Sui Diari di Lev Tolstoj


                                                                                       "Terribile non è la follia individuale, sconnessa, personale, insensata, ma la follia collettiva, organizzata, sociale, la sensata follia del nostro mondo."

1.

Con le Confessioni di Agostino e quelle di Rousseau, i Diari di Tolstoj rappresentano uno dei tentativi più densi e suggestivi di autobiografia interiore. Diversamente da quelle, però, l'opera non è stata concepita e realizzata in età matura come un bilancio complessivo dell'esperienza dell'autore, bensì avviata precocemente all'insegna di un'esigenza autoeducativa affiorata sulla base dell'intuizione dei pericoli che l'uomo corre se si abbandona alle pulsioni della natura e alle influenze dell'ambiente.

In tale esigenza è agevole cogliere l'espressione di un bisogno di individuazione particolarmente intenso, che deve però fare i conti con un'ideologia della natura umana la quale comporta attribuzioni negative che le influenze ambientali rischiano di alimentare e di incrementare. In conseguenza di questo, l'individuazione si pone come una strenua lotta il cui obiettivo è l’affrancamento dagli istinti egoistici e dall’alienazione sociale che li potenzia, vale a dire la perfezione morale.

Questo obiettivo segna tutta l’esperienza umana e intellettuale di Tolstoj, dando ad essa un carattere singolarmente contraddittorio. Per un verso, infatti, la genialità dell'autore trova modo di esprimersi sotto forma di riflessioni psicologiche e filosofiche sempre più profonde sulla condizione umana; per un altro, essa viene periodicamente mortificata da un moralismo che lo pone in contrasto con le correnti intellettuali che tentano di restituire a quella condizione un carattere naturalistico, mondano e storico (evoluzionismo, nietzchianesimo, anarchia, socialismo).

Che l'umanità possa ritrovare o meglio scoprire se stessa e procedere sulla via dell'autenticità e della solidarietà prescindendo da qualunque trascendenza e da qualunque istanza spiritualistica, vale a dire valorizzando le istanze implicite nella sua natura, è per Tostoj un'assurdità. Tale giudizio è comprensibile sulla base di un'esperienza soggettiva precocemente sottesa dal conflitto cui si è fatto cenno.

A 19 anni, ricoverato in clinica per un’infezione venerea, Tolstoj scrive:

“La solitudine è tanto utile all'uomo che vive in società, quanto la società all'uomo che non vive in essa. Separa l'uomo dalla società, fallo entrare in se stesso, e non appena si tolgono alla sua ragione le lenti che gli mostrano ogni cosa rovesciata, non appena si schiarisce il suo sguardo sulle cose, gli sarà persino incomprensibile come prima non vedesse tutto questo.”

“Arriverò un giorno a non dipendere da alcuna influenza esterna? Secondo me, questo sarebbe un enorme risultato; perché nell'uomo che non dipende da alcuna influenza esterna, lo spirito con le sue esigenze prevale necessariamente sulla materia, e allora l'uomo realizza il suo scopo. ”

Giovanissimo, dunque, Tolstoj avverte il bisogno di interagire criticamente con il mondo esterno per salvaguardare la sua integrità spirituale. Il problema è che tale integrità ha già subito due rilevanti influenze. La prima è la nascita da una famiglia di antiche tradizioni nobiliari, che lo assegna alla classe dei grandi proprietari terrieri. La seconda è l’essere stato allevato, dopo la morte dei genitori (la madre a due anni, il padre a nove) da due zie religiosissime, che sono riuscite a fare attecchire, su un fondo caratterizzato da una sensibilità morale naturale, principi rigorosissimi e sostanzialmente repressivi.

L’appartenenza nobiliare, che implica indefiniti privilegi giustificati alla luce di una religione che sancisce l’organizzazione gerarchica medievale della società russa come espressione dell’imperscrutabile provvidenza divina, segnerà tutta la vita di Tolstoj, che tenterà di spogliarsi di quei privilegi e di coltivare lo spirito religioso in una dimensione non già elitaria, ma ugualitaristica, solidaristica e comunitaristica, senza mai riuscire, peraltro, ad affrancarsi dal moralismo.

L’impasto delle doti naturali e delle precoci influenze ambientali determina, in Tolstoj, la strutturazione di una personalità del tutto singolare, caratterizzata dall’intuizione della necessità di uno sviluppo onnilaterale che dovrà fare sempre i conti con una componente moralistica.

Quella necessità è testimoniata precocemente in termini commoventi. Nel 1847 egli scrive: “In me comincia a manifestarsi la passione per le scienze; sebbene fra le passioni dell'uomo questa sia la più degna, nondimeno io non mi darò a essa in modo unilaterale, cioè sopprimendo del tutto il sentimento e trascurando l'applicazione, tendendo unicamente alla formazione dell'intelletto e allo sviluppo della memoria. L'unilateralità è la causa principale dell'infelicità dell'uomo.”

Pochi giorni dopo annota: “Qualunque sia il punto di arrivo della mia ragione, comunque io risalga alle sue fonti, giungo sempre alla stessa conclusione: lo scopo della vita dell'uomo è l'impiego di tutte le possibili facoltà per lo sviluppo multilaterale di tutto l'essere. Se comincio a riflettere, vedo, guardando la natura, che tutto in essa si sviluppa costantemente, e che ogni sua parte contribuisce inconsciamente allo sviluppo delle altre parti; e l'uomo, in quanto è una parte della natura, ma dotata di coscienza, deve anch'esso, come le altre parti, ma applicando coscientemente le sue facoltà spirituali, tendere allo sviluppo di tutto l'essere.”

In un giovane di 19 anni un’intuizione del genere si può ritenere prodigiosa e ambiziosa. L’ambizione è resa a pieno dal progetto che ad essa segue: “Quale sarà lo scopo della mia vita in campagna nel corso dei prossimi due anni? 1) Studiare tutto il corso di scienze giuridiche necessario per l'esame finale all'università; 2) studiare medicina pratica e in parte teorica; 3) studiare le lingue: francese, russa, tedesca, inglese, italiana e latina; 4) studiare agronomia, pratica e teorica; 5) studiare storia, geografia e statistica; 6) studiare matematica, il corso ginnasiale; 7) scrivere la tesi; 8) raggiungere un livello medio di perfezionamento nella musica e nella pittura; 9) scrivere le norme; 10) acquistare qualche conoscenza di scienze naturali; 11) fare una relazione sui soggetti che studierò.”

Di questo progetto, che si può ritenere congeniale all’apertura di una mente introversa all’universo del sapere, il punto più critico riguarda le “norme” di autodisciplina che Tolstoj si impone, ritenute necessarie al fine di porre fine ad una fase giovanile di disordine e di vita “dissipata”.

La lotta contro il “disordine”, mirante ad assicurare il pieno controllo della volontà sulla vita, avvia precocemente una stagione tormentosa di sensi di colpa che, mutatis mutandis, durerà fino alla fine.

Tale lotta è incentrata su di una concezione della morale chiara fin dall’inizio. Tolstoj scrive: “La fonte di tutti i sentimenti è l'amore in generale, che si divide in due specie d'amore: l'amore verso se stessi, o amor proprio, e l'amore verso tutto ciò che ci circonda... Questi due sentimenti fondamentali agiscono reciprocamente l'uno sull'altro. Regola generale: tutte le azioni sentimentali non devono essere esecuzioni incoscienti delle richieste dei sentimenti, ma definite dalla volontà. Tutti i sentimenti che hanno all'origine l'amore verso tutto il mondo sono buoni, tutti i sentimenti che hanno all'origine l'amore di sé sono cattivi. Guardiamo separatamente ogni categoria di sentimenti. Quali sentimenti provengono dall'amore di sé? 1) vanità, 2) cupidigia, 3) amore (fra uomini e donne).”

Tolstoj non cambierà mai questa concezione morale, nonostante la lettura di Rousseau, uno degli autori preferiti, lo metterà di fronte alla distinzione rousseauiana dell’amor proprio e dell’amore di sé.

Il dramma tolstojano si può comprendere oggi in termini analitici. Non c’è dubbio che alcuni soggetti introversi vengono al mondo con un orientamento naturalmente morale, incentrato sull’empatia, che comporta l’identificazione con coloro che soffrono e la tendenza a non danneggiare gli altri. Questo orientamento promuove spesso l’aspirazione ad una vita elevata moralmente e intellettualmente, che coincide a livello profondo con la strutturazione di un Super-io piuttosto rigido.

Nel corso dell’evoluzione della personalità, in rapporto alle circostanze ambientali, il Super-io può flessibilizzarsi, in virtù della scoperta e dell’accettazione delle umane debolezze (proprie e altrui), o irrigidirsi e promuovere un’intolleranza più o meno elevata nei confronti di esse (talora delle proprie, talaltre delle altrui, talaltra ancora di entrambe).

A livello inconscio, l’irrigidimento del Super-io consegue effetti costanti. Sovrapponendo, infatti, ad un orientamento morale naturale che, per giungere ad un grado elevato (e ovviamente mai massimale) di coerenza richiede, comunque, molto tempo e una lenta maturazione, un modello ideale prematuro, rigoroso e impositivo, esso consegue l’effetto di animare, a livello inconscio, una “protesta” che si esprime regolarmente sotto forma di comportamenti di segno opposto rispetto al modello. In sé e per sé, la protesta è semplicemente una rivendicazione di libertà morale contro regole che si sovrappongono all’emozionalità e la coartano anziché permettere ad essa di fluire e di canalizzarsi con un qualche inevitabile “squilibrio”. Soggettivamente, però, essa viene vissuta come espressione di una natura umana anarchica e disordinata, contro la quale l’unico rimedio è un ulteriore irrigidimento delle regole e della volontà protesa a realizzarle.

Sulla base di questo vissuto, è inevitabile che si organizzi un’ideologia che contrappone allo Spirito, identificato con l’Io cosciente dotato di volontà, la Materia, identificata con esigenze del corpo degradanti, amorali o immorali.

In un certo senso, Tolstoj commette lo stesso errore interpretativo che, dopo qualche decennio, porterà Freud ad avanzare la teoria dell’Es, vale a dire di uno strato il più profondo e primitivo della mente umana ove allignerebbero pulsioni sostanzialmente anarchiche, che tenderebbero a scaricarsi all’esterno senza alcun riguardo per gli altri.

Ne Il disagio della Civiltà Freud tempererà questa concezione, che attribuisce alla natura umana una tendenza al disordine morale, facendo riferimento alle richieste eccessive di frustrazione pulsionale intrinseche alla cultura dell’epoca. Questa correzione, però, si iscrive nella cornice di una teoria - quella dell’istinto di morte - che attribuisce all’inconscio un orientamento primario del tutto avverso a qualsivoglia vincolo sociale.

La concezione tolstojana è meno pessimistica in quanto riconosce nell’amore la fonte di tutti i sentimenti. Essa, però, comporta un’opposizione radicale tra l’amor proprio, sostanzialmente egoistico, e l’amore verso gli altri, la cui conseguenza è una lotta senza quartiere contro ogni manifestazione di affermazione delle esigenze individuali.

Per questo aspetto, non è improprio parlare di una "nevrosi" moralistica.

2.

La prova di tale nevrosi si ricava facilmente dal quadro di regole in virtù delle quali Tolstoj intende precocemente imporre il primato della volontà, intesa come espressione dello Spirito, sulle esigenze della Materia.

Un primo quadro di regole, che risale al 1847, è il seguente:

“REGOLE PER LO SVILUPPO DELLA VOLONTÀ CORPOREA

Regola generale: tutte le azioni devono essere definite dalla volontà, e non incoscienti attuazioni di esigenze corporee. Come abbiamo già detto, sulla volontà corporea hanno influenza i sentimenti e la ragione, e queste due facoltà devono dunque definire le regole in base alle quali noi possiamo agire sulla volontà corporea per il suo sviluppo. I sentimenti le danno la direzione e le indicano il suo scopo, la ragione fornisce i mezzi con cui la volontà corporea può raggiungere questo scopo.

Regola prima: ogni mattina stabilisci tutto ciò che devi fare nel corso della giornata, e esegui tutto ciò che hai stabilito, anche se l'esecuzione di ciò che è stabilito ti arrecherà pregiudizio. Oltre alla volontà, questa regola sviluppa anche la ragione, che sarà più attenta a stabilire le azioni della volontà.

Regola seconda: dormi il meno possibile (il sonno è, secondo me, la condizione dell'uomo in cui è del tutto assente la volontà).

Regola terza: sopporta tutte le spiacevolezze del corpo, non mostrandole all'esterno.

Regola quarta: sii fedele alla parola data.

Regola quinta: qualunque lavoro cominci, non abbandonarlo, ma portalo a termine.

Regola sesta: abbi sempre una tabella dove siano segnate tutte le più trascurabili circostanze della tua vita, anche quante pipe al giorno fumi.

Regola settima: quando fai qualcosa, tendi tutte le tue facoltà fisiche a ciò che stai facendo. Se cambi il tuo modo di vita, cambia anche queste regole...

REGOLE PER LO SVILUPPO DELLA VOLONTÀ DEI SENTIMENTI

...Regola generale: tutte le azioni sentimentali non devono essere esecuzioni incoscienti delle richieste dei sentimenti, ma definite dalla volontà. Tutti i sentimenti che hanno all'origine l'amore verso tutto il mondo sono buoni, tutti i sentimenti che hanno all'origine l'amore di sé sono cattivi...

REGOLE PER SUBORDINARE ALLA VOLONTÀ I SENTIMENTI DI VANITÀ

Regola ottava: non curarti dell'approvazione delle persone che non conosci o che disprezzi.

Regola nona: preoccupati più di te stesso che dell'opinione degli altri.

Regola decima: sii buono, e fa' in modo che nessuno sappia che sei buono. (L'amor proprio può essere utile per gli altri, ma non per se stessi.)

Regola undicesima: negli altri uomini cerca sempre il lato buono, e non il cattivo. Di' sempre la verità. Se, agendo, le tue azioni sembrano strane, non cercar di giustificare con nessuno le tue azioni. Alle regole per subordinare i sentimenti alla volontà occorre aggiungere la seguente.

Regola dodicesima: non mostrare mai all'esterno i propri sentimenti.

REGOLE PER SUBORDINARE ALLA VOLONTÀ I SENTIMENTI DI CUPIDIGIA

Regola tredicesima: vivi sempre al di sotto della tua possibilità.

Regola quattordicesima: non cambiare modo di vita anche se tu diventassi dieci volte più ricco.

Regola quindicesima: utilizza ogni incremento della tua proprietà non per te stesso, ma per la società.

REGOLE PER SUBORDINARE ALLA VOLONTÀ IL SENTIMENTO DI AMORE

Regola prima: stai lontano dalle donne.

Regola seconda: sopprimi la lussuria col lavoro.

REGOLA PER LO SVILUPPO DEI SENTIMENTI ALTI E LA SOPPRESSIONE DEI SENTIMENTI BASSI, ALTRIMENTI DETTA: REGOLA PER LO SVILUPPO DI AMORE E LA SOPPRESSIONE DEL SENTIMENTO DI AMORE DI SÉ

Regola generale: quanto più soddisfi qualunque tua esigenza, tanto più essa si rafforza, e quanto meno la soddisfi, tanto meno essa agisce.

Regola quarantaduesima: amando tutti allo stesso modo, non escludere il tuo stesso io da questo amore.

Regola quarantatreesima: ama ogni vicino come te stesso, ma ama due vicini più di te stesso.

REGOLE PER LO SVILUPPO DELLA RIFLESSIONE

Osserva ogni oggetto da ogni lato. Osserva ogni azione dal lato del suo danno e del suo vantaggio. Di fronte a ogni azione, osserva con quanti mezzi può essere eseguita, e quale di questi è il migliore. Osserva le cause di ogni fenomeno e le conclusioni che possono derivarne.”

Da questo elenco minuzioso risulta chiaro che, nell’anima giovanile di Tolstoj, due diverse istanze si confondono tra loro. Per un verso, egli avverte l’esigenze di essere un buon educatore di se stesso, un Maestro che guida un Io ancora incerto sulla via dell’individuazione personale e sociale (preoccupati più di te stesso che dell'opinione degli altri; amando tutti allo stesso modo, non escludere il tuo stesso io da questo amore; negli altri uomini cerca sempre il lato buono, e non il cattivo ecc.). Per un altro verso, egli è un istitutore rigido e inflessibile (dormi il meno possibile, stai lontano dalle donne, sopprimi la lussuria col lavoro, ecc.).

Queste istanze - morale e moralistica - si esprimono nei diari con una cadenza che lascia trasparire la loro alternanza. Nel corso degli anni il cahier de doléances dei difetti diventa sempre più corposo e, per alcuni aspetti implacabile:

“Tutti gli errori della giornata odierna si possono collegare con le seguenti inclinazioni: 1) indecisione, mancanza di energia; 2) autoinganno, cioè intuendo in una cosa il male, non ti ci soffermi; 3) frettolosità; 4) fausse honte, cioè paura di fare qualcosa di sconveniente, derivante da una visione unilaterale delle cose; 5) cattivo umore derivante in gran parte: primo, dalla frettolosità, secondo, da una visione superficiale delle cose; 6) incoerenza, cioè inclinazione a dimenticare gli scopi vicini e utili per sembrare qualcosa; 7) imitazione; 8) incostanza; 9) avventatezza.”

“Le due passioni principali che ho notato in me sono la passione per il gioco e la vanità, che è tanto più pericolosa in quanto assume una molteplicità di forme diverse, come: desiderio di emergere, avventatezza, vacuità eccetera.”

“Ho mentito e sono stato molto vanitoso, ho digiunato con poca fermezza e distrattamente.”

“Mi pare che in me dominino tre brutte passioni: il gioco, la lussuria e la vanità”

“Ho ventiquattro anni: e ancora non ho fatto niente”

“ Uno dei miei difetti maggiori, e più di tutto sgradevoli per me, è la menzogna. Il movente ne è in gran parte la vanteria, il desiderio di mostrarsi in una luce favorevole.”

“Io sono nemico a me stesso, goffo, sporco e mondanamente ineducato. Io sono iracondo, fastidioso per gli altri, immodesto, impaziente (intolérant) e vergognoso come un ragazzo. Sono quasi ignorante. Quello che so, l'ho imparato qua e là da solo, a salti, in modo slegato, con punto o poco profitto. Sono insofferente, indeciso, incostante, scioccamente vanitoso e focoso come tutti gli uomini senza carattere. Manco di precisione e sono così pigro che l'ozio è diventato per me un'abitudine quasi invincibile... Sono vanaglorioso: amo gli onori, e questo sentimento è stato così poco soddisfatto che, temo, fra la gloria e il bene sceglierei la prima se dovessi scegliere.

Sì, sono immodesto: per questo sono orgoglioso dentro di me e timido e vergognoso in società.”

“Più importante di tutto è per me nella vita correggermi dalla mancanza di carattere, dall'iracondia e dalla pigrizia. Amore per tutti e disprezzo di sé.”

“La concupiscenza mi tormenta, di nuovo pigrizia, angoscia e tristezza. Tutto mi sembra inutile. L'ideale è irraggiungibile, sono già rovinato. Il lavoro, una piccola reputazione, il denaro. A che cosa serve? A che serve la soddisfazione materiale? Presto la notte eterna.”

“ Disordinato, bilioso, annoiato, disperato e pigro.”

“Forse sono una canaglia. Non riesco a rompere queste schifose ragnatele che mi hanno immobilizzato. E non perché non ho forze, ma perché non riesco moralmente, ho pena dei ragni che hanno filato questi fili. No, soprattutto sono cattivo: non c'è vera fede e amore per Dio, per la verità. Ma allora che cosa amo io, se non Dio, la verità?”

“Pensavo a come sono tutto rotto e alla mia viziosità. Sono vizioso e per la precoce dissipazione e per il lusso e per l'ingordigia e per l'ozio. Se non ci fosse stato tutto questo, io, ora, a sessantacinque anni, sarei fresco e giovane. Ma forse questa viziosità non è stata invano. Tutte le mie esigenze morali sono sorte da questa viziosità.”

“Ripensavo alla mia adolescenza e soprattutto alla mia giovinezza. A me non venne inculcato nessun principio morale, nessuno; e intorno a me i grandi, sicuri, fumavano, bevevano, libertineggiavano (soprattutto libertineggiavano), picchiavano la gente e esigevano il suo lavoro. E anch'io come loro ho fatto molte cose brutte senza volerle fare, solo per imitare i grandi.”

“Stupefacente: io so di me che sono sciocco e cattivo, e invece mi considerano un uomo geniale. Come sono allora gli altri uomini?”

“Io provo ora le pene dell'inferno. Ricordo tutta la bassezza della mia vecchia vita e questi ricordi non mi abbandonano e mi avvelenano l'esistenza.”

“Io, come uomo in se stesso, sono molto cattivo, molto sordo al bene, e per questo mi è necessario un grande sforzo per non essere del tutto una canaglia. Come ha detto bene una volta Julij Samarin, che lui è un buon insegnante di matematica perché è ottuso alla matematica. Io sono assolutamente nella stessa condizione per quanto riguarda la matematica, ma la cosa più importante è che sono ottuso anche al bene; e è per questo che sono un non del tutto cattivo, anzi, diciamolo pure, un buon insegnante.”

“Io ho tutti i difetti, e in alto grado: invidia, avidità, avarizia, vanità, ambizione, orgoglio, malvagità. No, malvagità no, ma sono rabbioso, bugiardo, ipocrita. Tutti, tutti i vizi, e in un grado molto più alto che nella maggior parte degli altri uomini. Una sola è la mia salvezza, che lo so e che lotto, lotto con tutta la vita. È per questo che mi chiamano psicologo.”

“Qualcuno mi dice: voi siete un uomo buono? Io dico: dire che sono un uomo buono sarebbe mancanza di umiltà, e ciò significherebbe che non sono buono; dire che sono cattivo sarebbe una posa. La verità è che io sono insieme buono e cattivo. Tutta la vita è in ciò, che come la fisarmonica si stringe, poi si allarga, poi di nuovo si stringe, si passa dal cattivo al buono e di nuovo al cattivo. Essere buoni significa solo desiderare più spesso di essere buoni. E io lo desidero.”

“Ieri ero in uno stato d'animo particolarmente depresso. Avvertivo con particolare vividità il sentimento della tristezza. Così dico a me stesso; ma in realtà io cerco la tristezza, sono ricettivo, permeabile alla tristezza. Non riesco in alcun modo a liberarmi da questo sentimento. Ho provato tutto: a pregare, a prender coscienza del male che è in me. E nulla serve. La preghiera, cioè la riflessione sulla propria condizione, non raggiunge la profondità della coscienza; il riconoscimento della propria meschinità, della propria bassezza, non aiuta. C'è qualcosa che vorrei, di qualcosa sono tormentosamente insoddisfatto, e non so che cos'è. Forse è la vita: ho voglia di morire.”

“Mi pare che ci siano molte cose da appuntare, e una, principale, che sottolineo: Com'è bello, necessario, utile, di fronte al manifestarsi di un desiderio, chiedersi: di chi è questo desiderio, di Tolstoj o mio? Tolstoj vuole giudicare, pensare cose non buone a proposito di NN, ma io non voglio. E basta che tenga conto di questo, che tenga conto che Tolstoj non sono io, perché la cosa si decida senza esitazioni. Tolstoj ha paura delle malattie, del giudizio degli altri, di centinaia e migliaia di sciocchezze che in un modo o in un altro agiscono su di lui. Basta chiedersi: e io che cos'ho a che vedere con queste? E tutto è subito definito, e Tolstoj tace. Tu, Tolstoj, vorresti o non vorresti questo o quello: affari tuoi. Dare seguito a quello che vuoi, riconoscere la giustezza, la legittimità dei tuoi desideri: questo è affare mio. E tu sai che devi e non puoi non ascoltarmi, e che nell'ascoltare me è il tuo bene.”

“Nell'animo non così buono come prima. Tolstoj preme su me. Mente. Io, Io, ci sono solo Io, e lui, Tolstoj, è solo un fantasma ridicolo e sciocco.”

“Non faccio nulla di male, ma mi sento colpevole, e è tormentoso.”

Il penultimo appunto è del 1909. In esso è evidente il ruolo di educatore che l’io tolstojano assume nei confronti di un mondo interiore, o di un’altra parte di sé, che egli sente recalcitrante e depositaria di desideri, paure, pensieri nei quali non si riconosce.

La funzione legislativa dell’Io, già intuita da Rousseau, è confermata oggi dalle scienze psicodinamiche che fanno riferimento ad un mondo interiore complesso nel quale si danno numerose parti “disordinate” (e quindi anche potenzialmente creative) che richiedono un coordinamento centrale.

Tale funzione è particolarmente importante laddove l’individuo dispone di potenzialità creative la cui realizzazione postulano un’autodisciplina rigorosa. Se essa, però, viene ad essere sottesa da valenze moralistiche (consce e inconsce) particolarmente severe e orienta l’io verso un implacabile perfezionismo morale, l’esperienza dell’Io può risultare anche molto produttiva sotto il profilo creativo, ma è inevitabile che si associ a vissuti di insoddisfazione radicale, ad autoaccuse e ad autorimproveri piuttosto pesanti.

Nei Diari, parallelamente alle accuse, affiorano lentamente intuizioni le quali attestano che la vita “dissoluta”, oltre che un compenso di un’eccessiva rigidità moralistica, è null’altro che la ricerca a tentoni della via personale verso l’individuazione:

“Senza che lo voglia, appena resto solo e mi metto a pensare a me, torno al vecchio pensiero, il pensiero del perfezionamento: ma il mio difetto principale, e il motivo per il quale non posso tranquillamente seguire questa strada, è che confondo perfezionamento e perfezione. Bisogna prendersi come si è, cercare di correggere i difetti correggibili, e la buona natura mi porterà al bene senza il libro, che per troppo tempo è stato il mio incubo. Io sono uno di quei caratteri che desiderando, cercando e preparandosi a tutto ciò che vi è di più bello, proprio per questo non sono capaci del bene costante.”

“È ridicolo che uno a quindici anni cominci a darsi norme, a trent'anni continui a farlo senza credervi né seguirne alcuna, e tuttavia seguitando, per qualche ragione a credervi e a volerle. Le norme devono essere morali e pratiche. Appunto: pratiche, senza cui non può esservi felicità, moderazione e vantaggio.”

“La mia carriera è la letteratura: scrivere e scrivere! Da domani lavorerò tutta la vita o lascerò perdere tutto, regole, religione, convenienze: tutto.”

“Sì, il mezzo migliore per una vera felicità nella vita è questo: senza nessuna regola emettere da sé, in tutte le direzioni, come un ragno, la ragnatela prensile dell'amore, e prendere in essa tutto ciò che capita a tiro, e la vecchietta, e il bambino, e la donna, e il poliziotto.”

“Nessun impegno artistico esime dalla partecipazione alla vita sociale.”

“Ieri notte d'improvviso ha preso a tormentarmi il dubbio su tutto. E ora, anche se non mi tormenta più, sta dentro di me. A che servo? Che cosa sono? Più volte mi è sembrato di aver già dato risposta a queste domande; e invece no, non avevo rafforzato le risposte con la vita.”

“Ho deciso che bisogna amare e lavorare, e è tutto.”

Scrivere, partecipare alla vita del mondo e amare l’umanità: sono questi i canali attraverso i quali la creatività e l’umanità di Tolstoj cominciano a scorrere in un intreccio tra letteratura, filosofia, analisi della realtà sociale e applicazione pratica dei principi morali che non ha, forse, riscontro nella storia dell’umanità.

Egli ha trovato dunque la sua strada. L’autorealizzazione, però, non comporta la pace interiore. Una citazione in particolare (non faccio nulla di male, ma mi sento colpevole, e è tormentoso) attesta che Tostoi è rimasto per tutta la vita sotto l’oppressione dei sensi di colpa. Non è un caso che termini come tormento, tormentoso, tormentosamente risuonino di continuo nei Diari.

Nella personalità di Tostoi è dunque importante distinguere un’infrastruttura naturale, caratterizzata da una empatia intensa associata ad una tensione morale autentica e a potenzialità creative rare, e una sovrastruttura rimasta perennemente scissa tra un dispiegamento autentico delle doti naturali e un’implacabile pressione colpevolizzante superegoica di origine culturale.

Avendo tratteggiato questo secondo aspetto, rimane da approfondire il primo.

3.

E’ sommamente importante, a riguardo, tenere conto dell’illuminazione che sopravviene repentinamente nel luglio del 1857 sullo sfondo di una crisi di angoscia esistenziale:

“Ieri notte d'improvviso ha preso a tormentarmi il dubbio su tutto. E ora, anche se non mi tormenta più, sta dentro di me. A che servo? Che cosa sono? Più volte mi è sembrato di aver già dato risposta a queste domande; e invece no, non avevo rafforzato le risposte con la vita.”

“Meravigliosa notte di luna; le urla degli ubriachi, la folla, la polvere non guastano la bellezza; una radura umida, chiara sotto la luna, dove cantano le rane e i grilli, e qualcosa ti attira là; ma arrivi là e qualcosa ti attirerà ancor più lontano. La bellezza della natura non suscita nella mia anima piacere, ma qualcosa come un dolce dolore.”

“Notte meravigliosa. Che cosa voglio, che cosa desidero sopra ogni altra cosa? Non lo so, ma di certo non i beni di questo mondo. Come non credere nell'immortalità dell'anima, quando senti nell'animo una grandezza così smisurata! Mi sono affacciato alla finestra: nero, nubi squarciate, qua e là chiaro. Così potrei morire. Dio mio! Dio mio! Che sono io? Dove sono? Dove vado?”

“Notte meravigliosa. Ho sentito in modo così chiaro che la nostra vita è la realizzazione di un dovere assegnatoci. E tutto è fatto in modo che questa realizzazione sia gioiosa. Tutto è pervaso di gioia. Le sofferenze, le perdite, la morte: tutto è bene. Le sofferenze producono felicità e gioia, così come il lavoro, il riposo. il male fisico, la sensazione della salute, la morte delle persone care producono la coscienza del dovere, perché questa è la sola consolazione. La morte propria è la raggiunta tranquillità. Ma non si può dire il contrario: il riposo non produce stanchezza, la salute non produce il male, la coscienza del dovere non produce la morte. Tutto è gioia non appena diventa coscienza del dovere. La vita dell'uomo che noi conosciamo è un'onda tutta vestita di splendore e gioia.”

L’illuminazione mistica porta Tolstoj sulla sua strada, che implica una dedizione totale alla vocazione letteraria e una partecipazione appassionata e critica allo stato dell’umanità. Il primo aspetto, eccezion fatta per le letture cui Tolstoj si dedica e i commenti che ne discendono, è poco rappresentato. Esso affiora soprattutto sotto forma di sollecitazione continua ad essere fedele alla sua vocazione letteraria. Non c’è quasi nessuna notazione che concerna le opere maggiori.

Il secondo aspetto è invece ampiamente descritto e integra, nel suo complesso, una critica sociale, che si estende dalla Russia alla civiltà industriale, una filosofia dell’uomo e una filosofia della storia.

Per quanto riguarda la situazione russa, la critica di Tostoi ripete per molti aspetti quella dei populisti e degli anarchici:

“La Russia mi è disgustosa, e sento che questa vita rozza e menzognera mi serra da tutte le parti.”

“Puzzo, pietre, lusso, miseria. Dissolutezza. I malvagi che hanno spogliato il popolo si sono riuniti, hanno assoldato i militari, i giudici per proteggere la loro orgia, e banchettano. Al popolo non resta altro da fare che, sfruttando le passioni basse di questa gente, riprendersi indietro quello di cui è stato spogliato.”

“Le classi inferiori lavoratrici odiano e odiano e aspettano solo la possibilità per vendicarsi di tutto quel che hanno accumulato; ma sopra ci sono ora le classi dirigenti. Esse siedono sui lavoratori e non possono mollare la presa: se la mollano, per loro è finita. Tutto il resto è gioco e commedia; la sostanza della questione è questa lotta per la vita e la morte. Loro, come briganti, fanno la guardia al bottino e lo difendono dagli altri.”

“La forza è nel popolo lavoratore. Se esso continua a sopportare l'oppressione, è solo perché è ipnotizzato. Ecco il punto fondamentale: distruggere questa ipnosi.”

“Noi, classi ricche, spogliamo i lavoratori, li costringiamo al lavoro più duro e incessante, godendo dell'ozio e del lusso. Noi li priviamo, opprimendoli col lavoro, della possibilità di produrre i fiori e i frutti spirituali della vita: né poesia né scienza né religione. In compenso noi c'impegniamo a fornire questo, e diamo loro una falsa poesia: «Perché fuggisti nel Kapkaz per morire» e simili; una falsa scienza: la giurisprudenza, il darwinismo, la filosofia, la storia degli zar; una falsa religione: la dottrina ecclesiastica. Che colpa terribile. Se solo non li avessimo dissanguati così, fino allo stremo, essi avrebbero creato e poesia e scienza e insegnamento di vita.”

“Un uomo depreda tutti i villaggi e poi fa un mucchio del bottino e si mette a fargli la guardia. Viene uno dei depredati e porta via una camicia. Il predone lo prende e, in base alla legge che lui stesso ha fatto, lo condanna. Forse che non è lo stesso con tutti i ricchi nei confronti dei poveri, e in particolare con i proprietari terrieri? Depredano ininterrottamente migliaia e milioni di uomini. Poi se qualcuno prende dalla terra un po' di foraggio per la vacca o il cavallo, lo giudicano e lo condannano per aver preso qualcosa che gli era necessario alla terra, terra che è sua in base al più indiscutibile diritto.”

“La rivoluzione ha fatto sì che il nostro popolo russo ha visto d'improvviso l'ingiustizia della sua condizione. È la fiaba dello zar col vestito nuovo. Il bambino che ha detto le cose come stavano, cioè che lo zar era nudo, è stata la rivoluzione. Si è fatta strada nel popolo la coscienza dell'ingiustizia da esso sopportata, e il popolo ha preso in un modo o in un altro posizione verso questa ingiustizia (per la maggior parte, purtroppo, con rancore); ma tutto il popolo l'ha avvertita. E cancellare questa coscienza non è più possibile. E ciò che fa il nostro governo per cercare di sopprimere questa insopprimibile coscienza dell'ingiustizia sopportata aumenta questa ingiustizia e suscita sempre maggior rancore verso questa ingiustizia.”

“Tutta la faccenda è molto semplice. I guerrieri, gli assassini, i rapinatori hanno sottomesso i lavoratori. Quindi acquistato il potere e la possibilità di dividersi il lavoro, essi per l'allargamento, il mantenimento e il rafforzamento del loro potere si sono scelti fra i sottomessi degli aiutanti nella rapina, dando loro una parte del bottino. Quel che si faceva in modo semplice e diretto, alla luce del sole, nei tempi antichi, si fa oggi ipocritamente, nascostamente. Sempre fra i sottomessi si trovano uomini a cui non disgusta di partecipare alla rapina, e che spesso, soprattutto oggi, non capiscono quel che fanno, e per qualche vantaggio partecipano all'asservimento dei loro fratelli. Questo fanno oggi il boia, il soldato, il gendarme, il carceriere fino al senatore, al ministro, al banchiere, al membro del parlamento al professore, al medico, e è evidente che con nessun altro mezzo si potrà porre fine a tale stato di cose, se non, in primo luogo, con la presa di coscienza di questo inganno, e, in secondo luogo, con un progresso morale tale che spinga questi servi a rifiutare i vantaggi di cui godono pur di non partecipare all'asservimento, alle sofferenze del prossimo.”

L’ultima citazione attesta che Tostoi coglie nella situazione russa l’espressione di un movimento storico universale: il momento dell’appropriazione privata, che nasce dall’appropriazione della terra. L’avidità proprietaristica dà luogo a questa amara riflessione:

“Vi sono al mondo esseri che vivono dei prodotti della terra, ma che, affinché sia loro il più possibile faticoso nutrirsi hanno diviso la loro terra in modo tale che ne godono solo quelli che non la lavorano; mentre quelli che la lavorano non possono goderne e soffrono, muoiono, generazione su generazione, per l'impossibilità di nutrirsi a sufficienza con la terra. Inoltre questi esseri scelgono una famiglia o alcuni fra i molti e rinunciano alla loro libertà e ragione per amor di una servile ubbidienza a tutto quel che decidono di fare questi prescelti. E questi prescelti possono essere i più malvagi e i più stupidi di tutti. Ma gli esseri che li hanno scelti, e che a essi si sottomettono, li incensano ugualmente in ogni modo. Questi esseri parlano lingue diverse, incomprensibili l'una all'altra. E invece di cercare di sopprimere questa causa d'incomprensione e di discordia, essi si suddividono ancora fra loro, indipendentemente dalle differenze di lingua, e si riuniscono in vari raggruppamenti, chiamati Stati; e a causa di questi raggruppamenti uccidono migliaia e migliaia di propri simili e si urlano accuse a vicenda. Al fine di potersi più comodamente accusare e uccidere, questi esseri indossano abiti speciali, uniformi, spesso variegate, escogitano sistemi per ammazzarsi a vicenda e insegnano ai molti sottomessi a uno solo i mezzi migliori di ammazzamento.

Per spiegare la loro vita, il suo senso e il suo significato; questi esseri dicono a se stessi e si dicono l'un l'altro che c'è un altro essere, simile a loro, ma dotato di quelle facoltà che essi vorrebbero possedere, e quindi più potente e in grado di fare ogni sorta di schifezze e sciocchezze, e escogitano varie e a nessuno utili cerimonie per gratificare quest'essere immaginario, e spendono per questa gratificazione un'enorme parte del loro lavoro, sebbene questo lavoro spesso non basti neppure per nutrire loro stessi. Affinché questa invenzione non smetta di ingannare i fanciulli, i genitori inculcano a forza nei loro figli tutte le loro fantasie su questo essere, che chiamano Dio: come creò il mondo, come fece l'uomo, come poi diede agli uomini il suo corpo e poi volò in un cielo che essi sanno che non c'è, e simili. E chiedono che ripetano tutto questo non solo ai loro figli, ma lo chiedono anche agli altri uomini, e per disaccordo su tali questioni hanno ucciso e uccidono centinaia di migliaia di loro simili.

Ma la cosa più straordinaria è che questi esseri non solo non seguono la ragione, non impiegano la loro ragione per capire ciò che vi è di stupido e di malvagio, ma al contrario la impiegano per giustificare tutte le loro schifezze e sciocchezze. E non basta che non vogliano vedere che essi stessi soffrono a causa di queste sciocchezze e schifezze, ma non permettono neanche a nessuno tra loro di dire che non bisogna agire come essi agiscono e che si può e si deve agire in modo completamente diverso e smettere di tormentarsi così. Appena compare fra loro un essere capace di usare la sua ragione, tutti gli altri entrano in uno stato d'ira, di sospetto, di terrore, e come gli capita fra le mani vituperano questo essere, lo battono, e lo appendono a una forca o a una croce o gli danno fuoco o lo fucilano. Ma la cosa più strana è che quando hanno impiccato, ammazzato questo essere ragionevole fra loro irragionevoli, e egli non li disturba più con la sua presenza, essi cominciano piano piano a ricordare quello che aveva detto questo essere ragionevole, e poi cominciano a fantasticare su di lui, sulle cose che avrebbe detto e che magari non ha detto mai, e quando tutto quel che aveva detto quest'essere ragionevole è fondamentalmente dimenticato e sfigurato, allora questi esseri che prima hanno odiato e tormentato questo essere ragionevole, uno dei tanti, cominciano a esaltare colui che è stato tormentato e ucciso, e talvolta persino, pensando di fare a questo essere un grande onore, lo mettono sullo stesso piano del malvagio e assurdo Dio immaginario che essi adorano.

Sono esseri incredibili. Questi esseri si chiamano uomini.”

All’epoca Tolstoj ha già cominciato a concedere certificati di libertà ai suoi servi della gleba, precedendo di qualche anno l’abolizione di questa istituzione medievale decisa nel 1861 dallo zarismo per scongiurare una rivoluzione che era nell’aria. L’abolizione della servitù della gleba, però, trasforma gran parte dei contadini in esseri miserabili perché essi, pur liberi, devono fare comunque i conti con la grande proprietà terriera. Tostoj non è solo consapevole di questo paradosso: egli soffre intensamente dello stato di degradazione e di miseria in cui vive gran parte della popolazione contadina, a mala pena rimediata dalla pratica comunitaristica dell’obscina. Egli annota:

“Il ragionamento consueto che le classi lavoratrici sono libere di lavorare o no, di istruirsi o no, di sottomettersi o no agli strati superiori della società, mi ricorda il discorso di quella signora che diceva: la gente non ha pane? ma perché non mangia biscotti? C'è la stessa ignoranza non solo della realtà, ma di ciò di cui si parla.

“Dopo pranzo sono andato alla fabbrica Nuova, che ha tremila operaie, a dieci verste da qui. Gente selvaggiamente ubriaca nella trattoria. Tremila donne, alzandosi alle 4 e lavorando fino alle 8 di sera, e rovinandosi, e accorciandosi la vita, e danneggiando la progenie, stentano (fra le tentazioni) in questa fabbrica per produrre a buon mercato calicò che non serve a nessuno e per dare ancora più denari a Knop, che già non sa che cosa fare di quelli che ha.”

Tolstoj coglie perfettamente il nodo della proprietà:

“La proprietà così com'è ora è male. Ma la proprietà in se stessa è gioia per quel che ne ho fatto, il bene. E mi è diventato chiaro. Non c'era cucchiaio, c'era un pezzo di legno: ho inventato, ho lavorato e ho intagliato un cucchiaio. Che dubbio può esservi che esso è mio? Come il nido di quest'uccello è il suo nido. Lui vuole usarlo come vuole. Ma la proprietà protetta dalla violenza, dal poliziotto con la pistola: questo è il male. Fatti il cucchiaio e mangia con esso, ma fino a quando non è utile a un altro. Questo è chiaro. Il punto difficile è questo, che io faccio una stampella per il mio zoppo, e un ubriaco prende la stampella per sfondare con essa una porta. Chiedere all'ubriaco di lasciare la stampella. Unica cosa. Più gente ci sarà che chiede, più sicuro sarà che la stampella resti a chi ne ha più bisogno.”

Ciò nondimeno, prende le distanze da tutti i movimenti rivoluzionari attivi all’epoca in Russia:

“Gli anarchici hanno ragione in tutto, solo non nella violenza. Incredibile offuscamento.”

“A proposito degli anarchici: con un enorme lavoro in ogni direzione del pensiero e della parola la ragione si fa strada fra gli uomini, viene da loro assimilata nelle forme più svariate, e utilizzando i mezzi più strani essa comincia a conquistare gli uomini: chi l'accetta per moda, chi per darsi arie, chi sotto forma di liberalismo, di scienza, di filosofia della religione, ma, insomma, essa comincia a essere fatta propria dagli uomini. Gli uomini cominciano a credere di essere fratelli, a capire che non si può asservire il fratello, che bisogna aiutare il progresso, sviluppare l'istruzione, lottare contro la superstizione; essa diventa opinione pubblica, e d'improvviso... il terrore, la Rivoluzione francese, il primo marzo, l'assassinio di Carnot, e tutto il lavoro va a monte. Come l'acqua raccolta a poco a poco dalla diga se ne va per un solo colpo di pala e allaga senza vantaggio campi e pascoli. Come possono gli anarchici non vedere il danno della violenza? Come vorrei scrivere loro di questo. Va tutto bene, è tutto giusto quello che essi dicono e fanno, diffondendo l'idea dell'inutilità, del male della violenza statale. Una sola cosa devono cambiare: violenza, assassinio - non partecipazione alle violenze e agli assassinii”

“I socialisti dicono: non siamo noi, che godiamo dei beni della civiltà e della cultura, che dobbiamo privarci di questi beni e abbassarci alla rozza folla, ma sono gli uomini privati dei beni mondani che occorre elevare a noi e far partecipi dei beni della civiltà e della cultura. Il mezzo per questo è la scienza. Essa c'insegna a vincere la natura, essa può aumentare all'infinito la produttività, essa può costringere a lavorare per noi, con l'elettricità, le cascate del Niagara, i fiumi, il vento. Lavorerà anche il sole. E di tutto ci sarà abbastanza per tutti.

Ora solo una piccola parte, la parte degli uomini che detiene il potere, gode dei beni della civiltà, e la gran maggioranza ne è privata. Si aumentino i beni, e allora basteranno per tutti. Ma il fatto è che gli uomini del potere già da tempo hanno non solo quel che è loro necessario, ma anche quello che non è necessario; si prendono tutto quel che possono. E per questo, per quanto si aumentino i beni, quelli che stanno in alto li utilizzeranno soprattutto per sé. Avere il necessario non è possibile oltre un certo limite, ma al lusso non c'è limite. In tal modo nessun aumento della produttività e della ricchezza aumenterà d'un capello il benessere delle classi inferiori fino a quando le superiori avranno e il potere e la voglia di utilizzare per il loro lusso il di più di ricchezza.”

“Più il capitale è grosso, più è conveniente: meno spese. Ma da qui non deriva in nessun caso che, come secondo Marx, il capitalismo porti al socialismo. Forse può anche portarvi, ma a un socialismo forzato. Gli operai saranno costretti a lavorare insieme e lavoreranno di meno, e la paga sarà più alta, ma rimarrà la stessa schiavitù. Occorre che gli uomini lavorino insieme liberamente, che imparino a lavorare l'uno per l'altro, e il capitalismo non insegna loro questo. Al contrario, insegna loro l'invidia, l'avidità, l'egoismo. E per questo dai rapporti forzati del capitalismo può venire un miglioramento della situazione materiale degli operai, ma non può, in nessun modo nascere una vita soddisfatta.”

“L'errore dei marxisti (e non solo di loro, ma di tutta la scuola materialista) è che essi non vedono che la vita dell'umanità è mossa dalla crescita della coscienza, dal movimento della religione, sempre più e più chiaro, universale, che risponde a tutte le domande della vita, e non da cause economiche.

La principale carenza, errore, della teoria di Marx è nel supporre che i capitali passeranno dalle mani dei privati nelle mani del governo, e dal governo, che rappresenta il popolo, nelle mani dei lavoratori. Il governo non rappresenta il popolo, ma è gli stessi uomini singoli che hanno il potere, che sono un poco diversi dai capitalisti, ma in parte coincidono con loro. E per questo il governo non darà mai il capitale ai lavoratori. Che il governo rappresenti il popolo è una finzione, un inganno. Se ci fosse un regime in cui il governo esprimesse realmente la volontà del popolo, allora a questo governo non sarebbe necessaria la violenza, non sarebbe necessario il governo stesso nel senso del potere.”

E’ evidente che Tolstoj, pur condividendo le critiche alla società degli anarchici, dei socialisti e dei comunisti, non ne condivide la metodologia, fondata sulla violenza. Egli ha in mente un altro progetto di società e un’altra via da seguire per realizzarla. Per quanto neghi per sé il ruolo di guida (“Parlare di Tolstojsmo, cercare una mia guida, chiedere che decida questioni, è un errore grossolano. Non c'è e non ci sarà nessun Tolstojsmo, nessuna mia dottrina, c'è la sola, eterna, universale dottrina della verità, che per me, per noi è espressa in modo particolarmente chiaro nei Vangeli”), il suo progetto è sufficientemente esplicito e articolato, come risulta dai seguenti appunti:

“Non parlate dei bisogni materiali dei poveri e dell'aiuto da dar loro. La miseria e le sofferenze non provengono da cause materiali. Se dobbiamo aiutare, è solo con doni spirituali di cui hanno bisogno in ugual misura poveri e ricchi. Guardate la vita del ceto medio. I mariti, con disgusto, tensione, angoscia, con mezzi che fanno disgusto a loro stessi, guadagnano denari; mentre le mogli, inevitabilmente insoddisfatte, invidiose delle altre, sempre angosciate, spendono tutto e non gli basta, e si consolano nell'immaginazione con la speranza di vincere alla lotteria se non duecento almeno cinquantamila rubli.”

“Ho pensato: per gli uomini la situazione più svantaggiosa (dal punto di vista economico e da tutti) è quella in cui l'uomo lavora soltanto per sé, difende, mantiene soltanto se stesso. Penso che se non ci fossero gruppi, almeno la famiglia, in cui gli uomini lavorano per gli altri, gli uomini non potrebbero vivere. L'organizzazione più vantaggiosa per gli uomini (dal punto di vista economico e da tutti) sarebbe quella in cui ognuno pensasse al bene di tutti e desse se stesso senza riserve al servizio di questo bene. Con questa disposizione di tutti ognuno riceverebbe la parte maggiore possibile di bene.

L'organizzazione più vantaggiosa per tutti ci sarà quando l'obiettivo di ognuno non sarà il profitto, il benessere materiale; l'avremo solo quando l'obiettivo di ognuno sarà il bene indipendente dal bene materiale, quando ognuno dirà dal cuore: Beati i poveri, beati i sofferenti, gli esclusi. Solo quando ognuno non cercherà il bene materiale, quando cercherà il bene spirituale, che sempre coincide col sacrificio e è verificato dal sacrificio, solo allora ci sarà il bene maggiore per tutti.”

“Tutta la morale cristiana si riduce nella sua applicazione pratica a considerare tutti fratelli, essere uguali con tutti. Questa coscienza è stata la svolta principale nella mia vita, ma per realizzare questo occorre anzitutto smettere di costringere gli altri a lavorare per sé, e anche nel nostro sistema di vita utilizzare il meno possibile il lavoro, l'opera degli altri, quel che si acquista con il denaro, spendere denaro il meno possibile, vivere nel modo più semplice possibile. E loro (i più buoni fra loro, quelli che intendono essere d'accordo con me) aggirano questa esigenza definendola unilaterale, esagerata, e violando questa prima, primaria regola di moralità, vogliono vivere in modo morale. Si capisce che non ci riescano. E si amareggiano e si perdono.”

“Disperazione per l'insensatezza e la miseria della vita. La salvezza da questa disperazione è nel riconoscimento di Dio e della nostra filiazione da Lui. Il riconoscimento di questa filiazione è riconoscimento della fraternità. Il riconoscimento della fraternità fra gli uomini e del crudele, feroce modo di vita non fraterna accettato dagli uomini conduce inevitabilmente al riconoscimento della pazzia propria e del mondo.”

“L'egoismo, la vita egoistica, si giustifica solo fino al momento in cui non si desta la ragione; non appena essa si desta, l'egoismo si giustifica solo nella misura in cui è necessario per sostenere se stessi come strumento per servire gli uomini. La destinazione della ragione è servire gli uomini. La cosa terribile è che viene utilizzata per servire se stessi.

L'uomo che si abbandona all'illusione dell'egoismo vive per sé e soffre. Basta solo cominciare a vivere per gli altri e la sofferenza si alleggerisce, e si ottiene il bene più grande del mondo: l'amore degli uomini.”

“Cercando la causa del male del mondo, sono andato sempre più profondo e profondo. Da principio la causa del male la vedevo negli uomini malvagi, poi nella cattiva organizzazione della società, poi nella violenza che sostiene questa cattiva organizzazione, poi nella partecipazione alla violenza di quegli uomini che ne soffrono (eserciti), poi nella mancanza di religione in questi uomini, e infine sono arrivato alla conclusione che la radice di tutto è nell'educazione religiosa. E per questo, per correggere il male occorre non cambiare gli uomini né cambiare l'organizzazione né togliere la violenza né convincere gli uomini a non partecipare alla violenza e neanche contrastare la religione menzognera e spiegare quella vera, ma soltanto educare i fanciulli alla vera religione.”

“Ho pensato a questo, che è necessario diffondere fra gli uomini l'amore uguale per tutti, per i negri, per i selvaggi, per i nemici, perché se non si diffonde questo, non ci sarà e non potrà esserci liberazione dal male, ma ci sarà la cosa più naturale: la propria patria il proprio popolo, la sua difesa, gli eserciti, la guerra. E finché ci sono gli eserciti, la guerra, non ci sono confini al male.”

4.

La contrapposizione tra benessere materiale e benessere spirituale e la convinzione che il primo possa in qualche misura allontanare gli esseri umani dalla pratica dell’altruismo e dell’amore permette di comprendere l’opposizione tolstojana nei confronti del liberalesimo occidentale, della scienza e della tecnologia, che rappresentano gli strumenti attraverso i quali esso si afferma, e del modello di progresso univocamente materiale che da esso discende.

L’opposizione è netta, e, nel corso degli anni, si radicalizza:

“Chi ha detto all'uomo che il progresso è buono? È solo l'assenza di fede e il bisogno di un'attività cosciente rivestita di fede. L'uomo ha bisogno di uno slancio, Spannung, sì.”

“Il pensiero dell'assurdità del progresso mi perseguita.”

“È necessario, perché siano valide, che le scienze servano il bene, l'unione degli uomini. A unire gli uomini serve, oltre all'amore, anche la verità. Raggiungendo una verità unica per tutti, gli uomini si uniscono fra di loro. (È per questo che le superstizioni sono nocive: dividono gli uomini.) Per questo la vera scienza porta all'unione; ma perché sia tale, essa deve veramente portare tutti alla verità. L'espressione della verità dev'essere chiara, comprensibile e vera, indubbia. È così la maggior parte della scienza? Il contrario: l'espressione è non chiara ma incomprensibile, e le verità non solo sono dubbie, ma provocano discussioni e producono non unione ma divisione. Ciò avviene perché quelli che chiamano se stessi sacerdoti della scienza hanno perso la base religiosa (questo non è del tutto giusto) e non hanno come scopo l'unione di tutti, ma i propri interessi dilettanteschi, la gloria e il divertissement.”

“Tutte le scienze, le arti, tutta la cultura è buona, purché per dare i suoi frutti non abbia bisogno di opprimere, di peggiorare la vita, di privare del bene, di dar dolore anche a un solo uomo. Ma essa, tutta la nostra cultura, è costruita sui cadaveri degli uomini oppressi.”

“E’ incredibile la spoliazione di terre che avviene ora da noi nei governatorati di Cherson, Samara e altri, e accanto a questo le meraviglie di Mosca, gli archi per salutare lo zar, l'illuminazione. Oppure a Chicago l'esposizione e contemporaneamente la distruzione delle foreste, lo sfruttamento a rapina, fino a farne dei morti deserti, delle terre. E tutto questo si vorrebbe compensare con la pioggia artificiale, resa possibile dall'elettricità. Terribile! Distruggono il novantotto per cento e reintegrano il due.” 

“L'esposizione di Chicago, come tutte le esposizioni, è una stridente esibizione di sfacciataggine e d'ipocrisia; tutto è fatto per lucro e evasione dalla noia; e gli si attribuiscono obiettivi di bene, di bene per il popolo. È meglio l'orgia.”

“Le scienze concrete, contrariamente a quelle astratte, diventano tanto meno precise quanto più il loro argomento si avvicina alla vita dell'uomo: a) matematica, b) astronomia, c) chimica, d) fisica, e) biologia (comincia l'imprecisione), antropologia (l'imprecisione aumenta), sociologia (l'imprecisione oltrepassa tutti i limiti e di scienza non resta più niente).”

“Noi ci rallegriamo dei nostri successi tecnici: il vapore... i fonografi. E siamo così contenti di questi successi che se ci dicono che questi successi si realizzano solo con la distruzione di vite umane, diciamo, alzando le spalle: bisogna cercare di evitarlo: la giornata lavorativa di otto ore, l'assicurazione degli operai eccetera; ma anche se deve morire qualcuno non si può rinunciare ai successi raggiunti, cioè fiat lo specchio, il fonografo eccetera e pereat qualche uomo. Basta ammettere questo principio e non c'è più alcun limite alla crudeltà e è molto facile realizzare qualunque perfezionamento tecnico.”

“Non c'è dimostrazione più chiara della via sbagliata su cui procede la scienza della sua certezza di poter sapere tutto.“

Di solito si misura il progresso dell'uomo dalle realizzazioni tecniche e scientifiche, ritenendo che la civiltà porti alla felicità. Questo è falso. E Rousseau e tutti gli adoratori del modo di vita selvaggio, patriarcale, hanno tanta ragione e tanto torto quanto gli adoratori della civiltà. La felicità degli uomini che vivono e godono della civiltà e della cultura più sviluppate, e quella degli uomini più primitivi e selvaggi è assolutamente uguale. Aumentare la felicità degli uomini con la scienza, con la civiltà, con la cultura è altrettanto impossibile che far sì che in un recipiente l'acqua sia in un punto più alta e in un punto più bassa. L'aumento della felicità degli uomini viene solo dall'aumento dell'amore, che per sua natura uguaglia tutti gli uomini; mentre i successi scientifici, tecnici, sono un fatto di crescita, e gli uomini civilizzati superano nella loro felicità gli uomini non-civilizzati tanto poco quanto un uomo adulto supera in felicità un fanciullo. La felicità è solo nell'aumento dell'amore.”

“La civiltà ha camminato, ha camminato e è arrivata a un vicolo cieco. Tutti dicevano che la scienza e la civiltà ci avrebbero guidato, ma ora appare evidente che non ci guidano da nessuna parte: bisogna trovare qualcosa di nuovo.”

“2) I popoli occidentali hanno abbandonato l'agricoltura e vogliono sottomettere tutto. Fra loro non c'è più nulla da sottomettere, e così cercano colonie e mercati.

 3) Solo col lavoro agricolo può aversi una vita razionale, morale. L'agricoltura indica cos'è più e cos'è meno necessario. Essa guida razionalmente la vita. Bisogna toccare la terra.

 4) La tenerezza e la gioia che noi proviamo guardando la natura è il ricordo del tempo in cui eravamo animali, piante, fiori, terra. Più precisamente: è la coscienza della nostra unione col tutto, che il tempo ci nasconde.”

“Se il popolo russo è un popolo di barbari non civilizzati, allora abbiamo un avvenire. I popoli occidentali sono barbari civilizzati, e non c'è niente di buono da aspettarsi da loro. Porci come modello i popoli occidentali è come se un giovane contadino sano, lavoratore, schietto, invidiasse il ricco giovanotto calvo, parigino, seduto nel suo ufficio. Ah, que je m'embête!”

            “I popoli occidentali sono molto avanti a noi, ma avanti a noi su una via sbagliata. Perché possano ritrovare la via giusta dovranno fare una lunga strada indietro. A noi basta deviare un poco dalla via sbagliata che abbiamo appena imboccato e sulla quale torneranno indietro, incontro a noi, i popoli occidentali.”

“Gli uomini del nostro tempo si vantano della loro scienza. Ma il fatto che essi se ne vantino tanto dimostra, meglio di tutto, quanto essa sia falsa. La vera scienza si riconosce da ciò: o meglio, il segno indubbio della scienza vera è la coscienza della pochezza di ciò che tu sai rispetto a quel che ti resta celato. E che la scienza attuale sia falsa, su questo non c'è il minimo dubbio. È falsa non perché quello che essa spiega sia non vero, ma perché è non necessario: in parte relativamente non necessario rispetto a quello che è importante e non spiegato, e molto assolutamente inutile. E io sono fermamente convinto che gli uomini prima o poi capiranno questo e svilupperanno l'unica scienza vera e necessaria, quella che ora è negletta: LA SCIENZA DI COME VIVERE.”

“Quella che nel nostro mondo è considerata l'unica e più importante scienza: le scienze naturali, politico-economica, la storia (come s'insegna), la giurisprudenza, la sociologia e simili, sono conoscenze altrettanto assolutamente inutili e per la maggior parte altrettanto false quanto, nei tempi antichi, la «scienza» che includeva la teologia, l'alchimia, la filosofia aristotelica, l'astrologia.”

“Che cosa prima, che cosa dopo? Prima bisogna liberare gli uomini dall'asservimento, e poi alleggerire il lavoro con le macchine. E non come ora, quando l'invenzione delle macchine non fa che rafforzare l'asservimento.”

“È un grande errore pensare che tutte le invenzioni che aumentano il potere dell'uomo sulla natura nell'agricoltura, nella separazione o nella fusione chimica delle sostanze, e la possibilità di interazione reciproca fra gli uomini, come le vie e i mezzi di comunicazione, la stampa, il telegrafo, il telefono, il fonografo, siano un bene. L'aumento del potere sulla natura e della possibilità d'interazione reciproca fra gli uomini saranno un bene solo quando l'attività degli uomini sarà guidata dall'amore, dal desiderio del bene degli altri; e saranno un male quando questa sarà guidata dall'egoismo, dal desiderio del bene solo per sé. I metalli estratti possono andare a vantaggio dell'esistenza umana o possono servire per fare cannoni, le conseguenze dell'aumento della fertilità della terra possono servire a dare più cibo agli uomini o a diffondere la cultura e l'impiego dell'oppio, della vodka, le vie e i mezzi di comunicazione delle idee possono esercitare indifferentemente un'influenza buona o cattiva. Per questo, in una società immorale come la nostra società falso-cristiana, le invenzioni che aumentano il potere dell'uomo sulla natura e i mezzi di comunicazione non solo non sono un bene, ma sono un male indubbio e evidente.”

La critica di Tolstoj all’identificazione dello sviluppo economico, scientifico e tecnologico con il progresso umano anticipa il pensiero di molti autori del Novecento (i Francofortesi, M. Heidegger, G. Anders, ecc.). Egli coglie lucidamente l’inesorabile erosione che la promessa di una felicità mondana comporta per qualsivoglia istanza religiosa. In conseguenza di una concezione sostanzialmente negativa della natura umana, ritiene, però, che tale erosione non possa tradursi che in un inselvatichimento dell’essere umano.

In questa ottica, non sorprende che egli reputi unica scienza vera e necessaria quella DI COME VIVERE, vale a dire l’etica nella misura in cui può essere applicata nella pratica sociale e interiore.

Il modello tolstoiano muove dall’ugualitarismo solidale e evolve di continuo nei termini di un altruismo sacrificale radicale:

“Sono convinto che nell'uomo esiste una forza infinita, non solo morale ma anche fisica; ma su questa forza grava un freno terribile: l'amore di sé; o più precisamente il pensiero di sé, che genera impotenza. Ma appena l'uomo si libera da questo freno, diventa onnipotente. Avrei voglia di dire che il mezzo migliore per liberarsene è l'amore verso gli altri, ma sarebbe sbagliato. L'onnipotenza è l'assenza di coscienza; l'impotenza pensiero di sé. Liberarsi da questo pensiero di sé si può soltanto per mezzo dell'amore verso gli altri oppure per mezzo del sonno, dell'ebrietà, del lavoro eccetera; tutta la vita dell'uomo trascorre nella ricerca di questa liberazione. Da dove proviene la forza dei veggenti, dei lunatici, dei deliranti o degli uomini sotto l'influenza della passione? Delle madri, degli esseri umani o degli animali che difendono i propri figli? Perché non riusciamo a pronunciare giustamente una parola se pensiamo come va pronunciata giustamente? Perché la punizione più terribile che gli uomini hanno inventato è la reclusione a vita? (La morte come punizione non è stata inventata dagli uomini: essi agiscono in questo caso come arma cieca della provvidenza.) La reclusione a vita, in cui l'uomo è privato di tutto ciò che può aiutarlo a dimenticare se stesso, lo lascia col pensiero eterno di sé. Come può l'uomo salvarsi da questo supplizio? Egli riesce a distrarsi dal pensiero di sé per un secondo osservando un ragno o una scrostatura nel muro. È vero che il modo migliore, il più conforme al destino umano per salvarsi dal pensiero di sé è l'amore per gli altri; ma non è facile raggiungere questa felicità.”

“ È terribile, pauroso, insensato legare la propria felicità alle condizioni materiali: moglie, figli, salute, ricchezza.”

“Vita, cibo, abiti, tutto il più semplice. Tutto il superfluo (il pianoforte, i mobili, le carrozze): vendere e dar via il ricavato. Occuparsi solo di quelle scienze e arti che possano essere divise con tutti. Trattamento uguale per tutti, dal governatore al mendicante. L'unico scopo è la felicità, propria e della famiglia: sapendo che la felicità consiste nel contentarsi del poco e nel fare il bene agli altri.”

“Se ami Dio, il bene (sembra che comincio a amarlo), ami, cioè vivi di questo, vedi in esso la vita e la felicità; ma vedi anche che il corpo impedisce il vero bene, perché te lo fa vedere, ti fa vedere i suoi frutti. Se cominci a guardare i frutti del bene, smetti di farlo, e non è tutto: col guardarlo, lo guasti, te ne vanti, intristisci. Solo allora sarà vero bene quel che tu fai, quando tu non ci sarai per guastarlo. Ma preparalo di più. Semina, semina, sapendo che non tu, uomo, mieterai. Uno semina, l'altro miete. Tu, uomo, Lev Nikolaeviè, non mieterai. Se ti metti solo a mietere, o anche solo a sarchiare, rovinerai il frumento. Semina, semina. E se semini il divino, non possono esservi dubbi che crescerà. Il fatto, che prima mi sembrava crudele, che non mi è dato di vedere i frutti, ora è chiaro che non solo non è crudele, ma è buono e razionale. Come potrei distinguere il vero bene, il divino, dal non vero, se io, uomo carnale, potessi trar profitto dai suoi frutti?

  Ora è chiaro; quel che fai senza vedere ricompensa, e fai con l'amore, quello è sicuramente divino. Semina e semina, e Dio farà crescere, e mieterai non tu, uomo, ma quello che semina in te.”

“L'errore principale nella vita degli uomini è che a ognuno sembra che la propria vita sia guidata dalla tensione al piacere e dalla repulsione dal dolore. E l'individuo solo, senza guida, si dà questo per guida: egli cerca il piacere e sfugge il dolore, e in questo vede lo scopo e il senso della vita. Ma l'uomo non può vivere sempre godendo, e non può sfuggire al dolore. Dunque lo scopo della vita non è in questo. E se fosse così, che assurdità: lo scopo è il piacere ma esso non c'è e non può esserci. E se ci fosse, sarebbe la fine della vita, la morte, di nuovo legata al dolore. Se un marinaio decide che il suo scopo è evitare le ondate, dove arriverà? Lo scopo della vita è al di là del piacere e del dolore. Esso si raggiunge passando attraverso essi.

 Il piacere, il dolore sono il respiro della vita: inspirazione e espirazione, cibo e sua restituzione. Porre il proprio scopo nell'avere il piacere e sfuggire il dolore, significa perdere la via che li attraversa.

Lo scopo della vita è generale o spirituale. Unione. Soltanto...”

“Gli uomini non riescono mai a vivere insieme. È una terribile prova che gli uomini che considerano se stessi migliori degli altri (e io per primo), quando arriva la verifica, l'esame, non sono migliori neanche d'un capello. Tutto, la vita povera, la continenza, il lavoro, perfino l'umiltà, tutto questo serve solo se insegna a saper vivere con la gente, vivere, cioè amarla. Se non c'è amore tutto questo non vale niente.”

“La vita non può avere altro scopo che il bene, la gioia. Solo questo scopo - la gioia - è pienamente degno della vita. L'abnegazione la croce, donare la vita, tutto questo è per la gioia. E la gioia dell'uomo è e può essere non guastata da nulla e costante. E la morte è il passaggio a una gioia nuova, sconosciuta, completamente nuova, diversa, grande. E c'è una fonte di gioia che non si esaurisce mai: la bellezza della natura, degli animali, degli uomini, che non viene mai meno. In prigione: la bellezza del raggio di luce, del dolore, dei suoni. E una fonte ancora più importante: l'amore, mio per gli uomini e degli uomini per me. Come sarebbe bello se questo fosse vero.”

“Vi sono due mezzi di conoscenza del mondo esterno: uno è il mezzo più rozzo e «naturale», quello dei cinque sensi. Attraverso questo mezzo di conoscenza non si formerebbe in noi il mondo che conosciamo, ma sarebbe il caos fornitoci dalle varie sensazioni. L'altro mezzo consiste nel conoscere se stessi con l'amore per sé, e poi conoscere gli altri esseri con l'amore per questi esseri: trasferirci col pensiero nell'altro uomo, nell'animale, nella pianta, persino nella pietra. Con questo mezzo conosci dall'interno e formi tutto il mondo che conosciamo. Questo mezzo, che chiamano anche dono poetico, è nient'altro che amore. È, per così dire, il ristabilimento fra tutti gli esseri dell'unità andata distrutta. Esci da te e entri in un altro. E puoi entrare in tutto. Sempre: fondersi con Dio, col Tutto.”

“Tutti noi pensiamo che il nostro impegno, dovere, è fare varie cose: educare i figli, accumulare un patrimonio, scrivere un libro, scoprire una legge scientifica eccetera, mentre ciò che conta è solo fare della propria vita qualcosa di intero, razionale, bello.”

“Una volta mi sono chiesto: credo io, proprio credo, che il senso della vita è nell'eseguire la volontà di Dio, e che questa volontà è nell'aumento dell'amore (dell'armonia) in se stessi e nel mondo, e che con quest'aumento di tutte le cose amate in una sola, io mi preparo la vita futura? E senza volerlo ho risposto che io non credo in questa forma definita. In che cosa credo allora? mi sono chiesto. E ho risposto sinceramente che credo in questo, che bisogna essere buoni: essere miti, perdonare, amare. In questo credo con tutto il mio essere.”

“Per quanto sia difficile e terribile la posizione di colui che vuol vivere una vita cristiana in mezzo a questa vita di violenza, per lui non c'è altra via d'uscita che la lotta e il sacrificio: il sacrificio sino alla fine. Occorre vedere il baratro che divide i milioni di uomini impidocchiati, morenti di fame, dagli altri uomini ipernutriti, in pizzi e merletti; per colmarlo sono necessari sacrifici, e non quell'ipocrisia con cui noi ci sforziamo ora di nascondere a noi stessi la profondità di quest'abisso.“

Tolstoj sa che questo credo è difficile da realizzare. Verso la fine della sua vita annota:

“Soffro sempre di più e sempre di più, quasi fisicamente, per la disuguaglianza: la ricchezza, il superfluo della nostra vita in mezzo alla povertà; e non riesco a diminuire questa disuguaglianza. In questo mistero è la tragedia della mia vita.”

Ancora più egli sa che si tratta di un ideale infinitamente distante dal modo di vivere comune, che è ottuso, cieco, folle, e però caratterizzato da un travaglio molto minore rispetto a quello che egli ha sperimentato per tutta la vita.

Precocemente egli annota con un implicito riferimento ai “normali”:

“Sono sani perché sono limitati nel pensiero.”

La sensata follia del mondo lo assedia:

“Ieri mi si sono fatte chiare due cose: una non importante, l'altra importante. Non importante: avevo paura di dire e di pensare che il novantanove per cento di tutti noi sono pazzi. Il fatto è che non solo non c'è da aver paura a dirlo, ma non si può non dire e non pensare questo. Se gli uomini vivono in modo privo di senso (la vita in città, l'istruzione, il lusso, l'ozio), di certo diranno anche cose prive di senso. Così cammini in mezzo ai matti, e devi cercare di non irritarli e di curarli, se puoi. Importante: se veramente vivo (in parte) secondo la volontà di Dio, è naturale che questo mondo malato e insensato non possa approvarmi per questo. Se loro mi approvassero, vorrebbe dire che ho smesso di vivere secondo la volontà di Dio e ho cominciato a vivere secondo la volontà del mondo, cioè ho smesso di vedere e di cercare la volontà di Dio.”

“La cosa più necessaria agli uomini è spiegare, chiarire la loro coscienza, e poi vivere secondo essa, e non, come fanno tutti, scegliersi una coscienza completamente estranea e irraggiungibile e poi vivere senza coscienza e mentire, mentire per aver l'aria di uno che vive secondo una coscienza estranea prescelta.”

“Sì, è impossibile dimostrare qualcosa agli uomini, cioè è impossibile confutare gli errori degli uomini: ogni uomo che sbaglia ha i suoi propri errori particolari. E quando vuoi confutarli, raccogli tutto in un unico errore tipico, ma ognuno ha il suo, e poiché ha un proprio errore particolare, ritiene di non essere toccato dalla confutazione. Gli sembra che tu parli degli altri. E è vero: come puoi toccarli tutti? Perciò non bisogna mai confutare e polemizzare. Si può agire solo con l'arte su quelli che errano, fare quel che vorresti fare con la polemica. Con l'arte puoi prendere chi erra con tutti i suoi visceri, e portarlo dove vuoi. È possibile esporre nuove conclusioni del pensiero, ragionando in via logica; ma non serve discutere, confutare, bisogna attrarre.”

“Gli uomini più tranquilli e soddisfatti di sé sono quelli che non chiedono alla vita più di quanto la nostra società ammette, e hanno passioni corrispondenti: amanti, case di tolleranza, anche pederastia, un buon impiego e stipendio, dote della moglie, guerra, duelli e cose simili.”

“Vi sono due modi di agire dell'uomo, e secondo che l'uomo si attenga preminentemente a uno di questi due modi di agire, vi sono anche due tipi di uomini: gli uni adoperano la loro ragione per conoscere cos'è bene e cos'è male, e si comportano conformemente a questa conoscenza; gli altri si comportano come torna loro comodo, e solo dopo adoperano la ragione per dimostrare che il bene è ciò che hanno fatto e il male ciò che non hanno fatto.”

“Gli uomini che vivono nel mondo senza adempiere la loro vocazione sono come operai d'officina occupati solo da come sistemarsi, nutrirsi, divertirsi.”

”Vale forse la pena (non fosse che da questo punto di vista), essendo al mondo per così breve tempo, riempire questo breve spazio di tempo di menzogne, imbrogli e sciocchezze? Proprio come un attore che ha solo una piccola parte e si prepara a lungo per questa parte, è già vestito, truccato, e poi esce e sbaglia, si copre di ridicolo e rovina tutta la pièce.”

“Gli uomini vivono dei propri pensieri e dei pensieri altrui, dei propri sentimenti e dei sentimenti altrui (cioè comprendere i sentimenti altrui e tenerne conto). L'uomo migliore è quello che vive preminentemente dei pensieri propri e dei sentimenti altrui; la razza peggiore di uomini è quella che vive dei pensieri altrui e dei sentimenti propri. Dai vari modi in cui si combinano queste quattro basi, impulsi per l'attività, derivano tutte le differenze fra gli uomini.

  Vi sono uomini che non hanno quasi nessun pensiero, né proprio né altrui, né propri sentimenti, e che vivono solo dei sentimenti altrui: sono i mentecatti negatori di sé, santi. Vi sono uomini che vivono solo dei propri sentimenti: sono animali feroci. Vi sono uomini che vivono solo dei propri pensieri: sono i saggi, i profeti. Vi sono quelli che vivono solo dei pensieri altrui: sono gli stupidi istruiti. Dalla forza diversa con cui agiscono queste facoltà deriva tutta la complessa sinfonia dei caratteri.”

“L'uomo, l'uomo adulto, senza concezione religiosa, senza fede, è spiritualmente, moralmente mutilato, e può fare quel che è proprio all'uomo, può vivere solo grazie a artifici: le distrazioni, l'arte, la lussuria, l'ambizione, l'avidità, la scienza. E quest'uomo, come appunto un mutilato, è sempre in balia di tutti, con lui puoi fare tutto quel che vuoi. E così è tutta la nostra intelligencija europea (e americana). Questa intelligencija-mutilata non crede in nulla, non sa fare nulla, salvo cose vuote, ma sa che deve vivere. E vivere essa può solo del lavoro altrui. E può costringere solo uomini senza religione a nutrirla, a mantenerla. Per questo tutti i suoi sforzi sono diretti o a corrompere la fede che il popolo ha, o a privare del tutto il popolo della sua fede. Alla prima bisogna si dedica in particolare il clero, alla seconda gli uomini di studio: scienziati, letterati, artisti.”

“Noi siamo così abituati a chiacchierare del bene generale, che non ci meraviglia sentir parlare del bene generale una persona che per il bene generale non fa niente, non muove un dito, non esprime nessun pensiero nuovo; sentirgli dire che, a sua opinione, bisognerebbe far questo o quello e tutto andrebbe bene. In sostanza, ecco un uomo che non ha probabilmente la più pallida idea di che cosa occorra per il suo bene, e parla con sicurezza di che cosa occorre per tutti. Questo è un tratto specifico del nostro tempo.”

“Oggi a pranzo si parlava di un bambino con tendenze viziose che è stato cacciato dalla scuola e che sarebbe bene, dicevano, mettere in un istituto di correzione. È esattamente lo stesso di quel che fa un uomo che vive una vita cattiva, nociva alla salute, il quale, quando si ammala, si rivolge al dottore perché lo guarisca, senza che gli venga in mente che la sua malattia è un segno benefico che rivela che la sua vita è cattiva e va cambiata. Lo stesso con le malattie della nostra società. Ogni membro malato di questa società ci avverte che tutta la vita della società è sbagliata e che bisogna cambiarla; invece noi pensiamo che per ogni membro malato c'è o ci dev'essere un ente speciale che ci liberi da questo membro o persino lo corregga. Nulla più di questa convinzione sbagliata ostacola il progresso dell'umanità. Più la società è malata e più numerosi sono gli enti per curarne i sintomi, meno ci si preoccupa di cambiare tutta la vita.”

”Quanta gente c'è insoddisfatta di tutto, che tutto giudica e condanna, e a cui vorrei dire: riflettete un momento: è possibile che voi viviate solo per vedere l'assurdità della vita, condannarla, arrabbiarvi e morire?”

“Sediamo a tavola in cortile, mangiamo dieci portate, il gelato, fra camerieri, argenteria; viene un povero e la buona gente seguita a mangiare tranquillamente il suo gelato. Incredibile!”

“Perché i cosiddetti colti sono così sciocchi? Perché le loro teste sono inzeppate di sciocchezze inutili che loro considerano importantissime.”

“All'inizio sembra strano che un uomo che fa un'azione cattiva diventi ancora più cattivo. Parrebbe che dovesse calmarsi: ha fatto quel che voleva. Ma il fatto è che la coscienza lo rimprovera e lui deve giustificarsi, se non davanti agli altri almeno davanti a se stesso. E per giustificarsi egli fa nuovo male with a vengeance.”

La critica della normalità corrente di Tolstoj anticipa sorprendentemente l’analisi della personalità strutturalmente deficitaria fornita da Fromm in Psicoanalisi della società contemporanea. Egli crede profondamente nel valore dell’esempio, nella capacità di attrarre gli uomini e condurli a vivere in una maniera più elevata:

“Opera d'arte è quella che contagia gli uomini, che li porta tutti allo stesso stato d'animo. Non c'è nulla (per capacità di azione e di sottomissione di tutti gli uomini allo stesso stato d'animo) pari all'esempio della vita e, alla fine, all'intera vita dell'uomo. Se gli uomini capissero tutto il significato e tutta la forza di quest'opera d'arte che è la loro vita! Se solo la curassero con l'attenzione che merita, e dedicassero tutte le loro forze non a guastarla in ogni modo, ma a produrla in tutta la sua possibile bellezza! Noi invece curiamo la rappresentazione della vita, e mandiamo in malora la vita stessa. Ma che lo si voglia o no, la vita è un'opera d'arte, in quanto agisce sugli altri uomini che la guardano.”

Questo credo umanitaristico, però, non è privo di ombre:

“Quando vivi a lungo, come me per quarantacinque anni di vita cosciente, capisci com'è menzognero, impossibile darsi qualunque modello per la vita. Nella vita non c'è niente di stable. È come cercare di imprimere una forma sull'acqua corrente. Tutto: la personalità, la famiglia, la società, tutto cambia, scompare e si riforma come una nuvola. E non fai a tempo a abituarti a uno stato della società, che quello non c'è già più e è passato in un altro.”

“Non è possibile costringere la mente a analizzare e a capire ciò che il cuore non vuole.”

“Ogni uomo è incatenato alla sua solitudine e condannato a morte. «Vivi, per qualche ragione, solo, pieno di desideri insoddisfatti, invecchi e muori.» È orribile. L'unica salvezza è strappare da sé il proprio «io», coltivare l'amore per l'altro. Allora, invece di una sola, avrai due poste, più possibilità. E l'uomo, tendendo a questo, senza volerlo ama gli uomini. Ma gli uomini sono mortali, e se nella vita di uno c'è più dolore che gioia, lo stesso avviene nella vita degli altri. E per questo la situazione è sempre disperata. L'unica consolazione è che insieme anche la morte è bella. L'unica salvezza completa sarebbe l'amore verso l'immortale, verso Dio. Ma è possibile?”

“L'uomo impiega la sua ragione per chiedersi: perché, a che scopo? applicando tali domande alla vita propria e alla vita del mondo. E la ragione stessa gli dimostra che non c'è risposta. Con queste domande ti viene il capogiro, la nausea. Gli indiani, alla domanda «perché?» rispondono: Maja ha sedotto Brama, già esistente in lui, perché partorisse il mondo; e alla domanda «a che scopo?» non si preoccupano neanche di dare una risposta così sciocca. Nessuna religione ha inventato, né la ragione dell'uomo può inventare, delle risposte a queste domande. Che significa ciò?

 Significa che la ragione non è data all'uomo per rispondere a queste domande, che lo stesso porsi tali domande è un errore della ragione. La ragione decide solo la questione principale: come. E per sapere come, essa decide nei limiti del finito le questioni perché e a che scopo.

 Come come? Come vivere? Come non vivere? Gioiosamente.

 Di questo ha bisogno tutto ciò che vive, e io. E a tutto ciò che vive e a me è data questa possibilità. E questa decisione esclude le domande perché e a che scopo.

Ma perché e a che scopo la gioia non si trova subito? Di nuovo un errore della ragione. La gioia è il fare la propria gioia non c'è altro.”

5.

L’ultima citazione è particolarmente significativa. Nei Diari sorprendentemente il termine gioia ha più o meno la stessa ricorrenza del termine tormento. La vita interiore di Tolstoj è stata travagliata in conseguenza di oscuri sensi di colpa che lo hanno perseguitato sino alla fine, ma essa ha conosciuto anche momenti estatici legati al misticismo, alla creatività e all’identificazione empatica con gli oppressi.

Il mistero di Tolstoj si dissolve se si ammette, come ho già accennato, che la sua personalità profonda sia rimasta strutturalmente vincolata all’indottrinamento ortodosso subito nella prima infanzia, e che, ciò nonostante, le sue doti umane e intellettuali prodigiose, pur non consentendogli di affrancarsi totalmente da un severissimo Super-io, abbiano trovato modo di dispiegarsi in maniera eccellente.

Lo sviluppo onnilaterale della personalità, cui Tolstoj aspirava fin dalla prima giovinezza, si è di fatto realizzato, anche se con un limite imposto da una concezione della natura umana negativa e pulsionale.

La convivenza dinamica di una forte istanza verso l’individuazione e la differenziazione morale e intellettuale e di un’istanza moralistica consentono, dunque, di comprendere il travaglio di Tolstoj, e il suo atteggiamento nei confronti della cultura contemporanea. Egli coglie appieno la mediocrità del modo di vivere comune, sia della nobiltà parassitaria sia dell’emergente ceto borghese, univocamente proteso verso il benessere materiale, e la degradazione delle classi povere, che pure sono depositarie di valori umani. Il superamento di tale stato non può avvenire, però, secondo Tolstoj, in nome dei valori libertari e comunitaristici propagandati dai movimenti rivoluzionari.

Il problema non è solo la violenza, che Tolstoj ha stigmatizzato fin dall’epoca della sua pur valorosa partecipazione alla guerra di Crimea, ma la libertà propugnata da quei movimenti, che in lui risuona come anarchica e inesorabilmente incline alla dissipazione.

Per ciò egli ritiene che la rivoluzione di cui ha bisogno l’umanità è anzitutto di ordine spirituale,a partire dall’educazione religiosa dei bambini.

Le opere religiose di Tolstoj (Confessione 1880, Saggio di teologia dogmatica 1880, Traduzione dei Vangeli 1881, In che cosa consiste la mia fede, 1884, Il Regno di Dio è in voi, 1992) non hanno alcunché di confessionale. Esse ripropongono, nel complesso, una sorta di cristianesimo primitivo solidaristico, comunitaristico e comunistico.

Occorre, però, riflettere su due aspetti.

Il primo è l’inconsapevolezza di Tolstoj sull’influenza religiosa subita nell’infanzia, ella quale non fa mai cenno nei Diari. E’ fuor di dubbio che pedagogicamente il Cristianesimo può essere proposto anche in termini positivi di fratellanza e di uguaglianza. Tali termini, però, non sono prescindibili da una concezione negativa della natura umana, inquinata dal male, sicché i valori cristiani vanno affermati contro quella natura.

La valenza simbolica dei concetti religiosi peraltro è terribilmente incisiva laddove, in alcuni bambini, si dà una particolare sensibilità emozionale. Il riferimento al Dio crocifisso per colpa degli uomini, per esempio, determina un debito inestinguibile, che, al di là del senso di giustizia sociale, traspare con chiarezza nei Diari di Tolstoj.

Il secondo aspetto concerne la possibilità concreta di organizzare una società sulla base dei valori cristiani. La difficoltà, da questo punto di vista, non sta in ciò che essi hanno in comune con il liberalesimo e il socialismo - la dignità e l’uguaglianza umana -, bensì sul fatto che la religione allontana l’uomo dalla percezione della sua vulnerabilità, precarietà e finitezza o meglio gli restituisce questi aspetti esistenziali come apparenti più che sostanziali. In virtù di ciò essa promuove ciò che qualcuno ha definito il narcisismo della salvezza. Se anche questo orientamento si realizza attraverso una vita sociale virtuosa e altruistica, esso fa della salvezza un fatto sostanzialmente individuale.

La percezione laica della condizione umana drammatizza gli aspetti esistenziali, ma, proprio in virtù di questo, può promuovere un’empatia che si estende dal soggetto a tutti gli esseri viventi e, in nome della vulnerabilità umana, comporta il non fare male ad alcuno.

Il travaglio di Tolstoj sembra, dunque, riconducibile al fatto che una parte della sua personalità è rimasta ingabbiata e dominata da una struttura superegoica rigida e severa. Nonostante tale ingabbiamento, Tolstoj è riuscito ad esprimere, nella vita sociale e sul piano creativo, la sua indubbia genialità.

C’è da chiedersi se anche nelle sue opere si dia un riflesso di questo dramma interiore. La risposta è indubbia, ma andrà articolata attraverso un’analisi dei suoi capolavori.