H. Melville

Moby Dick


1.

Le grandi opere letterarie sono testi aperti a infinite interpretazioni. Per quanto ogni opera, infatti, sia il prodotto di un’epoca e di un soggetto storico, la creatività artistica, nella misura in cui è profondamente influenzata dall’inconscio, comporta intuizioni che solo il tempo permette di cogliere nei loro significati complessi. Da questo punto di vista, Moby Dick è un romanzo esemplare. Scritto quando l’autore aveva appena 32 anni, parecchi dei quali passati in mare, è un romanzo magmatico, nel quale l’epos, la lirica, la religiosità, la metafisica, la psicologia, l’osservazione naturalistica, la didascalia si intrecciano di continuo, e fanno da cornice al conflitto, segnato dal fato, tra il capitano Achab e la Balena Bianca, il grande Leviatano.

Con la sua selvaggia e astuta violenza, la Balena Bianca è un simbolo demoniaco. Non meno demoniaca però è la personalità del capitano Achab, che animato dall’ossessione di una cieca vendetta, trascina alla rovina parte del suo equipaggio, oltre che se stesso.

La personalità di Achab è stata sottoposta ad uno scavo critico giunto ad avvalersi anche di categorie interpretative psicoanalitiche. Egli è affetto indubbiamente da una monomania delirante, nella quale è facile intravedere una difesa contro una cupa depressione dovuta ad una vita radicalmente introversa che, solo attraverso l’assunzione del ruolo di capitano, riesce ad acquisire una dimensione sociale. E’ un’anima tormentata quella di Achab: solitaria ("Achab era socialmente inaccessibile. Era incluso di nome nel censimento della Cristianità, ma di fatto vi era sempre estraneo. Viveva nel mondo come l'ultimo degli orsi feroci viveva nel Missouri, quando già vi si erano stabiliti i coloni. E come quando, finite la primavera e l'estate, quel selvaggio Logan dei boschi si seppelliva nel cavo di un albero per passarvi l'inverno a succhiarsi le zampe, così nella sua vecchiaia inclemente, in mezzo alle tempeste, l'anima di Achab si richiudeva nel tronco vuoto del corpo, per succhiarsi disperata le zampe della propria tristezza"); e immersa nella sua paranoia di uccidere la Balena Bianca ("Un desiderio tanto più accanito perché nella sua smania morbosa egli era arrivato al punto da identificare con la bestia non solo tutti i suoi mali fisici, ma ogni sua esasperazione intellettuale e spirituale. La balena bianca gli nuotava davanti agli occhi come l'incarnazione ossessiva di tutte quelle forze del male da cui certi uomini profondi si sentono azzannare nel proprio intimo, finché si riducono a vivere con mezzo cuore e mezzo polmone. Quella malvagità inafferrabile che è esistita fino dal principio, al cui regno perfino i cristiani d'oggi attribuiscono metà dei mondi, e che gli antichi Ofiti dell'oriente veneravano nel loro demonio di pietra, Achab non cadeva in ginocchio per adorarla come loro, ma ne trasferiva allucinato l'idea nell'aborrita balena bianca e le si piantava contro, così mutilato com'era. Tutto ciò che sconvolge e tormenta di più tutto quel che rimescola la feccia delle cose, ogni verità farcita di malizia, ogni cosa che spezza i tendini e coagula il cervello, tutti i subdoli demonismi della vita e del pensiero, ogni male insomma, per quell'insensato di Achab, era personificato in modo visibile e reso raggiungibile praticamente in Moby Dick. Sulla gobba bianca della balena ammucchiava il peso di tutta la rabbia, di tutto l'odio sentiti dalla sua razza fino da Adamo. Poi, come se avesse un mortaio in petto, le sparava addosso il cuore rovente").

Non è, però, un’anima mediocre, essendo capace di valutare l’aridità della sua vita: ""È così dolce il vento, il cielo così tenero. In un giorno così, proprio così delicato, colpii la mia prima balena: un ramponiere di diciott'anni! Quarant'anni fa, quaranta... quarant'anni! Quarant'anni fa! Quarant'anni di caccia continua! Quarant'anni di privazioni, e pericoli, e tempeste. Quarant'anni su questo mare spietato. Per quarant'anni Achab ha lasciato la terra serena, per quarant'anni ha fatto guerra agli orrori dell'abisso! Proprio così, Starbuck: di questi quarant'anni non ne ho passati tre a terra. Quando penso a questa vita che ho fatto, e che solitudine spaventosa è stata, questa fortezza murata e chiusa di un capitano, che lascia ben poco accesso ai moti di affetto dalla terra verde lì attorno, ah che stanchezza! Che fatica! Schiavitù africana di chi comanda, così solo... Quando penso a tutto questo, e finora l'ho appena sospettato, mai capito così chiaro... quando penso che per quarant'anni non ho mangiato che roba secca, salata, giusto segno dell'arido che mi nutriva l'anima! mentre che il più povero a terra ha avuto ogni giorno frutta fresca, e spezzato il pane fresco del mondo invece delle mie croste ammuffite... lontano, lontano oceani interi da quella ragazza che sposai più che cinquantenne, partendo l'indomani per il Capo Horn, lasciando solo una fossa nel cuscino del nostro letto... moglie? no, vedova piuttosto di un marito vivo! Sicuro, Starbuck, quella povera ragazza, l'ho resa vedova il momento che la sposai; e poi la pazzia, il delirio, il fuoco nel sangue, il fumo nel cervello con cui questo vecchio ha calato mille volte le barche come una furia, con la bava alla bocca, per dare la caccia alla sua preda: più demonio che uomo! Ma sì, ma sì, quarant'anni di pazzia! Che pazzo! Che vecchio pazzo è stato questo vecchio Achab! Perché questo strazio? Perché sfinire, perché paralizzare questo braccio col remo, col rampone, con la lancia? Che ci ha guadagnato Achab? Cos'è che gli resta?.. Mi sento stracco da morire, torto in due, con la gobba, come se fossi Adamo che va barcollando sotto il mucchio dei secoli, dal tempo del Paradiso. Dio, Dio, Dio! spaccami il cuore e sfondami il cervello! Che farsa! Che farsa! Che farsa amara e crudele questi capelli bianchi".

Egli si rende conto che la vita in genere, e la sua vita in particolare, è animata da motivazioni che sfuggono al controllo della coscienza: ""Che cos'è mai, quale cosa indicibile, incomprensibile e inumana, quale falso signore e padrone nascosto, quale tiranno crudele e senza scrupoli mi comanda, che contro ogni affetto e desiderio naturale io debba continuare a spingermi, e serrarmi e schiacciarmi di continuo, per esortarmi pazzamente a fare ciò che nel profondo del cuore non ho mai osato neanche pensare? È Achab Achab? Sono io, Signore, che alzo questo braccio, o chi è? Ma se il gran sole non si muove da sé, e non è che un fattorino del cielo, se neanche una stella può ruotare se non per una forza invisibile, come può dunque battere questo piccolo cuore, e questo piccolo cervello pensare, se non è Dio che batte quel battito, pensa quel pensiero e vive quella vita, e non io. Per Dio, amico, siamo fatti girare e girare in questo mondo come quell'argano lì, e il destino è la manovella. E sempre, guarda lì, quel cielo sorridente e questo mare senza fondo! Guarda! Vedi quell'alalunga laggiù? Chi gli ha messo in testa di inseguire e azzannare quel pesce volante? Dove vanno gli assassini, amico? Chi deve giudicare, quando il giudice stesso è portato alla sbarra? Ma il vento è così dolce, e il cielo ha un colore così tenero, e l'aria è profumata come se spirasse da prati lontani; debbono avere tagliato il fieno chi sa dove sotto i pendii delle Ande, Starbuck, e i mietitori dormono tra il fieno tagliato di fresco. Dormono? Ma sì, per quanto ci affatichiamo, tutti alla fine dormiamo sul prato. Dormiamo? Sicuro, e arrugginiamo tra il verde, come le falci dell'anno scorso buttate da canto e dimenticate tra l'erba ancora... "".

La sua ultima sfida lanciata a Moby Dick è null’altro che un suicidio, cui egli va incontro per riscattare una vita solitaria, liberarsi dal dolore e assurgere al ruolo di eroe: "O morte solitaria dopo una vita solitaria! Ora sento che la mia massima grandezza sta nel maggior dolore. Ahimè! Riversatevi qui dai vostri punti lontani, onde coraggiose di tutta la mia vita, su in cima al mucchio di questo gran maroso di morte! Verso te avanzo, balena che distruggi e non vinci, fino all'ultimo ti combatto, dal cuore dell'inferno ti pugnalo, e in nome dell'odio ti sputo addosso il mio ultimo respiro. Affondi ogni bara e ogni carro in un solo vortice! E visto che non sono per me, che io venga trascinato a pezzi mentre ancora ti caccio, benché sia legato a te, balena maledetta! Così getto la lancia!""

Personaggio tragico quello di Achab nel quale non sarebbe forse errato identificare una tipologia, riconducibile a coloro la cui vita, sostanzialmente sterile, trova riscatto solo nel rischio del dare e ricevere morte. Una tipologia che, nella sua massima espressione, comporta il gusto della guerra, e diventa in qualche misura funzionale all’evoluzione umana quando viene spostata sul terreno della sfida rivolta alla natura. Melville fa pronunciare a Ismaele, il narratore, nel quale è facile identificare l’autore stesso, queste frasi illuminanti "Senza dubbio, uno dei motivi principali per cui il mondo si rifiuta di rispettare noi balenieri è questo: la gente crede che, nel migliore dei casi, la nostra vocazione ci porta a un lavoro da macellaio, e che quando ci diamo dentro sul serio, siamo circondati da ogni genere di sporcizie. Macellai siamo, questo è innegabile. Però macellai sono stati pure, e macellai della marca più sanguinaria, tutti i marziali condottieri che il mondo senza eccezioni si gode di onorare. E quanto alla questione della pretesa sporcizia del nostro mestiere, sarete presto iniziati a certi fatti sinora ignorati quasi del tutto, i quali nell'assieme piazzeranno trionfalmente la nave baleniera, almeno quella da capodogli, tra le cose più pulite di questo mondo senza macchia. Ma anche ammettendo che l'accusa in questione sia giusta: quali ponti di baleniera, per quanto viscidi e confusionari, possono paragonarsi al carnaio innominabile di quei campi di battaglia, da cui tanti soldati tornano a ingerire gli applausi di tutte le signore? E se è l'idea del pericolo che rinforza tanto il concetto che ha la gente della professione del soldato, lasciatevi assicurare di questo: parecchi di quei veterani che hanno marciato spensierati contro un fortilizio, farebbero subito dietro-front all'apparizione della gran coda del capodoglio, che sventaglia l'aria a mulinelli sulla loro testa. Perché le paure comprensibili dell'uomo sono ben poco, rispetto ai terrori e prodigi insieme concatenati di Dio"; "Francamente, io sostengo che un esperto delle cose del mondo non può, per l'anima sua, indicare entro gli ultimi sessant'anni un solo influsso pacifico che abbia più potenzialmente operato su tutto il vasto mondo, preso in un blocco solo, dell'alto e potente mestiere di cacciar balene. Per un verso o per l'altro, esso ha provocato fatti così notevoli in se stessi, e di tanto e continuo peso nelle loro conseguenze, che la baleneria possiamo davvero vederla come quella madre egiziana che partoriva dal ventre suo prole già bell'e incinta essa stessa. Enumerare tutte queste cose sarebbe un compito disperato, infinito: ne basti una manciata. Ormai da molti anni la nave baleniera è stata una pioniera nell'andare scovando le parti più lontane e meno conosciute della terra. Ha esplorato mari e arcipelaghi che non avevano carte, dove nessun Cook e nessun Vancouver avevano mai messo naso. Se oggigiorno le navi da guerra americane o europee stanno pacificamente alla fonda in porti una volta selvaggi, dovrebbero sparare salve in onore e gloria della baleniera che per prima indicò loro la strada, e per prima mediò tra di loro e i selvaggi. La gente può vantare quanto vuole gli eroi delle spedizioni di esploratori, i vari Cook e Krusenstern: ma io dico che ventine di capitani anonimi partirono da Nantucket, che furono altrettanto e più grandi dei vari Cook e Krusenstern. Perché a mani vuote e senza speranza di aiuti, nelle acque barbare dei pescicani e lungo le spiagge d'isole sconosciute di zagaglie, combatterono contro prodigi e terrori vergini che Cook con tutti i suoi fucilieri di marina e i suoi moschetti avrebbe volentieri fatto a meno di sfidare. Tutto ciò di cui si fa tanto chiasso nei vecchi viaggi ai mari del Sud, tutte quelle cose non erano, per i nostri eroici nantuckettesi, che i triti fatti di ogni giorno".

2.

Le affermazioni di Ismaele consentono, forse, a posteriori, di fornire una lettura contemporanea del romanzo.

Da questo nuovo punto di vista, il tema fondamentale di Moby Dick è la saga del rapporto ambivalente dell’uomo con la natura: la Grande Madre dalla quale dipende visceralmente e alla quale in alcuni momenti si abbandona, giungendo ad una sorta di fusione mistica con la totalità, che egli deve nondimeno sfidare e violentare per sopravvivere; la Grande Madre che lo accoglie, lo nutre, lo blandisce con la sua magnificenza, e che, nello stesso tempo, resiste ai suoi desideri e lo minaccia.

Nulla si capirebbe della storia umana se non si partisse da questa ambivalenza, e non si tenesse conto che per un numero sterminato di secoli il rapporto con la natura è stata caratterizzato dalla soggezione e dal terrore sacro. Dipendendo per la loro sopravvivenza dai beni prodotti dalla natura e non avendo alcun controllo su di essa, l’umanità è vissuta nell’incubo che i capricci della natura (siccità, inondazioni, terremoti, maremoti, eruzioni vulcaniche, ecc) potessero determinarne l’estinzione.

Tale paura si è mantenuta a lungo. Ancora nel Medio Evo sottrarre la terra arabile alla rigogliosa avanzata della foresta e ricavarne quanto era necessario per sopravvivere era, in Europa, una fatica terribile ed estenuante.

Solo con lo sviluppo della scienza e l’avvento della tecnica, l’uomo ha cominciato a sentire di avere qualche potere di controllo sulla natura e di poterla sfidare. La sfida più azzardata si è svolta sui mari, che i vascelli hanno cominciato a solcare in lungo e in largo affrontando le bonacce e le tempeste.

La caccia alle balene s’iscrive per l’appunto in questa sfida temeraria e significativa. L’uomo che caccia la balena, mostro il cui peso è di varie tonnellate e la cui forza è tale da poter distruggere i vascelli, è diventato il simbolo di una civiltà, quella occidentale, affrancata dal terrore della natura.

Ma gli azzardi si pagano. Assoggettata al dominio dell’uomo tecnologico, attrezzato per sopperire ai suoi limiti costitutivi, cionondimeno a suo modo la natura oppone resistenza e si ribella. Il Leviatano, inafferrabile e feroce, è per l’appunto il simbolo della natura che si oppone al dominio dell’uomo ed evoca nuovamente dentro di lui il terrore. Ferito nel suo orgoglio, nella sua sete di onnipotenza, nella sua volontà di dominio, l’uomo, come capita ad Achab, può impazzire e sfidare il terrore, ma a suo rischio e pericolo.

Oggi Moby Dick sembra avere un’attualità drammatica. La sfida rivolta dall’uomo alla natura sembra avere varcato le colonne d’Ercole al di là delle quali la vendetta della natura, squilibrata nei suoi assetti, può divenire terribile, fino al punto di mettere in gioco la sopravvivenza della specie umana sul pianeta.

Prometeica e patetica al tempo stesso, l’umanità sembra immersa per alcuni aspetti nella paranoia di Achab, ovvero sembra preda di un delirio di onnipotenza che la induce a minimizzare le capacità della natura di ribellarsi al dominio e allo sfruttamento cui è sottoposta.

Chissà se si rende conto che questo atteggiamento compensa e nega nello stesso tempo il terrore in cui essa per secoli è vissuta, e si configura quasi come una vendetta. Tale vendetta implica paradossalmente una proiezione antropomorfica sulla natura, del tutto evidente in Moby Dick. Al progetto esplicitamente vendicativo di Achab, il secondo oppone un commento del tutto sensato: ""Vendetta su un bruto senz'anima!" esclamò Starbuck. "Su un bruto che ti colpì solo per il più cieco istinto! Ma è una pazzia! Capitano Achab, suona blasfemo odiare una creatura incosciente". L’uomo purtroppo è capace di questo e d’altro.