F. Dostoevskij

Delitto e castigo


1.

Sondato in tutte le sue pieghe dall’epoca della pubblicazione, assunto come una delle prime testimonianze storiche del nichilismo e delle sue catastrofiche conseguenze, riletto e analizzato alla luce del pensiero di Nietzsche, che ha portato alle estreme conseguenze le teorie espresse dal protagonista, interpretato dagli psicoanalisti come frutto di intuizioni psicologiche prodigiose sull’ambivalenza intrinseca alla natura umana, il romanzo di Dostoevskij sembra non offrire alcuno spiraglio ad ulteriori interpretazioni.

Ritengo però che almeno due aspetti meritino un approfondimento: il primo concerne la personalità del protagonista – Raskòlnikov-, manifestamente scissa; il secondo il modo in cui egli tenta vanamente di rimediare alla scissione ideologizzando una delle polarità conflittuali. Questi due aspetti, nel loro insieme, definiscono una tipologia dinamica che, sia pure in termini non sempre drammatici, ha ancora oggi un grande rilievo.

Riguardo al primo aspetto, è l’amico Razumìchin a cogliere i tratti essenziali di una personalità introversa, che ha imboccato la via della chiusura, della rabbia nei confronti del mondo e dell’insensibilizzazione. Egli dice a proposito di Raskòlnikov:

“è cupo, tetro, altero e superbo; in questi ultimi tempi - ma l'inclinazione, forse, covava in lui già da un po'- era diffidente e nevrastenico. Però è generoso e buono. Non gli piace ostentare i suoi sentimenti, e preferisce mostrarsi disumano anziché esibire a parole i segreti del suo cuore. Qualche volta, tuttavia, non è affatto nevrastenico, ma freddo e insensibile fino ad essere disumano sul serio, proprio come se in lui si avvicendassero due caratteri opposti. A volte, poi, è terribilmente taciturno! Non ha tempo per nulla, tutti gli danno fastidio, e se ne sta lì sdraiato, senza far niente. Non è beffardo: non perché manchi di spirito, ma come se non avesse tempo per simili futilità. Non ascolta sino in fondo quel che gli dicono. Non si interessa mai di quello che interessa tutti gli altri in quel momento. Ha un'altissima opinione di sé e, a quanto sembra, non senza fondamento.”

I due caratteri opposti, vale a dire la scissione della personalità, sono espressi superbamente attraverso un episodio estremamente significativo, omologabile al soffocamento della sensibilità naturale in nome del cinismo ideologico che ho analizzato in rapporto al protagonista de Le memorie dal sottosuolo, pubblicate appena un anno prima di Delitto e castigo..

L’episodio è descritto nel capitolo 4 della Prima Parte. Raskòlnikov, che già sta alimentando, con forti ambivalenze tra esaltazione e disgusto, il progetto di mettere a morte una vecchia strozzina, ha ricevuto una lettera dalla madre, nella quale questa lo mette al corrente della decisione della sorella di sposare un uomo maturo e benestante. La decisione, disinvestita di qualunque componente sentimentale, mira chiaramente ad assicurare il futuro del fratello, che, dopo la laurea, potrebbe trovare impiego presso lo studio professionale del cognato e, in prospettiva, succedere ad esso.

Commosso per l’amore della sorella nei suoi confronti, nondimeno Raskòlnikov è indignato dalla decisione presa. Si tratta infatti, dato il carattere del promesso sposo arrogante e autoritario, di un sacrificio totale della vita che la sorella è disposta ad operare a suo vantaggio: un sacrificio, dunque, altruistico, ma fondato su di un calcolo razionale, che lo rende, agli occhi di Raskòlnikov, equivalente ad una scelta di prostituzione; una violenza che la sorella, accecata dall’amore e dai buoni sentimenti, si infligge. Raskòlnikov è intenzionato ad impedire in ogni modo che ciò avvenga, ed esce di casa per riflettere sul da fare.

L’episodio in questione è il seguente:

“Improvvisamente sussultò: un pensiero, anch'esso del giorno prima, gli era guizzato nel cervello come un baleno. Ma non fu per questo che sussultò. Sapeva, infatti, o meglio presentiva che esso sarebbe senz'altro arrivato, e già l'attendeva; d'altronde, quel pensiero non era affatto del giorno prima. La differenza era questa: un mese prima, anzi perfino il giorno prima, si trattava solo di un sogno, mentre adesso... Adesso si presentava, di colpo, non più come un sogno, ma sotto un aspetto nuovo, minaccioso e del tutto sconosciuto, ed egli, ad un tratto, se n'era reso cosciente... Sentì come un colpo alla testa, e gli si oscurò la vista.

     S'affrettò a guardarsi attorno, cercando qualcosa. Avrebbe voluto sedersi e cercava una panca; stava camminando lungo il K. boulevard. Vide una panchina più avanti, a un centinaio di passi. Affrettò il passo più che poté; ma lungo il cammino gli accadde un piccolo incidente, che per qualche minuto concentrò tutta la sua attenzione.

     Mentre cercava la panchina aveva notato, una ventina di passi davanti a sé, una donna che camminava, ma lì per lì non le aveva prestato la minima attenzione, come a tutti gli oggetti ai quali era passato accanto fino a quel momento. Già più di una volta, ad esempio, gli era capitato, arrivando a casa, di non ricordare affatto le strade che aveva percorso, tanto che si era ormai abituato ad andare in giro così. Ma in quella donna c'era qualcosa di tanto strano, qualcosa che balzava subito agli occhi, che la sua attenzione cominciò a concentrarsi su di lei, dapprima a malincuore e quasi con dispetto, ma poi con sempre più viva intensità. A un tratto volle capire cosa ci fosse in lei di tanto strano. Innanzi tutto doveva essere una ragazza molto giovane: camminava a testa nuda con quel gran caldo, non aveva né guanti né ombrellino, e agitava le braccia in maniera buffa. Portava un abituccio di seta leggera, indossato anch'esso in un modo parecchio strano, appena abbottonato e dietro, proprio all'inizio della gonna, all'altezza della vita, addirittura strappato; un intero lembo di stoffa ne pendeva ballonzolando. Uno scialletto era gettato sul collo nudo, ma sporgeva di lato e un po' di sbieco. Per giunta, la ragazza camminava con passo incerto, incespicando e perfino barcollando. Quell'incontro finì con l'avvincere tutta l'attenzione di Raskòlnikov. Egli raggiunse la ragazza proprio accanto alla panchina, mentre lei vi si lasciava cadere sopra con tutto il peso, in un angolo, arrovesciando il capo sulla spalliera e chiudendo gli occhi, evidentemente per l'eccessiva stanchezza. Dopo averla scrutata, egli capì subito: era ubriaca fradicia. Era uno spettacolo strano e assurdo. Egli ebbe perfino il sospetto di sbagliarsi. Il visino che vedeva davanti a sé era estremamente giovane, sui sedici o forse soltanto sui quindici anni, minuto e grazioso con i suoi capelli biondicci, ma tutto infiammato e come gonfio. Pareva che la fanciulla non si rendesse più conto di nulla; aveva accavallato le gambe, scoprendone molto più del conveniente e da tutti gli indizi pareva ben poco consapevole di trovarsi per la strada.

     Raskòlnikov non si era seduto ma non intendeva andarsene, e le rimaneva davanti perplesso. Di solito, quel boulevard era poco frequentato; in quel momento, poi, tra l'una e le due, e con tutto quel caldo, non c'era quasi nessuno. Tuttavia, in disparte, a una quindicina di passi, sul margine del boulevard, si era fermato un signore, che secondo ogni evidenza avrebbe desiderato moltissimo avvicinarsi anche lui alla fanciulla per qualche suo fine. Anche lui, probabilmente, l'aveva vista da lontano e aveva pensato di raggiungerla, ma ne era stato impedito da Raskòlnikov. Gli lanciava sguardi furiosi, badando però a non farsene accorgere, e stava sulle spine in attesa del suo turno, non appena quello straccione guastafeste avesse levato le tende. La situazione era assai eloquente: il signore era sulla trentina, robusto, grasso, bianco e rosso come una mela, con labbra vermiglie e baffetti, e vestiva con molta eleganza. Raskòlnikov si sentì invadere da una gran rabbia; d'un tratto gli venne voglia di offendere in qualche modo quel grasso vagheggino; si staccò per un attimo dalla fanciulla e si avvicinò al signore.

     «Ehi, voi, Svidrigàjlov! Che volete voi qui?» gli gridò, stringendo i pugni e sogghignando con labbra schiumanti di collera.

     «Che significa ciò?» gli chiese severamente il signore, aggrottando le sopracciglia con un'espressione di sprezzante stupore.

     «Fuori dai piedi, ecco cosa significa!»

     «Come osi, canaglia!...»

     E agitò il frustino. Raskòlnikov gli si scagliò addosso con i pugni alzati, senza nemmeno pensare che quel tipo robusto poteva benissimo tener testa anche a due come lui. Ma in quell'istante qualcuno lo afferrò saldamente da dietro: fra loro s'era intromessa una guardia.

     «Basta, signori, non potete picchiarvi in luogo pubblico. E voi cosa volete? Chi siete?» chiese in tono sostenuto a Raskòlnikov, fissando i suoi stracci.

     Raskòlnikov lo scrutò attentamente. Era un volto maschio e soldatesco, con baffi e basette brizzolati e uno sguardo pieno di buonsenso.

     «Proprio di voi avevo bisogno,» esclamò Raskòlnikov, afferrandogli una mano. «Io sono l'ex studente Raskòlnikov... Lo dico anche per voi,» si rivolse al signore, «ma venite qui un momento, voglio farvi vedere una cosa...»

     E prendendo la guardia per un braccio, la trascinò verso la panchina.

     «Ecco, vedete? È completamente ubriaca; poco fa camminava per il viale: chi sa chi è, però non sembra di quelle che lo fanno per mestiere. La cosa più probabile è che l'abbiano fatta bere e poi sedotta... Per la prima volta... Capite? E poi l'hanno lasciata andar via così... Guardate come è strappato il suo abito, guardate come lo indossa: qualcuno l'ha vestita, non è stata lei a vestirsi, sono state mani goffe, maschili. Si vede. E adesso guardate qui. Questo bellimbusto con cui stavo per venire alle mani è uno sconosciuto, lo vedo per la prima volta; ma anche lui l'aveva avvistata, strada facendo, ubriaca, fuori di sé, e moriva dalla voglia di avvicinarsi e di acchiapparla al volo, approfittando dello stato in cui si trova, per portarla chissà dove... Potete esserne certo; mi potete credere, non mi sbaglio. Ho visto coi miei occhi come la osservava e la seguiva; ma io gliel'ho impedito; e adesso lui aspetta che me ne vada. Ecco, si è allontanato un po', se ne sta lì e finge di arrotolare una sigaretta. Non possiamo impedirglielo? Non potete fare in modo di rimandarla a casa sua?»

     La guardia aveva capito immediatamente, s'era resa conto di tutto. Quanto al signore grasso, la faccenda era naturalmente chiarissima; restava la ragazza. L'agente si chinò su di lei, per esaminarla più da vicino, e una sincera compassione gli si dipinse sul viso.

     «Che pena mi fa!» disse, scuotendo il capo. «È ancora una bambina... L'hanno sedotta, è evidente. Sentite, signorina,» prese a dirle, «dove abitate?» La ragazza aprì gli occhi, stanchi e imbambolati, fissò ottusamente quelli che la interrogavano e con la mano fece un gesto infastidito.

     «Sentite,» disse Raskòlnikov, «ecco qua (si frugò in tasca e ne tirò fuori venti superstiti copeche), ecco qua, chiamate una carrozza e dite al vetturino di portarla a casa. Purché si riesca a sapere il suo indirizzo!»

     «Signorina, ehi, signorina...» riprese a dire la guardia, dopo aver accettato il denaro, «ora vi chiamo un vetturino e vi accompagno io stesso. Dove volete che andiamo? Eh?... Dove state di casa?»

     «Ci risiamo!... Mica ti lasciano in pace!» mormorò la fanciulla, e tornò a schermirsi con la mano.

     «Ah, ah, che brutta cosa! Ah, che vergogna, signorina, proprio una vergogna!» Egli scosse di nuovo il capo, con aria di deplorazione mista a pietosa indignazione. «Però, che problema!» fece rivolto a Raskòlnikov; e subito, senza farsi accorgere, lo esaminò di nuovo da capo a piedi. Dovette sembrargli strano anche lui: con quegli stracci addosso, dava via del denaro!

     «Era lontana da qui, quando l'avete trovata?» gli domandò.

     «Ve l'ho detto: camminava davanti a me, barcollando, qui lungo il viale. Appena arrivata alla panchina, vi si è lasciata cadere di schianto.»

     «Ah, che cose vergognose accadono adesso al mondo, santo Dio! Così ingenua, semplice, e già ubriaca! L'hanno sedotta, è chiaro! Ecco, anche il vestitino è tutto strappato... Ah, che corruzione c'è in giro!... E forse è anche una di buona famiglia, povera ma buona... Al giorno d'oggi ce n'è molte così. Dall'aspetto, però, si direbbe delicata, sembra una signorina», e si chinò un'altra volta su di lei.

     Forse aveva anche lui una figlia così, di quelle «delicate, che sembrano signorine» e imitano i modi delle fanciulle bene educate, assimilando gli atteggiamenti di moda...

     «L'importante,» si affannava a dire Raskòlnikov, «è di non lasciarla nelle mani di quel porco! Chi sa cosa diavolo le farebbe! Lo si vede benissimo cosa vuole; mica se ne va, quella carogna!»

     Raskòlnikov parlava forte e lo indicava apertamente con la mano. L'altro sentì e stava per andare di nuovo in bestia; ma cambiò idea, e dopo avergli gettato uno sguardo sprezzante, si allontanò lentamente di altri dieci passi e si fermò.

     «Non lasciargliela si può anche fare,» rispose il sottufficiale, pensieroso. «Ma dovrebbe almeno dirci dove bisogna accompagnarla, se no... Signorina, ehi, signorina!» e si chinò nuovamente su di lei.

     La ragazza, a un tratto, sbarrò gli occhi, li guardò con attenzione come se avesse capito qualcosa, poi si alzò dalla panchina e si avviò verso la direzione da cui era venuta.

     «Puah!, brutti schifosi, mica ti lasciano in pace!» proferì, schermendosi di nuovo con la mano. Si incamminò rapidamente ma, come prima, ondeggiando parecchio. Il bellimbusto la seguì, ma restando sull'altro lato del viale, senza staccare gli occhi da lei.

     «Non preoccupatevi, non gliela lascio,» dichiarò deciso il baffone mettendosi alle loro calcagna.

     «Eh, che corruzione c'è in giro!» ripeté ad alta voce con un sospiro.

     In quel momento fu come se qualcosa avesse punto Raskòlnikov; in un baleno, parve del tutto sconvolto

     «Ehi, voi, sentite!» gridò al baffone.

     Quello si voltò.

     «Lasciate perdere! Che ve ne importa? Lasciate stare! Che se la spassi pure! (e indicò il bellimbusto). A voi che ve ne importa?»

     La guardia non capiva, e lo guardava con gli occhi sbarrati. Raskòlnikov si mise a ridere.

     «Che roba!...» esclamò l'agente con un gesto stizzito, e si avviò dietrò al bellimbusto e alla ragazza, sicuro di aver a che fare con un matto o anche peggio.

     «Le mie venti copeche, però, se le è portate via,» pensò con rabbia Raskòlnikov, rimasto solo. «Adesso piglierà dei soldi anche da quell'altro e gli lascerà la ragazza, ecco come andrà a finire.. Perché poi ho voluto ficcarmi in mezzo ad aiutare? Che si divorino pure vivi l'un l'altro! Perché proprio io dovrei aiutare? Ho il diritto, io, di aiutare? Che cosa c'entro? E che diritto avevo di dar via quelle venti copeche? Erano forse mie?»

     A parte questo strano ragionamento, si sentiva molto depresso. Si sedette sulla panchina rimasta vuota. I suoi pensieri vagavano qua e là... In generale in quell'istante gli era difficile pensare a qualsiasi cosa. Avrebbe voluto addormentarsi, dimenticare tutto, e poi risvegliarsi e cominciare tutto da capo...

     «Povera bambina!» disse guardando l'angolo della panchina. «Tornerà in sé, piangerà un poco, poi sua madre verrà a saperlo... Prima la picchierà, poi la frusterà, provocandole dolore e vergogna; e poi, forse, la butterà fuori di casa... E se anche non lo farà, le Dàrje Fràncovne verranno a saperlo ugualmente, e la mia bambina comincerà ad andare e venire da un posto all'altro... Poi, dopo un po', l'ospedale: accade sempre così a quelle che vivono con madri molto oneste, e fanno le loro scappatelle di nascosto... E poi... poi di nuovo l'ospedale. Il vino... le bettole... e ancora l'ospedale... Dopo due, tre anni sarà un rudere, e in tutto avrà avuto diciotto o diciannove anni da vivere... Non ne ho forse viste altre? E come avevano fatto a diventare così? Tutte né più né meno che in questa maniera... Puah! E sia! Così dev'essere, dicono. Una certa percentuale, dicono, deve andarsene ogni anno... chissà dove, poi... al diavolo, probabilmente, per dar sollievo a quelli che restano e non esser loro d'impaccio. Una percentuale! Graziose, davvero, queste loro parolette: così riposanti, così scientifiche. Una percentuale, si è detto; dunque non è il caso di preoccuparsi. Se fosse un'altra parola, be', allora... magari sarebbe più inquietante.”

2.

L’episodio attesta uno stato di instabilità dinamica della personalità di Raskòlnikov, agevolmente riconducibile ad una scissione tra una sensibilità sin troppo viva, che promuove un’identificazione immediata e commossa con un simile che soffre, nel caso specifico con una povera ragazza vulnerabile e vulnerata, e un’insensibilità cinica la quale, viceversa, attiva una reazione di estraneazione. La sensibilità induce Raskòlnikov a sentire il bisogno di proteggere la ragazza rispetto ad ulteriori violenze che essa potrebbe subire; l’insensibilità, invece, ad abbandonarla al suo destino, e a lasciare che la “legge di natura”, per cui il debole è destinato a soccombere, segua il suo corso. Il viraggio dall’una all’altra, vale a dire tra due modi di essere antitetici, avviene repentinamente. Dostoevskij, dunque, descrive un repentino smottamento della personalità di Raskòlnikov, frequente in tutti i soggetti che albergano la scissione in questione.

Di chi si tratta? Di esseri naturalmente sensibili, la cui capacità di identificazione con coloro che soffrono e subiscono prepotenze è immediata, ma che giungono ad odiare la propia sensibilità, e s’impongono di estirparla. Di esseri dunque tipicamente introversi, i quali intuiscono che la loro sensibilità, vissuta senza alcun freno, può perderli nella pietas, e giungere all’estremo di estendere questo sentimento all’intero universo umano, quindi anche ai prepotenti, ai violenti, ai carnefici che sono essi stessi vittime. Incompatibile con il senso vivo di giustizia, il ricatto della pietas può essere tenuto a freno solo distinguendo, nei comportamenti umani, l’aspetto soggettivo, che consente comunque di comprenderli come espressione di catene motivazionali, da quello oggettivo, che fa riferimento alle loro conseguenze a danno degli altri.

Si dà però anche un’altra alternativa: quella di essere spinti dall’eccesso stesso della sensibilità ad odiarla e a tentare di liberarsene identificandosi con i carnefici, con gli esseri spietati e cinici.

E’ questa manifestamente la soluzione alla quale cede, ad un certo punto della sua vita, Raskòlnikov, esasperato dalla banalità della gente comune, mediamente rozza e superficiale, dalle ingiustizie sociali, dalla miseria, ecc.

Che si tratti di una scissione intervenuta in seguito all’interazione con il mondo sociale, e non già di un’ambivalenza intrinseca alla natura umana è attestato da varie circostanze. Intanto è Raskòlnikov stesso che, dopo aver confessato il delitto commosso all’esterefatta Sònja, ricostruisce il periodo in cui essa è intervenuta:

“«No, Sònja, non è così, non è così!» riprese a dire Raskòlnikov, sollevando di colpo la testa, come se un improvviso cambiamento nel corso dei suoi pensieri lo avesse rianimato. «Non è così! O meglio... supponi (sì, così è davvero meglio!), supponi che io sia pieno d'amor proprio, invidioso, cattivo, abietto, vendicativo, e... e forse anche incline alla pazzia. (Mettiamoci dentro tutto, tutto insieme! Della pazzia, poi, quelli ne parlavano già prima, l'avevo notato!) Ti ho detto, poco fa, che non riuscivo a mantenermi all'università. Ma sai che forse, invece, avrei anche potuto farlo? Mia madre mi avrebbe mandato i soldi per l'iscrizione; per le scarpe, i vestiti e il mangiare, i soldi li avrei guadagnati io, non c'era dubbio! Mi capitavano delle lezioni; mi davano mezzo rublo l'una. In fin dei conti, Razumìchin lavora! Ma io mi arrabbiai, e non ne volli sapere. Proprio così, mi arrabbiai (che bella parola!). E allora, mi rintanai nel mio cantuccio, come un ragno.”

In secondo luogo, nel corso del processo affiorano alcune prove della sensibilità naturale di Raskòlnikov:

“L'ex studente Razumìchin aveva scovato chissà dove notizie e fornito prove del fatto che il criminale Raskòlnikov, quando era ancora all'università, aveva aiutato, con i pochissimi mezzi di cui disponeva, un suo collega povero e tisico, e lo aveva quasi mantenuto per sei mesi. Quando poi questi era morto, si era preoccupato del vecchio e ormai debolissimo padre del compagno defunto (il quale aveva mantenuto e sostentato questo padre, con il proprio lavoro, fin dall'età di circa tredici anni), e alla fine aveva fatto ricoverare il vecchio in ospedale e alla sua morte ne aveva pagato i funerali. Tutte queste informazioni esercitarono un'influenza abbastanza favorevole sulla sorte di Raskòlnikov. La sua stessa padrona di casa, la vedova Zarnìcyna, madre della defunta fidanzata di Raskòlnikov, aveva testimoniato che quando abitavano ancora in un'altra casa, ai Cinque Cantoni, una notte, durante un incendio, Raskòlnikov aveva portato fuori da un appartamento già invaso dalle fiamme due piccoli bimbi, riportando alcune scottature. Il fatto fu preso in attento esame, e si trovarono parecchi testimoni che lo confermarono.”

Dostoevskij, dunque, descrive uno dei possibili sviluppi di una personalità introversa dotata di una valenza oppositiva e di un drammatico senso di giustizia. Tale sviluppo implica l’anestetizzazone della sensibilità sociale, e la rivendicazione di una libertà che, al limite, può giungere all’assunzione del ruolo di giustiziere.

Non si rifletterà mai abbastanza sull’incidenza di tale sviluppo a livello di psicopatologia giovanile. La carriera degli itroversi, ancora oggi, o oggi più che mai, è contrassegnata dal dolore che essi ricavano dall’interazione con un mondo sociale attestato su di una normalità impregnata, a livello conscio e inconscio, di rozzezza, di insensibilità e di egoismo. Questa esperienza dolorosa può portare ad una sorta di ripiegamento nell’accettazione, rassegnata o elitaria, della propria sensibilità come una dimensione univocamente disadattiva, o alla decisione di riscattarsene attraverso una muta pericolosa, che reprime e rimuove la sensibilità sovrapponendo ad essa un modo di essere cinico, spietato e cattivo.

Si tratta di una maschera, di un falso io, caratterizzato dalla connivenza dell’Io cosciente con un Io antitetico votato ad identificare la libertà individuale nel non tenere in alcun conto i diritti e i bisogni degli altri. Finchè dura tale connivenza, il soggetto, per quanto nel suo intimo sensibile, può esibire qualunque comportamento asociale e antisociale, fino al punto, come accade a Raskòlnikov, di agire un orribile delitto.

Ciò significa, come ho scritto più volte, che l’introversione non è una predisposizione alla bontà o alla santità. Essa, esasperata dall’interazione con il mondo, può esitare anche in un assetto apparentemente stabile di personalità i cui comportamenti apparenti attestano un difetto completo di sensibilità sociale e morale.

Cosa differenzia tali comportamenti da quelli agiti da soggetti non introversi, nei quali una sensibilità meno ricca viene di fatto del tutto soppiantata da una caratteropatia asociale o antisociale?

Semplicemente, il fatto che, negli introversi, i comportamenti contrastanti con la loro sensibilità naturale incorrono sistematicamente, a livello inconscio, in un processo di drammatica colpevolizzazione, che può rimanere rimosso per anni, ma, prima o poi, affiora sotto forma di depressione, attacco di panico, delirio persecutorio, quando no addirittura di acting-out suicidiario. Tali sintomi segnalano la necessità di operare un tragitto inverso rispetto alla muta originaria, vale a dire la necessità di rientrare nella propria pelle, e di affrontare i sensi di colpa. Ciò naturalmente dipende da ciò che l’individuo ha fatto nel corso dell’anestetizzazione. In teoria, una riparazione è sempre possibile; nella realtà, essa, talora, viene ad urtare contro un vissuto incoercibile e devastante di imperdonabilità.

3.

Non tutti gli introversi che cadono nella trappola dell’Io anestetico ideologizzano la propria scelta di vita. Alcuni si ritrovano semplicemente a cambiare pelle, e, inconsapevoli del tradimento che ciò comporta nei confronti della propria natura, sperimentano la nuova condizione con un senso di benessere, di leggerezza, talora addirittura di esaltazione. L’ideologizzazione è piuttosto rara, e di solito fa capo ad una sorta di darwinismo sociale nella cui ottica la sensibilità, l’accondiscendenza, la difficoltà di interagire sul piano conflittuale si configurano come una debolezza meritevole di punizione. Su questa base, non è affatto incomprensibile che, in conseguenza della muta, siano proprio esseri straordinariamente sensibili ad agire comportamenti aggressivi e talora sadici ai danni di altri esseri sensibili o vunerabili.

Raskòlnikov, invece, è tra coloro che ideologizzano la muta. L’ideologizzazione viene fuori nel corso di una visita che, con l’amico Razumìchin, egli fa a casa del procuratore Porfiri Petrovic’ per denunciare il fatto di aver impegnato dei suoi gioielli presso la strozzina, che poi ha ucciso. Il dialogo muove da un’astuta domanda di Porfiri, che dà modo a Raskòlnikov di esprimere la sua visione del mondo:

“Be', ora vi dirò tutta la verità. A proposito di tutta questa questione dei delitti, dell'ambiente, delle bambine, mi sono ricordato adesso - la cosa, del resto, mi ha sempre interessato -  di un vostro articoletto. Del delitto... o come altro si chiamava, non ricordo più il titolo.

     Due mesi fa ho avuto il piacere di leggerlo nella Parola periodica.»

     «Un mio articolo? Nella Parola periodica?» disse Raskòlnikov meravigliato. «Io, effettivamente, ho scritto un sei mesi fa, dopo aver lasciato l'università, un articolo a proposito di un certo libro; ma l'avevo dato alla Parola settimanale, e non alla Parola periodica.»

     «Invece è andato a finire alla Periodica.»

     «Ma se la Parola settimanale era morta, e per questo non l'avevano pubblicato...»

     «È vero, ma quando ha cessato la pubblicazione, la Parola settimanale si è fusa con la Parola periodica, e perciò il vostro articoletto, due mesi fa, è apparso nella Periodica. E voi non lo sapevate?»

     Effettivamente, Raskòlnikov non ne sapeva niente.

     «Ma potete anche chiedere loro un compenso! Però, che temperamento curioso! Vivete così appartato da ignorare cose che vi riguardano direttamente... Evidentemente è così.»

     «Bravo, Ròdka! Nemmeno io lo sapevo!» esclamò Razumìchin. «Oggi stesso farò una corsa in biblioteca e chiederò quel numero! Due mesi fa? Che giorno? Non importa, lo troverò lo stesso! Ma che roba! E lui non lo diceva!»

     «E voi come avete fatto a sapere che l'articolo è mio? Era firmato con le iniziali...» intervenne Raskòlnikov.

     «Per caso, e soltanto pochi giorni fa. Per mezzo del direttore, che conosco... L'articolo mi aveva interessato molto.»

     «Per quel che mi ricordo, cercavo di analizzare le condizioni psicologiche del delinquente durante il compimento del delitto.»

     «Sì, e sostenevate che esso è sempre accompagnato da uno stato di malattia. Molto, molto originale; tuttavia... non è questa parte del vostro articoletto che mi ha interessato, bensì un'idea che vien fuori alla fine, e che voi, purtroppo, avete sviluppato soltanto per allusioni, in modo non esplicito... In una parola, se ben ricordate, si allude al fatto che al mondo esistono certi individui i quali possono... cioè, non è che possano soltanto, ma hanno pieno diritto di compiere ogni specie di iniquità e di delitti, e la legge, per loro, è come se non fosse mai stata scritta.»

     Raskòlnikov sorrise a quella voluta deformazione del suo pensiero.

     «Come? Ma che dite? Diritto al delitto? Forse perché ‹l'ambiente corrompe›?» s'informo Razumìchin addirittura sgomento.

     «No, no, non proprio per questo,» rispose Porfìrij. «Nel suo articolo tutto sta nel fatto che gli uomini si dividono in ‹ordinari› e ‹straordinari›. Quelli ordinari devono vivere nell'obbedienza e non hanno diritto di violare la legge perché essi, vedete un po', sono appunto ordinari. Quelli straordinari, invece, hanno il diritto di compiere delitti d'ogni specie e di violare in tutti i modi la legge, per il semplice fatto d'essere straordinari. È questo che voi dite, se non mi sbaglio?»

     «Come sarebbe? Non può essere!» borbottava Razumìchin interdetto.

     Raskòlnikov sorrise di nuovo. Aveva capito subito come stavano le cose e dove volevano portarlo; e ricordava il suo articolo. Decise di accettare la sfida.

     «Quel che dice il mio articolo non è precisamente questo,» prese a dire in tono semplice e modesto. «D'altronde, riconosco che ne avete esposto il contenuto quasi fedelmente e perfino, se volete, del tutto fedelmente...» era come se gli facesse piacere ammettere quest'ultima possibilità. «L'unica differenza è che io non sostengo affatto che gli uomini straordinari debbano necessariamente o siano costretti a compiere iniquità d'ogni specie, come voi dite. Fra l'altro, credo che un articolo del genere non l'avrebbero nemmeno lasciato pubblicare. Io ho semplicemente formulato l'ipotesi che un uomo ‹straordinario› abbia il diritto... non un diritto ufficiale, beninteso... di permettere alla propria coscienza di scavalcare certi... certi ostacoli, e ciò esclusivamente nel caso in cui l'esecuzione di un suo progetto (talvolta, magari, salutare per l'intera umanità) lo richieda. Voi avete detto che il mio articolo è poco esplicito; sono pronto a chiarirvelo per quanto posso. Forse non sbaglio nel supporre che è appunto ciò che desiderate. Bene, ecco qua.

     Secondo me, se per un insieme di circostanze le scoperte di Keplero o di Newton non avessero potuto esser rese note agli uomini se non mediante il sacrificio della vita di una, dieci, cento o più persone, che a tali scoperte si fossero opposte o che, comunque, fossero state di ostacolo sul loro cammino, ebbene, essi avrebbero avuto il diritto, e perfino il dovere... di eliminare queste dieci o cento persone, per far conoscere le loro scoperte a tutta l'umanità. Da ciò, tuttavia, non deriva che Newton avesse il diritto di uccidere chiunque gli fosse saltato in mente di uccidere, a destra e a sinistra, o di rubare ogni giorno al mercato. Più avanti nel mio articolo, a quel che ricordo, io formulo l'idea che tutti... be', diciamo, se non altro i legislatori e i fondatori della società umana, a partire dai più antichi sino ai vari Licurgo, Solone, Maometto, Napoleone e via discorrendo, tutti sino all'ultimo siano stati dei delinquenti, già per il semplice fatto che ponendo una nuova legge, per ciò stesso infrangevano la legge antica, venerata dalla società e trasmessa dai padri; inoltre, certamente non si arrestarono nemmeno dinanzi al sangue, quando il sangue (talora del tutto innocente, e valorosamente versato in difesa della legge antica) poté essere loro d'aiuto. Vale anzi la pena di osservare che la maggior parte di questi benefattori e fondatori della società umana furono dei terribili spargitori di sangue. Insomma, io dimostro che tutti gli uomini, e non solamente i grandi, ma anche quelli che escono sia pur di poco dalla comune carreggiata, che sono cioè, in qualche misura, capaci di dire qualcosa di nuovo, devono immancabilmente, per la loro stessa natura, essere (più o meno, s'intende) dei criminali. Altrimenti sarebbe loro difficile uscire dalla carreggiata, nella quale non possono acconsentire a rimanere non solo a causa della loro natura, ma anche, secondo me, per senso del dovere. In una parola, vedete da voi che sin qui non c'è davvero nulla di particolarmente nuovo. Tutte cose già stampate e lette infinite volte. Quanto poi alla mia divisione degli uomini in ordinari e straordinari, devo ammettere che è un po' arbitraria: ma non è che io insista su una delimitazione precisa. Mi limito a credere nella mia idea fondamentale; cioè appunto che gli uomini, per legge di natura, generalmente si dividono in due categorie: una inferiore che è quella degli uomini ordinari, cioè, per così dire, materiale che serve unicamente a procreare altri individui simili, e un'altra che è quella degli uomini veri e propri, i quali, cioè, hanno il dono o il talento di dire, in seno al loro ambiente, una parola nuova. Esistono, si capisce, infinite sfumature, ma i tratti caratteristici delle due categorie sono abbastanza netti: la prima categoria, vale a dire il ‹materiale›, è composta in linea di massima da persone per loro natura conservatrici e per bene, che vivono nell'obbedienza e amano obbedire. Secondome, costoro hanno anche il dovere di essere obbedienti, perché questo è il loro compito e non v'è in esso assolutamente nulla di umiliante per loro. Quelli della seconda categoria, invece, violano tutti la legge, sono dei distruttori, o per lo meno sono portati ad esserlo, a seconda delle loro attitudini. I delitti di questi uomini, naturalmente, sono relativi e assai disparati; per lo più essi chiedono, con le formule più svariate, la distruzione del presente in nome di qualcosa di meglio. Ma se a uno di loro occorre, per realizzare la sua idea, passare anche sopra un cadavere, sopra il sangue, secondo me egli, nel suo intimo, in coscienza, può permettersi di farlo: ciò, notate bene, a seconda anche dell'idea e della sua importanza. Ed è soltanto in questo senso che nel mio articolo io parlo di un loro diritto a delinquere. (Se ben ricordate, eravamo partiti da una questione giuridica.) Del resto, non è il caso di allarmarsi troppo: quasi mai la massa riconosce loro questo diritto, ma dal più al meno li fa giustiziare e impiccare, e con ciò assolve in modo perfettamente giusto la propria missione conservatrice. Senonché, poi, nelle generazioni seguenti questa stessa massa colloca i giustiziati sul piedistallo e, dal più al meno, li venera, i secondi fanno avanzare il mondo e lo guidano verso la meta. Sia gli uni sia gli altri hanno uguale diritto ad esistere. Insomma nel mio scritto tutti hanno un equivalente diritto... e vive la guerre éternelle - fino alla Nuova Gerusalemme, s'intende!»

Alla conclusione di questo discorso, Porfiri pone un altro problema:

«Grazie. Ma ditemi ancora: come distinguere questi individui straordinari da quelli ordinari? Hanno forse qualche segno speciale fin dalla nascita? Lo chiedo perché mi sembra che ci vorrebbe, qui, un po' più di precisione, una maggiore differenziazione esplicita... Perdonate le mie naturali preoccupazioni di uomo pratico e benpensante, ma non si potrebbe introdurre, per esempio, un abbigliamento speciale, o qualcosa da portare addosso, un marchio o che so io?... Perché, dovete ammetterlo, se si verificasse qualche confusione e un individuo di una categoria immaginasse di appartenere a un'altra, e cominciasse a ‹scavalcare tutti gli ostacoli›, secondo la vostra felice espressione, allora voi capite che...»

     «Oh, ma questo accade spessissimo! La vostra osservazione è persino più acuta della precedente...»

     «Grazie...»

     «Non c'è di che; ma tenete conto che un errore è possibile solo da parte degli appartenenti alla prima categoria, quella degli uomini ‹ordinari›, come - forse molto infelicemente - li ho chiamati. Nonostante la loro innata inclinazione all'obbedienza, a molti di loro, per una certa capricciosità della natura, che non è negata nemmeno a una mucca, piace immaginare d'essere degli uomini d'avanguardia, dei ‹distruttori›, e proclamare il ‹nuovo verbo›, e ciò in perfetta buonafede. Per contro, molto sovente essi stessi non si accorgono degli uomini nuovi, e perfino li disprezzano, considerandoli dei retrogradi, dei tipi che ragionano in maniera bassa. Tuttavia, secondo me, qui non si corre nessun particolare pericolo, e probabilmente non avete nulla di cui preoccuparvi, perché costoro non si spingono mai lontano. Per queste loro infatuazioni, certo, gli si può dare un paio di sculacciate di tanto in tanto per tenerli al loro posto, ma niente di più; e non c'è nemmeno bisogno di un esecutore: essi si sculacciano da soli, perché sono di ottima indole; alcuni si rendono questo servizio a vicenda, altri si sculacciano con le proprie mani... infliggendosi penitenze pubbliche di varia specie; cosa assai bella a vedersi e anche edificante... Insomma, non avete proprio di che preoccuparvi... esiste una legge siffatta.»

     «Be', per lo meno da questo lato mi avete abbastanza tranquillizzato. Però c'è un altro guaio: ditemi, per favore questi individui che hanno il diritto di tagliare la testa agli altri, questi uomini ‹straordinari›, sono numerosi? Io, certo, sono disposto a inchinarmi davanti a loro, ma dovete ammettere che sarebbe allarmante se fossero molto numerosi, non vi pare?»

     «Oh, non dovete preoccuparvi nemmeno di questo,» seguitò Raskòlnikov nello stesso tono. «In generale, di individui che pensino in modo nuovo, anzi che siano appena appena capaci di dire qualcosa di nuovo, ne nascono pochissimi, non so per quale strana ragione. Di sicuro c'è solo che le proporzioni secondo le quali vengono procreati gli individui di tutte queste categorie e suddivisioni, devono essere stabilite con grande precisione e sicurezza da qualche legge della natura. Oggi come oggi questa legge, naturalmente, è sconosciuta, ma sono certo che esiste e che in seguito, forse, verremo a conoscerla. L'enorme massa degli uomini il ‹materiale›, esiste esclusivamente per riuscire alla fine, mediante qualche sforzo, qualche processo ancora misterioso, tramite qualche incrocio di specie e di razze, a mettere finalmente al mondo un uomo - uno solo su mille, magari - dotato di uno spirito indipendente. Mentre di uomini dotati di uno spirito indipendente in grado ancor più elevato ne nascono forse, uno su diecimila (parlo per approssimazione, si capisce). E in grado più elevato ancora, uno su centomila... Di uomini geniali, poi, ce n'è uno su tanti milioni; e di grandi geni, che sono il coronamento dell'umanità, ne nasce forse uno dopo che molte migliaia di milioni di uomini sono passati sulla terra. Insomma, nella grande matrice in cui tutto ciò avviene, io non ci ho guardato; ma c'è senz'altro una legge precisa; deve esserci; non può esser questione di semplice caso.»”

Raskòlnikov dà voce ad idee che evidentemente circolavano in Europa e in Russia all’epoca. Chi conosce Nietzsche sa in quale misura egli si è assunto l’onore di dare ad esse dignità filosofica, di trasformarle in una teoria della natura e dell’evoluzione della specie umana. Può facilmente anche capire i motivi per cui Nietzsche ammirava tanto Dostoevskij, pur rendendosi conto che questi, nella loro sostanza, non le condivideva affatto.

Nella trama ideologica esposta da Raskòlnikov, si danno alcune verità portate ad estreme conseguenze, che sono inaccettabili.

Non si dà ovviamente nessuna prova che gli esseri ordinari, “normali”, siano funzionali solo a promuovere la nascita di esseri iperdotati o geniali, il cui destino è di guidare l’umanità verso una Nuova Gerusalemme, vale a dire verso una Nuova Umanità affrancata definitivamente da qualunque mediocrità.

E’ vero, però, che ogni società, nella misura in cui ha bisogno di mantenere la propria identità e coesione assolutizzando valori culturali relativi, prodotti dalle circostanze storiche, che vengono vissuti come assoluti e onorati dalle persone normali, ha bisogno anche di una quota minoritaria di persone che, anziché limitarsi ad adattarsi al mondo com’è, esplorino anche mondi e modi di essere possibili più ricchi, integrati e qualitativamente migliori di quelli esistenti. Solo in virtù di questa quota di persone, si realizza il cambiamento e lo sviluppo culturale, e le potenzialità umane vengono utilizzate scorrendo entro canali che, successivamente, possono venire a far parte del senso comune.

Che questi esploratori dei mondi possibili, nella misura in cui, esplicitamente o implicitamente, contestano il mondo reale, possano o debbano pagare dei prezzi, è inevitabile. Che essi debbano talora far soffrire gli altri, attaccando, scuotendo e demistificando le loro certezze, per risvegliarli dalla mediocrità in cui sono immersi, è, se non inevitabile, senz’altro possibile. Che il cambiamento culturale debba avvenire al prezzo del sangue e del sacrificio di esseri umani, è, invece, tutt’altro che inevitabile: è, anzi, un’aberrazione che sovrappone ad un’umanità che deve pur sempre fare il suo mestiere un fine che la trascende, non si sa bene in nome di che.

E’ superfluo rilevare che, alla quota degli esploratori dei mondi possibili, sono appartenuti e appartengono un numero rilevante di soggetti introversi.