LA PERSONALITA' DI KAFKA

Più volte, Kafka, lucidamente consapevole del rapporto tra la sua travagliata storia interiore e la produzione letteraria, si è riproposto di scrivere un'autobiografia. Non ha realizzato questo progetto per l'innata riservatezza e per la inestricabile complessità dei suoi vissuti. Oltre alla sua opera, che per molti aspetti è autobiografica, la personalità si può ricostruire attraverso i Diari, il ricco epistolario e la esauriente biografia dell'amico Max Brod (Kafka, Mondadori, Milano 1978). Le citazioni sono tratte da quest'ultimo lavoro.

L'introversione di Kafka è immediatamente evidente in tutte le foto che di lui possediamo. Un suo ritratto infantile ci presenta già "un ragazzino di circa cinque anni, snello, con grandi occhi interrogativi e le labbra cupamente chiuse e caparbie" (p. 13). Nelle foto da adulto, l'espressione è seria, sostenuta e naturalmente signorile; lo sguardo, fisso su un punto all'infinito, acuto e penetrante.

L'introversione Kafka l'ha ereditata per linea materna. Tanto il padre era, come peraltro gran parte dei suoi parenti, un "pezzo d'uomo", alto, dalle spalle larghe, dotato di una tenacia, di una capacità di lavoro e di uno spirito pratico eccezionali, espansivo, impulsivo e "tirannico", tanto gli antenati della madre erano "eruditi, sognatori, con una tendenza alla stranezza o rapiti verso l'avventura, l'esotismo, la bizzarria, la solitudine" (p. 6). La madre stessa "era una donna tranquilla, buona, straordinariamente intelligente, anzi piena di saggezza" (p. 4). Dalla parte della madre, Kafka eredita anche una costituzione fisica minuta, longilinea e delicata. La sua carnagione di fatto, nelle foto, ha qualcosa di vagamente adolescenziale, se non addirittura di effeminato, per via di una pelle pallida, sottile e levigata.

Kafka è perfettamente consapevole di avere ereditato da parte della madre le qualità fondamentali del suo carattere: "Ostinazione, sensibilità, senso della giustizia, irrequietezza" (p. 18)

Secondo la testimonianza della madre, "Franz era un fanciullo debole e delicato; per lo più serio, ma disposto talvolta a fare il chiasso; un fanciullo che leggeva molto e non voleva fare ginnastica" (p. 12).

L'estraneità fisica e psichica rispetto al padre - il dramma che segnerà la sua esperienza psicologica - è radicale. Primogenito e unico maschio, il destino di Kafka è di portare avanti l'azienda paterna, che consta di una fabbrica e di un negozio al dettaglio. Egli è però un sognatore sprovvisto di qualunque senso pratico, non ama il commercio, non ha ambizioni di status.

Il padre non comprenderà mai le "stranezze" del figlio, in particolare non gli perdonerà mai il difetto di senso pratico, né avrà mai alcuna intuizione della sua genialità letteraria. Kafka il padre lo comprende: capisce che il suo desiderio di affrancarsi da una condizione originari socialmente umile e l'aspirazione ad un tenore di vita borghese, impegnandolo a soffrire, a lottare e a non arrendersi, lo hanno indurito e esaltato. Capisce anche che il suo orgoglio di self-made man lo ha indotto a considerare la tenacia, la forza di carattere, la capacità di lottare mirando a obbiettivi concreti come gli unici attributi degni di un uomo. Considera anche criticamente alcuni suoi tratti di carattere che hanno pesato nell'educazione:

"Ero un bambino timido eppure sarò stato testardo come tutti i bambini; mia madre mi avrà certo viziato ma non posso credere di essere stato particolarmente difficile da guidare, non posso credere che una parola gentile, una tacita stretta di mano, uno sguardo amorevole, non avrebbero ottenuto da me ciò che si desiderava. Ora, tu sei in fondo un uomo buono e tenero (ciò che segue non sarà in contraddizione perché parlo soltanto della figura con la quale agivi sul bambino), ma non tutti i bambini hanno la costanza e il coraggio di cercare la bontà finché la trovano. Tu puoi trattare un bambino soltanto secondo la tua stessa natura con forza, baccano e collera, e in questo caso tutto ciò ti sembrava molto adatto perché volevi fare di me un ragazzo forte e coraggioso" (p. 19).

Si tratta di una critica benevola, che sottolinea una diversità insormontabile. Ciononostante, Kafka vede nel padre un esempio ammirevole e supremo di normalità, lo assume come modello, e misura se stesso alla luce di tale modello. L'esito è devastante: per tutta la vita, egli è perseguitato da un vissuto di totale inadeguatezza e inettitudine a vivere che, in alcuni momenti, lo porta sull'orlo della disperazione. "Non sei idoneo alla vita": l'inappellabile verdetto che Kafka, nella celeberrima Lettera, attribuisce al padre, è di fatto un verdetto intimamente condiviso. Nulla più di questa condivisione esemplifica il pericolo intrinseco alla personalità introversa di assumere come metro di giudizio un modello inattingibile perché non congeniale e, spesso, inconsciamente addirittura disprezzato. In conseguenza di quella condivisione, al vissuto radicale d'inadeguatezza si associa in Kafka anche "una sconfinata coscienza di colpa" (p. 22), riconducibile al tradimento, al non poter essere quello che l'Altro (il padre, la società) si aspetta che egli sia.

L'adolescenza di Kafka è impregnata di questa drammatica tendenza all'autosvalutazione. Nonostante la vivacità intellettuale lo inoltri sui terreni della letteratura, della filosofia e della religione, nonostante i pochi amici che ha apprezzino la sua finezza di spirito, egli si vede brutto e inetto. Scrive nel Diario:

"Mi accorgevo beninteso, ed era molto facile, ch'ero vestito malissimo e notavo se altri erano vestiti bene, salvo che il mio pensiero non riuscì per parecchi anni a trovare la cagione del mio miserevole aspetto in quegli abiti. Siccome già allora ero avviato, più con la fantasia che in relatà, ad avere poca stima di me, ero convinto che gli abiti assumessero soltanto addosso a me quell'aspetto dapprima rigido come una tavola, poi cascante a pieghe. Non chiedevo abiti nuovi perché, se proprio dovevo essere brutto, volevo almeno star comodo e, oltre a ciò, evitare di presentare al mondo, che aveva fatto l'abitudine agli abiti vecchi, la bruttezza dei nuovi…

Assecondavo gli abiti brutti anche col mio portamento, camminavo con la schiena curva, le spalle sbilenche, braccia e mani impacciate: avevo paura degli specchi perché mi mostravano in una bruttezza, secondo me, inevitabile che. D'altronde, non poteva essere rispecchiata in misura conforme al vero. Poiché, se proprio avessi avuto quell'aspetto, avrei dovuto suscitare anche più grande scalpore…

In genere mi mancava la capacità di provvedere, sia pure minimamente, all'effettivo avvenire; col pensiero mi attenevo alle cose presenti e alla loro situazione, non già per precisione o interessamento troppo legato, ma fin dove non causava una debolezza di pensiero per tristezza e paura: per tristezza perché essendo il presente così triste, credevo di non doverlo lasciare prima che si risolvesse in felicità; per paura perché, come temevo il più piccolo passo presente, mi consideravo d'altro canto indegno di giudicare seriamente e con responsabilità, dato il mio spregevole e puerile comportamento, il grande avvenire virile che per lo più mi è apparso impossibile a tal segno da farmi sembrare falso ogni piccolo progresso e irraggiungibili le cose a portatat di mano…

Mi rimaneva la convinzione che non avrei sostenuto gli esami finali dell'anno e, qualora ciò mi fosse riuscito, non sarei stato promosso alla classe seguente, e quando anche avessi potuto evitare ciò con imbrogli, sarei stato bocciato definitivamente all'esame di licenza e, del resto indifferente in quale momento, ma con certezza, avrei sbalordito i miei genitori già cullati dalla mia ascesa esteriormente regolare, nonché il resto del mondo, con la rivelazione di un'inaudita incapacità" (pp.10-11).

In nome della soggezione al padre, e dell'esigenza di fare qualcosa a lui gradito, che possa promuovere una conferma, Kafka, nonostante sia già consapevole della sua vocazione letteraria, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, che non esercita alcuna attrazione su di lui. Il senso rigoroso del dovere gli consente di giungere alla laurea, ma ad un prezzo definito efficacemente nei Diari:

"Ora, di sera, dopo aver studiato sino alle sei di mattino, mi sono accorto che la mia sinistra stringeva già da un po' le dita della mano destra per compassione" (p. 38).

Nella Lettera al padre l'inutile tormento dello studio gli fa scrivere che "un paio di mesi prima degli esami, con abbondante sciupio di nervi, il mio spirito si nutrì di segatura che inoltre era giaà masticata in precedenza da mille bocche" (p. 38).

Negli anni di Università, i vissuti soggettivi di fondo di Kafka non cambiano. Egli non socializza molto perché il suo atteggiamento è "silenzioso, osservatore, sostenuto" (p. 36): quello tipico insomma di un introverso che evoca facilmente negli altri un moto di antipatia, se non altro perché può apparire scostante. Incontra però, per fortuna, qualche anima affine, tra cui Max Brod. Il modo in cui questi descrive la personalità di Kafka mette in luce il drammatico scarto che spesso si dà negli introversi tra l'immagine svalutativa di sé e quella che se ne fanno coloro che riescono, per affinità, ad andare al di là delle apparenze:

"Vicino a lui si provava un senso di benessere. L'abbondanza di pensieri che egli esponeva di solito con serenità, lo rendeva, per indicare soltanto il gradino più umile, uno degli uomini più divertenti che io abbia conosciuto, nonostate la sua modestia e la sua calma. Parlava poco, in presenza di molta gente taceva spesso per ore intere. Ma quando diceva qualcosa attirava subito l'attenzione. Erano parole ricche di contenuto e cfolpivano nel segno. Nelle conversazioni confidenziali la lingua gli si scioglieva talvolta in maniera stupefacente, era capace di entusiasmarsi e di lascairsi andare, e allora no la smetteva di scherzare e ridere. Anzi rideva volentieri e cordialmente e sapeva far ridere gli amici. Dirò di più: in situazioni difficili si poteva affidarsi con sollievo e senza scrupoli alla sua saggezza, al suo tatto, ai sui consigli che raramente erano sbagliati. Era un amico meravigliosamente pronto ad aiutare. Soltanto per sé era impacciato e irresoluto." (pp. 36-37)

"La sincerità assoluta era uno dei lati più importanti del suo carattere. Un altro era la sua incredibilmente precisa, scrupolosa coscienziosità. Questa si manifestava in tutte le questioni morali dove a lui non sfuggivano neanche le più piccole ombre di un torto fatto." (p. 44)

"Il suo senso di giustizia era insuperabile, come pure il suo amore della verità, la sua onestà schietta che non diventava mai una posa" (p. 153).

"Certe volte Franz non era neanche capace di vincere scrupoli insignificanti, temeva di aver agito in modo errato… Se era coscienzioso non lo faceva per viltà, ma per un elevato senso di responsabilità." (p. 44)

"Egli credeva in un mondo giusto, credeva nell'"indistruttibile" di cui parlano molti suoi aforismi." (p. 46)

"I suoi giudizi erano di una semplicità elementare, erano in qualche modo palmari e utili, facili e sicuri, benchè li desse con cautela e non esitasse minimamente a confessare di essere caduto in errore. Anche nelle persone che generalmente erano considerate spregevoli egli scopriva tratti degni di ammirazione. Non perdeva mai, diremo così, la pazienza con alcuno. D'altra parte trovava particolari ridicoli in grandi uomini che egli stesso ammirava. Ma quando rilevava quei tratti comici non aveva mai l'intenzione di denigrare, era piuttosto un certo rammarico, un pianto sommesso, o li presentava come cosa incomprensibile, trascendente le nostre intuizioni umani" (p. 45)

"La continua compattezza delle sue idee non ammetteva lacune ed egli non pronunciava mai una parola insignificante. Ciò che veniva da lui era (e con l'andare degli anni diventò sempre più spontanea) un'espressione preziosa del suo modo di pensare particolarissimo, paziente, desideroso di vita, ironico e indulgente davanti alle follie del mondo, sempre attento al nocciolo genuino, cioè all'"indistruttibile", dunque sempre lontanissimo dalla fatuità e dal cinismo." (p. 61)

"L'uomo faceva effetto per se stesso e, nonostante la timidezza, era considerato da persone eminenti come un essere eccezionale" (p. 51).

Anche se l'ammirazione di Brod, che giunge ad iscrivere l'esperienza di Kafka nell'ambito della santità, si può ritenere per qualche aspetto eccessiva, lo scarto tra come Kafka viveva se stesso e come lo vivevano coloro che erano in grado di capirlo è agghiacciante. Si può pensare che, avendo sviluppato precocemente un'immagine negativa di sé, Kafka abbia considerato - circostanza frequente tra gli introversi - il modo in cui appariva agli altri e i giudizi che evocava come il frutto della sua capacità d'ingannare o di un fraintendimento da parte degli altri.

Questa percezione di negatività, vissuta come assolutamente vera, e che dunque vanifica le conferme esterne è assolutamente evidente in un brano de Il processo, che fornisce una chiave fondamentale per la comprensione del romanzo. Alla pensionante, la signora Grubach, che fa delle osservazioni sul comportamento della signorina Bürstner, in nome della necessità di tutelare la pulizia, vale a dire l'onorabilità della pensione, Joseph K. Risponde: "La pulizia!.. se lei vuol mantenere pulita la pensione, il primo che deve mandar via sono io".

Finita l'Università, Kafka mortifica la sua vocazione letteraria accettando un impiego presso l'Istituto delle Assicurazioni contro gli Infortuni. Come già accaduto per lo studio, anche il lavoro professionale non ha alcun valore per lui. Ciononostante, il suo senso del dovere è esemplare, le sue prestazioni molto apprezzate dai superiori, è benvoluto da tutti per la sua educazione e gentilezza, non ha nemici. Il lavoro esaspera la sua sensibilità sociale. Egli rimane sconvolto quando vede le mutilazioni subite dagli operai a causa delle insufficienti misure di sicurezza. Confida all'amico Brod: "Come sono umili costoro. Vengono da noi a supplicare. Invece di prendere d'assalto l'istituto e di fracassare ogni cosa, vengono a pregare." (p. 75)

Il senso innato di giustizia è documentato anche da un singolare piano d'una collettività di lavoratori redatto negli ultimi anni di vita, in cui si legge tra l'altro una singolare proposta: "Diritti: giornata lavorativa di sei ore al massimo; per fatiche fisiche, da quattro a cinque." (p. 77)

Il lavoro, che sottraeva tempo prezioso alla scrittura, è stato un incubo per Kafka. Nonostante l'autosvalutazione, egli ha sempre avuto coscienza, se non della sua grandezza, dell'autenticità della sua vocazione. Egli scrive:

"21 giugno 1913. Il mondo immenso che ho in testa. Ma come liberare me e il mondo senza spezzarmi? E' meglio spezzarmi mille volte che rattenerlo o seppellirlo in me. Sono qui per questo, me ne rendo perfettamente conto."(p. 82)

Ma la scrupolosità inquina anche questa certezza, come risulta dai Diari: "Chi mi conferma la verità o probabilità del fatto che soltanto in seguito alla mia missione letteraria non ho altri interessi e per conseguenza sono senza cuore?" (87)

Kafka ha un bisogno infinito di solitudine, che attiva e rende fluida la sua creatività, ma vive questo bisogno come incompatibile con i doveri sociali - il lavoro, la famiglia - che l'esempio paterno gli suggerisce come propri dell'uomo maturo, adulto e responsabile. L'ossessione di un'astratta normalità sancita da un'unione matrimoniale, alla quale egli non può pervenire perché troppo contrastante con la sua vocazione ad essere, è il dramma che sottende le relazioni affettive. Del 1913 è un elenco di tutto ciò che è pro e contro il matrimonio con Felice Bauer. Da esso affiora un conflitto insolubile i cui punti fermi sono i seguenti:

"Incapacità di sopportare la vita da solo, non già incapacità di vivere, tutt'altro; è anche       improbabile che io sappia vivere con qualcuno, ma sono incapace di sopportare da solo       gli assalti della mia propria vita, le esigenze della mia persona, l'attacco del tempo e       dell'età, il vago impeto della voglia di scrivere, l'insonnia, la vicinanza della follia. Forse, aggiungo beninteso. L'unione con F. darà alla mia vita una maggior forza di resistenza…

Io devo stare molto solo. Ciò che ho prodotto finora è tutto effetto della mia solitudine

Odio tutto ciò che non riguarda la letteratura. Mi annoio a far conversazione (anche se si riferisce alla letteratura), mi annoio a far visite, le gioie e i dolori dei miei parenti mi annoaino fino in fondo all'animo. La conversazione toglie a tutto ciò che penso la sua importanza, la serietà, la verità.

La paura dell'unione, dell'immedesimarsi. In tal caso non sarò mai più solo…

Essendo solo potrei forse un giorno abbandonare il mio posto. Una volta sposato non  sarà possibile mai." (pp. 129-130)

Il conflitto diventa insostenibile nei momenti in cui Kafka sente di far soffrire la donna che ama. Alla fine è l'emottisi e il ricovero in un sanatorio che risolvono il problema. Kafka coglie lucidamente il significato psicosomatico della malattia: "Dietro alle mie spalle la mia testa si è messa d'accordo con i polmoni." (p. 69) Ma il senso di colpa per il suo comportamento si esprime ne Il processo e riecheggia netto nei Diari, nei quali commenta una visita di F, in sanatorio nei seguenti termini:

"Come la vedo io, porta sulle spalle essenzialmente per colpa mia il colmo dell'infelicità. Io stesso non so capacitarmi, sono del tutto insensibile e altrettanto impacciato, penso al disturbo che subiscono alcune mie comodità e, unica concessione, faccio un poco la commedia. In alcune inezie ha torto, torto nella difesa del suo diritto, preteso o anche reale, ma in complesso è una donna innocentemente condannata alla tortura. Io ho commesso il male per cui viene torturata e oltre a ciò faccio il servente allo strumento di tortura." (p. 150)

L'insensibilità è un'altra autoattribuzione devastante. Kafka è pervenuto a questa conclusione, e alla sua spiegazione, precocemente, come risulta da un brano della Lettera al padre:

"Da quando ho cominciato a pensare ebbi tali preoccupazioni per l'affermazione spirituale dell'esistenza che tutto il resto mi era indifferente. Ebrei che studiano al ginnasio diventano tra noi facilmente bizzarri, tra loro si trovano le cose più inverosimili, ma non ho mai trovato in alcuno la mia fredda, quasi palese, indistruttibile, puerilmente impacciata, forse addirittura ridicola, animalescamente soddisfatta indifferenza del fanciullo sano in se stesso, ma dotato di gelida fantasia; è vero che questa indifferenza era anche l'unica difesa contro la distruzione dei nervi per opera dell'angoscia e della coscienza di essere colpevole." (p. 23)

Nel corso degli anni, e soprattutto in conseguenza delle esperienze affettive, questa definizione di sé, quasi assurda in un essere dotato di una straordinaria sensibilità, si conferma di continuo e viene sempre meno compensata dall'intuizione che si tratta di una difesa.

La personalità di Kafka è rimasta, dunque, sottesa per sempre da un conflitto insanabile tra il suo bisogno d'individuazione, animato da una vocazione letterararia assolutamente genuina, e un codice normativo, interiorizzato sulla base dell'identificazione con il padre, alla luce del quale quel bisogno si è tradotto in una radicale e colpevole inettitudine a vivere. In conseguenza di questo conflitto, l'esperienza interiore di Kafka è stata univocamente tormentosa per via della sconfinata coscienza di colpa cui fa riferimento nella Lettera al padre, e che egli commenta così: "Ricordando questa enormità, scrissi giustamente di un tale: egli teme che la vergogna gli debba sopravvivere". E' questo l'ultimo pensiero che attraversa la mente di Josph K. mentre viene scannato. Una terribile premonizione: Kafka muore straziato dalla tubercolosi laringea.

Ottobre 2003