Hermann Hesse

Siddharta

Adelphi, Milano 1988

1.

Pubblicato in lingua originale nel 1922, e tradotto in italiano da Massimo Mila nel 1945, Siddharta continua ad avere un singolare successo anche a livello giovanile. Con Kerouac, Hesse è, forse, l’autore più letto dai giovani (almeno tra coloro che amano ancora la letteratura). 

Il motivo di tale successo non è dovuto solo alle qualità letterarie dell’opera, tessuta sul registro di un lirismo affascinante, bensì alla suggestione di un tragitto di esperienza che si avvia sulla base di una ribellione nei confronti dell’autorità e della tradizione dei padri e procede, attraverso diverse fasi, alla ricerca del Sé, all’autorealizzazione personale e ad un rapporto di armonia totale con il mondo. Il tragitto del protagonista – Siddharta - è metaforicamente una lunga e travagliata crisi adolescenziale, che si conclude infine con il “parto” di un Io differenziato, adulto, maturo e saggio. E’, in breve, il tragitto stesso dell’autore trasposto in una terza persona e collocato in uno scenario remoto nello spazio e nel tempo.

Più che di un vero e proprio romanzo, si tratta di un "poema indiano" scritto in uno stile di trasparente raffinatezza.

Siddharta, figlio di un bramino, lascia la casa paterna, tormentato da un'esigenza di verità assoluta, per mettersi in cerca di una saggezza che si accordi totalmente con la vita umana. Accompagnato dall'amico Govinda, penetra dapprima in una foresta dove i saggi Samana gli additano la strada della mortificazione della carne, del digiuno, della rinuncia totale che dovrà condurlo al nirvana; ma questo insegnamento non basta a procurare pace al suo spirito. Incontra successivamente un uomo, una figura diafana e splendente, Gotama detto il Buddha, l'Illuminato, colui che potrà essere il suo intermediario verso la saggezza. Siddharta vorrebbe che gli insegnasse tutto, ma il Buddha non ha dottrine da diffondere: inviterà invece il figlio del bramino a staccarsi da ogni conoscenza aprioristica del mondo e a prepararsi a tutte le esperienze. La vera saggezza non è nel rinnegamento dell'anima, ma nella sua dilatazione sino a raggiungere l'anima del mondo; cioè nell'accettazione totale. Siddharta deve quindi vivere una vita banale per imparare a superarla.

Lasciata la foresta, si reca in città dove inizia il comune cammino degli uomini, incontra la bella e sensuale cortigiana Kumala, e il mercante Kamasvani, al quale ben presto s'associa. Per lungo tempo egli sembra smarrirsi e soltanto quando sarà stato segnato dalle tare della civiltà, vecchio, stanco e prossimo alla morte, ritroverà la saggezza in un disgusto immenso che lo indurrà a una nuova solitudine sulle rive del fiume simbolo dell'infinito e della pace concessa a coloro che hanno rinunciato a perseguire l'interesse materiale. Può così conoscere la libertà, che non è più quella meschina cosa additatagli dai Samana, ma il punto d'arrivo di un'esperienza di vita totale e consapevole, cioè un'adesione e una partecipazione all'universo.

La trama, ovviamente, non rende conto del fascino del libro, che è dovuto essenzialmente ad una tessitura lirica e, allo stesso tempo, densa di considerazioni filosofiche e di abbandoni mistici.

Esso, come accennato, ripete, per molti aspetti, l’esperienza stessa dell’autore, proiettandola in un contesto culturale remoto nello spazio e nel tempo (l’India del VI secolo). La proiezione è estremamente significativa.

Nipote di un famoso orientalista, figlio di una donna bianca nata in India, Hesse di fatto ha trovato nella cultura indiana – tendenzialmente contemplativa e quasi ossessivamente incentrata, nel corso della sua storia, sul tema del rapporto tra la totalità indivisa del Cosmo e la parzialità dell’individuo – gli strumenti essenziali per venire a capo, con l’aiuto dell’analisi personale, di un travaglio interiore che lo ha afflitto, con ricorrenti crisi depressive, dall’adolescenza alla maturità.

Frutto di una sorta di sincretismo tra la cultura occidentale, fortemente e ambiguamente incentrata sull’enfatizzazione dell’autorealizzazione individuale, e quella orientale, per la quale il processo di individuazione si conclude positivamente solo allorché l’Io riconosce la sua appartenenza alla totalità indivisa del Tutto, dissolvendosi in esso, Siddharta perviene ad una formula di saggezza che, di fatto, sembra, più che integrarle dialetticamente, superarle entrambe in virtù di un misticismo panteista.

A riguardo, il messaggio ultimo che Siddharta affida a Govinda, l’amico con cui ha avviato in gioventù la ricerca, separandosi da esso successivamente, è inequivocabile:

“Il mondo, caro Govinda, non è imperfetto, o impegnato in una lunga via verso la perfezione; no, è perfetto in ogni istante, ogni peccato porta già in sé la grazia, tutti i bambini portano già in sé la vecchiaia, tutti i lattanti la morte, tutti i morenti la vita eterna…

La meditazione profonda consente la possibilità di abolire il tempo, di vedere in contemporaneità tutto ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà, e allora tutto è bene, tutto è perfetto, tutto è Brahma. Per questo a me par buono tutto ciò che esiste, la vita come la morte, il peccato come la santità, l’intelligenza come la stoltezza, tutto deve essere così, tutto richiede solamente il mio accordo, la mia buona volontà, la mia amorosa comprensione, e così per me tutto è bene, nulla mi può far male. Ho appreso, nell’anima e nel corpo, che avevo molto bisogno del peccato, avevo bisogno della voluttà, dell’ambizione e della vanità, e avevo bisogno della più ignominiosa disperazione, per imparare la rinuncia a resistere, per imparare ad amare il mondo, per smettere di confrontarlo con un certo mondo immaginato, desiderato da me, con una specie di perfezione da me escogitata, ma per lasciarlo invece così com’è, e amarlo e appartenergli con gioia.” (pp. 161-162)

Questo messaggio, che fa riferimento alla possibilità di approdare alla pace interiore attraverso un tragitto personale che prescinde da ogni Chiesa e da ogni autorità (“La saggezza non è comunicabile. La saggezza che un dotto tenta di comunicare ad altri, ha sempre un suono di pazzia” p. 160), permette di comprendere perché Siddharta sia divenuto un libro di culto per la generazione degli anni ’70 che, smaltiti i bollori rivoluzionari, si rivolse verso l’Oriente alla ricerca di una filosofia alternativa al modo di essere occidentale e borghese, e perché, ancora oggi, esso rappresenti, oltre che un testo di riferimento per l’ideologia New-Age, un testo d’iniziazione per molti giovani che cercano il senso della vita in una versione che rifugga sia dal dogmatismo della religione cattolica sia dal laicismo razionalista.

Data l’autenticità dell’esperienza di Hesse, sia sul piano umano che artistico, è difficile accusare l’autore di questa “moda”, che continua a produrre in Occidente l’autoattribuzione da parte di alcuni intellettuali e di alcuni giovani (solitamente introversi) dello statuto di “illuminati”.

Devo riferire, riguardo a tale moda, la mia personale esperienza. Avendo partecipato alla stagione degli anni ’70, ho conosciuto vari campioni, all’epoca estremisti radicali e contestatari, che, nel corso degli anni, attraverso rituali viaggi in India e in Tibet, si sono convertiti alla nuova “fede”. Non ricordo di aver colto, nella loro pasticciata ideologia antistituzionale, spiritualista, libertaria, alcun segno di illuminazione interiore.

Il problema è che, per trarre insegnamento da Siddharta o meglio da Hesse, occorre non solo un travaglio autentico (che l’autore ha vissuto sulla sua pelle), una profonda cultura (che non può prescindere da Hegel, da Nietzsche, da Dostoevskij, ecc.), e una rara onestà interiore. Occorre soprattutto non confondere l’autorealizzazione individuale con il narcisismo che affligge la nostra cultura, e che diventa esiziale allorché, in virtù del misticismo, non è l’Io che si dissolve nel Tutto, bensì il Tutto che penetra illusoriamente nell’Io e lo dilata all’infinito.

A questa confusione contribuisce non poco il personaggio di Siddharta, che, nonostante porti lo stesso patronimico di Buddha, giunge ad una saggezza di segno opposto alla sua: una saggezza non incentrata sul rifiuto della realtà fenomenica come mera apparenza illusionale, ma sull’accettazione di essa, nella sua totalità, come verità ultima: “Il senso e l’essenza delle cose erano non in qualche cosa oltre e dietro di loro, ma nelle cose stesse, in tutto” (p. 63). Attraverso Siddharta, Hesse ripete, mutatis mutandis, il sì alla vita in tutti i suoi aspetti di Nietzsche, che richiede la sospensione di ogni giudizio di valore.

Per giungere a tanto, però, occorre essere Nietzsche o almeno Hesse, e non una controfigura che cerca, attraverso l’illuminazione, il senso ultimo di una realtà – esteriore e interiore – poco o male sperimentata nelle sue contraddizioni, nelle sue assurdità, nella sua follia. Occorre, insomma, soffrire quanto può soffrire un’anima lacerata da quelle contraddizioni per arrivare a capire che esse sovrappongono ad una realtà che ha senso in sé e per sé, con il suo stesso esserci, l’anomalia di un animale che rimane infelice finché mira ad estinguerle, rimuovendole, e ottiene la pace solo riconoscendole come dato ultimo della sua esperienza e del mondo stesso.

La confusione cui ho fatto cenno, a dire il vero, cade più dalla parte del lettore che dell’autore. Hesse, descrivendo il travaglio del giovane Siddharta che, nonostante i privilegi di nascita (è ricco, bello, intelligente, amato da tutti), sperimenta un’insoddisfazione profonda che promuove il suo lungo tragitto di ricerca, sottolinea a chiare lettere lo scarto radicale tra l’obiettivo primario del personaggio (“scoprire la fonte originaria nel proprio Io, e impadronirsene!” p. 31) e la meta cui quel tragitto perviene: la scoperta che solo la dissoluzione dell’Io nel fiume del divenire, vale a dire la scoperta dell’unità del Tutto cui l’Io appartiene e che lo trascende, porta alla pace e alla perfezione, ad “un sapere che è pieno di compassione e di simpatia, docile al flusso degli eventi, aderente all’Unità” (p. 156).

Cionondimeno, ancora oggi la lettura di Siddharta produce illuminazioni sospette in virtù delle quali soggetti ancora del tutto immersi nel culto dell’Io avvertono repentinamente di avere raggiunto la verità che apre tutte le porte.

2.

Tra le tante trappole che caratterizzano l’apparato mentale, una delle più insidiose è l’ansia di assoluto. Essa si può interpretare in senso metafisico, come indizio di un’intuizione trascendente radicata nelle sfere più profonde della soggettività, o in senso psicobiologico, come sintomo della finitezza intrinseca al bagaglio di consapevolezze esistenziali che sottendono la coscienza umana e che è l’inquietante conseguenza della dilatazione degli orizzonti spazio-temporali sopravvenuta in seguito alla nascita del cervello umano.

Come ho scritto in Abracadabra, l’uomo, a differenza di tutti gli altri animali, si rende conto di essere finito, ma questa consapevolezza è la conseguenza di un’intuizione emozionale che comporta il riferimento all’infinito spazio-temporale: è, in breve, la consapevolezza di essere un segmento di una retta.

Il pericolo immanente alla coscienza umana è il desiderio di azzerare lo scarto tra finito e infinito. I due modi estremi attraverso cui tale pericolo si realizza è l’espansione narcisistica dell’Io, che può indurre un senso di onnipotenza, e il misticismo, inteso come dissoluzione dell’Io nella totalità cui giunge a sentire di appartenere.

Sono entrambe soluzioni illusionali: più pericolosa e per alcuni aspetti ridicola la prima, più suggestiva e innocua la seconda. Di illusioni però si tratta perché l’uomo non può fuoriuscire dalla trappola della finitezza, che è il fondamento del suo essere cosciente e del suo avere un’identità distinta da tutti gli altri. Tale trappola non esclude la consapevolezza di qualche cosa che trascende l’io individuale, e rispetto a cui esso rappresenta una parte: prima di arrivare però frettolosamente all’Unità cosmica, all’unità del Tutto (concetto abbastanza insignificante e inverificabile), si può fare riferimento alla socialità, all’Altro, alla storia, al mondo della natura e a quello della cultura, prodotta dall’uomo stesso.

La soluzione mistica crea un cortocircuito tra l’Io e il Tutto, azzerando le sfere concentriche di vita che mediano tale relazione, dando all’Io un carattere indubbiamente relativo, ma assumendo anche il Tutto come un riferimento indistinto, meramente teorico.

Sotto un cielo stellato, qualunque uomo può sentire che la sua mente viene pervasa da un sentimento oceanico. Rimane il fatto che lo scenario percettivo ed emozionale che evoca tale sentimento è esso stesso illusionale. La sua apparente e muta quiete cela infatti un vorticoso brulichio astrale che comporta incessanti processi di trasformazione dell’energia in materia e viceversa.

La quiete del cielo stellato, così suggestiva per le nature mistiche, è la stessa che esse raggiungono quando, attraverso la meditazione, giungono, come Siddharta a percepire il flusso della vita interiore al di là dei pensieri e delle emozioni che ad esso si sovrappongono e che lo frammentano. Essi pensano di essere giunti allo strato più profondo della mente, laddove il fiume dell’interiorità sfocia nel mare tranquillo della Totalità. In realtà, sospendendo l’attività analitica del pensiero, che quel flusso frammenta, giungono a comunicare direttamente con l’attività intrinseca cerebrale, quella già presente intensamente nel feto e indipendente dagli stimoli esterni.

Queste considerazioni possono apparire impertinenti in rapporto al romanzo di Hesse e soprattutto ad una carriera di vita il cui travaglio è stato autentico e che è giunta ad un equilibrio e ad una saggezza esemplari. Fatto si è che, a questo, l’autore non è arrivato attraverso la meditazione trascendentale, pur praticata congiuntamente alla psicoanalisi, bensì in virtù di una creatività sottesa da una rigorosa autodisciplina e da un bisogno di autorealizzazione estremamente intenso.

Egli è dunque la prova vivente che l’uomo trova la pace e la serenità oggettivando le sue qualità e godendo dello stesso sforzo che tale oggettivazione richiede, quando egli sente di avere dato spazio e forma alla sua personale vocazione ad essere e riceve dagli altri la conferma del suo valore.

Il tragitto di Hesse, insomma, considerato complessivamente, sta più dalla parte della concezione antropologica di Marx, dell’”uomo” universale di Marx, che del misticismo orientale.

C’è da chiedersi come mai Hesse non si sia reso conto di questo, vale a dire della superfluità del ricorso al misticismo per dare conto di come egli sia giunto a vivere nella pace interiore.

A riguardo, c’è un’altra considerazione da fare, non meno impropria delle precedenti.

Altrove ho sottolineato l’influenza persistente che una precoce educazione religiosa ha sulle anime sensibili. Tale influenza, tra gli altri aspetti, comporta una risposta ottimale e appagante, per quanto illusoria, al bisogno di Assoluto rappresentato nella mente umana. Allorché viene meno la credenza dottrinaria, e l’individuo perde la fede, ciò nondimeno quel bisogno persiste a livello inconscio, e, in conseguenza dell’influenza religiosa, continua a premere nella direzione di un appagamento originariamente sperimentato. Ciò comporta il pericolo che, prescindendo da Dio, il soggetto sia spinto a soddisfarlo assolutizzando qualche aspetto della realtà: l’Io, la natura, lo Spirito, il Tutto, ecc.

Nella parabola personale e intellettuale di Hesse, che muove da una drammatica ribellione ad una fede confessionale imposta dalla tradizione familiare, tale pericolo si è realizzato in maniera evidente. La “fede” che egli esprime, attraverso Siddharta, in “un sapere che conosce la perfezione, che è in accordo con il fiume del divenire, con la corrente della vita, un sapere che è pieno di compassione e di simpatia, docile al flusso degli eventi, aderente all’Unità” (p. 156), se, nei suoi contenuti panteistici, è del tutto diversa da quella originaria trasmessa dalla famiglia, pietistica, nella forma di fatto la recupera. In contrapposizione alla burocratizzazione delle chiese territoriali,  alla sclerotizzazione della pratica religiosa e all’irrigidimento della teologia scolastica protestante, il pietismo infatti rivendicava un cristianesimo attivo, sostanziato di fervore (pietas); si poneva insomma come una religione del cuore contro la religione della mente.

Non sono diversi i motivi per cui Siddharta si ribella alla religione ufficiale del suo tempo, il Bramanesimo, così come essi sono ricostruiti dall’amico Govinda: “questo non diventerà un Bramino come ce ne sono tanti, un pigro ministro di sacrifici, o un avido mercante d’incantesimi, un vano e vacuo retore, un prete astuto e cattivo, e non sarà neppure una buona, sciocca pecora nel gregge dei molti.” (p.28)

In entrambi i casi, è inevitabile che la religione del cuore, vale a dire la ricerca di una verità totale che appaghi il bisogno di Assoluto, non può esitare che in una forma di misticismo.

3.

Ciò detto, e sperando di non avere urtato la suscettibilità dei numerosi ammiratori di Hesse e di coloro che ritengono la religione e la filosofia indiana superiore a quella occidentale, devo aggiungere due considerazioni di un qualche interesse.

La prima riguarda l’attendibilità storica del romanzo.

Siddharta è una favola narrata su di uno sfondo storico ben noto a Hesse, ma molto meno ai lettori. Il tragitto del personaggio si realizza nell’India del VI secolo: il secolo per eccellenza di Buddha.

Coloro che hanno letto (o leggeranno) l’Introduzione all’Induismo, pubblicata sul sito, sanno che si è trattato di un periodo estremamente travagliato della civiltà indiana, il cui assetto socioculturale, dominato dai Brahmini, e giunto a livelli di cristallizzazione burocratica e istituzionale intollerabili, è stato scosso da attacchi molteplici, il più famoso dei quali è quello per l’appunto legato al nome di Buddha.

Di questo sfondo storico, il romanzo di Hesse non ci restituisce quasi alcunché. Si intuisce, attraverso le pagine, l’infinita miseria e la frustrazione delle masse popolari. Si intuisce il numero straordinario di predicatori vaganti, ciascuno dei quali portatore di una verità ultima atta a lenire il dolore di vivere. Ma la realtà storica, a partire dalla quale è possibile capire il significato profondo dell’origine del buddismo, vale a dire della cosmologia e della filosofia più pessimistica e disperata che la cultura umana abbia mai prodotto, rimane del tutto celata allo sguardo del lettore, che può dunque essere indotto a riconoscere nell’inquietudine di Siddharta l’indizio di un bisogno di Assoluto intrinseco alla mente umana. Di fatto, per i motivi cui ho fatto cenno in precedenza, esso lo è, ma diventa radicale, vale a dire “metafisico”, solo nella misura in cui gli esseri umani sperimentano l’orizzonte mondano come poco o punto vivibile e incompatibile con la loro vocazione viscerale alla giustizia e alla felicità.

Questo ci porta alla seconda, conclusiva considerazione.

Nonostante l’ambiguo e forse inaccettabile messaggio di Siddharta, l’opera di Hesse, oltre che la sua personale esperienza umana, è una delle massime espressioni del peso e del rilievo che, nell’organizzazione della soggettività, ha il bisogno di individuazione. La ribellione  di Hesse al progetto già predisposto per lui dalla famiglia, l’intuizione precoce di una vocazione letteraria e artistica, la dedizione ammirevole e incessante nel corso degli anni con cui egli ha realizzato tale vocazione, la ferma opposizione all’autoritarismo e alla dittatura nazista, l’irrequietezza stessa della sua vita privata, conclusasi solo in virtù di un terzo, felice matrimonio rappresentano la prova di un potenziale orientato verso la differenziazione individuale di grande intensità.

Nei suoi aspetti autobiografici, Siddharta va letto in questa ottica. Il bisogno di individuazione, che, come ho scritto più volte, ha poco a che vedere con l’autorealizzazione individuale che va di moda in Occidente (all’insegna del “diventare se stesso”), è un potenziale genetico che non comporta, come pensa Hesse, la ricerca dell’Assoluto, della verità ultima, bensì promuove una tensione verso la ricerca del modo migliore di oggettivare le proprie qualità personali che dura tutta la vita. Umano, troppo umano bisogno: tutt’altro che metafisico, comunque si intenda questo aggettivo.