A. GONCAROV (1812 - 1891)

OBLOMOV


1.

Come il bovarismo, anche l’oblomovismo è divenuto un termine di maniera. Esso definisce lessicalmente l’atteggiamento di apatica indolenza attribuito, da molti scrittori russi della seconda metà dell’Ottocento, alla piccola nobiltà del loro paese, e, per estensione, un modo di essere abulico e apatico. sostanzialmente patologico. La definizione banalizza una tipologia di personalità piuttosto complessa, che Goncarov ha descritto sullo sfondo del suo tempo, ma che, per alcuni aspetti, si può riprodurre in qualunque contesto storico.

A 33 anni, erede di una casata nobiliare decaduta, ma che gli ha lasciato un’ancora cospicua eredità, Il'ja Il'iè Oblomov giace nell’inerzia più totale, trascorrendo il giorno a letto immerso in sterili ruminazioni. Dall’inerzia lo scuote un amico di antica data, Stolz, che lo stima profondamente, ne apprezza le qualità morali e intellettuali e ricorda i comuni progetti giovanili idealistici. Per effetto della sollecitazione di Stolz, Oblomov torna a frequentare il mondo. Non è entusiasta di questa nuova vita, che gli sembra vacua e tediosa più della solitudine in cui era immerso, finché non incontra una giovane donna, Ol'ga, di cui si innamora perdutamente. La passione per Ol'ga sembra poter curare il suo mal di vivere. Per essere portata a conclusione con un matrimonio, essa richiede però che Oblomov si assuma delle responsabilità, a partire dalla cura della sua proprietà che rende sempre meno. Egli non ce la fa: la cura l’affida a due furfanti che, profittando della sua ingenuità, lo portano quasi sul lastrico. Il rapporto con Ol'ga ha termine. L’intervento dell’amico Stolz è risolutivo per assicurargli nuovamente una rendita adeguata a permettergli una vita senza affanni. Oblomov si affida totalmente ai suoi servi (Zachar e la moglie), e alla padrona di casa dell’appartamento che occupa, Agaf'ja Matveevna, vedova P_enicyna, una donna semplice che si innamora segretamente di lui. Essa lo cura, lo protegge, lo venera, senza chiedergli nulla in cambio. Lentamente Oblomov giunge a ricambiarla, la sposa, ha un figlio. Circondato dall’affetto di persone semplici, egli sembra trovare pace. Stolz e Ol'ga, che intanto si sono sposati realizzando tra loro un’unione perfetta, fanno un ultimo tentativo di sottrarre l’amico ad una vita che essi giudicano indegna delle sue qualità, proponendogli di andare a vivere accanto a loro. Oblomov rifiuta. Alla sua morte, il figlio va a vivere con Stolz e Ol'ga.

La trama, naturalmente, restituisce ben poco della tessitura complessa del romanzo, disseminato di intuizioni psicologiche di grande portata. Si tratta però di intuizioni ambigue. Per un verso, Oblomov sembra affetto da un impulso a regredire (nell’utero materno, direbbero gli analisti), che attesta il suo sostanziale infantilismo e l’incapacità di assumersi qualunque responsabilità adulta in rapporto alla vita; per un altro, il suo grande rifiuto sembra implicare una critica radicale del modo d’essere corrente nel suo mondo, vale a dire della normalità. Quest’ambiguità è uno dei motivi del successo del romanzo, che lascia aperta al lettore ogni possibile interpretazione.

La lettura del libro impone di chiedersi: primo, se la tipologia di Oblomov abbia un carattere universale, se essa cioè descriva uno dei possibili modi di essere dell’umano e non, come hanno affermato alcuni critici, l’espressione decadente e nihilista di una classe sociale — quella nobiliare — in un determinato contesto storico — quello della Russia zarista del XIX secolo; secondo se tale tipologia possa essere interpretata in termini psicodinamici. Per rispondere a queste domande, occorre entrare nelle pieghe del testo.

2.

All’avvio del romanzo, Oblomov è descritto in questi termini:

"Il'ja Il'iè era un uomo di circa trentadue-trentatré anni, di statura media, gradevole d'aspetto, con occhi grigio scuro; ma i tratti del volto rivelavano un'assoluta incapacità di determinazione e di concentrazione. Il pensiero volubile trascorreva senza guida sul suo viso, gli svolazzava negli occhi, si arenava fra le labbra semiaperte, si nascondeva fra i solchi della fronte, poi si dileguava di botto, e allora il volto restava rischiarato solo del vago lucore dell'indolenza. Dalla faccia, l'indolenza si propagava a tutto l'atteggiamento del corpo, addirittura alle pieghe della vestaglia.

Di quando in quando, un'espressione che si sarebbe detta di stanchezza o di noia gli offuscava lo sguardo; ma la stanchezza o la noia non potevano scacciare nemmeno per un momento la mitezza, che era la caratteristica essenziale e dominante non solo del volto, ma di tutta l'anima; e l'anima risplendeva aperta e chiara negli occhi, nel sorriso, in ogni movimento della testa o della mano…

Anche i suoi movimenti, perfino quando era inquieto, venivano frenati dalla fiacchezza e dalla pigrizia, non priva, nel suo genere, di una certa grazia. Se la nube nera di una preoccupazione saliva dall'anima ad addensarsi sul viso, lo sguardo si offuscava, la fronte si corrugava, e dubbio, afflizione e timore iniziavano il loro girotondo; ma raramente questa inquietudine si coagulava in un'idea precisa, e ancor più raramente si trasformava in un proposito concreto. Tutta l'inquietudine si risolveva in un sospiro e si estingueva nell'apatia o nella sonnolenza…

Per Il'ja Il'iè la posizione orizzontale non era una necessità, come per un malato o per chi desideri dormire, né un fatto accidentale provocato dalla stanchezza, né un piacere da individuo pigro: era il suo stato normale. Quando era a casa - ed era quasi sempre a casa - se ne stava sempre coricato, e sempre nella stessa camera dove lo abbiamo trovato, che gli serviva da stanza da letto, da studio e da salotto".

Scarsi dubbi sussistono riguardo al fatto che una condizione del genere verrebbe oggi etichettata dagli psichiatri come espressiva di un tipico disturbo dell’umore.

Dietro di essa, però, c’è una storia, che Gonciarov descrive in questi termini:

"Un tempo la famiglia Oblomov era stata ricca e nota nella regione, ma poi, Dio sa perché, era diventata sempre più povera, era decaduta e da ultimo, a poco a poco, aveva finito per confondersi con le casate di nobiltà recente."

Famiglia singolare, affettivamente molto ricca, ma immersa in una visione del mondo di disarmante semplicità:

"Come vivono gli adulti di Oblomovka?

Si chiedono forse perché è stata data loro la vita? Lo sa solo Iddio. E cosa rispondono a questa domanda? Nulla, probabilmente: per loro è tutto molto semplice e chiaro.

Non hanno mai sentito parlare di quella che si chiama una esistenza travagliata, di gente che racchiude in petto inquietudini tormentose, che per questo o quel motivo corre da un capo all'altro della terra o dedica la vita a un lavoro continuo, senza fine.

A Oblomovka quasi non si crede nemmeno ai tumulti dell'anima: non si considera la vita il turbine delle eterne aspirazioni a raggiungere chissà cosa, chissà dove; si teme come il fuoco l'entusiasmo delle passioni; e, come in altri luoghi il corpo degli uomini si consuma spesso a causa del vulcanico lavorio del fuoco interiore, così l'anima degli abitanti di Oblomovka affondava pacifica e indisturbata nei flaccidi corpi.

La vita non li segna, come fa per altri, con rughe precoci, né li bersaglia di colpi fisici o morali.

Questa brava gente concepisce la vita solo come un ideale di pace e di dolce far niente, turbato a volte da avvenimenti spiacevoli: malattie, perdite, dispute e, magari, anche il lavoro.

Il lavoro è sopportato come un castigo già inflitto ai nostri avi, ma che non si può certo amare e che si ritiene non solo possibile ma addirittura doveroso evitare non appena se ne ha l'occasione.

A Oblomovka non ci si lambicca mai il cervello con vaghi problemi intellettuali o morali…

Su che cosa dovrebbero meditare? Per quale motivo dovrebbero agitarsi? Che cosa dovrebbero apprendere? Quali scopi dovrebbero raggiungere?

Non hanno bisogno di nulla: la vita scorre sotto i loro occhi come un fiume tranquillo; devono solo sedersi sulla riva e osservare i fenomeni ineluttabili che, senza esser chiamati, si presentano a turno a ciascuno di loro."

In questo contesto quasi favolistico, Oblomov vive un’infanzia serena, circondato dall’affetto dei suoi. E’ un bambino vivace, ma anche riflessivo:

""Ah, Signore Iddio, che bambino! sembra una trottola! Vuoi startene un po' buono, signorino? Vergogna!".

E tutto il giorno, e tutti i giorni e le notti della tata sono pieni di trambusto e di corse affannose, di tormenti e di gioie procurati dal bambino: ora la paura che cada e si rompa il naso, ora la tenerezza che le suscitano le sue spontanee carezze infantili, o le vaghe apprensioni circa il suo lontano futuro; solo per questo batte il cuore della vecchia, solo queste emozioni le riscaldano il sangue e sostengono la sua vita sonnolenta che senza di esse forse si sarebbe spenta da un pezzo.

Non sempre il bambino è così vivace: a volte si fa d'un tratto tranquillo, si siede accanto alla tata e guarda tutto con la massima attenzione. Con la sua intelligenza infantile osserva i fenomeni che lo circondano; essi gli si imprimono profondamente nell'anima, poi cresceranno e matureranno con lui…

Il piccolo guarda e spia con occhio acuto e avido che cosa fanno i grandi, e come lo fanno, e a che cosa dedicano la mattinata.

Non c'è inezia, non c'è particolare che sfugga alla sua curiosità: il quadro della vita domestica si imprime indelebile nella sua anima; la tenera mente si impregna di esempi viventi e traccia inconsciamente il programma della sua vita in base alla vita che la circonda."

La curiosità innata di Oblomov si estingue quando s’imbatte nella dura disciplina scolastica:

"Dacché era obbligato, in classe restava composto, ascoltava ciò che dicevano gli insegnanti perché non era possibile fare altrimenti, e con fatica, sudando e sospirando, imparava le lezioni.

Egli considerava tutto ciò come un castigo del cielo per i nostri peccati.

A che servivano tutti quei quaderni, buoni solo a far sprecare carta, tempo e inchiostro? A che servivano i libri di scuola? A che servivano, infine, sei-sette anni di clausura, la severità, le punizioni, il tormento di assistere alle lezioni, il divieto di correre, di scatenarsi, di divertirsi prima di aver finito i compiti?

"Ma quando potrò vivere?", ripeteva a se stesso. "Quando farò finalmente fruttare questo capitale di conoscenze, la maggior parte delle quali, ci scommetto, non mi serviranno a niente nella vita? L'economia politica, per esempio, l'algebra, la geometria... a che mi serviranno nelle mie terre?"…

Le letture serie lo affaticavano. I pensatori non riuscivano a stimolare in lui la sete di verità contemplative."

Cionondimeno, Oblomov conserva una viva sensibilità e, grazie all’incontro con un’anima affine, l’amico Stolz, non è immune dal coltivare grandi ideali:

" I poeti lo avevano colpito nel vivo e la poesia aveva segnato anche la sua adolescenza. Anche per lui era arrivato il momento felice della vita, che non tradisce nessuno, che sorride a tutti; il momento in cui sbocciano le forze, le speranze, il desiderio di bene, di grandi imprese, di attività; l'epoca in cui il cuore batte forte, palpita, freme, l'epoca dei discorsi esaltati e delle dolci lacrime. Il suo spirito e il suo cuore si erano illuminati: si era scrollato di dosso la sonnolenza, e la sua anima aveva desiderato l'azione.

Stolz lo aveva aiutato a prolungare questo momento, fin dove glielo aveva consentito l'indole dell'amico. Aveva avvinto Oblomov con i poeti e per circa un anno e mezzo lo aveva tenuto sotto la ferula del pensiero e del sapere.

Trascinato dall'entusiasmo dei sogni giovanili, Stolz aveva sfruttato la lettura dei poeti per fini diversi dal semplice diletto, e aveva indicato all'amico con rinnovato vigore il cammino che si apriva davanti alle loro vite. Entrambi commossi, avevano pianto e si erano scambiati la promessa solenne di seguire la via della ragione e della luce.

L'ardore giovanile di Stolz aveva infiammato anche Oblomov, che si sentiva bruciato dalla sete di agire, di raggiungere una meta affascinante, anche se lontana."

Questo fervore ideale giovanile viene meno lentamente, via via che Oblomov conosce il mondo:

"A quel tempo era ancora giovane e benché non lo si potesse dire vivace, era comunque più vivace di adesso; era ancora pieno di aspirazioni, sperava sempre in qualche cosa, si aspettava molto dal destino e da se stesso; continuava a prepararsi ad entrare nell'arena, a sostenere una parte: innanzitutto, beninteso, nell'impiego governativo, che era stato lo scopo principale della sua venuta a Pietroburgo. Poi aveva pensato anche a una parte da sostenere nella società; infine, come remota prospettiva, al tempo della svolta fra giovinezza e età matura, le gioie della famiglia avevano sorriso alla sua fantasia.

Ma i giorni erano passati l'uno dopo l'altro, gli anni si erano susseguiti agli anni, la peluria si era trasformata in una irsuta barba, gli occhi avevano perso il loro splendore ed erano diventati due puntolini appannati, la figura gli si era appesantita, i capelli avevano cominciato implacabilmente a cadere, i trent'anni erano suonati, ed egli non aveva progredito di un passo, non aveva intrapreso nulla, e stava ancora sulla soglia di quella sua arena, nello stesso punto in cui era dieci anni prima.

Tuttavia, non cessava di fare progetti e propositi, continuava a disegnare nella mente l'arabesco del suo avvenire; ma ad ogni anno che gli sfuggiva via doveva apportare qualche modifica e cancellare qualche particolare di quell'arabesco.

La vita secondo lui si divideva in due metà: una fatta di lavoro e di noia, che per lui erano sinonimi; l'altra fatta di riposo e quieta allegria. Per questo, il principale campo di attività - l'impiego - fin dai primi tempi era stato per lui motivo di spiacevole perplessità.

Cresciuto in una sperduta provincia, fra gli usi e i costumi miti e cordiali della terra natia, passato per vent'anni da un abbraccio all'altro di parenti, amici e conoscenti, egli era così impregnato di quell'atmosfera familiare da immaginare che anche il futuro impiego dovesse essere una specie di occupazione familiare, sul tipo, ed esempio, delle negligenti annotazioni che faceva suo padre nel quadernetto delle entrate e delle uscite.

Si figurava che gli impiegati di uno stesso ufficio formassero una sola famiglia strettamente unita, sempre vigili e pronti ad aver cura della tranquillità e del piacere reciproci; che frequentare il luogo di lavoro non fosse affatto un'abitudine obbligatoria, alla quale bisognasse attenersi quotidianamente, e che il fango, l'afa, o semplicemente la luna di traverso fossero pretesti sufficienti e legittimi per non andare in ufficio.

Ma come c'era rimasto male quando aveva visto che ci voleva almeno un terremoto perché un impiegato in buona salute non andasse in ufficio, e a Pietroburgo, neanche a farlo apposta, di terremoti non ce ne sono mai; certo, una inondazione poteva costituire un ostacolo, ma anche queste si verificano di rado.

Ancor più si era impensierito Oblomov quando avevano cominciato a capitargli sotto gli occhi delle pratiche con la scrittura urgente o urgentissimo, quando si era visto costretto a fare certificati e estratti vari, a rovistare fra le scartoffie, a scrivere su quaderni spessi due dita i quali, per colmo d'ironia, si chiamavano taccuini; per di più, bisognava fare tutto di corsa, tutti avevano fretta e non si fermavano mai; non si erano ancora tolti di mano una pratica, che già ne arraffavano un'altra con furia, come se fosse di vitale importanze e, sbrigata quella, la dimenticavano per buttarsi su un'altra ancora... e così andavano avanti all'infinito.

Un paio di volte lo avevano fatto alzare di notte per scrivere delle "note", diverse volte lo avevano fatto scovare dall'usciere mentre era in visita a casa di qualcuno: e sempre per via di quelle "note". Tutto ciò aveva suscitato in lui una sensazione di paura e di grandissimo fastidio. "Ma quando si può vivere? Quando?", ripeteva."

E’ inevitabile che Oblomov decida di dare le dimissioni, troncando la sua carriera pubblica. Egli non rinuncia a fare progetti:

"Abbandonati l'ufficio e la società, si era messo a pensare al modo di risolvere altrimenti il problema dell'esistenza: riflettendo sulle sue finalità, aveva infine scoperto che l'orizzonte della sua attività e della sua esistenza era racchiuso dentro di lui.

Aveva capito che gli erano toccate in sorte la felicità familiare e le cure della proprietà.

Era in grado di apprezzare il godimento che procurano i pensieri elevati; non era estraneo alle afflizioni del genere umano. A volte piangeva amaramente, nel fondo del cuore, per le sventure dell'umanità, provava sofferenze sconosciute, pene indicibili, e anche lo struggimento e il desiderio di luoghi lontani, forse in quel mondo nel quale avrebbe voluto trascinarlo Stolz...

Gli capita anche di provare disprezzo per i vizi umani, per la calunnia, per il male di cui è pieno il mondo, e si infiamma del desiderio di spronare l'uomo a guardare le sue piaghe, e d'improvviso si accendono in lui vividi pensieri che si muovono e si accavallano come le onde del mare, poi si sviluppano in propositi, gli bruciano il sangue; i muscoli cominciano a guizzare, le vene si tendono, i propositi si trasformano in aspirazioni: mosso da una forza morale, cambia posizione due o tre volte in un minuto, con gli occhi scintillanti si alza a metà sul letto, tende una mano, gira attorno uno sguardo ispirato... Ecco, ecco che la sua aspirazione si realizza, diventa azione... e allora, Signore! Quali miracoli, quali felici conseguenze ci si potrebbero attendere da uno sforzo così grande!"

Non accade, però, nulla. Oblomov s’immerge nel suo torpore, di cui è dolorosamente consapevole:

"Fu una sensazione spaventosa quando sentì formarsi nell'anima l'idea chiara e netta del destino dell'uomo e dei suoi compiti, e quando lo folgorò il parallelo fra questi compiti e la propria vita, e quando i più svariati problemi dell'esistenza cominciarono ad agitarglisi nella mente uno dopo l'altro, in disordine, come uccellini impauriti che un improvviso raggio di sole ha svegliato fra ruderi sonnacchiosi.

Si sentì triste e addolorato pensando che lo sviluppo della sua forza morale si era arrestato, che un senso di pesantezza lo impacciava di continuo; e lo rose l'invidia per gli altri, la cui vita era piena e ampia, mentre il sentiero angusto e misero della sua esistenza sembrava ostruito da un macigno.

Nella sua anima schiva sorse l'angosciosa consapevolezza che molti lati del suo carattere non si erano svegliati del tutto, che altri erano appena abbozzati, e che nessuno era sviluppato sino in fondo.

Al tempo stesso, egli aveva la dolorosa sensazione che dentro di lui fosse racchiuso, come in una tomba, un principio bello e luminoso, che forse era già morto, oppure era imprigionato come l'oro nelle viscere di una montagna, mentre da un pezzo quell'oro avrebbe dovuto trasformarsi in moneta corrente.

Ma quel tesoro era sommerso da uno strato spesso e pesante di rifiuti e di detriti. Era come se qualcuno avesse rubato, e sepolto in fondo alla sua anima, tutti i tesori che il mondo e la vita gli avevano donato. Qualcosa gli impediva di lanciarsi nella lizza della vita e di percorrerla spiegando le ali dell'intelligenza e della volontà. Sin dall'inizio un nemico ignoto aveva calato su di lui una mano ferrea e lo aveva rigettato lontano dalla vera destinazione dell'uomo...

E gli sembra ormai di non potersi più districare dalla foresta selvaggia per ritornare sul giusto sentiero. La foresta intorno a lui e dentro l'anima sua diventa ogni giorno più fitta e oscura; il sentiero si ricopre sempre più di erbacce; i risvegli della coscienza si fanno sempre più rari e solo per un momento scuotono le forze sopite. L'intelletto e la volontà sono paralizzati da un pezzo e, sembra, definitivamente.

Gli eventi della sua vita si sono ridotti a dimensioni microscopiche, ma egli non riesce a venire a capo neppure di quelli: non passa dall'uno all'altro, ma sono essi che se lo palleggiano come le onde in un mare in tempesta; e non ha la forza di opporre ad uno la sua ferma volontà, o di assecondarne un altro, guidato dal ragionamento.

"Ma perché sono fatto così?", si chiese Oblomov quasi in lacrime, e ficcò di nuovo la testa sotto la coperta. "Perché?"."

Può sembrare facile rispondere a questa domanda. Per un verso, Oblomov è "viziato" dalla famiglia e dai privilegi sociali. Non abituato ad affrontare le difficoltà della vita e potendosi permettere di non affrontarle, egli si impone di lavorare per fare il suo dovere. Ma cede rapidamente, perché il senso del dovere non corrisponde ad una necessità oggettiva.

Per un altro verso, è in gioco la sua natura di sognatore infantile, che estende al mondo la sua originaria esperienza familiare e si aspetta che il mondo sia una grande famiglia solidale, onesta, con le autorità che svolgono il loro ruolo di padri buoni.

Si tratterebbe, dunque, di null’altro che di un soggetto rimasto infantile, viziato e inadatto a vivere.

2.

Questa "diagnosi" sembra confermata da alcune circostanze.

Un amico in visita si congeda da lui perché ha da fare: deve andare in giornata in dieci posti diversi. Oblomov commenta nel suo intimo:

""Dieci posti in un giorno solo... sciagurato!", pensò Oblomov. "E questa sarebbe vita!", scrollò le spalle. "Dove è più l'uomo, qui? Cosa diventa, così frantumato e disperso? Certo, non è male frequentare i teatri, e innamorarsi di una qualche Lidija... è carina! Raccogliere i fiori e andare in barca con lei... va bene; ma andare in dieci posti in un giorno solo... sciagurato!", concluse, adagiandosi sulla schiena e rallegrandosi di non avere desideri e pensieri così futili, e di non dover vagabondare di qua e di là, ma di potersene stare tranquillo a letto, conservando la sua dignità di uomo e la sua pace."

Un altro amico lo mette al corrente della sua attività letteraria, che lo impegna anche la notte. Oblomov commenta:

"Scrivere di notte", pensò Oblomov, "ma dormire, quando? Certo, con questo lavoro metterà insieme almeno cinquemila rubli l'anno. È un bel guadagnare. Ma scrivere sempre, consumare il cervello e lo spirito per delle piccolezze, cambiare opinione, far commercio della propria intelligenza e immaginazione, forzare la propria natura, agitarsi, infervorarsi, infiammarsi, non conoscere pace e muoversi di continuo... E sempre scrivere, sempre scrivere, come una ruota, come una macchina: scrivi domani, e dopodomani; viene la festa, arriva l'estate... e lui scrive sempre! ma quando si fermerà e riposerà? Sciagurato!".

L’amico Stolz, che pure egli ammira, è un essere attivo e intraprendente, la cui filosofia di vita è incentrata sul lavoro. Oblomov non la comprende:

"Ma perché ti arrabatti tanto", riprese Oblomov dopo una pausa, "se il tuo scopo non è quello di assicurarti l'avvenire per poi ritirarti in un posto tranquillo a riposare?".

"Oblomovismo campagnolo!", disse Stolz.

"O se il tuo scopo non è quello di raggiungere in società un nome e una posizione come servitore dello stato tali da farti poi godere in un ozio onorato il riposo che ti spetta?".

"Oblomovismo pietroburghese!", obiettò Stolz.

"Ma allora quando si vive?", ribatté Oblomov indispettito dalle osservazioni di Stolz. "Perché mai affannarsi per tutta l'esistenza?".

"Per il lavoro in se stesso, e per null'altro. Il lavoro è l'immagine, il contenuto, l'elemento e lo scopo della vita, per lo meno della mia vita. Dalla tua, invece, tu hai bandito il lavoro, e che cosa è diventata ormai la tua vita!

"Sai, Andrej, nella mia vita non si è mai divampato un fuoco, salvatore o distruttore che fosse. Essa non è stata, come per gli altri, simile a un mattino, che a poco a poco si accende di colori e di luce e si trasforma in un meriggio ardente, in cui tutto ribolle e vibra, e poi, sempre più calmo e pallido, smuore nella sera. No, quando la mia vita è cominciata, era già al tramonto. È strano, ma è così! Dal primo momento in cui ho avuto coscienza di me stesso, ho sentito che mi spegnevo. Ho cominciato a spegnermi redigendo le scartoffie della cancelleria; ho continuato a spegnermi apprendendo dai libri verità delle quali non sapevo come servirmi nella vita; mi sono spento tra gli amici, davanti alle ciarle, ai pettegolezzi, alle punzecchiature, alle chiacchiere fredde e cattive, alla loro futilità, vedendo come l'amicizia fosse tenuta su da incontri senza scopo, senza simpatia; mi sono spento e ho dissipato le mie forze con Mina, alla quale ho dato oltre la metà delle mie entrate credendo di amarla; mi sono spento nelle malinconiche e indolenti passeggiate sulla Prospettiva Nevskij fra pellicce d'orso e baveri di castoro, nelle serate, ai ricevimenti, dove mi si accoglieva cordialmente come un partito non disprezzabile; mi sono spento e ho sprecato in bagattelle la mia vita e la mia intelligenza trasferendomi dalla città in villa, dalla villa a via Gorochovaja, riconoscendo la primavera dall'arrivo delle ostriche e delle aragoste, l'autunno e l'inverno dai giorni fissi di ricevimento, l'estate dalle passeggiate... ho sprecato tutta la vita in una pigra e tranquilla sonnolenza, come gli altri... Anche l'amor proprio, per che cosa l'ho speso? Per ordinare abiti a un sarto di grido? Per frequentare una casa importante? Perché il Principe P. mi stringesse la mano? Eppure l'amor proprio è il sale della vita! Dov'è andato a finire? O io non ho capito questa vita, o essa non vale nulla; ma io non ho mai visto né conosciuto niente di meglio, nessuno me lo ha mostrato. Tu apparivi e scomparivi come una cometa, luminosa, veloce, e io, dimentico di tutto, mi spegnevo..."."

Il progressivo spegnimento dell’interesse per la vita coincide con la scoperta del mondo così com’è. La verità affiora nel corso di un colloquio con Stolz:

Che cosa, in particolare, non ti piace di questa vita?".

"Tutto: le continue corse, l'eterno gioco delle meschine passioni, soprattutto l'avidità, il bisogno di tagliarsi le gambe l'un l'altro, le chiacchiere, i pettegolezzi, il punzecchiarsi a vicenda, quello squadrarsi da capo a piedi; se ascolti le conversazioni, ti gira la testa, ti senti stordito. A prima vista, ti sembrano tutti intelligenti, ti par di leggere tanta dignità sui loro visi, ma appena li ascolti: "A questo hanno dato quello, questo ha ottenuto l'appalto." "Per quale ragione, di grazia?", grida qualcuno. "Quello ieri sera al club ha perso tutto al gioco: quell'altro ha guadagnato trecentomila rubli!". Che noia, che noia, che noia!... Ma dov'è l'uomo? Dove si è nascosto? come fa a perdersi in queste futilità?".

"Il mondo e la società devono pure occuparsi di qualcosa", disse Stolz, "ognuno ha i suoi interessi. È la vita...".

"Il mondo, la società! Forse tu, Andrej, mi porti in questo mondo, in questa società proprio per farmi passare la voglia di frequentarli. La vita: bella vita! Cosa c'è da cercare lì? Interessi dello spirito o del cuore? Guarda dunque dov'è il centro intorno al quale si muove tutto questo: non c'è un centro, non c'è niente di profondo, niente che arrivi al cuore. Sono tutti quanti dei cadaveri, tutti addormentati peggio di me questi individui che vivono nel mondo e nella società! Che cosa li guida nella vita? Certo, non se ne stanno sdraiati, tutto il giorno si affannano ad andare avanti e indietro come mosche, e a che pro? Entri in un salone e non ti stanchi mai di ammirare la simmetria con cui sono disposti gli ospiti, il tranquillo, pensoso atteggiamento con cui essi... giocano a carte. Un grande scopo della vita, non c'è che dire! Eccellente esempio per una mente che ha bisogno di esercizio! E questi non sarebbero cadaveri? Forse non dormono per tutta la vita seduti? Perché io sarei più colpevole di loro, se me ne sto sdraiato a casa mia e non mi rompo la testa con fanti, re e regine?".

"Roba vecchia, questa, di cui si è già parlato un migliaio di volte", osservò Stolz. "Hai niente di più nuovo?".

"E la nostra migliore gioventù, che cosa fa? Non dorme forse mentre balla, cammina, si fa scarrozzare per la Prospettiva Nesvkij? Un vuoto, continuo susseguirsi di giorni! E guarda con quanta superbia e degnazione, con che aria sdegnosa i giovani guardano chi non è vestito come loro, chi non porta i loro nomi e i loro titoli. E si illudono, disgraziati, di essere al di sopra della folla. "Noi occupiamo cariche che nessuno, all'infuori di noi, può occupare; sediamo nella prima fila di poltrone; noi andiamo al ballo del principe N. dove siamo ammessi solo noi...". Ma quando si riuniscono fra loro, si ubriacano e si azzuffano come selvaggi! E questi sarebbero gli uomini vivi, la gente che non dorme? E non è solo la gioventù: guarda gli uomini anziani. Si riuniscono, si scambiano inviti a pranzo, senza cordialità, senza bontà, senza reciproca simpatia! Si riuniscono a tavola, danno una serata, come andassero in ufficio, senza allegria, freddamente, per vantarsi del cuoco, del salone, per poi tagliare i panni addosso agli altri e farsi reciprocamente lo sgambetto. L'altro ieri a pranzo, non sapevo dove guardare e sarei andato a nascondermi sotto la tavola quando hanno cominciato a fare a brandelli la reputazione degli assenti: "Questo è uno stupido, quello è un vigliacco, un altro è un ladro, un altro ancora è un buffone"... una vera caccia all'uomo! E mentre parlano, si scambiano occhiate significative: "se solo esci dalla porta, ce ne sarà anche per te"... Perché si frequentano, se sono così? Perché si stringono la mano con tanto vigore? Mai una risata sincera, mai un barlume di simpatia! Si affannano per avere in casa il pezzo grosso, il nome famoso. "Da me c'è stato Tizio, sono andato da Caio", si vantano poi... Ma che razza di vita è questa? Io non voglio saperne. Che cosa mi può insegnare? Che cosa ne ricavo?".

"Nessuno ha lo sguardo limpido, sereno", proseguì Oblomov, "tutti si trasmettono l'un l'altro preoccupazioni, angosce, pene, tutti sono alla morbosa ricerca di qualche cosa. Se almeno cercassero la verità, il bene per sé e per gli altri... no, il successo di un amico li fa impallidire. Uno ha un'altra idea fissa: domani deve passare in un ufficio pubblico, dove si trascina una pratica da cinque anni; la parte avversa continua a spuntarla, e lui per cinque anni si porta quel chiodo nella testa, con un solo desiderio: dare lo sgambetto all'altro e sulla sua caduta costruire l'edificio della propria fortuna. Fare anticamera sospirando per cinque anni: questo sarebbe il suo ideale, lo scopo della sua vita! Un altro si tormenta perché è condannato ad andare ogni giorno in ufficio e a starci fino alle cinque; ma un altro ancora sospira con tristezza perché lui non ha questa fortuna..."."

E’ la scoperta di un mondo univocamente mediocre a tutti i livelli della scala sociale ad avere inattivato, dunque, la voglia di vivere di Oblomov, un tempo intensa, come ricorda Stolz:

"Ricordi che, dopo aver letto tanti libri, intendevi recarti in paesi stranieri per meglio conoscere e amare il tuo? "Tutta la vita è pensiero e lavoro", affermavi allora, "un lavoro magari oscuro ma incessante, grazie al quale si può morire con la coscienza di aver compiuto il proprio dovere." Eh? in quale angolo è relegato tutto questo".

"Sì... sì...", disse Oblomov, seguendo inquieto ogni parola di Stolz, "ricordo proprio che... mi pare... Già!", disse a un tratto, rammentando il passato. "Un tempo, Andrej, avevamo intenzione di girare l'Europa in lungo e in largo, di attraversare la Svizzera a piedi, di scottarci i piedi sul Vesuvio, di scendere tra le rovine di Ercolano. Mancava poco che impazzissimo. Quante sciocchezze!..."."

3.

Cionondimeno, Oblomov continua a tormentarsi per trovare un senso dell’esistenza:

"La mattina dopo, di nuovo la vita, di nuovo le agitazioni, i sogni! Egli ama immaginarsi talvolta come un invincibile condottiero, contro il quale non solo Napoleone, ma nemmeno Eruslan Lazareviè nulla potrebbero; inventa una guerra e la sua causa: per esempio, popoli dell'Africa che invadono l'Europa; oppure organizza nuove crociate e combatte, decide il destino dei popoli, rade al suolo città, grazia, punisce, compie atti di bontà e di magnanimità.

Oppure si sceglie l'arena del pensatore, del grande artista: tutti si inchinano davanti a lui; egli miete allori; la folla che lo invoca grida: "Guardate, guardate, passa Oblomov, il nostro famoso Il'ja Il'iè!".

Ha momenti di amarezza in cui le preoccupazioni lo fanno soffrire, si rivolta ora su un fianco ora sull'altro, affonda il viso nei cuscini, giungendo talvolta a smarrirsi completamente; allora si solleva in ginocchio sul letto e prega con fervore, con zelo, supplicando il cielo perché allontani dal suo capo la tempesta che lo minaccia.

Poi, rimesso in tal modo al cielo il proprio destino, torna calmo e indifferente per tutto ciò che lo circonda e lascia che la tempesta faccia quel che le pare.

Così egli impegnava le sue forze morali, così si agitava spesso per giorni interi; e, solo quando il giorno declinava e la grande sfera del sole cominciava a nascondersi maestosa dietro a un palazzo di quattro piani, egli si riscuoteva con un profondo sospiro dai suoi incantevoli sogni o dalle sue tormentose cure.

Allora tornava a seguire il tramonto con lo sguardo pensoso e un sorriso triste e si rilassava quietamente dopo tante emozioni.

Nessuno conosceva e vedeva questa vita interiore di Oblomov; tutti credevano fosse un disutilaccio, buono solo a dormire e a imbottirsi di cibo, e che da lui non ci si potesse aspettare altro, e che la sua testa fosse incapace di coordinare dei pensieri. Così dicevano di lui là dove lo conoscevano."

Un sogno di grandezza opprime, dunque, Oblomov. Non potendo realizzarlo, egli si racchiude in una visione del mondo di tutt’altro segno, che ricostruisce l’armonia originaria:

"Si vede seduto una sera d'estate sulla terrazza, presso il tavolino da tè, sotto gli alberi fronzuti che non lasciano filtrare i raggi del sole; aspira con indolenza il fumo da una lunga pipa e si gode pensoso la vista che si apre al di là degli alberi, della frescura, del silenzio: i campi lontani sono dorati, il sole tramonta dietro il familiare bosco di betulle e tinge di rosso lo stagno liscio come uno specchio; dai campi sale un leggero vapore, l'aria si rinfresca, scende il crepuscolo, i contadini rientrano a frotte.

I servitori oziano seduti davanti al portone; si sentono voci allegre, risate, la balalaika, le ragazze giocano a rincorrersi; intorno a lui ruzzano i suoi figlioletti, gli si arrampicano sulle ginocchia, gli si attaccano al collo; vicino al samovar è seduta... la sovrana di tutto ciò che lo circonda, la sua dea... una donna! sua moglie! Frattanto, nella sala da pranzo, arredata con elegante sobrietà, si accendono piccole luci accoglienti, si apparecchia la grande tavola rotonda; Zachar, promosso al rango di maggiordomo, con gli scopettoni completamente bianchi, dispone sulla tavola, con un piacevole tintinnio, i cristalli e l'argenteria, lasciando cadere ad ogni minuto ora un bicchiere, ora una forchetta; ci si mette a tavola per consumare una lauta cena. C'è anche il suo compagno d'infanzia, il suo fedele amico Stolz, e ci sono altri visi noti. Poi si va a dormire...

"Potessi starmene sdraiato sull'erba, sotto un albero, e guardare il sole attraverso le fronde e contare quanti uccellini svolazzano fra i rami! E intanto una serva belloccia, con le braccia nude rotonde e morbide e il collo abbronzato dal sole, ti porta qui sull'erba ora il pranzo ora la colazione; abbassa gli occhi, la birichina, e sorride... Ma quando arriverà questo momento?".

Questo sogno domestico sembra assumere una configurazione con la comparsa di Ol'ga, una giovane donna che gli presenta Stolz, nei cui confronti si attiva una passione d’amore.

Per quanto intensa, però, anche la passione d’amore urta contro la difficoltà di assumersi la responsabilità di vivere:

"Ah, se si potesse sentire solo il tepore dell'amore senza provarne i travagli!", fantasticava. "Ma no, la vita ti tocca dovunque ti rifugi, ti brucia! Come ad un tratto si è mossa, e riempia di occupazioni! L'amore... è un'ardua scuola di vita!"…

Sì, non si può vivere come si vuole, è chiaro", cominciò a dire dentro di lui una voce cupa, malevola, "si cadrebbe in un caos di contraddizioni che nessuna mente umana, per quanto profonda e ardita essa sia, riuscirebbe a sbrogliare! Ieri desideravi, oggi ottieni ciò che avevi desiderato con tanta passione, con tutto te stesso, ma domani arrossirai per averlo desiderato, e poi maledirai la vita perché il desiderio è stato esaudito; ecco a che cosa conducono i passi temerari fatti di propria iniziativa, il volere arbitrario. Bisogna procedere a tentoni, chiudere gli occhi a un mucchio di cose e non esaltarsi per la felicità, non osare lagnarsi se essa fugge... ecco cos'è la vita! Chi ha pensato che fosse felicità e piacere? Pazzi! La vita è vita, è dovere - dice Ol'ga - è un obbligo, e gli obblighi sono pesanti. Compiamo questo dovere...". Sospirò.

"Non vedrò più Ol'ga... Dio mio! Tu mi hai aperto gli occhi e mi hai indicato il mio dovere", disse guardando il cielo. "Dove attingere la forza? Dobbiamo separarci! Adesso è ancora possibile, anche se con dolore; ma almeno in futuro non mi maledirò per non averlo fatto. Ma adesso verrà qualcuno mandato da lei... Lei non si aspetta..."."

"Sentiva che la luminosa, serena festa dell'amore era finita, che l'amore si stava trasformando in un vero e proprio dovere, che interferiva con la sua vita, entrava a far parte della routine e aveva cominciato a sbiadire, a perdere i suoi smaglianti colori.

Forse, quella mattina era balenato il suo ultimo roseo raggio, e ora sarebbe rimasto così: senza più sprazzi luminosi, anche se, pur invisibile, gli avrebbe riscaldato la vita; la vita lo avrebbe assorbito ed esso ne sarebbe diventato la molla, forte, sì, ma nascosta. E da quel momento in poi le sue manifestazioni sarebbero state semplici, comuni.

Il poema era finito, e cominciava severa la storia: le pratiche da sbrigare, poi il viaggio a Oblomovka, la costruzione della casa, l'ipoteca, la realizzazione della strada, le interminabili discussioni di affari con i contadini, l'ordine dei lavori, la trebbiatura, la resa del grano, lo schiocco del pallottoliere, il viso premuroso dell'amministratore, le elezioni dei nobili, le sedute in tribunale... solo di tanto in tanto brillerebbe per un attimo lo sguardo luminoso di Ol'ga, risonerebbero le note di Casta diva, schioccherebbe un bacio frettoloso; e poi di nuovo al lavoro, in città, di nuovo l'amministratore, di nuovo lo schiocco del pallottoliere."

Conclusa la storia con Ol'ga, Oblomov si ritrae nel suo guscio, circondato dai servi fedeli e dalla vedova P_enicyna, che, data la sua semplicità, "si era innamorata di Oblomov, così, come avrebbe potuto prendersi un raffreddore o una febbre incurabile." Si tratta di un amore viscerale, come forse solo le anime semplici sanno nutrire: appassionato ma misurato, discreto, niente affatto esigente, bensì donativo. Esso fa breccia nel cuore di Oblomov, che alla fine cede e trova infine un po’ di pace:

"Adesso egli era circondato solo da persone semplici, buone, affettuose, tutte concordi nell'essergli, con ogni mezzo, di appoggio e nell'aiutarlo a vivere facilmente, senza risentire troppo le scosse della vita.

E Oblomov? Oblomov era l'immagine piena e naturale, l'espressione di quella calma, di quest'appagamento, di questa placida tranquillità. Guardandosi attorno, meditando sulla propria esistenza e abituandosi sempre più ad essa, aveva infine concluso che non doveva andare più in là, che non doveva cercare altro, che il suo ideale di vita si era realizzato, seppure senza poesia, senza quei raggi di cui un tempo la sua immaginazione aveva avvolto il corso largo, signorile e spensierato della sua vita nella natia campagna, in mezzo ai contadini e ai servitori.

Egli guardava alla sua vita attuale come alla prosecuzione di quella di Oblomovka, solo con sfumature diverse, di luogo e a volte anche di tempo. Anche qui, come a Oblomovka, se l'era cavata nella vita piuttosto a buon mercato, ottenendo e assicurandosi la stessa imperturbabile serenità. Egli esultava nel suo intimo perché era riuscito a eludere tutte le esigenze noiose e penose e tutte le burrasche, ad allontanarsi da quell'orizzonte sul quale si accendono i lampi delle grandi gioie e rimbombano i colpi improvvisi dei grandi dolori, dove giocano le mendaci speranze e gli splendidi miraggi di felicità, dove l'uomo è roso e tormentato dal suo stesso pensiero e ucciso dalle passioni, dove lo spirito cade e trionfa, dove l'uomo è impegnato in un combattimento senza soste ed esce dal campo di battaglia dilaniato e sempre insoddisfatto e insaziato. Senza aver provato i piaceri che dà la lotta, vi aveva mentalmente rinunciato, trovando la pace dell'anima solo nel suo cantuccio dimenticato, lontano dal movimento, dalla lotta, dalla vita…

… concludeva che la sua vita non solo si era svolta, ma era stata creata, addirittura predestinata ad essere così semplice e facile per dimostrare che è possibile nell'esistenza dell'uomo raggiungere una pace ideale. Ad altri, egli pensava, è toccato in sorte di esprimere gli aspetti tormentosi della vita, di smuoverne le forze creatrici e annientatrici: a ciascuno il suo compito!

Ecco la filosofia elaborata dal Platone oblomoviano, la filosofia che lo cullava tra gli interrogativi e le impellenti esigenze del dovere e del fato. Egli era nato ed era stato educato non come un gladiatore per l'arena, ma come un pacifico spettatore della lotta; la sua anima timida e indolente, non avrebbe sopportato né le inquietudini della felicità né i colpi della vita: per conseguenza, egli rappresentava solo un aspetto di essa, e non aveva nulla da aggiungere o da modificare, nulla da rimpiangere.

Col passare degli anni, agitazioni e rimpianti erano divenuti più rari e quietamente, a poco a poco, si era adagiato nella semplice e ampia bara della sua vita restante, bara che egli stesso si era fatta con le proprie mani, come le tombe che i vecchi eremiti si scavano dopo che hanno voltato le spalle alla vita."

Nonostante le apparenze, Oblomov non è un nichilista. Egli nutre i suoi ideali:

"Oblomov, sebbene avesse trascorso la giovinezza fra quei giovani onniscenti che avevano risolto da un pezzo tutti i problemi della vita, che non credevano a nulla che analizzavano tutto con fredda saggezza, conservava nell'anima la fede nell'amicizia, nell'amore, nell'onore e, pur sapendo di avere sbagliato spesso nel giudicare gli uomini, pur sapendo che avrebbe sbagliato ancora, e il suo cuore ne soffrisse, nemmeno una volta aveva sentito vacillare dentro di sé quella sua fondamentale fiducia nel bene. Nel suo intimo, onorava la purezza della donna, riconosceva i poteri e i diritti ed era pronto a sacrificarsi per essi.

Tuttavia, non aveva abbastanza forza di carattere per riconoscere a viso aperto questa dottrina del bene e questo rispetto dell'innocenza. In segreto si inebriava del suo profumo, ma pubblicamente si univa talvolta al coro dei cinici, che fremevano al solo pensiero di essere ritenuti casti o rispettosi della purezza e aggiungeva sconsideratamente la sua alle loro voci sfrenate.

Per contro, Oblomov si comportava con rettitudine: nessuna macchia gravava sulla sua coscienza, nessun rimprovero di freddo e arido cinismo, nessuna azione compiuta senza entusiasmo e senza lotta."

Questa rettitudine sottende l’amore che Ol'ga e Stolz hanno per lui. Rivolto alla moglie, turbata che egli possa ingelosirsi per la tenerezza che prova per Oblomov, Stolz dice:

"La sua anima rimarrà sempre pura, limpida, onesta... Un'anima cristallina, trasparente; gli uomini come lui sono pochi, sono rari, sono perle nella folla! Il suo cuore è incorruttibile: te ne puoi fidare sempre o ovunque. Ecco perché tu gli sei rimasta fedele, e perché non giudicherò mai un peso dovermi preoccupare per lui. Ho conosciuto molti uomini ricchi di nobili qualità, ma non ho mai incontrato un cuore più puro, più limpido, più semplice del suo; ho amato molte persone, ma nessuna con tanto calore, con tanta costanza come Oblomov. Una volta che hai imparato a conoscerlo, non puoi cessare di amarlo. Non è così? Ho indovinato?"."

5.

In termini di adattamento al mondo, l’oblomovismo è una malattia. Lo è anche prescindendo dal metro di misura normativo, poiché comporta un enorme spreco delle potenzialità individuali. Perché, in Oblomov, il rifiuto del mondo, che ha le sue ragioni d’essere, si traduce, nonostante le sue eccellenti qualità, in un rifiuto tout-court della vita?

La personalità di Oblomov è uno dei possibili modi di essere in cui può evolvere, nell’interazione con il mondo, un cuore puro, limpido, onesto, inequivocabilmente e marcatamente introverso. Il suo dramma, abbastanza comune agli introversi che non sono in grado di capire la loro diversità rispetto agli altri, è di nutrire l’aspettativa che il mondo sia fatto di gente pura, limpida e onesta.

In conseguenza di quest’aspettativa, la scoperta del mondo così com’è, colto nel suo aspetto apparente, riesce inesorabilmente drammatica: "le continue corse, l'eterno gioco delle meschine passioni, soprattutto l'avidità, il bisogno di tagliarsi le gambe l'un l'altro, le chiacchiere, i pettegolezzi, il punzecchiarsi a vicenda, quello squadrarsi da capo a piedi; se ascolti le conversazioni, ti gira la testa, ti senti stordito"; ""Nessuno ha lo sguardo limpido, sereno, tutti si trasmettono l'un l'altro preoccupazioni, angosce, pene, tutti sono alla morbosa ricerca di qualche cosa"; "La vita: bella vita! Cosa c'è da cercare lì? Interessi dello spirito o del cuore? Guarda dunque dov'è il centro intorno al quale si muove tutto questo: non c'è un centro, non c'è niente di profondo, niente che arrivi al cuore. Sono tutti quanti dei cadaveri, tutti addormentati peggio di me questi individui che vivono nel mondo e nella società!"

L’asprezza di questi giudizi dà la misura della delusione che prova l’introverso quando apre gli occhi e scopre la realtà del mondo. Egli non riesce a farsene una ragione, non può comprendere che gli uomini sono quello che sono anche in conseguenza delle influenze ambientali, che non tutti hanno le stesse qualità intellettuali e morali, che il sogno di un mondo più profondo, trasparente ed umano è una nobile utopia di là da venire. Aprendo gli occhi sulla realtà, Oblomov rimane letteralmente traumatizzato: sente immediatamente che in essa non può vivere.

Il ritiro dal mondo non mortifica la pietas che, nell’introverso, è sempre intensa e profonda. Ad un amico che lo sollecita a leggere la letteratura realistica dell’epoca, Oblomov risponde:

""Descrivi il ladro, la peccatrice, lo sciocco presuntuoso, ma non dimenticare l'uomo. Dov'è dunque l'umanità? Voi volete scrivere solo con la testa!", disse Oblomov quasi in un sibilo. "Credete forse che il pensiero escluda il cuore? No, esso è fecondato dall'amore. Tendete una mano soccorrevole all'uomo caduto, o piangete amare lacrime su di lui se è definitivamente rovinato, ma non lo schernite. Amatelo, cercatevi in lui, trattatelo come trattereste voi stessi... allora vi leggerò, e chinerò il capo davanti a voi...", disse, tornando a stendersi tranquillo sul divano. "Costoro scrivono di ladri e di peccatrici", continuò, "ma dimenticano l'uomo o non sanno descriverlo. Che specie di arte, quali tinte poetiche ci trova? Smascherate la depravazione, il fango ma, vi prego, senza pretese poetiche".

"E lei vorrebbe che si parlasse della natura - le rose, un usignolo o una mattinata gelida - mentre intorno a noi tutto ribolle e si agita? A noi serve solo la cruda fisiologia della società; non siamo in vena di lirismo adesso...".

"L'uomo, datemi l'uomo!", esclamò Oblomov. "Amatelo...".

"Amare l'usuraio, il bigotto, il funzionario ladro o ottuso... è questo che intende? Ma che le salta in testa? Si vede proprio che non si occupa di letteratura!", si infiammò Penkin. "No, bisogna punirli, estirparli dalla vita civile, dalla società...".

"Estirparli dalla vita civile!", disse Oblomov rianimandosi all'improvviso e sporgendosi verso Penkin. "Ciò significa dimenticare che sotto questo involucro imperfetto c'è una origine superiore; che se un uomo è corrotto è pur sempre un uomo, come lei. Sradicare. E in che modo vuole sradicarli dal consorzio umano, dal grembo della natura, dalla misericordia divina?", quasi gridò, con gli occhi fiammeggianti."

La pietas di Oblomov, come peraltro di ogni introverso, si anima quando egli si tiene a distanza dal mondo, mentre il suo giudizio diventa implacabile quando interagisce con gli esseri umani in carne ed ossa. Egli insomma ama l’umanità, ma, paradossalmente, disprezza gli uomini.

L’ambivalenza tra la pietas e il disprezzo è, psicodinamicamente, una miscela tossica. Essendo entrambi incoercibili, eccezion fatta per il caso che l’introverso sviluppi una comprensione profonda della realtà e dei comportamenti sociali come prodotti storici, l’ambivalenza si autoalimenta.

Il disprezzo, infatti, implica la fantasia di estirpare dalla faccia della terra tutti gli esseri imperfetti e fastidiosi. La pietas ritorce questa fantasia contro il soggetto stesso, che diventa il più imperfetto e fastidioso, colpevole, tra l’altro, di pretendere di giudicare gli altri, egli che è miserabile e indegno. In Oblomov i sensi di colpa sono attestati dalla mortificazione che egli si infligge e dall’aspettativa del male che alligna al fondo del suo essere:

"In mezzo alla folla si sentiva soffocare; se saliva su una barca, lo faceva senza molta speranza di arrivare incolume all'altra sponda; quando andava in carrozza, si aspettava che i cavalli si imbizzarissero e mandassero in pezzi la vettura…

A volte era assalito da una vera fobia: aveva paura del silenzio che lo circondava, o anche solo di qualcosa che nemmeno lui sapeva definire, e si sentiva un formicolio per tutto il corpo. Talora sbirciava impaurito un angolo buio, temendo che l'immaginazione gli giocasse un tiro mancino facendogli apparire qualche fenomeno soprannaturale."

E’ il disprezzo e i sensi di colpa, insomma, che emarginano Oblomov dalla vita, immergendolo in un modo di essere tormentoso e vanamente espiatorio. Inutili pertanto riescono i tentativi di Ol’ga e di Stolz di salvarlo dalla degradazione.

Dato il cuore semplice, puro e onesto, la sua degradazione non può, però, arrivare all’estremo. Essa di fatto s’arresta in virtù dell’incontro con una donna semplice e di angusti orizzonti che, pur appartenendo ad una classe inferiore, ha quelle stesse qualità.

Pochi critici hanno rilevato il ruolo "terapeutico" che svolge Agaf'ja Matveevna, donna semplice, ma, nel contempo, capace di apprezzare la nobile grandezza, per quanto inespressa, di Oblomov. A differenza di Ol’ga, che vuole aiutarlo a tornare alla vita, essa lo accetta così com’è. Certo, essa assume nei suoi confronti il ruolo della Grande Madre: ma è un ruolo il quale implica che quell’essere fragile e vulnerabile, bisognoso della sua protezione, le è nondimeno di gran lunga superiore.

E’ in virtù del suo amore che Oblomov raggiunge la pace ideale alla quale ha sempre aspirato e ritrova, infine, il suo mondo.

 Gennaio 2005