Laterza, Bari 1978

1.

Il Corso di linguistica generale, come noto, non è stato scritto di proprio pugno da Saussure, bensì redatto dopo la sua morte da Charles Bally e Albert Sechehaye   sulla base di appunti presi dagli allievi nel corso delle lezioni tenute dal Maestro a Ginevra nei corsi accademici del 1906-07, 1908-09, 1910-11 e di alcuni documenti autografi.

Si tratta dunque di un’opera singolare, di seconda mano, che ha posto gli studiosi di fronte al problema di valutare in quale misura il pensiero del linguista ginevrino sia stato restituito fedelmente dagli allievi. L’intenso lavoro critico, portato avanti soprattutto da Tullio De Mauro, ha stabilito che, nel complesso, la fedeltà è piuttosto elevata, anche se rimane qualche dubbio riguardo al fatto che l’ordine complessivo delle parti, che sono state organizzate in una forma organica, di sistema, corrisponda realmente al punto di vista di Saussure.

Nell’introduzione al Corso, De Mauro, per spiegare il silenzio di Saussure che, dopo un esordio precoce e folgorante, non scrive praticamente quasi nulla sino alla fine della vita, minimizza le problematiche personali – una tendenza piuttosto marcata all’isolamento, un matrimonio infelice, l’appetizione per l’alcool, ecc. – riconducendo il silenzio ad un bisogno di concentrazione dovuto alla vastità delle problematiche che Saussure affronta e all’originalità del suo pensiero. C’è del vero in questo giudizio.

La linguistica non è nata con Saussure, ma ha assunto con lui una configurazione scientifica che, nell’ambito delle scienze umane e sociali, equivale ad una rivoluzione copernicana. E’ probabile però che il ginevrino fosse affetto da una forma di perfezionismo che lo ha inibito dal cimentarsi nella stesura di un saggio che sarebbe rimasto inesorabilmente lacunoso. Come tutti i perfezionisti, egli tendeva a drammatizzare i limiti del suo sapere, peraltro straordinariamente ricco. Per fortuna gli allievi sono rimasti affascinati più dal valore dell’insegnamento saussuriano che non da quei limiti.

Il pensiero di Saussure è agevolmente riconducibile, nella sua struttura essenziale, a tre dicotomie: langue/parole, significante/significato, sincronia e diacronia.

La lingua è costituita dal codice di regole e di strutture grammaticali che ogni individuo assimila dalla comunità storica in cui vive, senza poterle alterare: “E’ la parte sociale del linguaggio, esterna all’individuo, che da solo non può né crearla né modificarla; essa esiste solo in virtù d’una sorta di contratto stretto tra i membri di una comunità” (Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1978, p. 24). Come tale, la langue è “un tesoro depositato dalla pratica della parole nei soggetti appartenenti a una stessa comunità, un sistema grammaticale esistente virtualmente in ciascun cervello o, più esattamente, nel cervello d’un insieme di individui” (p. 23).

La “parole” è invece il momento individuale, mutevole e creativo del linguaggio, il modo cioè con cui il soggetto parlante “utilizza il codice della lingua in vista dell’espressione del proprio pensiero personale” (p. 24).

Langue e parole sono intimamente correlate: “la lingua è necessaria perché la parole sia intelligibile e produca tutti i suoi effetti; ma la parole è indispensabile perché la lingua si stabilisca; storicamente il fatto di parole precede sempre” (p. 29).  Si dà dunque interdipendenza tra la lingua e la parole: cionondimeno si tratta di due realtà assolutamente distinte: “La lingua esiste nella collettività sotto forma d’una somma di impronte depositate in ciascun cervello, a un di presso come un dizionario del quale tutti gli esemplari, identici, siano ripartiti tra gli individui. E’ dunque qualcosa che esiste in ciascun individuo pur essendo comune a tutti e collocata fuori dalla volontà dei depositari” (p. 29).

L’oggetto proprio della linguistica è la langue, dotata di un’oggettività che può essere restituita immediatamente, per quanto approssimativamente, da un qualunque vocabolario. Nella misura in cui il lessico però associa ad ogni termine un determinato significato, c’è il rischio che esso concorra ad alimentare la concezione comune per cui la langue è una nomenclatura, vale a dire una lista di termini corrispondenti ad altrettante cose. In realtà, “il segno linguistico unisce non una cosa e un nome, ma un concetto e un’immagine acustica. Quest’ultima non è il suono materiale, cosa puramente fisica, ma la traccia psichica di questo suono… Il carattere psichico delle nostre immagini acustiche appare bene quando noi osserviamo il nostro linguaggio. Senza muovere le labbra né la lingua possiamo parlare tra noi o recitarci mentalmente un pezzo di poesia” (pp. 83 – 84).

Il segno linguistico è dunque un’entità psichica a due facce: esso è la combinazione del concetto e dell’immagine acustica, che Saussure denomina rispettivamente significato e significante.

Il legame che unisce il significante e il significato è frutto di una convenzione sociale: il significante di fatto è “immotivato, vale a dire arbitrario in rapporto al significato, con il quale non ha nella realtà alcun aggancio naturale” (p. 87). Esso rappresenta uno dei possibili modi in cui l’universo dei suoni può essere correlato all’universo del pensiero, introducendo un ordinamento che, in sé e per sé, è estraneo ad entrambi: “Il ruolo caratteristico della lingua di fronte al pensiero non è creare un mezzo fisico materiale per l’espressione delle idee, ma servire da intermediario tra pensiero e suono, in condizioni tali che la loro unione sbocchi necessariamente in delimitazioni reciproche di unità. Il pensiero, caotico per sua natura, è forzato a precisarsi decomponendosi. Non vi è dunque né materializzazione dei pensieri, né spiritualizzazione dei suoni, ma si tratta del fatto, in qualche misura misterioso, per cui il “pensiero-suono” implica divisioni e per cui la lingua elabora le sue unità costituendosi tra due masse amorfe” (p. 137).

Il carattere arbitrario dei segni gioca un ruolo centrale nell’ambito del pensiero di Saussure. Su di esso, infatti, si basa la tesi della radicale socialità della langue. Prodotto della vita sociale e di una convenzione, “la lingua non può essere assimilata a un contratto puro e semplice..; perché se si vuole dimostrare che la legge ammessa in una collettività è una cosa che si subisce e non una regola cui liberamente si consenta, proprio la lingua offre di ciò la prova più schiacciante” (p. 89); “l’arbitrarietà del segno mette la lingua al riparo da ogni tentativo tendente a modificarla. La massa, anche se fosse più cosciente di quel che è, non potrebbe discuterne. Perché per mettere in questione una cosa è necessario che questa sia fondata su una norma ragionevole” (p. 91); “la lingua è, tra tutte le istituzioni sociali, quella che offre minor presa alle iniziative. Essa fa corpo con la vita della massa sociale, e questa, essendo naturalmente inerte, appare anzitutto come un fattore di conservazione” (p. 92); “la collettività è necessaria per stabilire dei valori la cui unica ragion d’essere è nell’uso e nel consenso generale: l’individuo da solo è incapace di fissarne alcuno” (p. 138). Ciò non significa che la lingua   sia un’istituzione immutabile: la sua resistenza al cambiamento non esclude che, nel lungo periodo, essa, presso ogni collettività, vada incontro a delle modificazioni.

Quest’aspetto risulta più chiaro se si considerano gli assi temporali della sincronia, che concerne la simultaneità, e quello della diacronia, che concerne le successioni: “E’ sincronico tutto ciò che si riferisce all’aspetto statico della nostra scienza, è diacronico tutto ciò che ha rapporti con le evoluzioni;.. sincronia e diacronia designeranno rispettivamente uno stato di lingua e una fase di evoluzione” (p. 100).

Si dà dunque una linguistica statica, che riguardo il sistema della lingua in un determinato momento, e una linguistica evolutiva o storica, che concerne i cambiamenti del sistema nel corso del tempo.

Questa distinzione è per Saussure estremamente importante. Per un verso, infatti, essa sancisce che “la lingua è un sistema di puri valori non da altro determinato che dallo stato momentaneo dei suoi termini” (p.99). Per un altro, consente di definire meglio la nozione di cambiamento: “il sistema non è mai modificato direttamente; in se stesso esso è immutabile; solo certi elementi vengono alterati prescindendo dalla solidarietà che li lega al tutto” (p. 99); ”le alterazioni non agendo mai sul blocco del sistema, ma sull’uno o sull’altro dei suoi elementi, non possono essere studiate se non fuori di questo. Senza dubbio ciascuna alterazione ha il suo contraccolpo sul sistema; ma il fatto iniziale ha inciso soltanto su di un punto; non vi è alcuna relazione interna con le conseguenze che possono derivarne per l’insieme” (p. 106).

Di tutti i paragoni che possono essere addotti per mostrare nello stesso tempo l’autonomia e l’interdipendenza della sincronia e della diacronia, “il più dimostrativo è quello che potrebbe stabilirsi tra il gioco della lingua ed una partita a scacchi. Da una parte e dall’altra, si è in presenza di un sistema di valori e si assiste alle loro modificazioni. Una partita a scacchi è come una realizzazione artificiale di ciò che la lingua ci presenta in scala naturale…

In una partita a scacchi, una qualsiasi determinata posizione ha il singolare carattere di essere indipendente dalle precedenti; è totalmente indifferente che vi si sia arrivati per una via oppure per un’altra… Vi è soltanto un punto in cui il paragone è difettoso: il giocatore di scacchi ha l’intenzione di operare lo spostamento e di esercitare un’azione sul sistema; invece la lingua non premedita niente: i suoi pezzi si spostano, o piuttosto si modificano spontaneamente e fortuitamente” (pp. 107 -109).

La langue è, dunque. un sistema di valori puri, “un sistema in cui tutti i termini sono solidali ed in cui il valore dell’uno non risulta che dalla presenza simultanea degli altri” (p. 139), tal che “il valore di un qualunque termine è determinato da ciò che lo circonda” (p. 141).

Nella lingua, “non vi sono che differenze” (p.145): “Un sistema linguistico è una serie di differenze di suoni combinati con una serie di differenze di idee; ma questo mettere di faccia un certo numero di segni acustici con altrettante sezioni fatte nella massa del pensiero genera un sistema di valori; ed è questo sistema che costituisce il legame effettivo tra gli elementi fonici e psichici all’interno di ciascun segno” (p 146).

Le differenze dunque intervengono tra i diversi suoni e le diverse idee. Allorché i segni vengono prodotti, stabilendo relazioni tra gli uni e le altre, non si può più parlare di differenze: “tra loro non c’è che opposizione” (p. 146); “La lingua è, per così dire, un’algebra che riconosce soltanto termini complessi. Tra le opposizioni che comprende, ve e sono alcune più significative delle altre; ma unità e fatto di grammatica non sono che nomi differenti per designare aspetti diversi di un medesimo fatto generale: il gioco delle opposizioni linguistiche” (p. 147).

Questa, in sintesi, è l’articolazione concettuale del pensiero saussuriano. Sarebbe però superficiale non tenere conto che, al di là del contributo specifico fornito da Saussure allo studio dei fenomeni linguistici, il Corso contiene anche un suggerimento o meglio un’intuizione di straordinario interesse.

Nelle prime pagine, infatti, dopo avere definito la lingua come un’istituzione sociale (“essa è al tempo stesso un prodotto sociale della facoltà del linguaggio, ed insieme di convenzioni necessarie, adottate dal corpo sociale per consentire l’esercizio di questa facoltà negli individui” p. 19), Saussure si chiede  quale possa essere la sua collocazione tra i fatti umani, e risponde: “La lingua è un sistema di segni esprimenti delle idee e, pertanto, è confrontabile con la scrittura, l’alfabeto dei sordomuti, i riti simbolici, le forme di cortesia, i segnali militari, ecc. ecc. Essa è semplicemente il più importante di tali sistemi. Si può dunque concepire una scienza che studia la vita dei segni nel quadro della vita sociale; essa potrebbe formare una parte della psicologia sociale e, di conseguenza, della psicologia generale; noi la chiameremo semiologia. Essa potrebbe dirci in che cosa consistono i segni, quali leggi li regolano. Poiché essa non esiste ancora non possiamo dire cosa sarà; essa ha tuttavia diritto ad esistere e il suo posto è determinato in partenza. La linguistica è solo una parte di questa scienza generale; le leggi scoperte dalla semiologia saranno applicabili alla linguistica e questa si troverà collegata ad un dominio ben definito dei fatti umani” (pp. 25-26).

E aggiunge: “Il problema linguistico è anzitutto semiologico e tutti i nostri successivi ragionamenti traggono il loro significato da questo fatto importante. Se si vuole capire la vera natura della lingua, bisogna afferrarla anzitutto in ciò che essa ha di comune con tutti gli altri sistemi del medesimo ordine” (p. 27).

E’ difficile minimizzare la portata di un’intuizione del genere. Essa consente di intravedere la possibilità di un approccio nuovo alla cultura, la quale in tanto si dà in quanto si fonda su processi di significazione, vale a dire su codici. Ogni fenomeno culturale, da questo punto di vista, si potrebbe ricondurre ai codici che lo sottendono.

2.

Queste poche nozioni, che peraltro rappresentano l’essenza dell’opera saussuriana, se restituiscono in una qualche misura il fascino di un pensiero la cui genialità è amplificata dalla sobrietà dello stile, non bastano a capire l’influenza che esso ha esercitato nell’ambito della filosofia e delle scienze umane e sociali. Non è il caso qui di affrontare il primo aspetto. Basterà rilevare che nessuno dei filosofi del Novecento che ha affrontato i problemi del linguaggio ha potuto prescindere dalla lezione di Saussure.

Il secondo aspetto è più interessante nell’ottica di una nuova scienza dell’uomo e dei fatti umani, ma è anche notevolmente complesso. Con Saussure, per la prima volta, una disciplina che ha come oggetto un fenomeno squisitamente culturale come la lingua consegue uno statuto che si può ritenere scientifico in senso proprio. Questa circostanza ha alimentato in tutto l’ambito delle scienze umane e sociali - dalla psicologia all’antropologia culturale, dalla sociologia alla storia – la speranza e l’ambizione di poter conseguire un siffatto statuto. A distanza di cento anni, tale speranza non si è realizzata.

Per comprendere questo “fallimento”, che i saperi inerenti l’uomo e i fatti umani, mascherano dandosi arbitrariamente un’etichetta scientifica, la cosa migliore è ricondursi al tentativo di Lévi-Strauss di adottare la metodologia saussuriana in rapporto all’antropologia.

Più di ogni altro, di fatto, Lévi-Strauss sembra avere colto il carattere rivoluzionario del pensiero di Saussure, scrivendo che egli “rappresenta la grande rivoluzione copernicana nell’ambito degli studi sull’uomo, per averci insegnato che non è tanto la lingua cosa dell’uomo quanto l’uomo cosa della lingua. Con ciò bisogna intendere che la lingua è un oggetto che ha le sue leggi, leggi di cui l’uomo stesso non è consapevole, ma che determinano rigorosamente il suo modo di comunicare e quindi il suo stesso modo di pensare. E isolando la lingua, il linguaggio articolato, come il principale fenomeno umano che, ad uno studio rigoroso, riveli leggi dello stesso tipo di quelle che regolano lo studio delle scienze esatte e naturali, Saussure ha elevato le “scienze umane” al livello di vere e proprie scienze. Quindi dobbiamo essere tutti dei linguisti, e solo muovendo dalla linguistica, e grazie ad un’estensione dei metodi della linguistica ad altri ordini di fenomeni, possiamo cercare di fare progredire le nostre ricerche”.

A questo principio metodologico   Lévi-Strauss si è mantenuto sempre fedele costruendo una teoria fondata sull’identificazione di unità culturali la cui opposizione e la cui combinazione, che si realizzano ad un livello del tutto inconscio, determinano una struttura culturale, vale a dire un sistema che ha in sé e per sé, nella sua logica intrinseca, la sua ragion d’essere. Sulla carta la teoria levi-straussiana ha lo stesso rigore e la stessa generalità di quella saussuriana. Il problema è che, a differenza di questa, essa non solo non è unanimemente condivisa dagli studiosi, ma è stata più volte ampiamente criticata.

La pretesa scientifica di Lévi-Strauss, di fatto, riconosce un limite: nessun’altra istituzione culturale ha l’oggettività della langue, nessuna esibisce (agli occhi dello studioso, ovviamente) una struttura altrettanto trasparente, nessuna, infine, può essere ricondotta, senza forzature interpretative, a leggi inconfutabili.

Questo scarto è comune a tutte le scienze umane e sociali.

Si danno certo parallelismi tra la lingua e gli altri fenomeni culturali. Anche questi, ricondotti a sistemi di valori, sono prodotti della vita sociale orientati a mettere ordine nel caos, riconoscono una qualche organizzazione fondata sul principio dell’opposizione, regolano la comunicazione e l’interazione tra i vari soggetti, sono depositati nella loro psiche, si trasmettono di generazione in generazione spesso attraverso meccanismi inconsci che ne assicurano la conservazione nel tempo e oppongono una resistenza spesso tenace ai cambiamenti. Ma questi parallelismi non significano molto se non si identificano i diversi piani di correlazione.

La lingua, al fine di promuovere e rendere possibile la comunicazione, correla l’universo sonoro e quello del pensiero. Ma quali sono i piani correlati, per esempio, da un sistema di valori morali proprio di una determinata società?

La risposta più semplice consiste nel ritenere che la correlazione intervenga tra la natura umana, in ciò che essa ha di caotico in quanto preda di desideri e passioni individuali, e le esigenze della vita sociale. Ma è proprio la linguistica saussuriana, nella sua portata filosofica, ad opporre una difficoltà a questa ipotesi. Senza la lingua non si dà cultura, e quindi non si dà un codice morale. Ma se la lingua è un’istituzione sociale, la quale postula che il passaggio dalla natura alla cultura sia avvenuto sulla base di un’indispensabile collaborazione   tra soggetti, almeno all’interno di un gruppo, ciò significa che la natura umana è di per sé predisposta alla socialità.

Dato però che l’uomo, oltre ad essere sociale e ad albergare nelle false profonde dell’inconscio la coscienza viscerale dell’altro, ha anche una coscienza viscerale di sé come distinto da tutti gli altri, sarebbe questa contraddizione intrinseca alla natura umana il piano su cui si edificano i sistemi di valore culturali nel tentativo di significarla e di codificarla.

Non è una conclusione particolarmente profonda. Se le discipline umane e sociali la prendessero sul serio, forse troverebbero il fondamento che manca per assumere uno statuto scientifico.

Febbraio 2005