondo. Governi mediocri, fondati su pochi funzionari e parlamentari screditati, manipolati dai gruppi di pressione, continueranno a offrire uno spettacolo con sempre meno spettatori, preso sempre meno sul serio. L'opinione pubblica non si interesserà alle loro azioni più di quanto oggi si interessi a quelle delle ultime monarchie del continente europeo.

Le nazioni saranno soltanto delle oasi in competizione tra loro per attirare carovane di passaggio. Il loro tenore di vita sarà limitato dalle scarse risorse, proposte a quei nomadi che accetteranno di fermarvisi abbastanza a lungo da produrre, commerciare, distrarsi. I paesi saranno abitati in modo stabile solo dai sedentari – obbligati a starvi perché troppo nemici del rischio, troppo fragili, troppo giovani o troppo vecchi – e dai più deboli, secondo alcuni giunti dall'estero alla ricerca di uno stile di vita più decente.

Si svilupperanno soltanto gli Stati che avranno saputo conquistarsi la lealtà dei propri cittadini, favorendo la creatività, l'integrazione e la mobilità sociale. Alcune nazioni dalla tradizione socialdemocratica e alcune minuscole entità statali resisteranno meglio di altre.

Ironia della Storia: con l'avvento dell'iperimpero, assisteremo così al ritorno di quelle città-Stato che dominarono agli inizi dell'Ordine mercantile.

In alcuni paesi, per impedire questa distruzione dell'identità nazionale e per far fronte alle ondate d'immigrazione che si succederanno, prenderanno il potere delle dittature razziste, teocratiche o laiche.” (pp. 147-149)

“Il capitalismo volgerà allora al termine: distruggerà tutto ciò che non è se stesso. Trasformerà il mondo in un immenso mercato, dal destino scollegato da quello delle nazioni, svincolato dalle esigenze e dalle schiavitù di un ‘cuore”. Questo iperimpero avrà, come l'impero americano prima di lui e come ognuna delle nove forme dell'Ordine mercantile, aspetti incredibilmente liberatori, ma anche dimensioni estremamente alienanti. Perfezionerà ciò che il mercato ha cominciato sin dalle origini: fare di ogni minuto della vita un'occasione per produrre, scambiare e consumare il valore mercantile.” (p. 151)

Chi saranno i padroni dell'iperimpero?

“I padroni dell'iperimpero saranno le vedettes dei “circhi” e delle “compagnie teatrali”: detentori del capitale delle “imprese-circo” e dell'attivo nomade, strateghi finanziari o di impresa, a capo delle compagnie di assicurazioni e del tempo libero, architetti di software, creativi, giuristi, operatori di finanza, autori,, designer, artisti, forgiatori di oggetti nomadi, li definisco qui “ipernomadi”.

Saranno alcune decine di milioni, donne e uomini, dipendenti di se stessi, andranno vagando da “teatro” a “circo”, concorrenti spietati, né impiegati né datori di lavoro, ma a volte esercitando più di un lavoro alla volta, gestendo la vita come un portafoglio di azioni.

Attraverso una competizione molto selettiva, costituiranno una nuova classe creativa, un”iperclasse”, che dirigerà l'iperimpero. Vivranno in tutti i “cuori” del mondo policentrico. Dovranno difendere le proprietà di capitali, creazioni, software, brevetti, talento, ricette e opere d'arte. Parleranno un numero sempre crescente di lingue, aiutati in questo da macchine traduttrici. Insieme ipocondriaci, paranoidi e megalomani, narcisisti ed egocentrici, gli ipernomadi cercheranno di avere accesso agli autosorveglianti più recenti e alle droghe elettroniche e chimiche rilasciate attraverso gli autoriparatori. Vorranno diventare più vecchi di tutti gli altri e per questo sperimenteranno tecniche che offriranno loro la speranza di raddoppiare la durata della vita. Si daranno a tutte le ricette di meditazione, di rilassamento e di apprendimento dell'amore di sé.

L'apprendimento sarà, per loro, una necessità vitale; la curiosità, un'esigenza assoluta; la manipolazione, una pratica corrente. I loro canoni estetici saranno specifici, così come le distrazioni e la cultura. Quest'ultima sarà più che mai labirintica, e il bisogno di modellare e di inventare li condurrà a non vedere più le frontiere tra lavorare, consumare, creare, allontanarsi.

Inventeranno in questo modo le cose migliori e le cose peggiori di una società planetaria volatile, noncurante, egoista e precaria. Arbitri dell'eleganza, padroni delle ricchezze e dei media, non riconosceranno nessuna fedeltà, né nazionale, né politica, né culturale. Si vestiranno sempre di più come nomadi, ricordando con la loro tenuta i peripli, le protesi e le reti che fanno parte della loro vita. Saranno i mecenati di artisti multiformi, che mischieranno forme d'arte virtuale, nelle quali le emozioni saranno suscitate, misurate, captate e modificate dagli autosorveglianti. Vivranno in città private, protette da mura controllate da mercenari.” (p. 157-158)

L'iperimpero avrà, oltre ai vincitori, anche i vinti e le vittime:

“L'iperimpero, in realtà, farà trionfare il mercato su scala mondiale, ma non farà scomparire la povertà, che interesserà ancora una parte crescente dell'umanità: il numero di quelli che definisco “infranomadi”, che vivranno al di sotto della soglia di povertà, cioè con meno di due dollari al giorno, nel 2035 supererà i 3,5 miliardi, invece dei 2,5 miliardi del 2006.

Gli Stati, indeboliti, non potranno più finanziare standard decenti di assistenza. I tentativi per ridurre il numero dei più poveri col solo gioco delle forze del mercato si concluderanno con un fallimento, la crescita non offrirà abbastanza posti di lavoro, la produzione di beni specifici destinati a questa categoria non sarà sufficiente a farla accedere ai beni di base, il mercato non riuscirà, da solo, a installare nelle megalopoli le infrastrutture rese necessarie dalla crescita del numero dei cittadini.

Gli infranomadi saranno, da parte loro, sempre più vulnerabili alle epidemie, alla penuria d'acqua, alla desertificazione, al riscaldamento climatico, e saranno sempre più costretti a trasferirsi dalla campagna verso la città, e poi da città a città, per sfuggire alla miseria e alla siccità, per cercare un lavoro e un alloggio.

Saranno sempre più disponibili a qualsiasi rivolta e alimenteranno l'economia pirata. Saranno così i principali bersagli dei mercanti di utopie e diventeranno gli attori principali, e le prime vittime, dell”iperconflitto”, se avrà luogo. Ma saranno anche le principali poste in gioco e i grandi vincitori dell”iperdemocrazia”, se si materializzerà.

Nell'attesa – sconfitta peggiore – nessuno sarà più capace di organizzare l'amministrazione dell'iperimpero.

Questa vittoria del mercato sulla democrazia creerà una situazione praticamente inedita: un mercato senza Stato. Ora, tutti gli studiosi riconoscono che un simile mercato suscita l'apparizione di cartelli, sottoutilizza le forze produttive, spinge alla speculazione finanziaria, favorisce la disoccupazione, spreca le risorse naturali, lascia campo libero all'economia criminale, dà il potere ai pirati...

Gli Stati, o ciò che ne sarà rimasto intorno al 2050, saranno soltanto gli intermediari delle imprese con l'opinione pubblica. Nessuno sarà più in grado di assicurare l'uguaglianza del trattamento dei cittadini, l'imparzialità delle elezioni, la libertà delle informazioni.

Il mercato stesso non potrà essere soddisfatto di una situazione del genere: per esistere, ha sempre avuto bisogno, ovunque si sia insediato, di uno Stato forte. Su scala mondiale, avrà bisogno che alcune regole vengano rispettate, perché i cattivi giocatori non falsino la concorrenza, perché la legge delle armi non si sostituisca a quella dello scambio, perché il diritto di proprietà non venga infranto, perché i consumatori restino solvibili e perché la violenza venga controllata socialmente.” (p. 162-163)

In breve:

“Intorno al 2050, l'iperimpero sarà un mondo di estremi squilibri e di grandi contraddizioni. Fallirà e crollerà, preso nella propria rete. Mentre la trasparenza renderà più visibili e meno tollerabili le disuguaglianze, i cicli economici, politici e militari avranno un'ampiezza sempre maggiore. Col pretesto di aiutare gli uomini a uscire dalla penuria, il mercato dovrà crearne di nuove; le imprese industriali si assumeranno sempre meno rischi, esigendo allo stesso tempo, sotto la pressione delle assicurazioni, la massima redditività; i lavoratori salariati reclameranno invano che la loro quota di reddito non diminuisca; i consumatori, per di più elettori, rivendicheranno l'abbassamento dei prezzi. La crescente priorità accordata al breve termine, all'immediato, al precario, alla slealtà, renderà sempre più difficile finanziare qualsiasi ricerca e riscuotere le imposte. Le assicurazioni non saranno in grado di coprire tutti i rischi. La distrazione e l'informazione non riusciranno più a distogliere l'attenzione dal fracasso delle tragedie. La crescita, che oggi permette a tutti di sperare, non potrà più servire da alibi.” (p. 166-167)

4.

Decostruendo lo Stato, il capitalismo crea dunque le premesse della sua fine. Ma questa potrebbe essere tutt'altro che indolore perché l'indebolimento e la perdita progressiva di potere dello Stato potrebbero tradursi in una stagione di violenza a livello mondiale:

“Gli Stati non sono mai stati gli attori esclusivi della violenza nel mondo. Mafie, gang, movimenti terroristici – che qui chiamerò “pirati” - si sono sempre intromessi tra le nazioni, per combatterle o, per lo meno, violare le loro leggi. Quando la decostruzione indebolirà gli Stati, e il diritto e le forze di polizia diventeranno meno invadenti, la violenza prolifererà nella vita pubblica e tra gli individui, e questi pirati diventeranno persino degli agenti fondamentali dell'economia e della geopolitica.

Dal momento in cui la nona forma volgerà al termine e comincerà l'iperimpero, i pirati diventeranno più numerosi e più potenti che mai. Non cercheranno più soltanto di farsi posto in seno all'iperimpero, non si accontenteranno più di approfittare di una guerra fredda. Quali che siano le loro motivazioni, criminali o politiche, non avendo né territori e neanche famiglie da proteggere, cercheranno di consolidare il proprio potere sul mondo. Più l'iperimpero si svilupperà, più diventeranno potenti, senza che le forze di polizia statali abbiano i mezzi per combatterli.

I pirati saranno di diverso tipo.

Alcune delle nazioni che si sfasceranno sotto la pressione dei mercati e del gioco democratico faranno nascere entità pirata, zone fluide, senza legge, Stati pirata o non-Stati. Saranno nelle mani di comandanti di guerra alla testa di bande sovrarmate, in grado di controllare regioni, porti, oleodotti, strade e materie prime...

Organizzazioni mafiose, cartelli, criminali in colletto bianco, responsabili di traffico di droga, di donne, di armi e di giochi, operando senza basi geografiche, raccoglieranno fondi, minacciando e agendo come gli Stati e contro gli Stati per garantire la propria sicurezza. Si doteranno – lo fanno già – delle armi più sofisticate, minacceranno giudici, poliziotti e dirigenti politici che potrebbero mettersi sulla loro strada...

Raggruppamenti politici o religiosi, anch'essi privi di base territoriale, si doteranno di tutti i mezzi militari per assumere il controllo di un paese, cacciarne gli occupanti e distruggervi l'Ordine mercantile...

Nasceranno anche altre forme pirata. La proliferazione della violenza e della collera, resa possibile dall'insediamento dell'iperimpero, provocherà audacie di genere nuovo: masse di infranomadi, senza nient'altro in comune che viaggiare insieme, potrebbero rivelarsi minacciose...

Alcune di queste forze si coalizzeranno contro alcuni Stati, in particolare contro le democrazie: vedremo – lo vediamo già – baroni della droga al servizio di cause politiche, o servirsi di immigranti come traghettatori. Vedremo – lo vediamo già – nazioni in rovina diventare il rifugio di mafiosi. Vedremo – lo vediamo già – forze terroristiche, per natura nomadi, trovare rifugio all'interno di non-Stati; vedremo – lo vediamo già – organizzazioni mafiose sostenere ambizioni politiche, laiche o religiose come Cosa Nostra o i gangster francesi divenuti collaborazionisti nel 1940. Vedremo – lo vediamo già – violenze urbane così estreme da esigere risposte militari più che di polizia.

Di fronte a queste minacce o aggressioni, le nazioni avranno bisogno di soldati e di forze di polizia sempre più numerosi, capaci di mettere a rischio la propria vita. Ora, i volontari diventeranno sempre più rari, e le opinioni pubbliche delle democrazie di mercato non vorranno più morti nei propri eserciti, e ancora meno tra i coscritti. Già oggi, soltanto lo 0,5 per cento della popolazione americana è sotto le armi, e ogni soldato ucciso è una tragedia nazionale. Per garantire le missioni in cui si è impegnato, l'impero americano dovrà, come fece un tempo l'Impero Romano, arruolare sempre più stranieri nelle proprie truppe..

Ma questo non sarà più sufficiente: ai “pirati” bisognerà opporre i “corsari”. Si svilupperanno imprese di mercenari, con l'impiego di ex militari, che saranno utilizzate come subappaltatori degli eserciti e delle forze di polizia. In Africa, esistono già un centinaio di società di questo tipo, che forniscono uomini e materiali a governi, a imprese e persino a istituzioni internazionali.

Molto presto assicureranno funzioni generali di sicurezza: difesa, protezione e addirittura attacco. Mercenari di questo genere verranno finanziati legalmente da imprese industriali, mettendoli al servizio di governi da cui cercheranno di ottenere dei mercati.” (pp. 173-175)

Queste diverse forze, sprigionate dal crollo dell'iperimpero, sono destinate inesorabilmente a confliggere tra loro per assicurarsi, mantenere o accrescere il potere ad ogni costo e con ogni mezzo:

“Quando il mondo policentrico si scioglierà, quando i corsari, i pirati, gli eserciti privati, i mercenari, i terroristi tenteranno di insediarsi, i regimi totalitari si elimineranno tra loro, senza riconoscere alcuna legge di guerra né alcun arbitro. Paesi del Nord si associeranno con paesi del Sud; terroristi islamici si alleeranno con cartelli della droga. Avranno luogo contemporaneamente guerre calde e guerre fredde, guerre private e guerre statali. Forze di polizia ed eserciti si confonderanno senza più rispettare la minima legge di guerra. Le popolazioni civili saranno prede, raggiunte da tutte le armi di distruzione di massa. Le religioni del Libro si contrapporranno tra loro, per la più grande soddisfazione dei loro avversari. Alcuni teologi vi vedranno il segno dello scoppio della battaglia che nella Bibbia indica la fine dei tempi...

Se, una volta instaurato l'iperimpero, tutte queste fonti di conflitto si congiungessero un giorno in un'unica battaglia, se tutti gli attori di cui abbiamo parlato finora trovassero qualche interesse a entrare uno dopo l'altro nello stesso conflitto, scoppierebbe allora un “iperconflitto”...

Nessuna istituzione sarà più allora in grado di negoziare un compromesso né di bloccare l'ingranaggio. Il mondo diventerebbe un immenso campo di battaglia in cui cozzerebbero, uno contro l'altro, nazioni, mercenari, terroristi, pirati, democrazie, dittature, tribù, mafie nomadi, gruppi religiosi, gli uni combattendo per il denaro, gli altri per la fede, la terra o la libertà.

Tutte le armi di cui abbiamo parlato in precedenza verranno allora utilizzate. L'umanità, che dagli anni Sessanta dispone di mezzi nucleari tali da suicidarsi, li utilizzerà. Non ci sarà più nessuno per scrivere la Storia, che è sempre la ragione del più forte.

Non ci sarà niente di impossibile: la tragedia dell'uomo è che, quando può fare qualcosa, finisce sempre per farla.” (pp. 201-202)

5.

A questa tragica prospettiva, Attali oppone la speranza di una rivoluzione democratica:

“Molto prima che l'umanità abbia in questo modo posto fine alla propria storia – o almeno vorrei poterlo credere-, il fallimento dell'iperimpero e il rischio dell'iperconflitto porteranno le democrazie a trovare una spinta sufficiente per sconfiggere i pirati e respingere le proprie pulsioni di morte.

Gli eserciti dell'Alleanza spazzeranno via i dittatori, i cartelli della droga verranno controllati, le grandi imprese non giocheranno più il proprio avvenire sulla crescita delle commesse militari, tutte le religioni si placheranno e diventeranno forze di pace, di ragione e di tolleranza. Forze nuove, già in azione, prenderanno il potere al fine di creare un mondo giusto, quieto, unito, fraterno.

Allora, come avvenne dopo la caduta dell'Impero Romano, rinascerà – sulle rovine di un passato promettente, sciupato da una serie troppo lunga di errori – una formidabile voglia di vivere, di gioiosi incroci e di gratificanti trasgressioni. Ne scaturiranno nuove civiltà, sorte sui resti delle nazioni esangui e dell'iperimpero privo di successori, e alimentate da nuovi valori.

Si insedierà una democrazia planetaria, che limiterà i poteri del mercato. Che tenterà di vincere altre guerre, molto più urgenti: contro la follia degli uomini, contro le irregolarità del clima, contro le malattie mortali, l'alienazione, lo sfruttamento e la miseria.

Si leverà allora la terza ondata del futuro, quella dell”iperdemocrazia”.” (p. 202-203)

Su quali basi si può avviare l'iperdemocrazia? Sulla presa di coscienza collettiva che si può vivere meglio, ma anche sulla certezza della catastrofe imminente:

“Parecchie forze positive spingono da questo momento all'instaurazione di un mondo vivibile per tutti: la vertiginosa scoperta delle scienze, i formidabili progressi delle tecniche faranno sempre più prendere coscienza a un numero crescente di persone che il mondo è un villaggio, che l'abbondanza è possibile, che tutti possono vivere molto più a lungo e molto meglio.

In particolare, si potrebbe dedurne, razionalmente, che il clima può essere stabilizzato, che l'acqua e l'energia possono abbondare, che l'obesità e la miseria possono scomparire, che la non-violenza è possibile, che la prosperità per tutti è realistica, che la democrazia può diventare universale, che le imprese possono servire il bene comune, che è persino concepibile proteggere tutte le differenze e crearne di nuove.

E tuttavia, la presa di coscienza di queste potenzialità non sarebbe sufficiente a impedire l'avvento dell'iperimpero, né a evitare l'iperconflitto: l'uomo non ha mai costruito niente sulle buone notizie.

Al contrario, qualche catastrofe annunciata dimostrerà crudamente ai più scettici che il nostro modo di vita attuale non può durare: lo sconvolgimento del clima, la differenza crescente tra i più ricchi e i più poveri, l'aumento dell'obesità e dell'uso di droghe, l'ascendente della violenza nella vita quotidiana, gli atti terroristici sempre più terrificanti, l'impossibile “bunkerizzazione” dei ricchi, la mediocrità dello spettacolo, la dittatura delle assicurazioni, l'invasione del tempo da parte delle merci, la penuria d'acqua e di petrolio, l'aumento della criminalità urbana, le crisi finanziarie sempre più ravvicinate, le ondate immigratorie che approdano sulle nostre spiagge, dapprima mani tese e poi pugno chiuso, le tecnologie sempre più micidiali e selettive, le guerre sempre più folli, la miseria morale dei più ricchi, la vertigine dell'autosorveglianza e della donazione, un giorno riusciranno a svegliare quelli che dormono più profondamente. I disastri saranno, ancora una volta, i migliori avvocati del cambiamento.” (p. 206)

Il cambiamento avverrà, secondo Attali, a partire da un'avanguardia di uomini di buona volontà che avvieranno un nuovo modello di sviluppo economico, parallelo a quello capitalistico:

“Attori d'avanguardia che chiamerò i “transumani” animeranno – animano già - “imprese relazionali” in cui il profitto non sarà nient'altro che un obbligo, e non una finalità. Tutti i transumani saranno altruisti, cittadini del pianeta, nomadi e sedentari allo stesso tempo, uguali nei diritti e nei doveri verso i propri vicini, ospitali e rispettosi del mondo. Insieme, faranno nascere istituzioni planetarie e orienteranno le imprese industriali in una nuova direzione. Queste ultime svilupperanno, per il benessere di ciascun individuo, “beni essenziali” (il più importante sarà il “buon tempo”), e per il benessere di tutti un “bene comune” (la cui dimensione principale sarà l”intelligenza collettiva”).

Poi, anche al di là di un nuovo equilibrio mondiale tra mercato e democrazia, tra servizi pubblici e imprese, i transumani faranno sorgere un nuovo ordine di abbondanza, da cui il mercato sarà a poco a poco escluso a vantaggio dell'economia relazionale.” (p. 207)

Da dove verranno mai i transumani? Da un processo di selezione culturale all'interno della classe creativa che ha portato avanti il capitalismo:

“Quando un convoglio è in cammino, l'avanguardia conta molto di più dei generali che si imboscano in mezzo alle loro truppe. La Storia si biforca solo quando esseri avventurosi, preoccupati della salvaguardia della propria libertà e della difesa dei propri valori, fanno avanzare – generalmente con loro grandissima disgrazia – la causa degli uomini. Nell'Ordine mercantile, questa avanguardia è stata finora composta, come abbiamo visto di “cuore” in “cuore”, da quella che ho chiamato la “classe creativa”: imprenditori, inventori, artisti, finanzieri, dirigenti politici.

In avvenire, una parte di questa classe, che riunisce gli individui particolarmente sensibili a questa storia del futuro, comprenderà che la loro felicità dipende da quella degli altri, che la specie umana potrà sopravvivere solo stando unita e in pace. Smetteranno di appartenere alla classe creativa mercantile e rifiuteranno di porsi al servizio dei pirati. Diventeranno quelli che chiamo qui i “transumani”.

Altruisti, interessati alla storia del futuro, coscienti che la sorte dei contemporanei e dei discendenti li riguarda personalmente, preoccupati di dare aiuto, di comprendere, di lasciare dopo di loro un mondo migliore, i transumani non si accontenteranno né dell'egoismo degli ipernomadi, né del desiderio di distruggere i pirati. Non crederanno di essere i proprietari del mondo, ma ammetteranno di averne soltanto l'usufrutto. Saranno pronti a mettere in pratica le virtù del sedentario (vigilanza, ospitalità, senso del lungo termine) e quelle del nomade (caparbietà, memoria e intuizione). Si sentiranno allo stesso tempo cittadini del mondo e membri di diverse comunità. La loro nazionalità sarà quella delle lingue che parleranno, e non più soltanto quella dei paesi in cui abiteranno. Per loro, la ribellione contro l'ineluttabile sarà la regola, l'insolenza dell'ottimismo sarà la morale, la solidarietà servirà da ambizione. Troveranno la propria felicità nella gioia di procurare gioia, in particolare ai bambini di cui saranno responsabili.

Impareranno di nuovo che trasmettere è l'elemento distintivo dell'uomo.

Le donne avranno meno difficoltà degli uomini a essere transumane: provare gioia nel procurare gioia è una caratteristica propria della maternità. La progressiva ascesa delle donne in tutte le dimensioni dell'economia e della società, in particolare nella microfinanza, moltiplicherà i transumani... Tra loro, miliardari che hanno rimesso la parte più consistente della propria fortuna a una fondazione, innovatori sociali, professori, creatori, religiosi o, semplicemente, persone di buona volontà. Persone per le quali gli altri sono un valore in sé.

Mentre, nel mondo della penuria, cioè nel mercato, l'altro è un rivale (il nemico che arriva a contenderci i beni scarsi, colui contro il quale si costruisce la libertà e con cui non bisogna condividere nessun sapere), per il transumano l'altro sarà prima di tutto il testimone della propria esistenza, il mezzo per verificare di non essere solo. L'altro gli permetterà di parlare, di trasmettere, di mostrarsi generoso, amorevole, di superarsi, di creare più di quanto abbia bisogno e più di quanto si ritenga capace di fare. L'altro gli consentirà di comprendere che l'amore per gli altri, e quindi per se stesso, è la condizione per la sopravvivenza dell'umanità.

I transumani metteranno in piedi, accanto all'economia di mercato in cui ciascuno si misura all'altro, un'economia dell'altruismo, della disponibilità gratuita, del dono reciproco, del servizio pubblico, dell'interesse generale. Questa economia, che definisco “relazionale”, non obbedirà alle leggi della scarsità: dare conoscenza non ne priva colui che nefa dono.

Consentirà di produrre e di scambiare servizi davvero gratuiti – di distrazione, di salute, di istruzione, di relazione ecc. - che ognuno riterrà opportuno offrire all'altro, e di produrre senza altra remunerazione che la considerazione, la riconoscenza, la festa. Servizi non scarsi, perché più si dona, più si riceve. E più si dona, più si hanno il desiderio e i mezzi per donare. Lavorare diventerà, anche nell'economia relazionale, un piacere privo di obblighi.” (p. 208-209)

“I transumani formeranno una nuova classe creativa, portatrice di innovazioni sociali e artistiche, e non più soltanto commerciali.

I transumani metteranno a punto gli strumenti per la propria azione: così come i promotori del mercato creano imprese industriali, beneficiarie di risorse scarse, i transumani promuoveranno “imprese relazionali”, beneficiarie di risorse per la maggior parte illimitate. La loro finalità sarà quella di migliorare le sorti del mondo, occupandosi dei problemi che il mercato non potrà risolvere, controbilanciando la globalizzazione del mercato con quella della democrazia. In queste imprese, il profitto sarà un obbligo necessario alla sopravvivenza, non una finalità.” (p.210)

“Faranno la loro comparsa nuove imprese relazionali, in particolare per la gestione delle città, nel settore dell'istruzione, della sanità, della lotta contro la povertà, della gestione dell'ambiente, della tutela della donna, del commercio equo, dell'alimentazione equilibrata, della valorizzazione della gratuità, del reinserimento sociale, della lotta contro la droga e della sorveglianza dei sorveglianti. Si sostituiranno a imprese private e a servizi pubblici, si faranno carico della prevenzione delle malattie, del reinserimento degli emarginati, dell'organizzazione dell'accesso dei più deboli ai beni essenziali, in particolare all'istruzione, della risoluzione dei conflitti. In queste imprese, emergeranno nuovi mestieri. E vi si svilupperà una nuova attitudine nei confronti del lavoro, consistente nel provare gioia nel dare: far sorridere, trasmettere, soccorrere, consolare.

Insieme, queste imprese relazionali costituiranno una nuova economia, oggi marginale quanto lo era il Capitalismo all'inizio del XIII secolo, ma altrettanto premonitrice dell'avvenire.” (p. 211)

Data la diversa logica di riferimento, si può prevedere un conflitto tra economia relazionale e economia di mercato. Tale conflitto potrà essere però risolto sulla base del riconoscimento di un reciproco interesse:

“L'economia relazionale e l'economia di mercato avranno ognuna interesse al successo dell'altra: l'economia relazionale avrà interesse a che il mercato sia il più efficace possibile, mentre l'efficacia del mercato dipenderà in modo cruciale dal clima sociale generato dall'economia relazionale. Infine, le grandi imprese del mercato verranno giudicate sempre più spesso dai loro stessi azionisti, in base alla loro capacità di servire l'interesse generale e di promuovere le attività relazionali.” (p. 216)

L'iperdemocrazia è destinata a produrre un salto di qualità sulla via della civiltà di immensa portata:

“L'iperdemocrazia svilupperà un “bene comune”, che creerà 1' “intelligenza collettiva”.

Il bene comune dell'umanità, finalità collettiva dell'iperdemocrazia, non sarà né la grandiosità, né la ricchezza, e nemmeno la felicità, ma la tutela del complesso degli elementi che rendono possibile e dignitosa la vita: il clima, l'aria, l'acqua, la libertà, la democrazia, le culture, le lingue, i saperi... Questo bene comune sarà come una biblioteca da mantenere, un parco naturale da trasmettere dopo averlo coltivato e arricchito, senza averlo modificato in modo irreversibile. Il modo in cui la Namibia cura la sua fauna, la Francia cura le sue foreste o alcuni popoli proteggono la propria cultura dà un'idea di ciò che potrebbe essere un concetto avanzato di bene comune. Quest'ultimo non potrebbe essere né una posta in gioco del mercato, né una proprietà degli Stati, né un bene multilaterale. Dovrà essere un bene sovranazionale.

L'aspetto fondamentale della dimensione intellettuale del bene comune sarà costituita da un'intelligenza universale”, propria alla specie umana, differente dalla somma delle intelligenze degli uomini.” (p. 216)

“L'iperdemocrazia realizzerà soltanto gli obiettivi collettivi. Consentirà così a tutti gli esseri umani di realizzare i propri obiettivi personali, inaccessibili attraverso il solo mercato: aver accesso ai beni essenziali, e in particolare al “buon tempo”.

Chiamo qui “beni essenziali” quelli ai quali ogni essere umano deve aver diritto per condurre una vita dignitosa e per partecipare al bene comune'. Tra questi beni essenziali, l'accesso al sapere, a un alloggio, al cibo, alle cure, al lavoro, all'acqua, all'aria, alla sicurezza, alla libertà, all'equità, alla dignità, alle reti, all'infanzia, al rispetto, alla compassione, alla solitudine, al diritto di lasciare un luogo o di restarvi, di vivere contemporaneamente più passioni o verità parallele, di essere circondati d'affetto negli ultimi giorni della vita.

Ciò condurrà alla soppressione di tutte le punizioni infamanti, violente, o che consistono nella reclusione.

Il bene essenziale principale sarà, dunque, l'accesso al “buon tempo”. Un tempo in cui ciascuno vivrà non già lo spettacolo della vita degli altri, ma la realtà della propria. Ognuno avrà la possibilità di scegliere il proprio modello di successo, di far sbocciare i propri talenti, compresi quelli che non conosce ancora. “Trascorrere del buon tempo” significherà allora vivere liberi, a lungo e giovani, e non, come nell'Ordine mercantile, affrettarsi ad “approfittare”.

Questi due progetti – individuale e collettivo – dell'iperdemocrazia si alimenteranno a vicenda: l'intelligenza universale dell'umanità aumenterà con il buon tempo di cui ciascuno potrà disporre e, a sua volta, l'intelligenza universale creerà le condizioni perché ciascuno goda di buon tempo. L'iperdemocrazia potrà esistere solo tra persone che abbiano accesso ai beni essenziali.” (p. 219)

6.

E' molto difficile commentare un testo che opera una serie di previsioni storiche riguardo al futuro, sia pure a breve termine. Forse è più importante tenere conto dei presupposti su cui si fondano tali previsioni.

La “legge” tendenziale che Attali ricava dalla storia - vale a dire la rivendicazione della libertà individuale su qualsiasi altro valore - è stata riconosciuta sia dal pensiero liberale che da quello marxista in una diversa accezione. Nell'ottica liberale, la libertà individuale significa potere di scelta sulla propria vita non interferito né da vincoli comunitari né da vincoli statali. Il suo valore positivo, se si mette tra parentesi la banalità di identificarla con la proprietà privata e l'uso incondizionato di questa, consiste nel rivendicare il diritto dell'individuo di giocarsi la partita della sua vita. Il limite ideologico di questa concezione è che essa fa della libertà dell'altro il limite della libertà individuale: comporta, insomma, una corretta competizione, non la cooperazione o uno scambio che non avvenga all'insegna dell'interesse privato.

Per il pensiero marxista, questa libertà è piuttosto ristretta se l'individuo deve accettare le regole del gioco poste dall'economia capitalistica perché questa gli assegna un ruolo nel sistema produttivo che non può essere trasceso. In questa ottica, la cooperazione e lo scambio significativo tra esseri umani diventano strumenti di autorealizzazione e di liberazione. La libertà individuale, insomma, nonché un diritto, si pone come una conquista che non può prescindere dall'orizzonte dell'appartenenza sociale e dal riferimento all'altro come fine e non come scopo.

Attali innesta nell'ottica liberale lo spirito del socialismo umanistico preconizzato negli anni ‘70 del secolo scorso da Erich Fromm. Egli ritiene che la libertà di cui gli uomini hanno bisogno non si esaurisce nel poter disporre dei propri beni, postulando un'autorealizzazione personale che non può prescindere dalla valorizzazione dei rapporti sociali non monetizzabili.

Il suo modello di sviluppo, che dovrebbe portare all'iperdemocrazia, appare molto simile a quello delineato da J. Rifkin ne La fine del lavoro.

Mentre però Rifkin si limita a prendere atto di una realtà - quella dell'associazionismo volontario - che egli prevede possa espandersi progressivamente, via via che le persone riescono ad imporre allo Stato di investire le sue risorse nell'economia sociale piuttosto che nelle multinazionali, Attali prevede che la classe mercantile, la quale ha promosso lo sviluppo della ricchezza capitalistica, giunta al suo apogeo, produca per selezione culturale (oserei dire per conversione) una schiera di mutanti transumani destinati a riabilitare il valore delle relazioni interpersonali non quantificabili, vale a dire delle relazioni sociali.

Come tutti gli autori francesi, Attali eccelle nella capacità di creare neologismi suggestivi. Transumano è un termine ricco di risonanze. E' inevitabile ricondurne la matrice all'oltreumano di Nietzsche, inteso in senso proprio, e nell'uomo universale di Marx che, nella vulgata del marxismo sovietico, è diventato l'uomo nuovo.

Il termine implica intuitivamente un potenziale di sviluppo che va al di là del collo di bottiglia realizzato dalla civiltà mercantile, la cui straordinaria capacità di produrre ricchezza ha conciso con un progressivo rattrappimento dell'umano.

La necessità di un salto di qualità economico, politico e culturale, per evitare lo scivolamento del mondo in una sorta di bellum omnium contra omnes, è reale. Forse, però, la buona volontà di singoli individui - i transumani -, precursori di un nuovo mondo, non basta.

Un'economia sociale o relazionale, parallela all'economia mercantile e destinata a sopperire alla decostruzione dello Stato assistenziale, finirebbe con l'entrare in conflitto con le leggi del capitalismo e rischierebbe o di essere confinata nell'ambito dei contrappesi umanitaristici alla brutalità del sistema o di essere addirittura “riciclata” dal Capitale. La trasformazione di alcune ong in multinazionali mascherate da intenti umanitaristici, i cui capitali sono assorbiti in gran parte dai dirigenti e dai soci, è fin troppo eloquente a riguardo.

Ciò non significa misconoscere quanto di significativo, sotto il profilo teorico e pratico, c'è nellla proposta di un'economia sociale e relazionale. Non è un caso che su un modello di sviluppo incentrato sulle relazioni interpersonali di aiuto convergano gran parte dei sociologi, degli economisti e dei politologi che mantengono una loro autonomia rispetto all'apparato di potere capitalistico: Bauman, Rifkin, Latouche e ovviamente Attali.

Tale modello, però, implica una capacità di organizzazione dal basso, vale a dire dalla base del corpo sociale che sembra piuttosto aleatoria se essa non si iscrive nel quadro di un movimento politico. Appellarsi ai partiti nazionali socialisti è impossibile in un periodo in cui essi, in Occidente, appaiono tutti in grande affanno e travolti dalla marea conservatrice del centro-destra.

Il movimento politico in questione dovrebbe, pertanto, restaurare lo spirito originario del socialismo e del marxismo, che era e deve rimanere internazionalista.

Il dramma storico del socialismo, reso evidente dalla sciagurata scelta staliniana di costruire una società nuova in un solo paese, è stato quello di calarsi nei confini nazionali e di accettare il confronto con i partiti borghesi sul piano della gestione dell'esistente. Tale confronto è risultato infine perdente perchè ha costretto i partiti socialisti a inseguire il consenso di un elettorato la cui cultura non nutre alcun interesse per l'avvenire e il destino del mondo.

Di fatto, il trinomio democrazia, mercato, capitalismo non è estensibile a livello internazionale per l'incompatibilità tra il valore dell'uguaglianza intrinseco alla democrazia e la tendenza del capitalismo a produrre squilibri progressivamente crescenti nella distribuzione della ricchezza. Esso funziona come progetto globale solo nella misura in cui un numero ristretto di Paesi o addirittura, come è avvenuto negli ultimi anni, un solo Paese leader conquista e mantiene l'egemonia su tutto il resto del mondo.

La crisi del sistema, che Attali lucidamente descrive, giungendo a riconoscere che le previsioni di Marx si sono drammaticamente realizzate, potrà essere sormontata solo in virtù di un rilancio su vasta scala di un progetto socialista internazionalista. Tale rilancio, come accennato, non potrà avvenire partendo dai partiti socialisti che si sono estenuati nella vana rincorsa della governabilità del sistema a livello locale.

Ciò significa che il movimento socialista dovrà porsi non già su di un piano primariamente politico, ma culturale. Si tratta, infatti, di restaurare nell'uomo la consapevolezza del suo esserci, intesa come consapevolezza di una precarietà ontologica che il capitalismo con le sue promesse accentua piuttosto che lenire, e la consapevolezza del suo essere con, del suo appartenere ad una specie il cui destino ormai è di perdersi o di salvarsi nella sua totalità.

Il progetto è utopistico, ma, come giustamente rileva Attali, le utopie si avverano quando l'umanità si trova con le spalle al muro e non ha alternative. C'è da augurarsi che la presa di coscienza sullo stato di cose esistente nel mondo sopravverrà prima che si realizzi lo schiacciamento contro il muro.

Non posso non rilevare che i transumani cui fa riferimento Attali, in quanto "altruisti, interessati alla storia del futuro, coscienti che la sorte dei contemporanei e dei discendenti li riguarda personalmente, preoccupati di dare aiuto, di comprendere, di lasciare dopo di loro un mondo migliore", sembrano identificabili con una classe di introversi nella quale confluiscono un certo numero di estroversi iperdotati. Penso di aver scritto già più volte che il "sogno" che giace al fondo del mondo interiore degli introversi è l'unica speranza di salvezza per il mondo. Mi fa piacere che Attali, per altre vie, giunga alla stessa conclusione.