Joseph LeDoux

Il cervello emotivo

Baldini Castoldi Dalai, Milano 2003

1.

Il libro di LeDoux, pubblicato in lingua originale nel 1996, ha rappresentato, con L’errore di Cartesio di A. Damasco, pubblicato nel 1994, il “manifesto” di una rilevante rivoluzione scientifica, incentrata sul superamento della teoria computazionale e sulla necessità di procedere verso una teoria non cognitiva delle emozioni. Il titolo stesso è, in sé e per sé, significativo perché, in nome di una lunga tradizione, il cervello è associato solitamente al pensiero.

Dirò subito preliminarmente che, mentre sono d’accordo con molte affermazioni di LeDoux sul rapporto tra emozioni e cognizione, le conclusioni alle quali egli arriva sul cervello emotivo mi sembrano almeno per un aspetto lacunose.

La stessa premessa da cui muove il discorso appare un po’ trionfalistica:

“Sono convinto che le emozioni siano delle funzioni biologiche del sistema nervoso e che trovare come siano rappresentate nel cervello ci aiuti a capirle. E’ radicalmente diverso dalla prospettiva in cui le emozioni vengono studiate come degli stati psicologici, indipendenti dai meccanismi cerebrali sottostanti. Le ricerche psicologiche sono state preziosissime, ma studiare le emozioni in quanto funzioni cerebrali ci porta molto più lontano.” (p. 14)

Se un’affermazione del genere viene riferita alle emozioni di base, comuni agli animali e all’uomo, essa può avere un senso. L’emozionalità umana, però, è molto più ricca e complessa di quella di qualsivoglia altro animale, soprattutto per quanto concerne le emozioni sociali e la sfera dell’affettività.

Nell’introduzione, LeDoux espone le tematiche che vengono esposte nel saggio, che sono le seguenti:

“Il primo tema è che il corretto livello di analisi di una funzione cerebrale è quello al quale questa è rappresentata nel cervello… Le varie emozioni sono mediate da sistemi neurali distinti, evolutisi per motivi diversi…

Un secondo tema è questo: i sistemi cerebrali che generano dei comportamenti emotivi si sono conservati attraverso molte tappe della storia evolutiva. Tutti gli animali, noi compresi, devono soddisfare certe condizioni per sopravvivere e obbedire all'imperativo biologico di trasmettere i propri geni alla discendenza…

Un terzo tema è che quando questi sistemi agiscono in un animale dotato di consapevolezza, si producono sentimenti emotivi coscienti. Negli umani ciò avviene sicuramente, mentre non si sa fino a che punto altri animali abbiano questa capacità. Non affermerò che certi animali sono coscienti e altri no, ma che quando uno di
questi sistemi evolutisi molto tempo fa (quello che produce i comportamenti difensivi in caso di pericolo, per esempio) opera in un cervello cosciente, ne risultano
dei sentimenti emotivi come la paura…

Il quarto tema è una conseguenza del terzo. I sentimenti coscienti che ci fanno conoscere e amare od odiare le nostre emozioni portano la ricerca scientifica fuori pista. Sembra assurdo: che cos'è un'emozione dopotutto, se non un sentimento cosciente? Se eliminiamo dalla paura il registro soggettivo, non resta granché dell'esperienza del pericolo. Cercherò invece di convincervi che è un'idea sbagliata, che nell'esperienza emotiva c'è molto di più di quanto sappia la mente…

Quinto, se davvero i sentimenti e le reazioni emotive sono dovuti all'attività di un sistema sottostante comune, allora si possono utilizzare le reazioni che possono essere misurate oggettivamente per indagare sui meccanismo sottostante e, nel contempo, per gettare luce sul sistema responsabile della generazione dei sentimenti coscienti. E siccome il sistema cerebrale che li genera è simile negli animali e nelle persone, le ricerche sul controllo di tali reazioni nel cervello degli animali sono preziosissime per capire i meccanismi che generano i sentimenti emotivi nelle persone. Perciò la ricerca sugli animali è insieme utile e necessaria per capire le emozioni nei cervello umano; assolutamente necessaria poi, dato che gran parte dei disturbi mentali sono dei disturbi emotivi.

Sesto tema, in un certo senso i sentimenti coscienti di paura, collera, felicità, amore o disgusto non sono diversi dagli altri stati di coscienza… gli stati di coscienza si producono quando il sistema responsabile della consapevolezza viene messo al corrente dell’attività che avviene nei sistemi di elaborazione inconscia... Esiste un unico meccanismo della coscienza e questo può occuparsi di faccende banali o di emozioni travolgenti. Le emozioni scacciano facilmente le banalità, mentre gli eventi non emotivi, come i pensieri, faticano a prendere il posto delle emozioni nelle luci della nostra ribalta mentale...

Settimo, le emozioni sono cose che ci capitano e che non possono venire generate «a comando». Quello che possiamo fare è disporre gli elementi esterni perché presentino degli stimoli capaci di innescare automaticamente le emozioni. In altre parole, creiamo non delle emozioni, ma delle situazioni in grado di modularle (andando al cinema, al luna-park, facendo una buona cena, consumando alcool e altre droghe per uso ricreativo). Non abbiamo quasi nessun controllo diretto sulle nostre risposte emotive: chiunque abbia provato a fingere un'emozione o sia stato il destinatario di un'emozione finta sa che il tentativo fallisce sempre. Pur avendo noi uno scarso controllo cosciente delle nostre emozioni, queste possono, al contrario, ampliare la nostra coscienza: infatti, in questo preciso momento della nostra storia evolutiva, i circuiti cerebrali sono tali che le connessioni tra sistemi emotivi e sistemi cognitivi sono più robuste di quelle che fanno il percorso opposto….

Infine le emozioni, una volta che sono state provate, diventano il movente di comportamenti futuri. Dettano le azioni da fare all'istante e insieme veleggiano verso mete lontane. Ci possono anche mettere nei guai. Quando la paura diventa ansia, quando il desiderio lascia il posto all'avidità, o il fastidio alla rabbia, la rabbia all'odio, l'amicizia all'invidia, l'amore all'ossessione o il piacere a una forma di dipendenza, le emozioni cominciano a remarci contro. Ci vuole igiene emotiva per conservare la salute mentale, e i disturbi mentali riflettono per lo più un ordine emotivo infranto. Le emozioni possono avere conseguenze utili, ma anche patologiche.” (pp.18-22)

Almeno due aspetti di queste tematiche appaiono discutibili. Il primo fa riferimento al significato adattivo delle emozioni, attestato dal fatto che esse sono state selezionate e si sono mantenute in varie specie sino all’uomo. Quel significato è fuori di dubbio, ma, con la comparsa dell’uomo, le cose si sono alquanto complicate. LeDoux stesso riconosce che le emozioni umane possono assumere stati di turbolenza le cui conseguenze sono disfunzionali, patologiche più che funzionali. La potenziale disfunzionalità delle emozioni è una circostanza che concerne solo gli esseri umani, e non è poca cosa.

Il gradualismo evolutivo implicito nell’ideologia adattamentista delle emozioni porta poi LeDoux a sostenere che siccome i sistemi cerebrali dei mammiferi sono simili, dallo studio degli animali si possono ricavare conclusioni valide anche per gli esseri umani. Non sembra che questo sia vero. Anche considerando solo il sistema della paura, quello cui LeDoux ha dedicato gran parte delle sue ricerche, le differenze sono evidenti. la paura negli animali è un sistema di segnalazione di un pericolo in atto o immediatamente prevedibile, che pone in essere risposte automatiche di difesa. Solo per alcuni aspetti, la paura umana può essere posta in un rapporto di continuità con quella animale. L’esperienza umana, infatti, può comportare paure travolgenti, come quelle che sopravvengono nel corso delle fobie o degli attacchi di panico, alle quali non corrisponde alcun pericolo reale.

Parlare a riguardo di un condizionamento è un comodo modo di dire, ma non sembra in alcun modo offrire un’interpretazione del fenomeno.

2.

E’ un indubbio merito di LeDoux avere rivendicato l’autonomia funzionale dei sistemi emozionali rispetto a quelli cognitivi.

Egli scrive:

“Le scienze cognitive sono nate da poco, verso la metà di questo secolo, e vengono spesso chiamate la «nuova scienza della mente». In realtà sono la scienza di una sola parte della mente, quella che ha a che fare con il pensiero, il ragionamento e l'intelletto. Lascia fuori le emozioni. Ma una mente senza emozioni non è affatto una mente, è solo un'anima di ghiaccio: una creatura fredda, inerte, priva di desideri, di paure, di affanni, di dolori o di piaceri.” (p. 27)

“Le scienze cognitive hanno trascurato le emozioni, ma gli scienziati che le studiano non hanno affatto ignorato la cognizione, anzi. Gli psicologi, sedotti dal fascino intellettuale e dall'entusiasmo suscitato dalle scienze cognitive, hanno tentato a lungo di spiegare le emozioni in termini di processi cognitivi: secondo loro, non sarebbero molto diverse dalla cognizione, sarebbero soltanto dei pensieri sulle situazioni in cui ci troviamo. Hanno così ottenuto alcuni successi, anche se pagati a caro prezzo. Nel barattare la passione dell'emozione con i pensieri suscitati da quest'ultima, le teorie cognitive hanno trasformato le emozioni in stati mentali freddi e inerti. Spogliate dalla furia e dal rumore, le emozioni intese come cognizione non significano più niente, o comunque niente di emozionante. Grondano sangue, sudore e lacrime, ma dagli studi cognitivi moderni fatichereste ad accorgervene.” (p.45)

Anche i tentativi più recenti di ricondurre le emozioni nella cornice del cognitivismo in virtù del fatto di sottolineare le componenti valutative implicite nelle emozioni è, secondo LeDoux, poco valido:

“Secondo me, le teorie della valutazione sono arrivate molto vicine al vero: la valutazione di uno stimolo è chiaramente il primo passo per dare inizio a un episodio emotivo. Avviene inconsciamente. L'emozione implica delle tendenze all'azione e delle risposte fisiche oltre a esperienze coscienti. Quelle teorie tuttavia hanno imboccato due bivi sbagliati lungo la strada verso una comprensione della mente emotiva. Innanzitutto, hanno basato la conoscenza dei processi di valutazione su quanto dicevano i soggetti, su riflessioni introspettive verbalizzate, mentre abbiamo visto nel capitolo precedente che l'introspezione non dà una visione affidabile dei funzionamenti mentali, anzi: spesso indica che non sappiamo affatto perché proviamo certi sentimenti. E poi le teorie della valutazione hanno dato troppo peso al contributo dei processi cognitivi, cancellando così la differenza tra emozione e cognizione.” (p. 53-54)

In conclusione:

“Quanto sia inappropriato un approccio alle emozioni basato soltanto o principalmente sugli aspetti della mente accessibili con l'introspezione risulta dal fatto messo in luce dagli studi sperimentali appena descritti: gran parte dell'elaborazione emotiva si produce (o può prodursi) inconsciamente.
Inoltre, le nostre emozioni ci lasciano spesso perplessi. I processi di valutazione accessibili consciamente non possono essere il modo, non l'unico almeno, in cui funziona il cervello emotivo. Anche quando siamo coscienti dell'esito di una valutazione emotiva (per esempio quando sappiamo che qualcuno non ci piace), non vuoi dire che capiamo consciamente il motivo della valutazione (non sappiamo perché non ci piaccia).
L'esito cosciente si può basare su intuizioni non verbalizzate, «viscerali» invece che su un insieme verbalizzabile di proposizioni.”
(p. 67-68)

"Senza voler negare che la gente sia consapevole di certe cose, o che agisca consciamente, credo che molte cose che facciamo, comprese la valutazione del significato emotivo degli accadimenti della nostra vita e l'espressione degli atteggiamenti emotivi in risposta a tale valutazione, non dipendano dalla coscienza e nemmeno da processi ai quali abbiamo per forza accesso.” (p.68-69)

Il riferimento agli aspetti inconsci dell’attività emozionale, che solo raramente si traducono in sentimenti percepiti coscientemente, è un tema costante del saggio, ed è ribadito più volte:

“Il significato emotivo di uno stimolo può essere valutato dal cervello prima che i sistemi percettivi abbiano finito di elaborano. E pertanto possibile che il cervello sappia se è buono o cattivo prima ancora di sapere di che cosa si tratta.

I meccanismi cerebrali attraverso i quali i ricordi del significato emotivo degli stimoli vengono registrati, immagazzinati e recuperati, sono diversi da quelli attraverso i quali i ricordi cognitivi di tali stimoli vengono elaborati. Se i primi di questi meccanismi vengono danneggiati, uno stimolo con un significato emotivo appreso non suscita delle reazioni emotive; se vengono danneggiati i secondi, non riusciamo a ricordare quando abbiamo visto io stimolo, perché eravamo là e chi eravamo allora.

I sistemi che producono le valutazioni emotive sono direttamente collegati con quelli implicati nel controllo delle reazioni emotive. Una volta fatta la valutazione,
le reazioni si producono automaticamente. Al contrario, i sistemi implicati nell'elaborazione cognitiva non sono così strettamente abbinati ai sistemi di controllo delle
reazioni. L'elaborazione inconscia si caratterizza per la flessibilità delle reazioni, in base all'elaborazione; la cognizione ci offre delle scelte. Al contrario, l'attivazione
dei meccanismi di valutazione restringe la gamma delle risposte disponibili alle poche alternative che l'evoluzione, nella sua saggezza, ha collegato a un particolare
meccanismo. Il legame tra meccanismi di valutazione e risposte specifiche è quello che caratterizza le emozioni specifiche.

Il legame tra meccanismi di valutazione e sistemi di controllo delle risposte fa sì che una volta che i primi hanno identificato un evento significativo, un insieme di risposte appropriate verrà programmato e spesso anche eseguito. Ecco perché le sensazioni fisiche accompagnano spesso la valutazione e quando ciò avviene, sono parte dell'esperienza cosciente dell'emozione. Siccome l'elaborazione cognitiva non è legata così prepotentemente alle risposte, è meno probabile che delle sensazioni fisiche intense si accompagnino al semplice fatto di pensare.” (p. 72-73)

L’autonomia relativa delle emozioni rispetto ai processi cognitivi è dovuta al fatto che, mentre questi ultimi si sono sviluppati con l’uomo, le emozioni umane sono l’eredità di una lunga evoluzione:

“Per alcune funzioni mentali come il linguaggio, i teorici dell'evoluzione devono risolvere il problema di come la funzione si sia sviluppata negli esseri umani. La nostra specie sembra l'unica, fino a oggi, dotata di un linguaggio naturale, e vorrebbero sapere da dove si sia evoluto, e quali fasi intermedie abbia attraversato il cervello durante il passaggio dai primati non parlanti ai primati parlanti.

Nel caso delle emozioni, il problema è un altro: contrariamente a certi umanisti, non credo che siano esclusivamente umane. Anzi, sono convinto che certi sistemi emotivi del cervello siano sostanzialmente uguali in molti vertebrati - mammiferi, rettili, uccelli, e forse anche
anfibi e pesci. Se è vero - farò di tutto per convincervene - ci aspetta un compito ben diverso da quello del linguista evolutivo, e invece di confrontarci con l'unicità dell'emozione umana, dobbiamo studiare come l'evoluzione abbia caparbiamente mantenuto le funzioni emotive in tutte le specie, pur cambiando molte altre funzioni cerebrali e molti caratteri fisici. Se avessimo le ali, William James avrebbe formulato la famosa domanda sulla fuga davanti
all'orso parlando del volo. Avrebbe chiesto se la paura sia dovuta al fatto di volare via dal pericolo, o se volare via ci metta paura. Anche riformulata così, la domanda ha ancora senso: per sopravvivere tutti gli animali devono sfuggire al pericolo. Caratteristiche unicamente umane come scrivere poesie o risolvere equazioni differenziali sono irrilevanti davanti a una minaccia improvvisa e immediata alla nostra esistenza. Importa che il cervello abbia un meccanismo per avvertire il pericolo e reagire adeguatamente e rapidamente Il comportamento - corsa, volo, nuoto - che ne consegue è a misura di ogni specie ma la funzione cerebrale sottostante è la stessa: una protezione contro il pericolo nel caso sia dell'animale umano che del viscido rettile. Vedremo che, su questo punto, l'evoluzione ha ritenuto più conveniente lasciare il cervello così com'era.”
(p. 109)

All’autonomia dai processi cognitivi, corrisponde anche una relativa autonomia dei diversi sistemi emozionali, che sono evoluti per risolvere problemi diversi inerenti la conservazione e la riproduzione dell’individuo:

“L'ipotesi di lavoro più praticabile, mi sembra, è che diverse classi di comportamento emotivo rappresentino funzioni diverse che si occupano di diversi problemi dell'animale, e ai quali sono dedicati sistemi cerebrali diversi. Se è così, emozioni distinte vanno studiate in quanto unità funzionali distinte.

Al livello neurale, ogni unità emotiva va considerata come un insieme di segnali in entrata, un meccanismo di valutazione, e un insieme di segnali in uscita. Il meccanismo di valutazione è programmato dall'evoluzione per captare determinati segnali in entrata, o stimoli scatenanti, essenziali per il funzionamento della rete. Li chiameremo «inneschi naturali». La vista di un predatore ne è un buon esempio. Non è insolito che una specie-preda riconosca i propri predatori vedendoli per la prima volta: l'evoluzione ne ha programmato il cervello perché certe caratteristiche del predatore - aspetto, suoni, odori - siano automaticamente valutate come una fonte di pericolo. Ma il meccanismo di valutazione ha anche la capacità di imparare stimoli che tendono a essere associati alla comparsa degli inneschi naturali, e anche di prevederli. Li chiameremo «inneschi appresi». Sono, per esempio, il posto dove un predatore è stato visto per l'ultima volta, o il rumore che faceva mentre si avventava sulla preda. Quando il meccanismo di valutazione riceve segnali d'innesco dell'uno o dell'altro tipo, libera certi modelli di risposta dimostratisi utili nelle situazioni che, negli animali ancestrali, hanno ripetutamente attivato il meccanismo di valutazione. Queste reti si sono evolute perché collegano gli stimoli d'innesco con le risposte più capaci di mantenere in vita l'organismo. E siccome problemi di sopravvivenza diversi hanno stimoli d'innesco diversi e richiedono reazioni diverse, a ognuno è dedicato un sistema neurale diverso.” (p. 131)

3.

Tra i vari sistemi emozionali, le ricerche di LeDoux si sono focalizzate sul sistema della paura in quanto atavico e fondamentale, vale a dire presente in tutti gli animali dotati di capacità emozionale. Le Doux ha avuto il merito di illuminare il ruolo dell’amigdala, “una piccola regione del proencefalo, così chiamata dai primi anatomisti per la sua forma a mandorla” (p. 163), che appartiene al cosiddetto sistema libico.

Attraverso le ricerche sui ratti, LeDoux ha scoperto varie cose interessanti. La prima è che gli stimoli emotivi raggiungono l’amigdala attraverso due vie: alcuni stimoli vanno direttamente dal talamo all’amigdala (via bassa), altri vanno dal talamo alla corteccia sensoriale e da questa all’amigdala (strada alta). La prima via è enormemente più veloce della seconda, anche se molto più rozza e meno discriminativi. Il significato di queste due vie è evidente:

“Il fatto che l’apprendimento emotivo possa venire mediato da percorsi che aggirano la corteccia è intrigante: suggerisce che le risposte emotive possono avvenire senza coinvolgere i sistemi di elaborazione superiore del cervello che dovrebbero essere coinvolti nel pensiero, nel ragionamento e nella coscienza.” (p. 167)

La via bassa ha una sue precisa funzione, in quanto “dal punto di vista della sopravvivenza, è meglio reagire a delle circostanze potenzialmente pericolose come se lo fossero davvero che non reagire affatto. A lungo termine, confondere un bastone con un serpente costa meno del contrario.” (p. 171)

La funzione emozionale dell’amigdala è univoca:

“In tutte le specie nelle quali esiste, l'amigdala svolge la stessa funzione: si occupa delle risposte di paura. Non è la sua unica funzione ma è sicuramente una delle più importanti e delle più antiche; risale a milioni di anni fa, almeno ai tempi in cui i dinosauri regnavano sulla Terra, e l'evoluzione l'ha conservata nelle diverse specie. La difesa contro il pericolo è forse la priorità assoluta di un organismo, e nei principali gruppi di vertebrati - rettili, uccelli e mammiferi - che sono stati studiati, il cervello svolge questa funzione in base a un progetto architettonico comune.

II comportamento di difesa contro il pericolo varia enormemente da una specie all'altra, eppure il ruolo dell'amigdala rimane costante; è proprio la corrispondenza neurale tra le specie che consente a comportamenti differenti di avere la stessa funzione evolutiva in animali diversi. L'equivalenza funzionale e la corrispondenza neurale valgono per molti cervelli di vertebrati, umani compresi. Quando si tratta di percepire il pericolo e di reagire, il cervello non è molto cambiato: in un certo senso, siamo delle lucertole emotive. Posso affermare tranquillamente che 1o studio delle reazioni di paura dei ratti ci dà molte informazioni sui meccanismi della paura presenti nel nostro cervello.

Attraverso l'amigdala e le sue connessioni in entrata e in uscita, il cervello è programmato per percepire i pericoli, sia quelli che facevano parte dell'esperienza quotidiana dei nostri antenati che quelli che ognuno di noi deve imparare per conto proprio, per produrre le risposte protettive più efficaci tenuto conto del nostro fisico e delle antiche condizioni ambientali in cui tali risposte sono state selezionate.

Le risposte pronte per l'uso sono state plasmate dall'evoluzione e si producono automaticamente o, come ha sottolineato Darwin, involontariamente, prima ancora che il cervello si metta a pensare al da farsi.” (p. 180-181)

L’amigdala fa parte di un sistema complesso. Essa è “un mozzo nella ruota della paura” (p. 177). Infatti: “riceve segnali da un'ampia gamma di elaborazioni cognitive. Attraverso i segnali in arrivo dalle aree sensoriali del talamo, le sue funzioni emotive possono essere innescate da stimoli di basso livello, mentre i segnali provenienti dai sistemi di elaborazione della corteccia sensoriale (in particolare dalle ultime tappe dell'elaborazione entro detti sistemi) consente a certi aspetti più complessi dell'elaborazione dello stimolo (oggetti ed eventi) di attivare l'amigdala. I segnali provenienti dall'ippocampo hanno una parte importante nello stabilire il contesto emotivo. Inoltre, l'ippocampo e le aree affini della corteccia (comprese quelle rinali o transizionali) sono coinvolte nella formazione e nel richiamo dei ricordi espliciti e i segnali provenienti da tali aree all'amigdala possono far sì che le emozioni siano innescate da questi ricordi. La corteccia mediale prefrontale è coinvolta nel processo chiamato «estinzione», con il quale la capacità degli stimoli della paura condizionata di suscitare delle risposte viene indebolita dall'esposizione ripetuta allo stimolo condizionato, in assenza dello stimolo incondizionato. I segnali inviati dalla corteccia mediale prefrontale all'amigdala sembrano contribuire a questo processo. Sapendo quali aree corticali proiettano informazioni verso l'amigdala e conoscendo le funzioni alle quali partecipano, possiamo prevedere come queste funzioni contribuiscano alle reazioni di paura. In altre parole, l'anatomia può illuminare la psicologia.” (p. 177)

Il funzionamento complessivo del sistema è legato alla memoria:

“Si ritiene oggi che il cervello contenga molteplici sistemi di memoria. La memoria cosciente, dichiarativa o esplicita, è mediata dall'ippocampo e dalle aree corticali connesse, mentre le diverse forme di memoria inconscia o implicita sono mediate da altri sistemi. Un sistema di memoria implicita è quello della memoria emotiva (paura) che comprende l'amigdala e le aree collegate. In situazioni traumatiche, il sistema implicito e quello esplicito funzionano in parallelo. In seguito, l'esposizione agli stimoli presenti durante il trauma può riattivare entrambi i sistemi. Attraverso il sistema dell'ippocampo, ricordate con chi eravate e cosa facevate durante il trauma, e anche il fatto nudo e crudo che la situazione era atroce. Attraverso il sistema dell'amigdala, gli stimoli provocheranno tensione muscolare, variazioni della pressione sanguigna e della frequenza cardiaca, il rilascio di ormoni e altre risposte fisiologiche e cerebrali. Siccome i sistemi sono attivati dagli stessi stimoli e funzionano contemporaneamente, i due tipi di memoria sembrano far parte di un'unica funzione della memoria.” (p. 209)

I due sistemi di memoria sono ovviamente intrecciati funzionalmente tra loro:

“L’attività del sistema della memoria esplicita nell’ippocampo risulta nella consapevolezza del sapere o delle espeirenze immagazzinate. L’attività dell’amigdala risulta nell’espressione di risposte emotive (di difesa). Ma diventiamo cocsienti anche di essere emotivamente eccitati e questo ci consente di fondere, nella coscienza, i ricordi espliciti di situazioni passate e l’eccitazione emotiva immediata. In questo modo i nuovi ricordi espliciti che si formano a proposito di ricordi passati possono prendere anch’essi una tonalità emotiva.” (p. 211)

4.

Sulla base di questi presupposti, nel capitolo 8 (Il lato selvaggio), LeDoux affronta le disfunzioni del sistema della paura che, a livello umano, coincidono con i molteplici fenomeni legata all’ansia patologica.

Il presupposto di fondo delle intepretazioni fornite da LeDoux è il seguente:

“Nei primi anni Settanta, Martin Seligman, uno psicologo sperimentale che conduceva delle ricerche sulla paura condizionata negli animali, indicò alcune clamorose differenze tra l'ansia umana e la paura condizionata in laboratorio. Sottolineava il fatto che il condizionamento all'evitamento scompariva rapidamente quando la risposta di evitamento dell'animale era bloccata e non c'erano alternative di fuga o di evitamento. Infatti il ratto di Miller saltava sopra l'ostacolo se sentiva il cicalino anche quando la scossa elettrica non entrava in funzione; ma non aveva mai avuto l'occasione di scoprire se era in funzione o meno, perché saltava comunque. Seligman faceva notare, giustamente, che se l'ostacolo viene sostituito da una parete, il che rende impossibile la risposta di evitamento, il ratto impara presto che il suono del cicalino non è più seguito da una scossa elettrica e comincia a ignorarlo. Se poi al posto della parete viene rimesso l'ostacolo, il ratto si guarda bene dal saltarlo. Obbligare il ratto ad accorgersi che il cicalino non annuncia più il pericolo estingue la paura e porta all'estinzione della risposta nevrotica di evitamento. Al contrario, non si aiuta certo una persona che soffre di agorafobia dicendogli che nessuno è mai caduto inavvertitamente dall'Empire State Building e che una volta arrivato in cima starà benone, o costringendola a salirci per dimostrarlo. Anzi, può aggravare la sua paura. Le fobie umane sembrano più resistenti all'estinzione delle paure condizionate degli animali.

La differenza, secondo Seligman, sta nel fatto che mentre gli esperimenti di laboratorio usano degli stimoli arbitrari e privi di significato (lampi di luce o cicalini), le fobie riguardano di solito delle categorie specifiche e molto significative di oggetti e di situazioni, come insetti, serpenti, alture; forse siamo stati preparati dall'evoluzione a imparare alcune cose meglio di altre, e questi casi di apprendimento dovuti a degli impulsi biologici sono quelli più potenti e duraturi. Da questo punto di vista, le fobie rifletterebbero la nostra predisposizione evolutiva a imparare a riconoscere il pericolo e a trattenere saldamente l'informazione appresa.

In un ambiente relativamente stabile, si può scommettere che i pericoli che una data specie corre cambiano lentamente. Perciò, avere un mezzo preconfezionato per imparare rapidamente a riconoscere i pericoli che già minacciavano i nostri antenati, e gli antenati dei nostri antenati, è utile in generale. Ma siccome il nostro ambiente è diversissimo da quello in cui vivevano i primi esseri umani, la nostra predisposizione genetica a imparare pericoli ancestrali può metterci nei guai, e farci sviluppare la paura di cose che nel nostro mondo attuale non sono particolarmente pericolose.” (p. 245)

La predisposizione genetica a provare paura può essere generalizzata:

“Di recente, Ohman ha sposato la teoria della predisposizione: ritiene cioè che l'evoluzione abbia attrezzato gli esseri umani attuali con una propensione ad associare la paura alle situazioni che minacciavano la sopravvivenza dei loro antenati. Se è vero, deve essere presente nei geni, i quali sono soggetti alla variazione genetica. Ne consegue che gli esseri umani in generale sarebbero predisposti ad acquisire la paura dei pericoli ancestrali; alcuni però sarebbero più predisposti ad acquisire determinate paure, e questi «super predisposti» sarebbero quindi vulnerabili alle fobie.” (p. 246)

Ma il problema della paura umana è più complesso:

“La teoria della predisposizione rimedia in gran parte ai difetti delle tradizionali teorie dell'ansia basate sul condizionamento alla paura; in particolare, spiega come mai, nei disturbi ansiosi, la paura non si estingua facilmente e sia irrazionale. Eppure altri aspetti importanti delle fobie e delle altre patologie ansiose rimangono oscuri. Si diventa ansiosi in rapporto a oggetti e situazioni che non sono predisposti dall'evoluzione, come le automobili o gli ascensori. Spesso i disturbi ansiosi esistono senza il ricordo di un'esperienza traumatica, il che suggerisce che forse il condizionamento traumatico non è così importante. A volte, un trauma evidente precede la comparsa di un'ansia ma non le è collegato - come nel caso della morte della madre che precede la paura delle alture - e questo non avrebbe senso se l'ansia fosse condizionata dal trauma. Ma la conoscenza dei meccanismi cerebrali della paura condizionata, e nuove osservazioni sugli effetti dello stress sul cervello ci permettono di colmare queste lacune.” (p. 247)

Di fatto, le ricerche sui circuiti dello stress hanno prodotto dati molto importanti:

“Gli stimoli associati al pericolo attivano l'amigdala. Attraverso i circuiti che vanno dall'amigdala al nucleo paraventricolare dell'ipotalamo (NPV ipo), il fattore di rilascio della corticotrofina (CRF) è inviato alla ghiandola pituitaria che, a sua volta, rilascia l'ormone adrenocorticotropico (ACTH) nel sangue. L'ACTH agisce quindi sulla corteccia surrenale e causa il rilascio di ormoni steroidi (CORT) nel sangue. Il CORT passa dal sangue al cervello dove si lega agli appositi recettori dei neuroni nell'ippocampo, nell'amigdala e in altre regioni. Attraverso l'ippocampo, il CORT inibisce l'ulteriore rilascio di CRF dall'NPV Tuttavia, finché rimane presente lo stimolo emotivo, l'amigdala cerca di spingere l'NPV a rilasciare del CRF. L'equilibrio tra i segnali eccitanti (+) dell'amigdala e i segnali inibitori (-) dell'ippocampo inviati all'NPV determina la quantità di CRF, di ACTH e infine di CORT rilasciata.” (p. 250)

Su questa base, sembra evidente che l’ansia patologica possa essere ricondotta ad un’eccitabilità dell’amigdala che sfugge ai segnali inibitori. La disfunzione può realizzarsi in singoli soggetti, che hanno avute esperienze traumatiche o hanno un patrimonio di memorie implicite particolarmente ricco, ma essa ha anche un significato di ordine generale:

“La capacità di formare dei ricordi usando gli stimoli associati al pericolo, di conservarli a lungo e forse per sempre, e di utilizzarli automaticamente quando si producono di nuovo delle situazioni simili, è una delle più potenti ed efficaci funzioni cerebrali di apprendimento e di memoria. E un lusso incredibile, e ci costa caro: spesso, troppo spesso, proviamo paure e ansie di cui faremmo volentieri a meno. A cosa serve avere paura delle alture, degli ascensori, di certi cibi o di certi mezzi di trasporto? Non sono perfettamente innocui, ma ci fanno correre dei rischi relativamente esigui. Proviamo più paura di quanto ci occorra, e sembra che sia colpa del nostro efficientissimo sistema di condizionamento alla paura, sommato alla potentissima capacità di pensare alle nostre paure e all'incapacità di controllarle.” (p. 276)

L’interazione tra sistemi emozionali dedicati, vale a dire riguardanti emozioni diverse, che si attivano in massima parte a livello inconscio in rapporto a determinati stimoli, la connotazione di questi stimoli in rapporto al patrimonio delle memorie implicite e, infine, l’affiorare delle emozioni a livello cosciente sotto forma di sentimenti che possono essere elaborati cognitivamente sembra configurare un paradigma che, dagli studi sulla paura, può essere esteso a tutte le emozioni umane.

Tale paradigma però comporta un problema di enorme portata che leDoux definisce nei seguenti termini:

“L'esperienza emotiva non è una questione di emozione, ma di come avviene l'esperienza cosciente. La ricerca sulle emozioni si è interessata soprattutto alle esperienze emotive coscienti, e i ricercatori sono così arrivati al punto in cui non possono capire le emozioni se prima non risolvono il problema del rapporto tra mente e corpo, del come la coscienza emerga dal cervello, ed è il problema più difficile che abbiano mai affrontato...

Tutti i rami della psicologia hanno dovuto occuparsi della coscienza. Anche la percezione e la memoria riguardano esperienze coscienti. Percepire una mela significa essere consapevoli della sua esistenza, e ricordare un particolare di una mela significa essere consapevoli di quel particolare della mela. Il movimento comportamentista è nato proprio per la difficoltà di capire il contenuto cosciente di una percezione, di un ricordo o di un'emozione; il successo del movimento cognitivista, alternativo al comportamentismo, è dovuto proprio al fatto di potere parlare della mente in termini di processi inconsci, senza dover risolvere prima il problema di come si produca il contenuto cosciente. Ma la rivoluzione cognitivista ha trascurato l'emozione, e non ha potuto far propri i vantaggi derivanti dal considerare la mente come una somma di processi inconsci.

Ecco perché gli specialisti dell'emozione vogliono ancora scoprire la provenienza dei sentimenti soggettivi. Se indagassero invece sui processi inconsci che possono o meno dare luogo agli stati coscienti, non dovrebbero più preoccuparsi del rapporto mente-corpo e potrebbero concentrarsi sul modo in cui il cervello sbriga le proprie faccende emotive inconsce. Già sappiamo che le esperienze emotive coscienti, come le altre esperienze coscienti; nascono quando si stabilisce una rappresentazione cosciente dei processi che avvengono nei sistemi di elaborazione sottostanti. C'è ancora molto da scoprire, ma le ricerche più recenti cominciano a fornirci degli indizi sulla formazione di tale rappresentazione.” (p. 278)

5.

Al problema della coscienza e dell’esperienza emotiva cosciente è dedicato l’ultimo capitolo. LeDoux pone al centro delle sue riflessioni la memoria a breve termine:

“Si è detto di tutto su quello che la coscienza è e non è, e un consenso è ben lungi dall'essere raggiunto, ma le teorie più recenti poggiano quasi tutte sul concetto di memoria di lavoro.

La memoria di lavoro è all'incirca quella che un tempo era chiamata a breve termine, cioè il deposito temporaneo, cui ora si è aggiunto un meccanismo di elaborazione usato per pensare e per ragionare.” (p 279)”

La memoria a breve termine ha un rapporto stretto con la corteccia prefrontale e le sue diverse aree:

“Abbiamo visto il ruolo della corteccia prefrontale mediale nell'estinzione, della memoria emotiva. Nella memoria di lavoro, prende parte invece la corteccia prefrontale laterale, che si crede esista soltanto nei primati e che è molto più sviluppata negli esseri umani che negli altri primati.

Non sorprende quindi che una delle funzioni cognitive più elevate si svolga in questa parte del cervello.” (p. 282)

“La corteccia prefrontale laterale è situata nel punto ideale per far funzionare la memoria di lavoro polivalente: è connessa con i vari sistemi sensoriali (come quelli visivi e uditivi), con gli altri sistemi neocorticali che fungono da deposito temporaneo (delle indicazioni verbali e spaziali, per esempio), e con l'ippocampo e le altre aree corticali della memoria a lungo termine.

Per di più, ha delle connessioni con le aree della corteccia coinvolte nel controllo del movimento, consentendo alle decisioni prese dall'esecutivo di trasformarsi in azioni volontarie.24 Si comincia ora a sapere come interagisce con alcune di queste aree, e in particolare con le memorie tampone della corteccia frontale.” (p. 285)

“Si è anche osservato che le funzioni polivalenti non coinvolgono soltanto la corteccia prefrontale laterale. Con le tecniche di imaging, negli umani è stato visto che, nella memoria di lavoro e nelle. relative procedure cognitive, si attiva un'altra area del lobo frontale, la corteccia anteriore cingolata. Come la corteccia prefrontale laterale alla quale è anatomicamente interconnessa, anche questa riceve segnali da certe memorie tampone specializzate. Entrambe le regioni rientrano poi nella cosiddetta rete attentiva del lobo prefrontale, un sistema cognitivo che interviene nell'attenzione selettiva, nell'assegnazione delle risorse mentali, nei processi decisionali e nel controllo volontario del movimento. Viene la tentazione di concepire la polivalenza della memoria di lavoro come una collaborazione tra i neuroni della regione prefrontale laterale e di quella anteriore cingolata. Nel capitolo 4, avevamo visto che la corteccia cingolata era considerata un tempo la sede dell'anima, o della coscienza, e oggi sembra che l'idea non fosse del tutto campata per aria.

Un'altra area della corteccia prefrontale, la regione orbitale sotto il lobo frontale, è risultata altrettanto importante. Qui, le lesioni interferiscono con la memoria a breve termine degli animali per quanto riguarda le informazioni sulla ricompensa e su quello che conviene o meno al momento ,36 e le cellule locali sono sensibili al fatto che uno stimolo abbia appena portato a una ricompensa o a una punizione. 37 Negli esseri umani, le lesioni frontali orbitali portano all'indifferenza nei confronti delle indicazioni sociali ed emotive, e talvolta a dei comportamenti sociopatici. L'area riceve dei segnali dai sistemi di elaborazione sensoriale e dalle loro memorie tampone, ed è anche strettamente connessa all'amigdala e alla regione anteriore cingolata. Come vedremo poi, la corteccia orbitale è l’anello grazie al quale, nella memoria di lavoro, l’elaborazione emotiva dell’amigdala potrebbe legarsi all’informazione che è in fase di elaborazione in altre regioni, sensoriali o meno, della neocorteccia.” (p. 287-288)

La memoria di lavoro spiega tante cose, ma non spiega tutto:

“Le teorie della memoria di lavoro, nel trattare la coscienza in termini di processi invece che di contenuto, cercano di spiegare le funzioni computazionali che potrebbero essere responsabili delle esperienze coscienti, ma non spiegano a che cosa somiglino queste esperienze. Descrivono come funziona la mente, in senso generale, ma non descrivono cosa sia un'esperienza particolare in una mente particolare; come una rappresentazione si potrebbe creare nella memoria di lavoro, ma non cosa si provi a essere consapevoli di tale rappresentazione; come i processi decisionali possono portare al movimento, ma non come decidiamo davvero di muoverci. Tutto ciò equivale a dire che la memoria di lavoro è forse l'elemento chiave, l'impalcatura sulla quale si regge l'esperienza cosciente, ma i suoi processi computazionali non ne spiegano del tutto la natura fenomenica o soggettiva, perlomeno non in un modo che oggi riusciamo a capire..” (p. 291)

“Lo confesso: quando ho ridefinito il problema dei sentimenti emotivi come un problema relativo al modo in cui l'informazione emotiva viene rappresentata nella memoria di lavoro, ho passato ad altri la patata bollente della coscienza emotiva. Non sarò io a risolvere il problema mente-corpo e a dirvi esattamente cosa sia un sentimento, o come faccia una cosa impalpabile come un sentimento a fare parte di qualcosa di palpabilissimo come un cervello. Il problema mente-corpo non è l'unico degno di venire risolto, e la sua soluzione non servirebbe comunque a capire l'unicità degli stati mentali che chiamiamo emozioni, né perché sono così diversi tra loro, né a cosa siano dovuti i disturbi mentali, né come curarli. Per capire che cos'è un'emozione e come si producono i sentimenti emotivi, dobbiamo studiare il modus operandi dei sistemi di determinate emozioni e vedere come la loro attività viene rappresentata nella memoria di lavoro.

Qualcuno dirà che è azzardato da parte mia pensare di fondare una conoscenza dei nostri stati mentali più personali e intimi sulla possibilità che la memoria di lavoro sia la chiave della coscienza. In realtà, uso la memoria di lavoro come un « principio » di spiegazione, e sostengo che i sentimenti si producono quando l'attività di sistemi di determinate emozioni viene rappresentata nel sistema dal quale ha origine la coscienza. Uso insomma la memoria di lavoro come una concezione abbastanza condivisa del modo in cui potrebbe prodursi la coscienza.” (p. 292)

Come si può però spiegare un’esperienza particolare in una mente particolare? Come si può spiegare il mistero della soggettività?

Secono LeDoux, il prodursi dell’esperienza emotiva cosciente richiede tre componenti: l’influenza diretta dell’amigdala sulla corteccia, l’eccitazione innescata dall’amigdala, la retroazione del corpo.

Tenendo conto dell’interazione tra queste componenti, si può giungere ad una conclusione univoca:

“Disponiamo ora di tutti gli ingredienti di un sentimento emotivo, di tutto l'occorrente per trasformare una reazione emotiva in un'esperienza emotiva cosciente. Abbiamo un sistema specializzato dell'emozione che riceve dei segnali e produce delle risposte comportamentali, autonome e ormonali. Abbiamo delle memorie tampone corticali che trattengono le informazioni sugli stimoli presenti. Abbiamo un esecutivo della memoria di lavoro che sorveglia le memorie tampone, richiama le informazioni dalla memoria a lungo termine e interpreta il contenuto delle memorie tampone in base ai ricordi a lungo termine. Abbiamo l'eccitazione corticale e infine la retroazione del corpo, le informazioni somatiche e viscerali che ritornano al cervello durante un’azione di risposta emotiva. Quando tutti questi sistemi collaborano, l’esperienza emotiva cosciente è inevitabile; quando sono presenti solo alcuni elementi, può presentarsi oppure no.” (p.305-307)

“I sentimenti emotivi risultano dal fatto che diventiamo coscienti dell'attività di un sistema cerebrale emotivo. Qualunque organismo provvisto di coscienza prova anche dei sentimenti, però i sentimenti potrebbero essere diversi in un cervello capace di classificare il mondo con il linguaggio e in un cervello senza linguaggio. Ma tutte queste parole sarebbero prive di senso se non esistesse un sistema sottostante delle emozioni, che genera gli stati cerebrali e le espressioni fisiche che queste parole descrivono. Le emozioni sono evolute non come sentimenti coscienti, differenziati linguisticamente o meno, ma come stati del cervello e risposte del corpo. Sono questi i fatti fondamentali di un'emozione, e i sentimenti coscienti sono solo decorazioni, la ciliegina sulla torta emotiva.” (p. 312)

Infine, LeDoux si pone un quesito prospettico: dove porterà il nostro cervello, l'evoluzione?

La risposta è la seguente:

“Que será será, ma intanto possiamo sbirciare quello che l'evoluzione ci sta preparando. Non che essa sia lungimirante, tutt'altro: il senno di poi è il suo forte. Ma noi siamo l'evoluzione in marcia e possiamo vedere i cambiamenti che potrebbero accadere nel nostro cervello osservando le tendenze nelle specie più prossime.

Per ora, l'influenza dell'amigdala sulla corteccia è superiore a quella della corteccia sull'amigdala e l'eccitazione emotiva riesce a dominare e a controllare il pensiero. In tutti i mammiferi, i circuiti che vanno dall'amigdala alla corteccia prevalgono su quelli in senso opposto. Mentre i pensieri attivano facilmente le emozioni (attraverso l'amigdala), non siamo molto bravi a placarle (a spegnere l'amigdala), e serve a ben poco ripetersi di smettere di essere ansiosi o depressi.

Intanto, però, è evidente che le connessioni tra la corteccia e l'amigdala sono molto più consistenti nei primati che negli altri animali. Potrebbe quindi darsi che mentre tali connessioni continuano a espandersi, la corteccia prenda a poco a poco il controllo dell'amigdala e che gli esseri umani di domani diventino capaci di controllare meglio le proprie emozioni.

Ma c'è un'altra possibilità. La maggiore connettività tra l'amigdala e la corteccia riguarda le fibre che vanno in entrambi i sensi: se i circuiti dovessero equilibrarsi, invece che nel dominio delle cognizioni corticali sui centri dell'emozione, la lotta tra pensiero ed emozione potrebbe risolversi in una integrazione più armoniosa di ragione e passione. La maggiore connettività tra l'amigdala e la corteccia potrebbe portare alla collaborazione tra cognizione ed emozione.” (p. 312 - 313)

6.

Il lavoro di LeDoux sul sistema della paura è eccellente. Esso infatti, ha chiarito alcune cose particolarmente importanti: la presenza nel cervello di strutture sottocorticali (una delle quali è l’amigdala) depositarie della capacità innata di reagire inconsciamente a determinati stimoli qualificandoli emotivamente; l’interazione tra tali strutture e l’ippocampo, sede delle memorie personali implicite, che fa sì che ogni emozione ha una sua storia all’interno dell’esperienza del singolo individuo; l’interazione, infine, tra i sistemi emozionali e la corteccia prefrontale, la cui porzione mediale, soprattutto a destra, elabora inconsciamente le emozioni, e la cui porzione laterale partecipa a produrre l’affiorare dell’emozione a livello cosciente.

In virtù di questo lavoro, che probabilmente è estensibile a gran parte delle emozioni di base, il mondo delle emozioni si configura come un iceberg (metafora impropria ma non facile da sostituire) la cui punta emergente coincide con i sentimenti coscienti, mentra gran parte dell’attività emozionale scorre a livello inconscio.

Se l’emozionalità umana si riducesse alle emozioni di base, il modello di LeDoux sarebbe perfetto. Il problema è che: primo, le emozioni di base nell’uomo sono andate incontro ad un’intensificazione tale per cui esse mantengono solo per alcuni aspetti un valore adattivo; secondo, esse non esauriscono il corredo emozionale nel quale si danno almeno tre emozioni specie-specifiche: l’empatia, il senso di dignità e di giustizia e l’intuizione emozionale dell’infinito. Quest’ultima emozione sembra essersi riverberata anche sulle emozioni di base. Le emozioni che provano gli animali sono contingenti e transitorie, in quanto riferite a circostanze specifiche che richiedono una risposta adattiva. Solo l’uomo può provare una paura, una rabbia, una gioia, un dolore, un amore, un odio infiniti.

Si può pensare che ciò sia dovuto all’intreccio tra emozioni e processi cognitivi. Ma, tenendo conto della psicologia evolutiva infantile e di altri aspetti, sembra che le cose non stiano così. L’intuizione emozionale dell’infinito, in particolare, non sembra riconducibile ad alcun processo cognitivo. I soggetti umani la portano dentro di sé e in una certa misura la vivono anche senza aver dedicato ad essa alcuna riflessione. Si tratta, tra l’altro, di un’intuizione che è difficile da concettualizzare anche per i filosofi di professione.

Un secondo aspetto critico del pensiero di LeDoux, comune peraltro anche a Damasio, è il fare riferimento al cervello come un organo isolato. Dal punto di vista strutturale, la cosa è ovvia. Ogni individuo ha un suo cervello unico e irripetibile. Dal punto di vista funzionale, invece, per quanto non si possa misconoscere l’esistenza di un’attività intrinseca e quella di strutture predisposte per interagire con l’ambiente secondo modalità che, a livello sottocorticale, sono innate, non si può ignorare che il cervello umano non raggiunge uno statuto funzionale umano se non in conseguenza dell’interazione con altri cervelli e di una prolungata fase evolutiva che coincide con un’intensa intersoggettività la quale solo lentamente consente di stabilire un rapporto emozionale e conoscitivo con il mondo oggettivo.

Perché questo aspetto si può ritenere importante? Perché, ignorandolo, LeDoux analizza le paure umane come se esse abbiano riferimento solo al mondo esterno. Questo è in parte indubbiamente vero. Si danno paure ancestrali riferite a oggetti, animali, fenomeni naturali, ecc. che sono indubbiamente l’espressione di un’eredità filogenetica, come pure paure riferite all’ambiente artificiale costruito dall’uomo (per esempio l’aereo).

Si tratta però di aspetti se non marginali sicuramente secondari. Le paure e le angosce più profonde che gli uomini possono nutrire, a livello inconscio e conscio, sono di ordine relazionale, riguardano cioè il rapporto tra Io e Altro.

L’incapsulamento dell’emozionalità umana nell’orizzonte della socialità è a tal punto marcato che, nel corso di esperienze sia normali che psicopatologiche, gli oggetti percepiti con paura in realtà celano significati antropomorfici. La fobia dell’aereo, per esempio, fa riferimento al fatto che il soggetto, inconsciamente, si trova chiuso in una situazione di totale affidamento e dipendenza da chi lo guida, dalla quale non può sottrarsi immediatamente.

E’ l’antropomorfismo il carattere più specifico delle emozioni umane, almeno di quelle che determinano il benessere o il malessere soggettivo. Da questo punto di vista, le ricerche sugli animali significano molto sotto il profilo neurobiologico, ma non possono cogliere l’essenziale dell'esperienza umana.