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Arthur Schopenhauer

Il mondo come volontà
 e rappresentazione


 

Tomo II


Indice generale

LIBRO TERZO


IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE    

SECONDA CONSIDERAZIONE


La rappresentazione, indipendente dal principio di ragione: l'idea platonica: l'oggetto dell'arte.    

LIBRO QUARTO


IL MONDO COME VOLONTÀ    

SECONDA CONSIDERAZIONE


Affermazione e negazione della volontà di vivere, dopo raggiunta la conoscenza di sé.    

Tomo secondo


LIBRO TERZO


IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE

SECONDA CONSIDERAZIONE


La rappresentazione, indipendente dal principio di ragione: l'idea platonica: l'oggetto dell'arte.

Τί τὸ ὂν μὲν ἀεὶ, γένεσιν δὲ οὐκ ἔχον; χαὶ τί τὸ γιγνύμενον μὲν χαὶ ἀπολλύμενον, ὄντως δὲ οὐδέπυτε ὄν;
ΠΛΔΤΩΝ

§ 30.
Dopo aver nel primo libro considerato il mondo come pura rappresentazione, come oggetto per un soggetto, nel secondo libro l'abbiamo guardato dall'altra sua faccia, trovando che questa è volontà, e risultò che il mondo, oltre all'esser rappresentazione, non è altro che volontà. In virtù di tale conoscenza, il mondo come rappresentazione l’abbiam definito, sia nel complesso che nelle sue parti, oggettità della volontà: ciò che viene quindi a significare la volontà fatta oggetto, ossia rappresentazione. Ricordiamoci inoltre che codesta oggettivazione della volontà aveva molti gradi, ma determinati: attraverso i quali, con chiarezza e compiutezza di grado in grado più alta, veniva l'essenza della volontà ad entrar nella rappresentazione, ossia a presentarsi come oggetto. In codesti gradi abbiamo già nel secondo libro riconosciuto le idee di Platone, in quanto essi gradi sono appunto le specie determinate, o le originarie, immutabili forme e proprietà di tutti i corpi naturali, sia inorganici che organici; come anche sono le forze universali manifestantisi secondo leggi di natura. Tali idee in complesso si presentano adunque in individui e fenomeni singoli innumerevoli, stando di fronte ad essi come modelli di fronte alle copie. La molteplicità di codesti individui può esser rappresentata solo mediante tempo e spazio; il loro nascere e perire solo mediante causalità: nelle quali forme tutte noi non vediamo se non differenti modi del principio di ragione, che è il principio ultimo di ogni cosa finita, di ogni individuazione, nonché la general forma della rappresentazione, com'essa penetra nella conoscenza dell'individuo in quanto individuo. L'idea invece non rientra in quel principio: non le tocca quindi né molteplicità né mutamento. Mentre gl'individui, nei quali ella si presenta, sono innumerevoli, e nascono e muoiono senza posa, ella resta immutata, sempre una ed identica, né il principio di ragione ha valore per lei. Ma poi che questo è la forma, a cui va sottomessa tutta la conoscenza del soggetto, in quanto esso conosce come individuo, vengono anche le idee a trovarsi affatto fuori della sfera di conoscenza dell'individuo in quanto individuo. Se quindi si vuol che le idee diventino oggetto della conoscenza, questo può accadere solo col sopprimere l'individualità nel soggetto conoscente. Più precisi ed ampii chiarimenti di ciò saranno materia della trattazione che segue.

§ 31.

Ma, prima di tutto, ancora una considerazione essenziale. Spero mi sia riuscito nel libro precedente di generare la persuasione che la cosa in sé della filosofia kantiana – la quale vi si presenta come una dottrina di gran peso, ma oscura e paradossale, sì che, soprattutto per il modo con cui Kant l'introduce, ossia mediante la deduzione dal causato alla causa, apparve come una pietra d'inciampo, anzi come il lato debole della sua filosofia – non è altro che la volontà, quando a tal riconoscimento si pervenga per la via affatto diversa da noi seguita; volontà, nella sfera di questo concetto allargata e precisata al modo suesposto. Spero inoltre che, in virtù di quanto ho detto, non si troverà ostacolo a riconoscere nei determinati gradi dell'oggettivazione di quella volontà, costituente l'in-sé del mondo, ciò che Platone chiamava le idee eterne, ossia le forme immutabili (ειδη), le quali, riconosciute come il primo ma anche come il più oscuro e paradossale dogma della sua dottrina, sono state per una serie di secoli oggetto di meditazione, di contesa, di beffa e di venerazione da parte di tanti cervelli così vanamente intonati.

Se adunque per noi la volontà è la cosa in sé, e l'idea è invece la diretta oggettità di quella volontà in un grado determinato, veniamo a trovare che la cosa in sé di Kant e l'idea di Platone, la quale per lui è l'unico οντως ον – questi due grandi oscuri paradossi dei due maggiori filosofi dell'Occidente –, pur non essendo del tutto identici, sono nondimeno strettamente affini, e distinti per una sola determinazione. I due grandi paradossi sono addirittura – appunto pel fatto di suonar in modo tanto diverso, malgrado la loro intima concordanza e parentela, a causa della straordinaria differenza tra le individualità dei loro autori – il miglior commento reciproco l'uno dell'altro, rassomigliando a due strade affatto diverse, che pur conducono ad una mèta. Questo si può chiarire con poco. Kant dice, nella sostanza, quanto segue: «Tempo, spazio e causalità non sono determinazioni della cosa in sé; bensì appartengono solamente al suo fenomeno, non altro essendo se non forme della nostra conoscenza. Ma poiché ogni pluralità ed ogni principio e fine è possibile sol mediante tempo, spazio e causalità, ne deriva che anche pluralità, principio e fine si riferiscono esclusivamente al fenomeno, e non mai alla cosa in sé. Ed essendo la nostra conoscenza sotto condizione di quelle forme, ne viene che l'esperienza tutta intera è semplice conoscimento del fenomeno, e non della cosa in sé: quindi non possono le sue leggi aver valore per la cosa in sé. Ciò s'estende perfino al nostro proprio io, che noi conosciamo soltanto come fenomeno, e non quale può essere in se stesso». Questo è, sotto l'importante rispetto qui preso a esaminare, il significato e il contenuto della dottrina kantiana. Platone invece dice: «Le cose di questo mondo, che i nostri sensi percepiscono, non hanno nessuna vera consistenza: esse divengono sempre, ma non sono mai: hanno un'esistenza appena relativa, esistono soltanto nel loro reciproco rapporto e per il loro reciproco rapporto: tutto il loro essere può così chiamarsi con egual ragione un non-essere. Non sono quindi neppure oggetto di una vera e propria conoscenza (επιστημη); potendosi aver conoscenza solo di ciò che esiste in sé e per sé; e sempre nello stesso modo: mentre esse non sono se non l'oggetto di un'opinione provocata per mezzo di sensazione (δοξα μετ' αισθησεως αλογου). Fin quando restiamo vincolati alla loro percezione, rassomigliando a uomini i quali stiano in una oscura caverna, così strettamente legati da non poter nemmeno volgere il capo; i quali null'altro vedano, alla luce di un fuoco acceso dietro di loro, se non le ombre, riflesse sulla parete di contro, di oggetti reali fatti passare tra loro medesimi ed il fuoco; ed anche di se stesso o dei compagni ciascuno veda soltanto l'ombra su quella parete. Tutta la loro sapienza starebbe nel predire l'ordine di successione, appreso per esperienza, di quelle ombre. Ciò che invece può esser chiamato un vero essere (οντως ον), perché sempre è ma non mai comincia né finisce, sono le cause reali di quelle ombre: sono le eterne idee, le forme prime di tutte le cose. Quelle non hanno pluralità: perché ciascuna è, per essenza, unica; essendo ella il prototipo, del quale sono riproduzioni oppure ombre tutte le omonime, singole, periture cose. Né tocca loro un principio o una fine; poi che esse veramente sono, e non cominciano e non finiscono come i loro evanescenti riflessi. (In entrambe queste determinazioni negative è di necessità sottintesa la premessa, che tempo spazio e causalità non abbiano per le idee significato né valore, e che le idee non stiano entro cotali forme). Delle idee soltanto si ha quindi vera e propria conoscenza, potendo di questa essere oggetto solo ciò che perennemente e sotto ogni aspetto (quindi in sé) è; non ciò che ora è, ora non è, secondo il punto da cui lo si considera». Questa è la dottrina di Platone. Risulta evidente, e non richiede ulteriore spiegazione, che l'intimo senso delle due dottrine è identico; che l'una e l'altra tiene il mondo visibile per un'apparenza, la quale è in sé nulla, ed acquista significato e realtà riflessa solo da ciò che in lei si esprime (per Kant la cosa in: sé, per Platone l'idea). Ed a questa unica verace essenza sono affatto estranee, secondo entrambe le dottrine, tutte le forme dei fenomeni, anche le più universali e sostanziali. Per negare codeste forme, Kant le ha direttamente assunte in espressioni astratte: e, senz'altro, tempo spazio e causalità ha riconosciuto non appartenenti alla cosa in sé, quali semplici forme dei fenomeni: Platone invece non è pervenuto fino all'ultima espressione, e le sue idee ha solo in modo indiretto mostrate prive di quelle forme, negando loro ciò che unicamente per mezzo delle forme stesse diventa possibile, ossia pluralità dell'identico, nascita e morte. Ma per abbondare voglio ancora rendere evidente con un esempio quella singolare e importante concordanza. Stia davanti a noi un animale, in piena attività di vita. Platone dirà: «Questo animale non ha alcuna esistenza effettiva, bensì solo apparente: un perpetuo divenire, una esistenza relativa, la quale può esser chiamata tanto un non-essere, quanto un essere. Effettiva esistenza ha soltanto l'idea, che in quell'animale si riproduce, ossia l'animale in se stesso (αυτο το θηριον), il quale da nulla dipendente esiste solo in sé e per sé (θαθ' ἑαυτο, αει ὡς αυτως), non è nato, non morirà, sempre ad un modo sarà (αει ον, χαὶ μηδεποτε ουγε απολλυμενον). Fin quando adunque riconosciamo in questo animale la sua idea, è affatto indifferente e senza importanza, se noi abbiamo davanti questo animale d'adesso o un suo progenitore vissuto or sono mille anni; e così se esso sia qui o in una terra lontana; e se si mostri in questa o quella maniera, posizione o azione; e se infine sia esso o qualunque altro individuo della sua specie: tutto ciò non ha peso, e riguarda il solo fenomeno, mentre l'idea dell'animale unicamente ha effettiva esistenza ed è oggetto di verace conoscimento». Così Platone. Kant dirà su per giù: «Questo animale è un fenomeno nel tempo, nello spazio e nella causalità, che sono tutte condizioni a priori dell'esperienza possibile giacenti nella nostra facoltà conoscitiva, non già determinazioni della cosa in sé. Perciò quest'animale, sì come noi lo vediamo in un tempo determinato, in un dato luogo, quale individuo formatosi nella connessione dell'esperienza, ossia nella catena di causa ed effetto, e necessariamente perituro, non è punto cosa in sé, ma soltanto un fenomeno che non vige se non in modo relativo alla nostra conoscenza. Per conoscer ciò che l'animale può essere in se medesimo, e quindi indipendentemente da tutte le determinazioni riferentisi al tempo, allo spazio e alla causalità, si richiederebbe un modo di conoscenza diverso da quell'unico a noi reso possibile dai sensi e dall'intelletto».

Per avvicinare ancor più la formula kantiana alla platonica, si potrebbe anche dire: tempo, spazio e causalità sono quella disposizione del nostro intelletto, in grazia della quale l'unico essere di ogni specie che effettivamente esiste ci si presenta come una pluralità di individui della specie medesima, sempre da capo nascenti e morienti, in successione infinita. La percezione delle cose per mezzo e in conformità della suddetta disposizione è l'immanente; mentre quella, che si rende consapevole del come sta veramente la cosa, è la trascendentale. Questa la si riceve in abstracto mediante la critica della ragion pura: ma in via d'eccezione può anche stabilirsi intuitivamente. Quest'ultima affermazione è una mia aggiunta, che per l'appunto mi occupo di spiegare nel presente terzo libro.

Se si fosse mai davvero intesa e afferrata la dottrina di Kant, e, da Kant in qua, capito Platone; se si avesse con fedeltà e serietà meditato l'intimo senso e contenuto delle dottrine di questi due grandi maestri, invece di far sproloqui coi termini tecnici dell'uno e parodiare lo stile dell'altro, non si sarebbe potuto mancar di scoprire da gran tempo quanto concordino i due grandi sapienti, e come il significato puro, l'indirizzo ultimo delle due dottrine sia proprio il medesimo. E così non pure non si sarebbe ostinatamente confrontato Platone con Leibniz, col quale il suo genio non s'accorda in nessun modo, e tanto meno con un noto signore ancor vivente1, quasi per dileggiare i Mani del grande pensatore antico; ma sotto ogni rispetto saremmo assai più progrediti di quanto siamo, o piuttosto non saremmo così ignominiosamente retrocessi, come è accaduto in questi ultimi quarant'anni; non ci si sarebbe lasciati tirar pel naso oggi da un ciarlatano, domani da un altro, né questo secolo XIX, annunziantesi così significante, avremmo inaugurato in Germania con filosofiche farse recitate sulla tomba di Kant (come talora gli antichi ai funerali dei loro), fra il giusto dileggio d'altre nazioni – perché ai gravi e perfino rigidi tedeschi scherzi siffatti si convengono meno che a ogni altro. Ma così ristretto è il vero e proprio pubblico degno dei filosofi genuini, che perfino i discepoli atti a comprenderli sono loro parcamente condotti dai secoli.

Εισι δη ναρθηκοφοροι μεν πολλοι, Βακχοι δε γε παυροι. (Thyrsigeri quidem multi, Bacchi vero pauci). Ἡ ατιμια φιλοσοφια̣ δια ταυτα προσπεπτωκεν, ότι ον κατ’ αξιαν αυτης άπτονται’ ου γαρ νοθους, εδει άπτεσθαι, αλλα γνησιους. (Eam ob rem philosophia in infamiam incidit, quod non pro dignitate ipsa attingunt: neque enim a spuriis, sed a legitimis erat attractanda). Plat.

Si andò dietro alle parole, alle parole: «rappresentazioni a priori, indipendentemente dall'esperienza consapute forme dell'intuire e del pensare, concetti primi del puro intelletto», etc. – e ci si chiese poi se le idee di Platone, le quali anche vogliono essere concetti originarii e per di più ricordi di un'intuizione delle cose davvero reali, anteriore alla vita, non forse coincidessero con le forme kantiane dell'intuire e del pensare, le quali stanno a priori nella nostra conscienza. Queste due affatto eterogenee dottrine – la dottrina kantiana delle forme, che limitano al fenomeno la conoscenza individuale, e la dottrina platonica delle idee, la cui conoscenza per l'appunto nega espressamente quelle forme – queste dottrine sotto un tal rispetto diametralmente opposte si confrontarono attentamente, perché esse nelle loro espressioni un poco vengono a rassomigliarsi. E si tenne consiglio, e ci si accapigliò sulla loro coincidenza, e si trovò alla fine, che non erano la stessa cosa; e si concluse, che la teoria platonica delle idee e la critica kantiana della ragione non avessero nessun punto di contatto2. Ma basti di ciò.

§ 32.

Per le considerazioni fatte finora, malgrado tutto l'intimo accordo fra Kant e Platone, e l'identità della mèta che ad essi traluceva, o della concezione del mondo la quale li mosse e guidò al filosofare, non sono tuttavia identiche per noi l'idea e la cosa in sé; piuttosto è per noi l'idea solo immediata e quindi adeguata oggettità della cosa in sé, la quale ultima è tuttavia la volontà; la volontà, in quanto non è ancora oggettivata, non ancora è divenuta rappresentazione. Imperocché la cosa in sé deve, appunto secondo Kant, esser sciolta da tutte le forme inerenti al conoscere in quanto tale: ed è soltanto (come sarà mostrato nell'appendice) un errore di Kant il non aver noverato tra codeste forme, primo di tutte, l'essere-oggetto-per-un-soggetto, essendo proprio questa la prima e più universal forma d'ogni fenomeno, ossia rappresentazione. Alla sua cosa in sé avrebbe egli dunque dovuto espressamente toglier la qualità d'essere oggetto; ciò che l'avrebbe salvato da quella grande, subito scoperta inconseguenza. L'idea platonica invece è per necessità oggetto, un che di conosciuto, una rappresentazione: e appunto perciò, ma anche solo perciò, distinto dalla cosa in sé. Ella ha semplicemente deposto le subordinate forme del fenomeno, le quali tutte noi comprendiamo sotto il principio di ragione, o meglio non ancora è in quelle penetrata; ma la prima e più universal forma ha ella mantenuto, ossia quella di rappresentazione, d'essere oggetto per un soggetto. Sono le forme a questa subordinate, che moltiplicano le idee in singoli ed effimeri individui, de' quali il numero è affatto indifferente rispetto all'idea. Il principio di ragione è adunque ancora la forma in cui s'adagia l'idea, entrando nella conoscenza del soggetto in quanto individuo. Il singolo oggetto manifestantesi in conformità del principio di ragione è quindi soltanto una mediata oggettivazione della cosa in sé (che è la volontà), tra la qual cosa in sé ed esso oggetto sta ancora l'idea come unica immediata oggettità della volontà, non avendo ella preso alcun'altra forma propria del conoscere in quanto tale, se non quella generica della rappresentazione, ossia dell'essere oggetto per un soggetto. Quindi ella sola è anche l'adeguata oggettità della volontà o cosa in sé, anzi è proprio la cosa in sé, ma soltanto in forma di rappresentazione: e qui sta la base della grande concordanza tra Platone e Kant – per quanto, a tutto rigore, la cosa di cui parlano non sia la medesima. I singoli oggetti invece non son punto oggettità adeguata della volontà; bensì questa vi è già intorbidata da quelle forme di cui è espressione comune il principio di ragione, e che sono condizione della conoscenza nel modo in cui questa è possibile all'individuo come tale. Noi invero, se è lecito trarre deduzione da una possibile premessa, non conosceremmo più né singoli oggetti, né casi, né mutamenti, né pluralità; ma solamente idee, solamente i gradi nella scala dell'oggettivazione di quell'una volontà della verace cosa in sé coglieremmo in pura, non disturbata conoscenza, e sarebbe quindi il nostro mondo un Nunc stans; se come soggetti del conoscere non fossimo in pari tempo individui, ossia se la nostra intuizione non avesse per intermediario un corpo, dalle cui affezioni ella muove, ed il quale è anch'esso soltanto volontà concreta, oggettità della volontà, ossia oggetto tra oggetti; e come tale, può entrare nella conscienza conoscente solo nelle forme del principio di ragione, sì che già presuppone e quindi introduce il tempo con tutte le altre forme che quel principio esprime. Il tempo è semplicemente l'immagine divisa e spezzettata, che un essere individuo ha delle idee, le quali stanno fuori del tempo, e sono quindi eterne: perciò dice Platone essere il tempo una mossa immagine dell'eternità: αιωνος εικων κινητη ὁ χρονος3

§ 33.

Poiché noi adunque come individui non abbiamo conoscenza se non sottomessa al principio di ragione, e questa forma esclude la conoscenza delle idee, certo è che quando sia a noi possibile sollevarci dalla conoscenza delle singole cose a quella delle idee, ciò può aversi solo accadendo nel soggetto una mutazione corrispondente ed analoga a quel gran cambiamento nel modo d'essere dell'oggetto; per la quale il soggetto, in quanto conosce un'idea, non è più individuo.

Ci sovviene dal precedente libro, che il conoscere in genere appartiene esso medesimo alla oggettivazione della volontà nel suo grado più alto; e la sensibilità, i nervi, il cervello non sono appunto, come altre parti dell'essere organico, se non espressione della volontà in questo grado della sua oggettità. Quindi la rappresentazione sorta per loro mezzo è anch'essa parimenti destinata al servizio di quella, come un mezzo (μηκανη) pel conseguimento dei suoi fini fattisi complicati (πολυτελεστερα), per la conservazione di un essere avente molteplici bisogni. In origine adunque e per natura è la conoscenza in tutto al servizio della volontà; e come l'oggetto immediato, che diviene suo punto di partenza mediante l'applicazione della legge di causalità, non è se non volontà oggettivata, così rimane anche ogni conoscenza informata al principio di ragione in un più stretto o più largo rapporto con la volontà. Imperocché l'individuo trova che il suo corpo è un oggetto fra oggetti, coi quali tutti il corpo stesso ha svariate relazioni e riferimenti, secondo il principio di ragione; sì che la considerazione di quegli oggetti riconduce pur sempre, in via diretta o indiretta, al proprio corpo, ossia alla propria volontà. Essendo il principio di ragione quello che pone gli oggetti in codesto rapporto con il corpo e quindi con la volontà, deve la conoscenza che alla volontà è serva essere perciò rivolta unicamente a conoscer degli oggetti appunto i rapporti stabiliti secondo il principio di ragione, ossia a tener dietro alle loro svariate relazioni nello spazio, nel tempo e nella causalità. Poiché solo in virtù di queste è l'oggetto interessante per l'individuo, ossia ha un rapporto con la volontà. Per conseguenza non altro conosce veramente degli oggetti la conoscenza che sta al servizio della volontà, se non le relazioni loro; e gli oggetti solo in tanto conosce, in quanto essi esistono in un tempo, in un luogo, in date circostanze, in virtù di date cause, con dati effetti – esistono, in una parola, come singoli oggetti. E se fossero tolte via tutte codeste relazioni, svanirebbero insieme per la conoscenza anche gli oggetti, appunto perché questa non conosceva in quelli null'altro. Neppure dobbiamo dissimularci, che quanto considerano le scienze negli oggetti non è sostanzialmente altro se non quel che sopra è detto: cioè le loro relazioni, i rapporti del tempo, dello spazio, le cause dei mutamenti naturali, il confronto delle forme, i motivi dei fatti – ossia semplici relazioni. Ciò che le scienze distingue dalla comune conoscenza è soltanto la lor forma, il carattere sistematico, l'alleviamento del conoscere raggiunto col ridurre ogni caso singolo all'universale, mediante la subordinazione dei concetti, e ottenendo così la piena compiutezza. Ogni relazione ha pur essa un'esistenza solamente relativa: per esempio ogni essere nel tempo è anche un non-essere, perché il tempo per l'appunto non è se non ciò, per cui mezzo possono a un medesimo oggetto toccare determinazioni opposte. Quindi ogni fenomeno nel tempo è e non è: poiché ciò che separa il suo principio dalla sua fine non è se non tempo, ossia alcunché di evanescente, inconsistente e relativo, chiamato in questo caso durata. Eppure il tempo è la più general forma di tutti gli oggetti della conoscenza posta al servizio della volontà, ed il prototipo delle rimanenti forme di quella.

Ora, di regola al servizio della volontà rimane la conoscenza sottomessa ognora, come già per tal servizio ebbe principio; anzi è dalla volontà germinata, come la testa si svolge dal tronco. Presso gli animali codesta sommissione della conoscenza alla volontà non può mai venir meno. Negli uomini può mancare solo in via d'eccezione, come tosto vedremo. Tale differenza tra uomo e bruto viene manifestata esteriormente con la differenza della relazione che in loro passa tra il capo ed il tronco. Negli animali inferiori sono capo e tronco ancora del tutto confusi; in ognuno è il capo rivolto a terra, dove stanno gli oggetti della sua volontà: ed ancor negli animali superiori sono capo e tronco assai più riuniti che nell'uomo, il cui capo appare libero al sommo del tronco, solo da esso portato, non ad esso servendo. Questo umano privilegio presenta nel massimo grado l'Apollo del Belvedere: il lungiattornomirante capo del Dio delle Muse poggia così libero sulle spalle, da apparire in tutto disciolto dal corpo, non più soggetto alle cure corporali.

§ 34.

Il passaggio dalla volgar conoscenza di singoli oggetti alla conoscenza dell'idea – possibile, come ho detto, ma da considerarsi soltanto quale eccezione – avviene d'un subito, pel fatto che la conoscenza si scioglie dal servigio della volontà, e appunto perciò il soggetto cessa di essere semplicemente individuale, diventando soggetto puro della conoscenza, privo di volontà. E questo non tiene più dietro alle relazioni, secondo il principio di ragione, bensì posa in ferma contemplazione dell'oggetto offertogli, e in questa s'immerge.

Ciò richiede di necessità, per esser chiaro, un'ampia spiegazione. A quanto essa avrà di singolare non si badi per ora, finché codesta apparente stranezza non venga a dissiparsi da sé, quando sia stato afferrato nel suo complesso il pensiero che quest'opera vuole comunicare.

Se, sollevati dalla potenza dello spirito, abbandoniamo la maniera usuale di considerar le cose e cessiamo di ricercare secondo gli aspetti del principio di ragione le reciproche relazioni loro, di cui è ultimo termine sempre la relazione con la nostra volontà; se quindi non più si considera il dove, il quando, la causa e la finalità delle cose, ma unicamente ciò che elle sono; se non lasciamo che il pensare astratto, i concetti della ragione s'impadroniscano della conscienza, bensì viceversa tutta la forza dello spirito nostro diamo all'intuizione, in questa ci sprofondiamo, e la conscienza intera lasciamo riempire dalla tranquilla contemplazione dell'oggetto naturale che ci sta innanzi, sia esso un paesaggio, un albero, una roccia, un edifizio o quel che si voglia; allor che – secondo un'espressiva locuzione tedesca – ci si perde appieno in quell'oggetto, ossia si dimentica il proprio individuo, la propria volontà, e si rimane nient'altro che soggetto puro, chiaro specchio dell'oggetto, come se l'oggetto solo esistesse, senza che alcuno fosse là a percepirlo, né più è possibile separare colui che intuisce dall'intuizione stessa, poiché sono diventati tutt'uno, essendo l'intera conscienza riempita e presa da una sola immagine d'intuizione; se adunque in siffatto modo l'oggetto s'è disciolto da ogni relazione con altri oggetti fuor di se stesso, e il soggetto s'è disciolto da ogni relazione con la volontà – allora quel che viene così conosciuto non è più la singola cosa come tale, ma è l'idea, l'eterna forma, la diretta oggettità della volontà in quel grado. E perciò appunto non è più individuo quegli che è assorto in tale intuizione, imperocché proprio l'individualità vi s'è perduta. Egli è invece puro soggetto della conoscenza, fuori della volontà, del dolore, del tempo. Quest'affermazione, ora così ostica (della quale io molto bene so, che conferma il detto di Thomas Paine, du sublime au ridicule il n'y a qu'un pas), apparirà nel seguito di mano in mano più chiara e meno stupefacente. Era la stessa verità che balenava a Spinoza quando scrisse: mens aeterna est, quatenus res sub aeternitatis specie concipit (Eth., V, prop. 31, schol.)4 In siffatta contemplazione accade insieme d'un tratto, che il singolo oggetto diventi idea della propria specie; e l'individuo intuente si faccia puro soggetto del conoscere. L'individuo come tale conosce solo oggetti singoli; il puro soggetto del conoscere, solo idee. Imperocché l'individuo è il soggetto del conoscere nella sua relazione con un determinato, singolo fenomeno della volontà, ed in servizio di esso. Codesto singolo fenomeno della volontà è, in quanto tale, sottomesso al principio di ragione in tutte le sue forme; ogni conoscenza riferentevisi segue perciò anch'essa il principio di ragione, e ai fini della volontà nessuna conoscenza vale se non questa, che per oggetto ha sempre e solamente relazioni. L'individuo conoscente, come tale, e la singola cosa da lui conosciuta sono sempre in qualche luogo, in un dato tempo; sono anelli nella catena delle cause e degli effetti. Il puro soggetto della conoscenza ed il suo correlato – l'idea – sono usciti fuori da tutte quelle forme del principio di ragione: il tempo, il luogo, l'individuo che conosce e l'individuo che viene conosciuto non hanno per essi alcun significato. Non appena un individuo conoscente si eleva nel modo indicato a puro soggetto del conoscere, ed appunto con ciò l'oggetto conosciuto innalza ad idea, si presenta integro e puro il mondo come rappresentazione, e accade la compiuta oggettivazione della volontà, perché soltanto l'idea è sua adeguata oggettità. Questa chiude oggetto e soggetto parimenti in sé, essendo entrambi la sua unica forma: ma in lei oggetto e soggetto mantengono appieno l'equilibrio: e come l'oggetto anche qui non altro è se non la rappresentazione del soggetto, così anche il soggetto – perdendosi tutto nell'oggetto intuito – è diventato quest'oggetto medesimo, in quanto l'intera conscienza non è che la più limpida immagine di esso. Questa conscienza appunto – in quanto tutte le idee, ossia i gradi dell'oggettità della volontà, vengono per suo mezzo percorse ordinatamente col pensiero – costituisce l'intero mondo quale rappresentazione. Le singole cose d'ogni tempo e luogo non sono altro che le idee moltiplicate dal principio di ragione (forma della conoscenza degli individui in quanto tali) e perciò turbate nella lor pura oggettità. Come nel mentre appare l'idea non sono più in lei distinguibili soggetto ed oggetto, perché sol quando l'uno e l'altro reciprocamente si compiono e si penetrano appieno balza fuori l'idea, l'adeguata oggettità della volontà, il vero mondo quale rappresentazione; così sono anche in tale atto indistinguibili, come cose in sé, l'individuo conoscente ed il conosciuto. Perciocché se facciamo astrazione da quel vero e proprio mondo quale rappresentazione nulla rimane, se non il mondo come volontà. La volontà è l'in-sé dell'idea, la quale oggettiva quella compiutamente; la volontà è anche l'in-sé del singolo oggetto e dell'individuo che lo conosce: i quali oggettivano quella incompiutamente. In quanto volontà, fuor della rappresentazione e di tutte le sue forme, essa è una e identica nell'oggetto contemplato e nell'individuo, che innalzandosi a codesta contemplazione diventa conscio di sé come puro soggetto; oggetto e individuo non sono perciò distinti in sé, poi che in sé essi sono la volontà, che quivi conosce se stessa. E pluralità e varietà consistono soltanto nel modo, in cui ella acquista tale conoscenza, ossia soltanto nel fenomeno, in grazia della sua forma, che è il principio di ragione. Come senza l'oggetto, senza la rappresentazione io non sono soggetto conoscente, bensì volontà cieca, così senza di me quale soggetto del conoscere non può la cosa conosciuta essere oggetto, bensì è pura volontà, impulso cieco. Questa volontà è in sé, ossia fuor della rappresentazione, una e identica con la mia; solo nel mondo quale rappresentazione, la cui forma è sempre almeno di soggetto e oggetto, veniamo a scinderci in conosciuto e conoscente individuo. Non appena il conoscere – il mondo quale rappresentazione – è tolto via, non rimane altro se non pura volontà, cieco impulso. Il suo farsi oggettità, il divenir rappresentazione, stabilisce d'un tratto sia soggetto che oggetto. L'essere invece codesta oggettità pura, compiuta, adeguata oggettità della volontà, pone l'oggetto come idea, libero dalle forme del principio di ragione, e il soggetto come puro soggetto della conoscenza, sciolto dall'individualità e dal servizio della volontà.

Ora chi al modo sopra detto si è tanto addentro sprofondato e smarrito nella contemplazione della natura, da non esistere più se non come puro soggetto conoscente, viene con ciò senz'altro a sentire che, in quanto tale, egli è la condizione, egli è che contiene il mondo e ogni esistenza oggettiva; poi che questa non si presenta più d'ora innanzi se non come dipendente dall'esistenza sua. Egli trae adunque dentro a sé la natura, sì da sentirla solo come un accidente dell'esser suo. In questo senso dice Byron:

Are not the mountains, waves and skies, a part
Of me and of my soul, as I of them?5

Ma come potrebbe, chi sente così, se stesso credere del tutto mortale, in contrasto con l'immortale natura? Piuttosto lo afferrerà la coscienza di ciò che l'Upanishad del Veda esprime; «Hae omnes creaturae in totum ego sum, et praeter me aliud ens non est» (Oupnek'hat, I, 122)6.

§ 35.

Per conseguire una più profonda penetrazione nell'essenza del mondo, è assolutamente necessario apprendere a distinguere la volontà quale cosa in sé dalla sua adeguata oggettità; e inoltre i diversi gradi, in cui questa più limpidamente e compiutamente appare – ossia le idee stesse – dal semplice fenomeno delle idee nelle forme del principio di ragione, del circoscritto modo di conoscenza degli individui. Allora si converrà con Platone, dove egli alle idee sole attribuisce un vero e proprio essere, riconoscendo invece agli oggetti nel tempo e nello spazio, a quel che per l'individuo è il mondo reale, una mera esistenza apparente, a mo' di sogno. Allora si comprenderà come l'unica e identica idea si manifesti in così numerosi fenomeni, ed ai conoscenti individui la sua essenza palesi solo in modo frammentario, un aspetto dopo l'altro. Anche si distinguerà allora l'idea in sé dal modo, onde il suo fenomeno si offre all'osservazione dell'individuo: quella riconoscendo essenziale, e questo invece non essenziale. Ma vediamo ciò in esempi, prima minimi e poi massimi. – Quando le nubi trasvolano, le figure ch'esse formano non sono a loro essenziali, sono anzi a loro indifferenti: ma che le nubi, essendo elastico vapore, vengano dall'impeto del vento compresse, cacciate, dilatate, lacerate, questo è natura loro, è l'essenza delle forze, che in loro si oggettivano, è l'idea; mentre i lor mutevoli aspetti esistono soltanto per l'individuale osservatore. – Al rivo, che sui sassi precipita sono i gorghi, le onde, i disegni di spuma, ch'esso fa vedere, sono indifferenti ed inessenziali: ma che il rivo obbedisca alla gravità, e si comporti come liquido non elastico, mobilissimo, privo di forma, trasparente, questa è la sua essenza, questa è – se conosciuta intuitivamente – l'idea; mentre solo per noi, finché noi conosciamo in quanto individui, esistono quelle forme. Il ghiaccio sui vetri delle finestre si cristallizza secondo le leggi della cristallizzazione, le quali rivelano l'essenza della forza naturale quivi manifestantesi, rappresentano l'idea; ma gli alberi e i fiori, che quel ghiaccio raffigura, sono inessenziali ed esistono solo per noi. Ciò che nelle nubi, nel rivo e nel cristallo apparisce, è il più debole riflesso di quella volontà, che più compiuta nella pianta, più ancora nell'animale, compiutissima apparisce nell'uomo. Ma soltanto l'essenziale in tutti quei gradi della sua oggettivazione costituisce l'idea; viceversa lo spiegamento di questa, in quanto ella viene disgregata in fenomeni svariati e multilaterali nelle forme del principio di ragione, non è all'idea stessa essenziale, ma sta soltanto nel modo di conoscenza dell'individuo, e ha unicamente per esso la realtà. Lo stesso vale, necessariamente, anche per lo spiegarsi di quell'idea, che è la più compiuta oggettità della volontà: quindi la storia del genere umano, la folla degli eventi, il mutar dei tempi, i molteplici aspetti della vita umana in paesi e secoli diversi, tutto questo non è se non la forma casuale presa dal fenomeno dell'idea, e non appartiene a questa, nella quale soltanto è l'adeguata oggettità della volontà, bensì al fenomeno che cade nella conoscenza dell'individuo, ed è all'idea tanto estraneo, inessenziale e indifferente quanto sono alle nubi le figure, ch'esse rappresentano, al rivo la forma dei suoi gorghi e delle sue spume, e al ghiaccio i suoi alberi e i suoi fiori.

Per chi ha ben compreso questo, e la volontà sa distinguere dall'idea, e questa dal suo fenomeno, gli eventi del mondo hanno significato non già in sé e per sé, ma solo in quanto essi sono i segni dell'alfabeto, mediante i quali si può leggere l'idea dell'uomo. Quegli non crederà col volgo, che il tempo generi alcunché di veramente nuovo e significante; che per esso o in esso qualcosa di effettivamente reale pervenga ad esistere; o che il tempo medesimo abbia, come un tutto, principio e fine, norma e sviluppo, e per avventura tenda, quasi ad estremo termine, al massimo perfezionamento (come il volgo pensa) del genere ultimo venuto e vivente trent'anni. Perciò tanto sarà lontano dall'istituire con Omero tutto un Olimpo pieno di Dèi a guida di quegli eventi temporali, quanto dal tener con Ossian le forme delle nubi per esseri individuali; poiché, come s'è detto, l'una e l'altra cosa ha l'identica significazione, in rapporto all'idea che vi si manifesta. Negli svariati aspetti della vita umana e nella perenne vicenda degli eventi, egli terrà come immutabile ed essenziale soltanto l'idea; nella quale la volontà di vivere trova la sua più compiuta oggettità, e tutti i suoi vari aspetti mostra nelle qualità, nelle passioni, negli errori e nei meriti dell'uman genere – egoismo, odio, amore, paura, audacia, leggerezza, ottusità, astuzia, spirito, genio, etc. – che concorrendo ad incorporarsi in forme (individui) svariatissime, perennemente fanno agire la grande e la piccola storia del mondo. E in ciò è per sé indifferente se codesta storia sia messa in moto da un nonnulla o da corone. Quegli troverà infine, che accade nel mondo come nei drammi di Gozzi, nei quali agiscono sempre gli stessi personaggi, con la stessa intenzione e lo stesso destino: sono bensì diversi in ogni dramma i motivi e gli avvenimenti, ma degli avvenimenti è uno lo spirito. I personaggi d'un dramma nulla sanno di quanto è accaduto in un altro, nel quale tuttavia agivano anch'essi: quindi, malgrado tutte le esperienze dei drammi precedenti, Pantalone non diviene più destro e più generoso, Tartaglia più onesto, Brighella più audace e Colombina più costumata.

Posto che fosse a noi concesso gettare un limpido sguardo sul regno della possibilità e su tutte le concatenazioni di cause e di effetti, balzerebbe fuori lo spirito della terra e ci mostrerebbe in un quadro i più eminenti individui, luci del mondo, eroi, che il caso ha distrutto prima che venisse il tempo della loro azione – poi i grandi eventi, che avrebbero mutato la storia del mondo e generato periodi di altissima e illuminata cultura, se non li avesse soffocati nel nascere il più cieco accidente, il caso più insignificante; e infine le magnifiche forze di grandi individui, che avrebbero potuto fecondare tutta un'era del mondo, ma che sviati da errore o da passione, o costretti da necessità, quelle forze sterilmente dissiparono in oggetti indegni e infruttiferi, o addirittura sprecarono come in un giuoco. Se tutto questo vedessimo, avremmo da rabbrividire e da gemere pei tesori perduti d'intere epoche del mondo. Ma lo spirito della terra sorriderebbe, dicendo: «La fonte, dalla quale gl'individui e le loro forze rampollano, è inesauribile e infinita come il tempo e lo spazio: imperocché quelli sono, sì come queste forme d'ogni fenomeno, null'altro se non fenomeni, visibilità della volontà. Quella infinita sorgente non può essere esausta da una misura finita: quindi ad ogni evento oppure opera soffocati in germe, rimane aperta sempre, per riprodursi, una giammai diminuita infinità. In questo mondo del fenomeno è tanto poco possibile una vera perdita, come un vero guadagno. La volontà sola è: ella, la cosa in sé, ella, la sorgente di tutti quei fenomeni. La sua autocoscienza, e l'affermazione o negazione, che ne procede, è l'unico evento in sé»7

§ 36.

Al filo degli eventi tien dietro la storia: ella è prammatica, in quanto deduce quelli secondo la legge di motivazione, la qual legge determina la manifestantesi volontà, dove questa è illuminata dalla conoscenza. Nei gradi inferiori della sua oggettità, dove ancora agisce senza conoscenza, è la scienza naturale, che studia come etiologia le leggi delle variazioni dei suoi fenomeni, e quanto è in essi permanente studia come morfologia; la quale allevia il suo compito quasi infinito con l'aiuto dei concetti, raccogliendo il generale per ricavarne il particolare. Infine le semplici forme, nelle quali – per la conoscenza del soggetto in quanto individuo – appariscono le idee scisse nella pluralità, ossia tempo e spazio, sono studiate dalla matematica. Tutte queste, che hanno il nome comune di scienze, seguono il principio di ragione nei suoi vari atteggiamenti, e la materia loro è sempre il fenomeno, le sue leggi, i suoi nessi, e i rapporti che ne derivano. Ma qual maniera di conoscenza studia ciò che stando fuori e indipendente da ogni relazione è in verità la sola cosa essenziale del mondo, la vera sostanza dei suoi fenomeni, a nessun mutamento soggetta e quindi in ogni tempo con pari verità conosciuta – in una parola, le idee, che sono l'immediata e adeguata oggettità della cosa in sé, della volontà? È l'arte, l'opera del genio. Ella riproduce le eterne idee afferrate mediante pura contemplazione, l'essenziale e il permanente in tutti i fenomeni del mondo; ed a seconda della materia in cui riproduce, è arte plastica, poesia o musica. Sua unica origine è la conoscenza delle idee; suo unico fine la comunicazione di questa conoscenza. Mentre la scienza, tenendo dietro all'incessante e instabile flusso di cause ed effetti quadruplicemente atteggiati, ad ogni mèta raggiunta viene di nuovo sospinta sempre più lontano e non mai può trovare un termine vero, né un pieno appagamento, più di quanto si possa raggiungere correndo il punto in cui le nubi toccano l'orizzonte; l'arte all'opposto è sempre alla sua mèta. Imperocché ella strappa l'oggetto della sua contemplazione fuori dal corrente flusso del mondo e lo tiene isolato davanti a sé: e quest'oggetto singolo, ch'era in quel flusso una infinitamente minima parte, diviene per lei un rappresentante del tutto, un equivalente del molteplice infinito nello spazio e nel tempo: a questo singolo ella s'arresta: ella ferma la ruota del tempo: svaniscono per lei le relazioni: soltanto l'essenziale, l'idea, è suo oggetto. Noi possiamo adunque senz'altro indicarla come il modo di considerar le cose indipendentemente dal principio di ragione all'opposto della considerazione che appunto di tal principio tien conto, la quale è la via dell'esperienza e della scienza. Quest'ultima maniera di considerazione va paragonata ad una linea orizzontale corrente all'infinito; la prima, invece, alla verticale che la taglia in qualsivoglia punto. Quella che tien dietro al principio di ragione è la maniera razionale, che nella vita pratica, come nella scienza, sola vale e soccorre; quella che prescinde dal contenuto del principio stesso è la maniera geniale, che sola vale e soccorre nell'arte. La prima è la maniera di Aristotele; la seconda, in complesso, quella di Platone. La prima somiglia al violento uragano, che senza principio e fine trascorre, e tutto piega, scuote, trascina con sé: la seconda al placido raggio di sole, che traversa la via di quell'uragano senza esserne scosso. La prima somiglia alle innumerabili, impetuosamente agitate gocce della cascata, che sempre mutando non posano un attimo: la seconda al placido arcobaleno, che poggia su questo tumulto furioso. Solo mediante la pura contemplazione sopra descritta, assorbentesi intera nell'oggetto, vengono colte le idee, e l'essenza del genio sta appunto nella preponderante attitudine a tale contemplazione: e poi che questa richiede un pieno oblio della propria persona e dei suoi rapporti, ne viene che genialità non è altro se non la più completa obiettità, ossia direzione obiettiva dello spirito, contrapposta alla direzione subiettiva, che tende alla propria persona, ossia alla volontà. Quindi genialità è l'attitudine a contenersi nella pura intuizione, a perdersi nell'intuizione, e la conoscenza, che in origine esiste soltanto in servizio della volontà, sottrarre a codesto servizio; ossia il proprio interesse, il proprio volere, i propri fini perdere affatto di vista, e così spogliarsi appieno per un certo tempo della propria personalità per rimanere alcun tempo qual puro soggetto conoscente, chiaro occhio del mondo. E ciò non per pochi istanti; ma così durevolmente e con tanta conscienza, quanto è necessario per riprodurre con meditata arte il conosciuto, e «ciò che fluttua in ondeggiante apparizione fissare in durevoli pensieri». Gli è come se – perché il genio si riveli in un individuo – dovesse a questo esser toccata in sorte una tal misura di forza conoscitiva, da superar di molto quella che occorre al servizio d'una volontà individuale; e questo più di conoscenza, divenuto libero, diventa allora un soggetto sciolto da volontà, un lucido specchio dell'essenza del mondo. Così si spiega la vivacità spinta all'irrequietezza in individui geniali, di rado potendo loro bastare il presente, perché non riempie la loro conscienza; questo da loro quella tensione senza posa, quell'incessante ricerca di oggetti nuovi e degni di considerazione, quindi anche quell'ansia quasi mai appagata di trovare esseri a loro somiglianti, fatti per loro, coi quali possano comunicare; mentre l'ordinario figlio della terra, tutto riempito ed appagato dall'ordinario presente, in esso si assorbe, e trovando inoltre dappertutto pari suoi, possiede quello speciale benessere nella vita quotidiana, che al genio è negato. S'è riconosciuto come parte essenziale della genialità la fantasia, anzi talora la si è tenuta identica a quella: nel primo caso con ragione, a torto nel secondo. Imperocché oggetti del genio in quanto tale sono le eterne idee, le permanenti essenziali forme del mondo e di tutti i suoi fenomeni; ma la conoscenza dell'idea è, per necessità, intuitiva, non astratta: in tal modo sarebbe la conoscenza del genio limitata alle idee degli oggetti effettivamente presenti alla sua persona, e dipendenti dalla catena delle circostanze che a lui lì condussero, se la fantasia non allargasse il suo orizzonte molto di là dalla realtà della sua personale esperienza e non lo ponesse in grado di ricostruire, dal poco che è venuto nella sua effettiva appercezione, tutto il rimanente; e così far passare davanti a sé quasi tutte le possibili immagini della vita. Inoltre, gli oggetti reali quasi sempre non sono che manchevoli esemplari dell'idea in loro manifestantesi: quindi il genio ha bisogno della fantasia, per veder nelle cose non ciò che la natura ha in effetti formato, bensì ciò ch'ella si sforzava di formare, ma che a causa della lotta – nel precedente libro ricordata – delle sue forme tra loro, non è riuscita a compiere. Torneremo su questo proposito in seguito, trattando della scultura. La fantasia allarga dunque la cerchia visuale del genio oltre gli oggetti offrentisi in realtà alla sua persona; e l'allarga sia per la qualità che per la quantità. Quindi una non comune forza della fantasia è compagna, anzi condizione della genialità. Invece, quella non è prova di questa; anzi, possono anche uomini tutt'altro che geniali aver molta fantasia. Imperocché come si può considerare un oggetto reale in due modi opposti – o in modo puramente obiettivo, geniale, cogliendo l'idea di esso, o in modo comune, sol nelle sue relazioni con altri oggetti e con la propria volontà, conformi al principio di ragione – così anche un fantasma si può considerare nell'un modo e nell'altro: nel primo, esso è un mezzo per la conoscenza dell'idea, della quale è comunicazione l'opera d'arte; nel secondo, il fantasma è impiegato a costruir castelli in aria, che piacciono al nostro egoismo e al nostro capriccio, e momentaneamente ingannano e rallegrano. E così, facendo dei fantasmi in tal guisa intrecciati, vengono invero conosciute sempre le sole relazioni. Chi pratica questo giuoco è un cervello fantastico: facilmente confonderà le immagini, della sua fantasia, come fanno i romanzi ordinari d'ogni specie, che sollazzano i pari suoi ed il gran pubblico, per ciò che i lettori sognano di trovarsi al posto dell'eroe e trovano quindi il racconto molto piacevole.

L'uomo comune, questa mercé all'ingrosso della natura, che ne produce migliaia al giorno, è, come abbiamo detto, capace solo fugacemente di guardare le cose in maniera affatto disinteressata in ogni senso – ciò che costituisce la vera contemplazione. Può alle cose volgere la sua attenzione solo in quanto esse abbiano una qualsiasi relazione, anche se molto indiretta, con la sua volontà. Poi che sotto questo riguardo, il quale sempre richiede solamente la conoscenza delle relazioni, è bastevole ed anzi è spesso più valido il concetto astratto della cosa, non s'indugia a lungo l'uomo comune nell'intuizione pura, e quindi non poggia a lungo lo sguardo sopra un oggetto; bensì egli cerca sollecito in tutto ciò, che gli si offre, soltanto il concetto, al quale la cosa va ricondotta, come l'accidioso cerca la sedia – e non se ne interessa più oltre. Perciò si sbriga di tutto così alla svelta: di opere d'arte, di belli oggetti naturali, e dell'ognora significante spettacolo della vita in tutte le sue scene. Egli non s'indugia: cerca soltanto la sua strada nella vita, o anche, per ogni caso, tutto ciò che potrebbe essere un giorno la sua strada, ossia cerca notizie topografiche nel senso più ampio della parola: con l'osservazione della vita stessa come tale non sta a perder tempo. L'uomo geniale invece, la cui forza conoscitiva si sottrae, per la propria prevalenza, al servizio della sua volontà, si trattiene a considerar la vita per se stessa, si sforza di raggiunger l'idea d'ogni cosa, e non già le relazioni di ciascuna con le altre: perciò trascura sovente la considerazione del suo proprio cammino nella vita, e lo percorre quindi il più delle volte in modo abbastanza maldestro. Mentre per l'uomo comune il proprio patrimonio conoscitivo è la lanterna, che illumina la strada, esso è per l'uomo geniale il sole, che disvela il mondo. Questa sì dissimile maniera di guardar dentro alla vita, si fa presto visibile perfino dall'apparenza esterna dei due. Lo sguardo dell'uomo, in cui il genio vive e opera, fa distinguere costui facilmente, perché, vivace e fermo insieme, ha il carattere della contemplazione; quale possiamo vedere nelle immagini delle poche teste geniali, che la natura ha di quanto in quanto prodotto fra gli innumeri milioni. Invece nell'occhio dell'altro – quando non sia, come è il più spesso, opaco o insignificante – si osserva facilmente il vero contrapposto della contemplazione: il cercare. Per conseguenza l'«espressione geniale di una testa consiste nel palesarvisi un risoluto prevaler del conoscere sul volere, e quindi anche nell'esprimervisi un conoscere senz'alcuna relazione con un volere, ossia un puro conoscere». Viceversa, in teste quali sono di regola, predomina l'espressione del volere, e si vede che il conoscere entra sempre in azione solo in seguito a spinta del volere, e perciò è sempre indirizzato secondo motivi.

Poi che la conoscenza geniale, ossia conoscenza dell'idea, è quella che non segue il principio di ragione, l'altra invece che lo segue dà nella vita saggezza e raziocinio, e produce le scienze; perciò individui geniali avranno quelle manchevolezze che trae con sé la trascuranza dell'altro modo di conoscere. Tuttavia va qui notata la restrizione, che ciò ch'io verrò dicendo sotto tale riguardo, li tocca solo in quanto e mentre essi sono veramente in atto di aver la conoscenza geniale, e questo non è punto il caso in ogni momento di lor vita; imperocché la grande – sebbene spontanea – tensione, che si richiede per vedere le idee fuori della volontà, necessariamente si rilascia ed ha grandi pause; in cui gli uomini geniali vengono, sia riguardo ai pregi che ai difetti, su per giù a somigliare agli uomini comuni. Perciò s'è dai tempi più remoti indicata l'attività del genio come un'ispirazione; anzi, secondo esprime la parola stessa, come l'attività di un essere sovrumano distinto dall'individuo medesimo, che sol periodicamente s'impadronisce di questo. La ripugnanza degli individui geniali a diriger l'attenzione sul contenuto di principio di ragione, si rivelerà dapprima rispetto al principio d'esistenza, come ripugnanza per la matematica, la cui cognizione va alle forme più universali del fenomeno, tempo e spazio, che per l'appunto non sono se non forme del principio di ragione; ed è quindi proprio l'opposto di quella cognizione, che cerca viceversa il contenuto del fenomeno, l'idea esprimentevisi dentro, prescindendo da ogni relazione. Inoltre anche la trattazione logica della matematica ripugnerà al genio, perché questa, sbarrando la via alla vera e propria penetrazione, non appaga; bensì, presentando semplicemente una catena di sillogismi, secondo il principio della ragione di conoscenza, tra tutte le forze dello spirito occupa prevalentemente la memoria, per tenere ognora presenti le proposizioni anteriori, a cui ci si riferisce. Anche l'esperienza ha confermato, che grandi genii dell'arte non hanno alcuna attitudine per la matematica: mai è esistito un uomo eccellente in pari tempo nell'una e nell'altra. Alfieri narra di non aver mai potuto capire neppur il quarto teorema di Euclide. A Goethe la mancanza di cognizioni matematiche fu a sazietà rimproverata dagli stolti avversari della sua teoria dei colori: e invero quivi, dove non si trattava di calcolare e misurare su dati ipotetici, bensì d'immediata conoscenza intuitiva della causa e dell'effetto, era quel rimprovero così storto e fuori posto, che coloro hanno appunto tanto con esso mostrato alla luce del giorno la lor completa assenza di ragione, quanto con le altre lor sentenze degne del re Mida. Che oggi ancora, quasi un mezzo secolo dopo l'apparir della teoria goethiana dei colori, possano perfino in Germania rimanere indisturbate in possesso delle cattedre le fandonie neutoniane, e che si continui in tutta serietà a discorrere delle sette luci omogenee e della lor varia rifrangibilità, conterà un giorno tra le maggiori caratteristiche intellettuali dell'umanità in genere e del germanesimo in ispecie. Con lo stesso motivo sopra indicato si spiega il fatto notissimo, che viceversa eccellenti matematici hanno poca comprensione per le opere delle arti belle; secondo è espresso in modo particolarmente ingenuo dal noto aneddoto di quel matematico francese, che dopo aver letta l'Ifigenia di Racine domandò alzando le spalle: Qu'est-ce-que cela prouve? Poi che inoltre un'acuta comprensione dei rapporti secondo la legge di causalità e motivazione costituisce l'intelligenza, mentre la conoscenza geniale non è rivolta alle relazioni, ne viene che un uomo intelligente, in quanto e nel mentre è tale, non ha genio; e l'uomo di genio, in quanto e nel mentre è tale, non è intelligente. Infine la conoscenza intuitiva in genere, nel cui dominio esclusivo è l'idea, sta proprio di fronte alla conoscenza razionale o astratta, guidata dal principio di ragione del conoscere. È anche raro, com'è noto, trovar grande genialità unita a predominante ragionevolezza, che anzi al contrario individui geniali sono spesso in preda ad effetti violenti e irragionevoli passioni. E di ciò non è punto causa debolezza di ragione, bensì, in parte, eccezionale energia di tutto il fenomeno della volontà, che forma l'uomo di genio, e che si manifesta con la vivacità di tutti gli atti volitivi; e in parte predominio della conoscenza intuitiva, mediante sensi e intelletto, sull'astratta; quindi tendenza risoluta al campo intuitivo; – l'espressione del quale, energica in sommo grado, di tanto supera negli uomini geniali gl'incolori concetti, che non più questi, bensì quella dirige l'azione divenuta appunto perciò irrazionale: e per conseguenza l'impressione del presente è su di loro potentissima, li trascina all'atto inconsapevole, all'affetto, alla passione. Anche perciò, e soprattutto perché la lor conoscenza s'è in parte sottratta al servizio della volontà, nella conversazione baderanno non tanto alla persona, con la quale parlano, quanto alla cosa di cui parlano, che vivacemente aleggia loro dinnanzi: quindi giudicheranno in un modo troppo obiettivo, senza riguardo al proprio interesse, o racconteranno, invece di tacere, cose che prudenza vorrebbe taciute, e così via. Quindi, finalmente, sono inclinati a monologare, e possono in genere lasciar scorgere in sé tante debolezze, da avvicinarsi davvero alla follia. Che genialità e pazzia abbiano un lato in cui confinano, anzi si confondono, fu osservato sovente; e perfino l'estro poetico fu detto una specie di pazzia: amabili insania lo chiama Orazio (Od. III, 4), e «graziosa follia» Wieland nell'introduzione dell'Oberon. Lo stesso Aristotele, secondo riferisce Seneca (de tranq. animi, 15, 16) avrebbe detto: «Nullum magnum ingenium sine mixtura dementiae fuit». Il medesimo esprime Platone, nel sopracitato mito della caverna oscura (de Rep. 7), col dire: Coloro, che fuor della caverna hanno contemplata la vera luce solare e le cose davvero esistenti (le idee), non possono rientrando nella caverna più nulla vedere, perché i loro occhi hanno perduto l'abitudine dell'oscurità, né più sanno distinguere lì sotto le ombre; ed essi vengono perciò nei loro errori derisi dagli altri, che non sono mai usciti da questa caverna e da queste ombre. Egli dice anche espressamente nel Fedro (p. 317) che senza qualche follia non può darsi poeta vero; anzi (p. 327) che ciascuno, il quale nelle effimere cose conosca le eterne idee, apparisce qual folle. Pur Cicerone riferisce: «Negat enim, sine furore, Democritus, quemquam poëtam magnum esse posse, quod idem dicit Plato» (de divin. I, 37). E finalmente dice Pope:

Great wits to madness sure are near allied,
And thin partitions do their bounds divide8.

Particolarmente istruttivo a questo proposito è il Torquato Tasso di Goethe; dove questi ci pone innanzi agli occhi non solo il dolore, il martirio proprio del genio in quanto tale, ma anche il suo perenne inclinar verso la follia. Infine l'immediato contatto tra genialità e pazzia è confermato dalle biografie di uomini genialissimi – per esempio Rousseau, Byron, Alfieri –, e da aneddoti delle altrui vite; per converso devo ricordare d'aver trovato, visitando frequentemente i manicomi, taluni soggetti dotati di capacità innegabilmente grandi, la cui genialità traluceva palese attraverso la follia; la quale nondimeno aveva qui preso del tutto il sopravvento. Ora, questo fatto non può essere attribuito al caso, perché da un lato il numero dei pazzi è relativamente assai piccolo, mentre dall'altro un individuo geniale è un fenomeno raro oltre ogni comune misura, e sol come straordinaria eccezione comparisce nella natura: basti a persuadercene il contare i genii davvero grandi che tutta intera l'Europa ha prodotto nell'era antica e nella moderna – ma comprendendovi soltanto gli autori di opere che in ogni tempo hanno conservato un durevole valore per l'umanità – e il numero di questi singoli paragonar coi 250 milioni d'uomini che, rinnovandosi di trenta in trent'anni, costantemente vivono in Europa. Ancora, non voglio tacere che varie persone ho conosciuto, dotate d'una superiorità intellettuale sicura, se pur non considerevole, che in pari tempo dimostravano una leggera aria di follia. Da questo può apparire che ogni elevazione dell'intelletto sopra il livello comune, essendo un carattere anormale, già disponga alla follia. Nondimeno voglio nel modo più breve possibile esporre la mia opinione sul motivo puramente intellettuale di quella parentela tra genialità e follia, poiché codesto esame contribuirà senza dubbio a chiarire la vera essenza della genialità, ossia di quella proprietà dello spirito che sola può produrre vere opere d'arte. Ma questo rende necessario anche un breve esame della follia9.

Un chiaro, compiuto riconoscimento dell'essenza della follia; un esatto e limpido concetto di ciò che propriamente distingue il folle dal savio, non s'è ancora, per quanto io sappia, trovato. Né ragione, né intelletto si possono negare ai folli; imperocché questi discorrono e intendono, anzi spesso ragionano molto bene; di regola intuiscono con giustezza ciò ch'è loro presente, e scorgono il rapporto tra causa ed effetto. Visioni, simili a fantasmagorie febbrili, non sono punto un ordinario sintomo di follia: il delirio altera la percezione, la follia altera i pensieri. Il più delle volte invero non errano i folli nella cognizione dell'immediato presente, bensì il lor farneticare si riferisce ognora all'assente e passato, e solo per tal via al rapporto di quello col presente. Perciò adunque sembra a me che il loro male tocchi particolarmente la memoria; non già nel senso che questa manchi ad essi del tutto (che molti sanno a memoria molto, e riconoscono talora persone da tempo non vedute), ma che il filo della memoria sia rotto, smarrita la concatenazione costante di quella, e reso impossibile un regolare coordinato risovvenirsi di ciò che fu. Singole scene del passato si presentano con giustezza, come l'isolato presente: ma nel risalire indietro s'incontrano lacune, che i folli riempiono con fantasie, le quali o essendo sempre le medesime diventano idee fisse (e allora si ha monomania, malinconia) o cambiano ogni volta, in forma d'immaginazioni momentanee (chiamandosi in questo caso stravaganza, fatuitas). Perciò è tanto difficile ricavar da un folle, nel suo entrare in manicomio, informazioni sulla sua vita passata. Sempre più viene a confondersi nella sua memoria il vero col falso. Per quanto sia conosciuto rattamente l'immediato presente, lo si altera mediante la fittizia connessione con un immaginario passato: i folli ritengono quindi se stessi, o altri, identici a persone che esistono soltanto nel loro chimerico passato, non riconoscono invece talune persone note, ed hanno così, pur rappresentandosi con esattezza il singolo presente, ognora false relazioni di questo con l'assente. Quando la follia raggiunge un alto grado, viene una completa assenza di memoria, per cui il folle diventa affatto incapace di riferirsi ad alcunché di assente o di passato, ma è determinato esclusivamente dalla fantasia momentanea, in rapporto con le chimere che nel suo capo riempiono il passato. Allora non si è mai sicuri un istante, vicino a lui, dalla violenza o assassinio, quando non gli si tenga ognora davanti agli occhi la forza dominatrice. Il modo di conoscere del folle ha di comune con l'animale, l'essere entrambi limitati al presente; ma questo li distingue: che l'animale non ha propriamente alcuna rappresentazione del passato come passato, per quanto esso agisca sull'animale stesso per il mezzo dell'abitudine, sì che a mo' d'esempio il cane riconosce anche dopo anni il suo antico padrone, ossia riceve l'usata impressione dal suo sguardo, pur non avendo nessun ricordo del tempo da allora trascorso: mentre il folle invece reca pur sempre nella sua ragione un passato in abstracto, ma però falso, che per lui solo esiste; e questo, o rimane costante, o varia a momenti. Ora, l'influsso di questo falso passato impedisce anche quell'uso del presente, conosciuto con giustezza, che l'animale tuttavia può fare. Che intensa vita intellettuale, inattesi orribili eventi producono spesso follia, io mi spiego nel modo seguente. Ciascuna di quelle sofferenze è sempre, in quanto evento reale, limitata al presente; quindi passeggera e perciò non mai oltremisura grave; smisuratamente grande si fa solo col diventar dolore fisso. Ma come tale, esso non è più che un pensiero, e sta quindi nella memoria. Ora, se un tale affanno, una tal dolorosa consapevolezza o memoria è di tanto tormento da riuscire affatto intollerabile, tanto che l'individuo finirebbe col soggiacervi, – allora la natura in sì estremo grado angosciata ricorre alla follia, come all'estrema àncora di salvamento della vita: lo spirito, cotanto travagliato, fa come se strappasse il filo della propria memoria, riempie le lacune con chimere, e da un dolore intellettuale, che soverchia le sue forze, si rifugia nella follia – come si amputa un membro preso dalla cancrena e lo si sostituisce con altro di legno. Per esempio si consideri Aiace furioso, il re Lear e Ofelìa: imperocché le creature del genio vero, che sole si possono qui allegare, essendo a tutti note, sono per la lor verità da tenersi come persone reali; e d'altronde in ciò dimostra esattamente lo stesso anche la frequente esperienza effettiva. Una lontana somiglianza con quella maniera di passaggio dal dolore alla follia si scorge nel cercare che tutti spesso facciamo, di allontanare quasi meccanicamente un penoso ricordo, il quale improvviso ci sopravvenga, con una qualsiasi esclamazione o con un movimento, distogliendo noi stessi di là, distraendocene con violenza.

Se vediamo adunque il folle ben conoscere, nel modo indicato, il singolo presente, e anche qualche singolo passato, ma misconoscerne le relazioni e quindi errare e farneticare, proprio in ciò è il suo punto di contatto con l'individuo geniale. Imperocché anche il geniale, tralasciando la conoscenza delle relazioni conforme al principio di ragione, per vedere e cercar nelle cose soltanto l'idea loro, afferrare la lor vera essenza come intuitivamente gli si rivela (per la quale essenza un oggetto rappresenta tutta intera la sua specie, sì che, dice Goethe, un caso vale per mille), – anche il geniale perde con ciò di vista la conoscenza del nesso che lega le cose: il singolo oggetto della sua contemplazione, oppure il presente, da lui con eccessiva vivezza percepito, gli appariscono in così chiara luce, che i rimanenti anelli della catena a cui quelli appartengono vengono di conseguenza a trovarsi nell'ombra; la qual cosa produce fenomeni, che hanno con quelli della follia una somiglianza da tempo riconosciuta. Quel che in una singola cosa non esiste se non incompiutamente e indebolito da modificazioni, il modo di vedere del genio Io innalza fino all'idea, al compiuto: da per tutto quindi il genio vede estremi, e appunto perciò la sua azione va sempre all'estremo: non sa cogliere la giusta misura, gli manca la temperanza, e il risultato è quel che s'è detto. Conosce le idee appieno, ma non gl'individui. Perciò un poeta, come fu osservato, può conoscere intimamente e a fondo l'uomo, molto male invece gli uomini: egli è facile a essere ingannato, ed è un trastullo in mano degli astuti10.

§ 37.

Sebbene adunque, come risulta dalla nostra esposizione, il genio consista nella capacità di conoscere, indipendentemente dal principio di ragione, le idee delle cose invece che i singoli oggetti, i quali soltanto nelle relazioni hanno la loro esistenza; e di essere, di fronte alle idee, il correlato stesso dell'idea, ossia non più un individuo, bensì puro soggetto del conoscere; – deve tuttavia questa capacità trovarsi in minore e diverso grado presso gli uomini tutti: poiché altrimenti sarebber questi altrettanto incapaci di goder le opere dell'arte, quanto di produrle, e in genere non possederebbero per il bello e l'elevato sensibilità alcuna; anzi queste parole non avrebbero per loro alcun senso. Dobbiamo dunque ammetter come esistente in tutti gli uomini – se per avventura non ve n'ha affatto incapaci d'ogni godimento estetico – quel potere di conoscer nelle cose le idee rispettive, e spogliarsi così per un istante della loro personalità. Il genio ha di fronte ad essi il solo vantaggio di possedere in maggior grado e più durevolmente quel modo di conoscere; vantaggio che gli permette di mantenere in questa conoscenza la riflessione necessaria per riprodurre a volontà, in un'opera, ciò che ha conosciuto in tal modo; e codesta riproduzione è l'opera d'arte. Con l'opera d'arte il genio comunica agli altri l'idea percepita. L'idea rimane dunque immutata e identica: uno e identico è anche il piacere estetico relativo, sia esso prodotto da un'opera dell'arte o direttamente dall'intuizione della natura e della vita. L'opera d'arte è semplicemente un mezzo per rendere più facile quella conoscenza in cui consiste il piacere estetico. Lo svelarsi a noi dell'idea meglio nell'opera d'arte, che non direttamente dalla natura e dalla realtà, dipende dal fatto che l'artista, il quale l'idea sola e non la realtà conobbe, nell'opera sua appunto l'idea pura ha riprodotto, l'ha isolata dalla realtà, tralasciando ogni causalità perturbatrice. L'artista ci fa attraverso i suoi occhi guardare dentro al mondo. L'aver questi occhi, il conoscer nelle cose l'essenziale, che sta fuor d'ogni relazione, è proprio il dono del genio, la qualità innata; ma l'essere in grado di comunicare anche a noi questo dono, dare a noi i suoi occhi, è la qualità acquisita, la tecnica dell'arte. Perciò dopo aver nelle pagine precedenti esposta l'intima natura della conoscenza estetica nelle sue linee più generiche, il più minuto esame filosofico del bello e del sublime, che ora segue, mostrerà entrambi nella natura e nell'arte insieme, senza continuare a distinguere. Vedremo dapprima quel che accade nell'uomo, quando il bello lo tocca, e quando il sublime: se poi questa commozione egli l'attinga direttamente dalla natura, dalla vita, oppure ne sia partecipe solo per mezzo dell'arte, non costituisce un'essenziale bensì appena un'esteriore differenza.

§ 38.

Abbiamo trovato nella contemplazione estetica due inseparabili elementi: la conoscenza dell'oggetto, non come cosa singola, ma come idea platonica, ossia come permanente forma di tutta questa specie d'oggetti; quindi la coscienza del conoscente, non come individuo, ma come puro, libero dalla volontà soggetto della conoscenza. La condizione per cui entrambi gli elementi si mostrano sempre uniti vedemmo essere il tralasciare la conoscenza legata al principio di ragione, la quale è invece la sola che possa servire alla volontà, com'anche alla scienza. Anche il piacere suscitato dalla contemplazione del bello vedremo nascere da quei due elementi; or più dall'uno, or più dall'altro, secondo l'oggetto della contemplazione estetica.

Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da sofferenza. A questa dà fine l'appagamento; tuttavia per un desiderio, che venga appagato, ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; inoltre, la brama dura a lungo, le esigenze vanno all'infinito; l'appagamento è breve e misurato con mano avara. Anzi, la stessa soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dà tosto luogo a un desiderio nuovo: quello è un errore riconosciuto, questo un errore non conosciuto ancora. Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole, che più non muti: bensì rassomiglia soltanto all'elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento. Quindi finché la nostra conscienza è riempita dalla nostra volontà; finché siamo abbandonati alla spinta dei desiderii, col suo perenne sperare e temere; finché siamo soggetti del volere, non ci è concessa durevole felicità né riposo. Che noi andiamo in caccia o in fuga; che temiamo sventura o ci affatichiamo per la gioia, è in sostanza tutt'uno; la preoccupazione della volontà ognora esigente, sotto qualsivoglia aspetto, empie e agita perennemente la conscienza; e senza pace nessun benessere è mai possibile. Così posa il soggetto del volere senza tregua sulla volgente ruota d'Issione, attinge ognora col vaglio delle Danaidi, è l'eternamente struggentesi Tantalo.

Ma quando una causa esteriore, o un'interna disposizione ci trae all'improvviso fuori dall'infinita corrente del volere, e la conoscenza sottrae alla schiavitù della volontà, e quando l'attenzione non è più rivolta ai motivi del volere, bensì percepisce le cose sciolte dal loro rapporto col volere, ossia le considera senza interesse, senza soggettività, in modo puramente obiettivo, dandosi tutta ad esse, in quanto esse sono pure rappresentazioni e non motivi: allora sopravviene d'un tratto, spontaneamente, la pace ognora cercata sulla prima via, la via del volere, e ognora sfuggente; e noi ci sentiamo benissimo. È lo stato senza dolore, che Epicuro lodò come il massimo bene, e come condizione degli Dei: poiché noi siamo, per quell'istante, liberati dalla bassa ansia della volontà, celebriamo il sabba dei lavori forzati; e la ruota d'Issione si ferma.

Ed è questo appunto lo stato, ch'io ho descritto più sopra come necessario per la conoscenza dell'idea quale pura contemplazione, assorbimento nell'intuizione, smarrimento di sé nell'oggetto, oblio d'ogni individualità, abolizione della conoscenza che segue il principio di ragione e soltanto le relazioni afferra; è lo stato, in cui d'un subito e indissociabilmente s'innalza il singolo oggetto intuito all'idea della sua specie, e l'individuo conoscente a puro soggetto del conoscere fuori della volontà; sì che entrambi, in quanto tali, non stanno più nella corrente del tempo e di tutte le altre relazioni. È tutt'uno, allora, se il sole che sorge si vegga da un carcere o da un palazzo.

Interna disposizione, prevalenza del conoscere sul volere possono in qualsivoglia condizione produrre questo stato. Ce lo dimostrano quegli eccellenti olandesi, che codesta intuizione puramente obiettiva rivolsero ai più insignificanti oggetti, e un durevole monumento della loro obiettità e pacatezza di spirito lasciarono nelle nature morte, che il contemplatore estetico guarda non senza commozione, presentandoglisi alla mente il pacato, tranquillo, di volontà scevro stato d'animo dell'artista, ch'era necessario per guardare in modo tanto obiettivo sì insignificanti oggetti, con tanta attenzione considerarli, e questa contemplazione riprodurre con tanta cura: e mentre il quadro invita anche lui a farsi partecipe di cotale stato, la sua commozione è spesso ancora accresciuta dal contrasto della disposizione d'animo agitata, conturbata da impetuoso volere, in cui egli stesso si trova. Col medesimo spirito anche pittori paesisti, sopra tutti Ruisdael, hanno spesso dipinto insignificantissimi oggetti campestri, producendo con ciò, ancora più piacevolmente, la stessa impressione.

A ciò perviene sola l'intima forza di un animo d'artista: ma facilitata e dal di fuori favorita è quella disposizione d'animo, puramente obiettiva, da oggetti che le si offrano, dalla pienezza della bella natura che invita, anzi costringe alla contemplazione. Quasi sempre a lei riesce, ogni volta che si riveli d'un tratto al nostro occhio, sia pure per qualche istante, di strapparci alla soggettività, alla schiavitù del volere, e trasportarci nello stato del puro conoscere. Perciò anche chi sia tormentato da passioni o bisogno o affanno, è da un solo libero sguardo, ch'egli getti sulla natura, così improvvisamente confortato, rallegrato e sollevato: la tempesta delle passioni, l'ansia del desiderio e del timore, ed ogni tormento del volere sono allora d'un tratto placati istantaneamente in maniera maravigliosa. Imperocché nell'istante in cui noi, liberati dal volere, ci siamo abbandonati al puro conoscere senza più volontà, siamo come trasportati in un altro mondo, dove tutto ciò che commuove la nostra volontà e quindi sì forte ci scuote, più non esiste. Quella liberazione della conoscenza ci trae fuori da tutto, tanto e sì appieno, quanto il sonno e il sogno: felicità e infelicità sono svanite: non siamo più l'individuo, che è obliato, non siamo più che puro soggetto della conoscenza: non esistiamo più se non come l'unico occhio del mondo, il quale da tutti gli esseri conoscenti guarda, ma nell'uomo soltanto può diventare del tutto libero dal servigio della volontà: e allora ogni distinzione da individuo a individuo svanisce a tal punto, da essere affatto indifferente se il contemplante occhio appartenga a un re possente o a un tormentato mendico. Imperocché né felicità né pena vengono portati con noi al di là da quei confini. Sì presso sta a noi perennemente un dominio, nel quale siamo del tutto strappati al nostro dolore; ma chi ha la forza di trattenervisi a lungo? Non appena una qualsiasi relazione tra quegli oggetti oggettivamente intuiti e la nostra volontà, la nostra persona, si riaffaccia alla conscienza, ha fine l'incantesimo: noi ricadiamo indietro nella conoscenza che il principio di ragione governa; conosciamo non più l'idea, ma la cosa singola, l'anello d'una catena, alla quale noi stessi apparteniamo; e siamo restituiti a tutto il nostro affanno. I più degli uomini, mancando loro affatto l'oggettità, ossia la genialità, stanno quasi sempre in questa condizione. Perciò non si trovano volentieri soli con la natura; abbisognano di compagnia, almeno quella d'un libro. Imperocché il lor conoscere rimane soggetto al volere: negli oggetti essi cercano quindi solamente un possibile rapporto con la propria volontà; e davanti a tutto ciò che tal rapporto non abbia, risuona nel loro intimo un perenne, sconsolato Non mi serve a nulla: dal che anche il più bello spettacolo di natura viene a prendere per essi nella solitudine una triste, sinistra, ostile apparenza.

Finalmente è ancora quel senso beato dell'intuizione libera da volontà, che diffonde un sì mirabile incanto sul passato come sulla distanza, e ce li mostra in una luce che tanto li abbellisce, per effetto d'una nostra illusione. Quando ci rappresentiamo giorni da lungo tempo trascorsi, vissuti in un paese lontano, sono gli oggetti soltanto, che la fantasia nostra richiama, e non il soggetto della volontà, il quale trascinava con sé i suoi mali insanabili, allora come oggi; ma questi sono dimenticati, perché già sovente da quei giorni hanno fatto luogo ad altri mali. Così l'intuizione oggettiva agisce nel ricordo come agirebbe nel presente, qualora avessimo su di noi stessi la forza di abbandonarci a lei, liberi da volontà. Da ciò deriva, che specialmente quando una pena qualsiasi ci angoscia più del consueto, l'improvvisa memoria di scene passate e lontane ci balena come un paradiso perduto. L'oggettivo soltanto, non l'individuale-soggettivo è rievocato dalla fantasia, e noi c'immaginiamo che quella visione oggettiva stesse allora davanti a noi così pura, così incontaminata dalla volontà, come ora ci sta la sua immagine nella fantasia: mentre invece la relazione degli oggetti col nostro volere ci creava tormento allora come adesso. Noi possiamo per mezzo degli oggetti presenti sottrarci a tutti i dolori come per mezzo dei lontani, sol che ci eleviamo alla pura considerazione oggettiva di quelli, e perveniamo così a produrre l'illusione che essi soli, e non già noi stessi, siano presenti: allora, disciolti dal prepotente Io, come puri soggetti del conoscere saremo tutt'uno con quegli oggetti. E nel modo ond'è loro indifferente il nostro affanno, così è questo, in tali istanti, indifferente a noi medesimi. Sopravvive allora unicamente il mondo quale rappresentazione, e il mondo quale volontà è svanito. Con tutte queste considerazioni vorrei aver chiarito di qual genere e quanto grande sia la parte che nel piacere estetico ha la condizione soggettiva di esso, cioè la liberazione del conoscere dal servizio della volontà, l'oblio di se stesso in quanto individuo, e l'elevazione della conscienza a puro, libero da volontà, fuori del tempo, da ogni relazione indipendente soggetto del conoscere. Con questo aspetto soggettivo della contemplazione estetica si presenta ognora congiunto, qual necessario correlato, l'aspetto oggettivo di quella: la percezione intuitiva dell'idea platonica. Ma, prima di volgerci a un più attento esame di quest'ultima, occorre indugiare ancora alquanto sull'aspetto soggettivo del piacere estetico, per compierne lo studio spiegando l'impressione del sublime, che da esso unicamente dipende, e da una modificazione di esso deriva. In seguito la nostra investigazione del piacere estetico raggiungerà, con l'esame del suo aspetto oggettivo, intera compiutezza.

A quanto abbiamo detto vanno aggiunte dapprima le osservazioni che seguono. La luce è la più rallegrante delle cose: è divenuta il simbolo di tutto ciò ch'è buono e salutare. In tutte le religioni indica la eterna salvezza, mentre l'oscurità indica dannazione. Ormuzd risiede in purissima luce, Ahriman in eterna notte. Il paradiso di Dante fa all'inarca l'effetto del Wauxhall di Londra, tutti gli spiriti beati apparendovi come punti luminosi, che si raccolgono in regolari figure. L'assenza della luce ci fa immediatamente tristi; il suo ritorno rallegra: i colori suscitano di per sé un vivo senso di piacere, che, quando sono trasparenti, raggiunge il massimo grado. Tutto ciò proviene esclusivamente dall'esser la luce il correlato e la condizione del più compiuto modo di conoscenza intuitiva, del solo, che direttamente non tocchi in nulla la volontà. Imperocché la vista non è punto, come l'affezione degli altri sensi, in sé immediatamente e per la propria azione sensitiva capace di sentire nell'organo un'impressione piacevole o spiacevole, ossia non ha alcun legame immediato con la volontà: ma solo può averlo l'intuizione che nell'intelletto ne deriva; e quel legame sta nel rapporto dell'oggetto con la volontà. Già nell'udito le cose vanno altrimenti: certi suoni possono direttamente produrre dolore, e anche direttamente, pel puro senso, non già rispetto all'armonia o alla melodia, essere piacevoli. Il tatto essendo tutt'uno col sentimento del corpo intero, è ancor più vincolato a questo diretto influsso sulla volontà: tuttavia può aversi una sensazione tattile che non dia dolore o piacere. Ma gli odori sono sempre piacevoli o spiacevoli; i gusti ancor più. Questi due ultimi sensi adunque sono i più inquinati dalla volontà: sono perciò sempre i meno nobili, e Kant li chiamò sensi soggettivi. La gioia che dà la luce è quindi in realtà nient'altro che la gioia per l'oggettiva possibilità della più pura e più compiuta conoscenza intuitiva; e come tale va derivata dal fatto che il puro conoscere, libero e disciolto da ogni volere, è in sommo grado rallegrante, e già di per sé ha una gran parte nel godimento estetico. Da questo aspetto della luce proviene alla sua volta la bellezza incredibilmente grande che noi troviamo nel riflesso degli oggetti nell'acqua. Quella lievissima, rapidissima, finissima maniera di reciproca influenza dei corpi; quella, a cui noi dobbiamo le nostre percezioni di gran lunga più perfette e più pure – l'influenza per mezzo di raggi riflessi – è qui del tutto chiara, e su vasta scala messa davanti ai nostri occhi: di là viene la gioia estetica che ne proviamo, la quale, in sostanza, ha tutte le sue radici nel principio soggettivo del piacere estetico, ed è gioia del puro conoscere e delle sue vie11.

§ 39.

Ora, a tutte codeste considerazioni, le quali devono mettere in rilievo la parte soggettiva del piacere estetico, ossia il piacere stesso in quanto è gioia del puro, intuitivo conoscere come tale, in opposizione alla volontà – viene a collegarsi, essendovi direttamente connesso, lo studio di quella disposizione che s'è chiamata sentimento del sublime.

Già osservammo che il trasportarsi dello stato della pura intuizione più facilmente avviene, quando gli oggetti si fanno a questa incontro, ossia quando, per la lor varia e in pari tempo determinata e chiara forma, facilmente divengono i rappresentanti delle loro idee; nelle quali appunto la bellezza, in senso oggettivo, consiste. Più di tutto ha questo privilegio la bella natura, e strappa quindi anche all'uomo più insensibile almeno un fugace piacere estetico: anzi, è sorprendente come in particolar maniera il mondo vegetale inviti alla contemplazione estetica e quasi la imponga, sì che si potrebbe dire, questa facilità essere in relazione col fatto che gli esseri organici di quel mondo non sono essi medesimi, come i corpi animali, immediato oggetto della conoscenza, e abbisognano quindi d'un estraneo individuo intelligente, per entrare dal mondo del cieco volere in quello della rappresentazione; sì che quasi avevano la nostalgia d'entrarvi, per conseguire almeno indirettamente ciò che direttamente è loro negato. Io pongo del resto senz'altro in disparte questo pensiero audace e forse confinante con la fantasticheria, poi che solo una molto intima e amorosa contemplazione della natura può suscitarlo o giustificarlo12. Fin quando è codesto offrircisi della natura, con la significazione e l'evidenza delle sue forme (dalle quali facilmente parlano a noi le idee in noi individuate), che dalla conoscenza delle semplici relazioni asservite alla volontà ci trasporta nella contemplazione estetica, e con questa ci eleva a soggetti del conoscere, liberi da volontà; fino allora è solamente il bello, che agisce su noi, e quel che si sveglia è sentimento della bellezza. Ma se appunto quegli oggetti, le cui forme significative ci invitano alla contemplazione pura, hanno un atteggiamento ostile verso l'umana volontà in genere, quale si palesa nella sua oggettità – nel corpo umano –, ed a quella s'oppongono, e la minacciano con la lor forza superiore, che vince ogni resistenza, o davanti alla propria smisurata grandezza la impiccioliscono fino al nulla; e pur ciò nondimeno il contemplatore non volge l'attenzione a questa premente mossa ostile contro la volontà di lui, ma, pure accorgendosene e riconoscendola, conscientemente ne rimuove lo sguardo, nel mentre si discioglie con vigore dalla volontà e dalle sue relazioni e, tutto dato alla conoscenza, appunto quegli oggetti per la volontà paurosi contempla tranquillo come puro soggetto del conoscere; solo cogliendone l'idea, estranea ad ogni relazione, e quindi indugiandosi volentieri a contemplarli, sentendosi così levato sopra se stesso, sopra la propria persona, la volontà propria e la volontà in genere: – allora lo riempie il sentimento del sublime; egli è in istato di elevazione, e perciò si dice sublime anche l'oggetto che un tale stato ha prodotto. Ciò che adunque distingue il sentimento del sublime dal sentimento del bello, è questo: nel bello il puro conoscere ha preso senza lotta il sopravvento, mentre la bellezza dell'oggetto, ossia la conformazione di esso, che ne lascia facilmente conoscer l'idea, ha senza opposizione e quasi inavvertitamente la volontà e la conoscenza delle relazioni, che la serve, allontanato dalla conscienza; e lasciata questa sopravvivere come puro soggetto del conoscere, sì che della volontà non resta neppure un ricordo; invece nel sublime quello stato del puro conoscere è raggiunto solo mediante un conscio ed energico districarsi dalle relazioni di quello stesso oggetto con la volontà, riconosciute sfavorevoli; e mediante un libero elevarsi, accompagnato dalla conscienza, sopra la volontà come sopra la conoscenza che a lei si riferisce. Codesta elevazione deve non soltanto esser guadagnata consapevolmente, ma anche conservata; l'accompagna quindi un continuo ricordo della volontà, ma non di un singolo, individuale volere, come sarebbe la paura o il desiderio, bensì il ricordo del volere umano in genere, in quanto esso è genericamente espresso per mezzo della sua oggettità, ossia del corpo umano. Qualora intervenga nella conscienza un reale, singolo atto di volontà, per effetto di una vera, personale angustia e d'un pericolo proveniente dall'oggetto, ecco l'individuale volontà effettivamente scossa prendere d'un subito il sopravvento, farsi impossibile la calma della contemplazione, andar perduta l'impressione del sublime; la quale cede il posto alla paura, in cui l'ansia, che l'individuo prova, per salvarsi, caccia ogni altro pensiero. Alcuni esempi gioveranno molto a chiarire e rendere indubitabile questa teoria del sublime estetico; in pari tempo mostreranno la varietà dei gradi nel sentimento del sublime. Imperocché, poi ch'esso è nella sua principal determinazione tutt'uno col sentimento del bello (determinazione che consiste nel puro conoscere libero da volontà e nella conoscenza necessariamente concomitante delle idee, le quali stanno fuor d'ogni relazione dominata dal principio di ragione); e dal sentimento del bello si distingue solo per un'aggiunta, ossia l'elevazione sopra il riconosciuto rapporto ostile dell'oggetto contemplato con la volontà in genere; nascono così – a seconda che tale aggiunta sia forte, chiara, insistente, vicina, oppure debole, lontana, appena accennata – più gradi del sublime: anzi, passaggi dal bello al sublime. Credo più opportuno per la trattazione, questi passaggi e in genere i più deboli gradi del sublime porre dapprima in esempi davanti agli occhi; anche se coloro, la cui sensibilità estetica non è molto grande, né viva la fantasia, comprenderanno solo gli esempi, che più tardi seguono, dei gradi più alti e più chiari. A questi unicamente dovranno tenersi, ed i primi tralasciare.

Come l'uomo è a un tempo impetuoso e oscuro impulso del volere (indicato, quale suo vertice, dal polo dei genitali) ed eterno, libero, sereno soggetto del puro conoscere (indicato mediante il polo del cervello); così è il sole – conformemente a tale contrasto – nello stesso tempo sorgente della luce, ch'è condizione del più perfetto modo di conoscere, e sorgente del calore, ch'è condizione prima d'ogni vita, ossia d'ogni fenomeno della volontà nei gradi più alti di questa. Ciò che per la volontà è il calore, è per la conoscenza la luce. La luce è quindi il più grosso diamante nella corona della bellezza, e ha il più deciso influsso sopra la conoscenza di ciascun bell'oggetto: la sua presenza è condizione assoluta; la sua favorevole situazione aumenta anche la bellezza di ciò ch'è bellissimo. Più degli altri è dal suo favore aumentato il bello dell'architettura; il qual favore tuttavia da la maggior bellezza anche a ciò che v'ha di più insignificante. Immaginiamo ora nel duro inverno, nell'universale irrigidimento della natura, i raggi del sole basso all'orizzonte riflessi da pietrosi massi, che quelli illuminano senza riscaldare, essendo con ciò propizi solo al più puro modo di conoscere e non alla volontà; la contemplazione del bell'effetto di luce su codesti massi ci trasporta, come ogni cosa bella, nello stato della conoscenza pura, il quale tuttavia per il tenue ricordo della mancanza di calore, e quindi del principio vivificante – ricordo suscitato appunto da quei raggi – esige di già un certo elevarsi sopra l'interesse della volontà, contiene una leggera esortazione a rimanere nella conoscenza pura, rimuovendo ogni volere; ed appunto perciò viene ad essere un passaggio dal sentimento del bello al sentimento del sublime. Altro esempio quasi altrettanto debole è il seguente.

Trasportiamoci in una contrada molto solitària, con illimitato orizzonte, sotto cielo perfettamente sereno, con alberi e piante nell'aria affatto immobile, nessun animale, nessun uomo, nessun'acqua scorrente, la più profonda quiete; tale spettacolo è come un richiamo alla gravità, alla contemplazione, a liberarsi dalla volontà e dalla sua miseria: questo è sufficiente per dare alla contrada, sol per essere solinga e immersa nella pace, una sfumatura di sublime. Non offrendo ella alcun oggetto, né favorevole né sfavorevole, alla volontà bisognosa d'un perenne aspirare e conseguire, rimane unicamente lo stato della pura contemplazione; e chi di questo non è capace, resta in preda al vuoto della volontà disoccupata, al tormento della noia, con vergognosa umiliazione. Quel paesaggio ci dà adunque la misura del nostro valore intellettuale, di cui è buon indizio il grado dell'attitudine nostra a sopportare, oppure ad amare la solitudine. Ci offre perciò un esempio del sublime nel grado minore, essendo davanti ad esso, alla sua tranquilla e pacata necessità, insito nello stato di pura conoscenza, come contrasto, un ricordo della soggezione e miseria della volontà per sua natura perennemente agitata. Questa è la specie di sublime, che si suole esaltare come prodotto dalla vista delle infinite praterie nell'interno dell'America Settentrionale.

Ma immaginiamo ora una contrada simile, la quale, spoglia anche delle piante, non mostri che nude rocce; già l'assoluta mancanza d'ogni essere organico necessario alla nostra sussistenza è angosciosa per la volontà; il deserto prende un carattere pauroso; la nostra disposizione si fa più tragica; l'elevazione al puro conoscere avviene con un risoluto svincolarsi dall'interesse della volontà; e mentre noi persistiamo nello stato del puro conoscere, comparisce palese il sentimento del sublime.

In grado ancor più alto questo può esser suscitato da un'altra scena. La natura in tempestosa agitazione, dubbia luce attraverso minacciose, nere nubi d'uragano; mostruose, nude, precipiti rocce, le quali chiudono in loro cerchia la vista; fragorose spumeggiami corrènti; assoluto deserto; gemiti dell'aria fischiante attraverso le gole. La nostra pochezza, la nostra lotta con la natura nemica, la nostra volontà, che vi s'infrange, ci sta qui evidente innanzi agli occhi: ma fin che l'angoscia individuale non prende il sopravvento, finché noi restiamo in estetica contemplazione, ficca l'occhio dentro quella battaglia delia natura, dentro quello spettacolo di volontà infranta il puro soggetto del conoscere; e tranquillo, imperturbato, non coinvolto (unconcerned) coglie le idee appunto in quegli oggetti che sono per la volontà minacciosi e paurosi. Proprio in tal contrasto è il sentimento del sublime. Ma più forte ancora è l'impressione, quando abbiamo in grande, davanti agli occhi, la battaglia delle infuriate forze naturali: quando in quella scena una precipite cascata ci toglie col suo fragore la possibilità d'udir la nostra stessa voce; – o quando ci troviamo sull'ampio mare sconvolto dalla burrasca: onde alte come case salgono e scendono, impetuose battono contro dirupate rive, sprizzano alta nell'aria la spuma, e la burrasca urla, il mare mugghia, guizzano lampi dalle nere nubi, colpi di tuono coprono la voce della tempesta e del mare. Raggiunge allora evidenza massima, nello spettatore imperturbato di questa scena, il doppio carattere della sua coscienza: egli sente se stesso come individuo, come fragile manifestazione della volontà, che il più piccolo urto di quelle forze può sfracellare, inerme contro la possente natura, da tutto dipendente, preda del caso, meno che nulla di fronte a potenze mostruose; e d'altra parte nel tempo stesso vede sé come eterno, tranquillo soggetto del conoscere, il quale, essendo condizione dell'oggetto, è appunto quegli che porta in sé questo mondo intero; la tremenda battaglia della natura non è che la sua rappresentazione, mentr'egli stesso contempla tranquillo le idee, libero e straniero a tutti i voleri, a tutti i bisogni. Questa è la piena impressione del sublime. Qui la produce la vista d'una potenza, che minaccia all'individuo distruzione: potenza di lui, senza confronto, maggiore.

In tutt'altro modo può sorgere quell'impressione dal rappresentarsi nella fantasia una semplice grandezza di spazio e di tempo, tanto smisurata da impicciolire l'individuo, nel confronto, fino al nulla. La prima specie possiamo chiamare sublime dinamico, la seconda sublime matematico, conservando le denominazioni e la giusta distinzione di Kant; sebbene ci discostiamo interamente da lui nello spiegar l'intima essenza di quell'impressione, non riconoscendovi alcuna parte dovuta a riflessioni morali o a ipostasi tratte dalla scolastica.

Se ci veniamo a smarrire nel considerar l'infinita grandezza del mondo nello spazio e nel tempo, ripensando ai secoli passati ed ai futuri – o anche, se il cielo notturno veracemente pone davanti al nostro occhio innumerabili mondi –, vediamo noi stessi ridotti a un nulla, ci sentiamo, in quanto individui, in quanto corpi animati, in quanto effimere manifestazioni di volontà, come una goccia nell'oceano svanire, scioglierci nel nulla. Ma in pari tempo, contro codesto fantasma della nostra propria nullità, contro codesta menzognera impossibilità si leva l'immediata conscienza, che tutti quei mondi solamente nella nostra rappresentazione esistono, solamente quali modificazioni dell'eterno soggetto del puro conoscere – soggetto che riconosciamo in noi stessi non appena dimentichiamo l'individualità, e che è il necessario sostegno, la condizione di tutti i mondi e di tutti i tempi. La grandezza del mondo, che prima c'inquietava, sta ora in noi: la nostra dipendenza da lei viene soppressa mediante la sua dipendenza da noi. Ma tutto ciò non si presenta subito alla riflessione; invece, si mostra come la coscienza appena sentita d'essere, in un senso qualsivoglia (il quale dalla filosofia sarà chiarito), tutt'uno col mondo, e quindi nella sua smisurata grandezza non già schiacciati, bensì innalzati. È la conscienza sentita di ciò, che le Upanishad dei Veda esprimono ripetute volte in così vari modi, specialmente nella già citata sentenza: «Hae omnes creaturae in totum ego sum, et praeter me aliud ens non est» (Oupnek'hat, vol. I, p. 122). È innalzamento sul proprio individuo, sentimento del sublime.

In modo affatto immediato quest'impressione del sublime matematico ci è già prodotta da uno spazio piccolo, sì, in confronto dell'universo, ma che, essendo a noi visibile intero e direttamente, agisce su di noi nelle sue tre dimensioni con tutta la grandezza sua; la quale basta a render quasi infinitamente pìccola la proporzione del nostro corpo. Di tale effetto non è capace uno spazio, che si presenti vuoto alla nostra percezione; mai quindi uno spazio aperto, ma soltanto uno che, essendo circoscritto, sia direttamente percepibile in tutte le dimensioni: così un alto e grande interno, qual è quello di S. Pietro in Roma o di S. Paolo in Londra. L'impressione del sublime nasce qui da sentire l'impercettibile nullità del nostro corpo davanti a una grandezza, la quale nondimeno d'altra parte sta solamente nella nostra rappresentazione, e che portiamo noi stessi, in quanto soggetto conoscente. Ossia, nasce qui come sempre dal contrasto dell'insignificanza e dipendenza del nostro io, in quanto individuo, in quanto fenomeno di volontà, con la conscienza di quell'io in quanto puro soggetto del conoscere. Anche la volta del cielo stellato agisce – quando la si osservi senza riflessione – non altrimenti che quella volta di pietra; e non con la sua vera, ma sol con la sua apparente grandezza. Vari oggetti della nostra intuizione eccitano il sentimento del sublime, perché – a causa della loro vastità, o della loro antichità, ossia della loro durata temporale – noi ci sentiamo davanti ad essi impiccioliti fino a sparire, e tuttavia ci inebriamo nel goderne la vista. Di tal fatta sono le altissime montagne, le piramidi d'Egitto, le colossali rovine di remota antichità.

Anzi, perfino al campo etico può applicarsi la nostra spiegazione del sublime; ossia a quel che si suol designare col nome di carattere sublime. Poiché questo egualmente si ha, quando la volontà non viene eccitata da oggetti, i quali pur sarebbero atti ad eccitarla; e invece la conoscenza mantiene anche allora il sopravvento. Un tal carattere considera quindi gli uomini in modo affatto obiettivo, e non già secondo le relazioni che possono avere secondo la sua volontà. Osserverà per esempio i loro difetti, e perfino il loro odio e la loro ingiustizia verso di lui medesimo, senza per ciò sentirsi spinto a odiarli; li vedrà felici, senza provarne invidia; riconoscerà le loro buone qualità, senza desiderarne per questo di avvicinarli più intimamente; apprezzerà la bellezza delle donne, senza desiderarle. La sua individuale condizione felice o infelice non lo toccherà molto; piuttosto sarà come Orazio descritto da Amleto:

for thou hast been

As one, in suffering ali, that suffers nothing;

A man, that fortune's buffets and rewards

Hast ta'en with equal thanks, etc.

A. 3, sc. 213

Imperocché nel suo corso vitale e nelle traversie di questo, egli scorgerà meno il proprio fato individuale che non il fato dell'umanità in genere; e per conseguenza si comporterà piuttosto come quegli che conosce, anziché come quegli che soffre.

§ 40.

Poiché i contrari si illuminano a vicenda, può qui trovar posto l'osservazione, che il vero e proprio contrario del sublime è alcunché a tutta prima non riconoscibile per tale: l'eccitante. Chiamo così ciò che eccita la volontà, con l'immediato prometterle esaudimento, appagamento. Se l'impressione del sublime è nata dal fatto che un oggetto avverso alla volontà può divenire oggetto di pura contemplazione, e questa viene continuata sol mediante un perenne distogliersi dalla volontà ed elevarsi sopra l'interesse di lei, la qual cosa appunto costituisce il sublime in tal disposizione; l'eccitante viceversa fa discendere lo spettatore dalla contemplazione pura, richiesta per ogni percezione del bello, eccitando forzatamente la sua volontà, per mezzo di oggetti che direttamente l'attraggono: sì che lo spettatore non è più puro soggetto del conoscere, bensì bisognoso, dipendente soggetto del volere. Che di solito si chiami eccitante ogni bellezza di genere lieto, è concetto di troppo ampia sfera per mancanza di distinzione; ed io devo metterlo in disparte, anzi disapprovarlo. Ma nel senso indicato e spiegato, trovo nel dominio dell'arte due sole specie di eccitante, ed entrambe indegne di lei. L'una, davvero bassa, nella natura morta degli olandesi: quando ci si inganna a segno da scambiar gli oggetti dipinti per commestibili, i quali per la loro ingannevole rappresentazione suscitano l'appetito, che è appunto un'eccitazione della volontà, per cui cessa ogni contemplazione estetica dell'oggetto. Frutta dipinta si può ancora ammettere, presentandosi come successivo sviluppo del fiore e come bel prodotto di natura per forma e colore, senza che si deva per forza pensare alla sua commestibilità; ma purtroppo troviamo spesso, con naturalezza da illudere, vivande allestite e servite in tavola, ostriche, aringhe, gamberi di mare, pane e burro, birra, vino, etc.: cosa del tutto riprovevole. Nella pittura storica e nella scultura, l'eccitante consiste in figure nude, che per l'atteggiamento, la mezza nudità e tutto il modo della rappresentazione mirano a destare libidine nello spettatore; dal che vien subito distrutta la contemplazione puramente estetica: ossia si opera in opposizione allo scopo dell'arte. Tale difetto corrisponde in tutto a quello or ora biasimato negli olandesi. Quasi sempre ne son privi gli antichi, malgrado tutta la bellezza e piena nudità delle figure; perché l'artista medesimo le ha create con puro, obiettivo spirito, pieno dell'ideale bellezza, e non già in ispirito di soggettiva, bassa concupiscenza. L'eccitante è quindi sempre da evitarsi nell'arte.

V'è anche un eccitante negativo, ancor più biasimevole che non sia il positivo or ora illustrato: e questo è il nauseante. Appunto come il vero eccitante, questo sveglia la volontà dello spettatore e distrugge con ciò la contemplazione puramente estetica. Ma quel che viene per suo mezzo eccitato, è un vivace non-volere, una riluttanza; suscita la volontà, ponendole innanzi oggetti del suo ribrezzo. Fu perciò conosciuto da tempo, ch'esso è del tutto inammissibile nell'arte; dove tuttavia anche il brutto – fin quando non sia disgustoso – può esser tollerato a suo luogo, come vedremo in seguito.

§ 41.

Il corso del nostro studio ha reso necessario introdur l'illustrazione del sublime a questo punto, quando quella del bello non era compiuta che a mezzo, sotto un solo dei suoi aspetti – il soggettivo. Imperocché era appunto una particolare modificazione di codesto aspetto soggettivo, che distingueva il sublime dal bello. Invero, se lo stato del puro conoscere scevro di volontà, presupposto e voluto da ogni contemplazione estetica, sia sorto come spontaneamente, senza resistenza, per un semplice dileguarsi della volontà dalla conscienza, quando un oggetto l'ha a ciò invitato ed attratto; oppur se il medesimo stato sia raggiunto attraverso un libero, conscio elevarsi sulla volontà, con la quale l'oggetto contemplato aveva una relazione sfavorevole ed ostile; – questa è la differenza tra il bello e il sublime. Nell'oggetto non sono l'uno e l'altro sostanzialmente distinti: poiché in ciascun caso è oggetto della contemplazione estetica non già la singola cosa, bensì l'idea, che in questa tende a palesarsi, ossia l'adeguata oggettità della volontà in un dato grado: il suo correlato necessario – sottratto, come lei medesima, al principio di ragione, è il puro soggetto del conoscere; come il correlato della cosa singola è l'individuo conoscente, e questo e quella stanno entrambi in potere del principio di ragione.

Chiamando bella una cosa, veniamo con ciò a dire che ella è oggetto della nostra contemplazione estetica; la qual cosa implica due fatti: da un lato, che la vista di quella ci renda obiettivi, ossia che noi nel contemplarla non siamo più consapevoli di noi stessi in quanto individui, bensì in quanto puro, libero da volontà soggetto del conoscere; e dall'altro lato, che nell'oggetto non la singola cosa, bensì conosciamo un'idea – il che può solo accadere fin quando la nostra contemplazione dell'oggetto non sia asservita al principio di ragione, non vada dietro al suo rapporto con qualcosa fuori di esso (rapporto ch'è sempre collegato a rapporti con la nostra volontà), bensì posi nell'oggetto medesimo. Imperocché l'idea e il puro soggetto del conoscere si presentano sempre insieme alla conscienza, come necessari correlati, e col loro presentarsi svanisce anche ogni differenza temporale, essendo entrambi affatto estranei al principio di ragione in tutte le sue forme, e stando fuori delle relazioni da esso determinate: paragonabili all'arcobaleno ed al sole, che nessuna parte hanno nel continuo moto e nella successione delle cadenti gocce. Quindi, se io a mo' d'esempio guardo un albero esteticamente, ossia con occhio artistico, e quindi non esso conosco, bensì la sua idea; perde subito ogni valore il saper se l'albero è questo o se è un suo florido antenato di mille anni innanzi, e così se chi l'osserva è questo o quell'individuo, quando che sia e dove che sia vissuto. Tolto il principio di ragione, son tolti anche l'oggetto singolo e il conoscente individuo; nulla rimane se non l'idea e il puro soggetto del conoscere, che insieme costituiscono l'adeguata oggettità della volontà in questo grado. E non solo al tempo, ma anche allo spazio è sottratta l'idea: poiché non la forma spaziale, che mi sta davanti, ma la sua espressione, il suo significato puro, la sua più intima essenza, che a me si apre e mi parla, è propriamente l'idea; e rimane identica pur se vi sia gran differenza nelle relazioni spaziali della forma.

Ora, poiché da un verso ogni cosa che esista può esser considerata in modo puramente obiettivo e fuor d'ogni relazione; poiché inoltre dall'altro verso, in ogni cosa la volontà – qualunque sia il grado della sua oggettità – si rileva, e la cosa stessa è quindi espressione di un'idea; ne viene che ogni cosa è bella. Che anche le cose più insignificanti possano essere oggetto d'una considerazione puramente obiettiva e scevra di volontà, e come tali mostrarsi belle, attesta l'esempio, già citato a questo riguardo (§ 38), delle nature morte olandesi. Ma una cosa è più bella d'un'altra pel fatto che ella agevola quella considerazione puramente oggettiva, le muove incontro, quasi la costringe: e allora noi diciamo ch'è molto bella. Questo in parte accade perché, come cosa singola, mediante la chiarissima, nettamente determinata, in tutto significativa relazione delle sue parti, ella esprime nettamente l'idea della propria specie; e mediante la compiutezza, in lei raccolta, di tutte le possibili manifestazioni della specie stessa, quell'idea palesa in modo compiuto; sì che allo spettatore è reso facilissimo il passar dalla singola cosa all'idea, e facilissimo appunto perciò anche lo stato della pura contemplazione. Per un'altra parte, il privilegio della maggior bellezza d'un oggetto consiste nell'esser l'idea medesima, che da quello ci parla, un alto grado nell'oggettità della volontà, e quindi significantissima e molto espressiva. Perciò è l'uomo più bello d'ogni altra cosa, e la rivelazione della sua essenza è il più alto fine dell'arte. Figura umana ed umana espressione sono il più importante oggetto dell'arte figurativa, come l'azione umana è oggetto più importante della poesia. Ma tuttavia ogni cosa ha la sua speciale bellezza: non soltanto ogni essere organico presentantesi nell'unità del suo individuo, bensì anche ogni cosa inorganica, priva di forma, e perfino ogni cosa fatta dalla mano dell'uomo. Imperocché tutte palesano le idee, per mezzo delle quali la volontà s'oggettiva nei gradi più bassi, e formano come le più profonde, estinguentisi note di basso della natura. Gravità, solidità, fluidità, luce, etc., sono le idee che si esprimono in rocce, edilizi, acque. La bella architettura dei giardini e delle costruzioni non altro può se non aiutar tali idee a spiegare in modo limpido, vario e compiuto quelle lor qualità, e dar loro modo di esprimersi nettamente; sì che possano richiamare e rendere agevole la contemplazione estetica. A ciò poco o punto riescono invece brutti edifizi e paesi; ma nemmeno da questi posson dileguarsi del tutto quelle generali idee elementari della natura. Quivi anche parlano codeste idee al contemplatore che le cerca, anche edifizi brutti e simili cose sono atti ad una considerazione estetica: ancora sono quivi riconoscibili le più generali qualità della loro materia, e soltanto la forma loro data artificialmente, lungi dall'agevolare, è un impedimento, che fa difficile la contemplazione estetica. Dunque, anche cose artefatte servono alla espressione di idee: ma non è l'idea della cosa artefatta, che in loro parla, bensì l'idea del materiale a cui s'è data quella forma artificialmente. Questo si può esprimere, in modo assai comodo, nel linguaggio degli scolastici, con due parole: ossia nell'artefatto si esprime l'idea della sua forma substantialis, non quella della sua forma accidentalis; la quale ultima non fa capo a un'idea, bensì semplicemente ad un concetto umano, dal quale ella è nata. S'intende, che qui con la parola artefatto non si vuole indicare nessun'opera dell'arte figurativa. D'altronde in realtà gli scolastici intesero per forma substantialis quel ch'io chiamo grado dell'oggettivazione della volontà in un oggetto. Nel trattar della bella architettura, ritorneremo fra poco sull'espressione dell'idea del materiale. Or dunque, dato questo nostro giudizio, non possiamo convenir con Platone, quando afferma (De Rep,, x, pp. 284-285, e Parmen., p. 79, ed. Bip.), che tavola e sedia esprimono le idee tavola e sedia; noi diciamo invece, che esprimono le idee già rilevantisi nella semplice materia loro, in quanto tale. Secondo Aristotele (Metaph,, xi, cap. 3) avrebbe tuttavia Platone statuito solamente idee degli enti naturali: Πλατον εφη, ότι ειδη εστιν όποσα φυσει. (Plato dixit, quod ideae eorum sunt, quae natura sunt); e nel cap. 5 si dice non esister secondo i platonici idea alcuna di casa o d'anello. In ogni modo già i discepoli più prossimi di Platone, secondo c'informa Alcinoo (introducilo in platonicam philosophiam, cap. 9), negarono potersi dare idee di cose artificiali. Dice Alcinoo: Ὁριζονται δε την ιδεαν, παραδειγμα των κατα φυσιν αιωνιον. Ουτε γαρ τοις πλειστοις των απο Πλατωνος αρεσκει, των τεχνικων ειναι ιδεας, οίον ασπιδος η λυρας, ουτε μην των παρα φυσιν, οίον πυρετου και χολερας, ουτε των κατα μερος, οίον Σωκρατους καὶ Πλατωνος, αλλ’ουτε των ευτελων τινος, οίον μειζονος και ύπερεχοντος ειυαι γαρ τας ιδεας νοησεις θεου αιωνιους τε και αυτοτελεις (Definiunt autem ideam exemplar aeternum éorum, quae secundum naturam existunt. Nam plurimis ex iis, qui Platonem secuti sunt, minime placuit, arte factorum ideas esse, ut clypei atque lyrae; neque rursus eorum, quae praeter naturam, ut febris et cholerae; neque particularium, ceu Socratis et Platonis; neque etiam rerum vilium, veluti sordium et festucae; neque relationum, ut majoris et excedentis: esse namque ideas intellectiones dei aeternas, ac seipsis perfectas). In quest'occasione può essere toccato un altro punto, nel quale la nostra dottrina delle idee molto s'allontana da quella di Platone. Egli insegna (De Rep., X, p. 288), l'oggetto che l'arte bella vuol rappresentare, il modello della pittura e della poesia, non esser l'idea, bensì la cosa singola. Proprio il contrario sostiene tutta la dimostrazione da noi fin qui fatta; e l'avviso di Platone tanto meno ci svierà su questo punto, essendo la causa d'un dei più grossi e riconosciuti errori commessi da quell'uomo grande, ossia del suo disdegno e abominio per l'arte, specialmente la poesia. Il suo falso giudizio su di questo ei lo collega direttamente col luogo citato.

§ 42.

Ritorno alla nostra indagine dell'impressione estetica. La conoscenza del bello richiede adunque sempre, contemporanei e inseparabili, un oggetto puramente conoscente, e, come oggetto, un'idea conosciuta. Quindi la fonte del godimento estetico starà or più nella percezione dell'idea conosciuta, or più nella beatitudine e serenità spirituale del puro conoscere, liberatosi da ogni volere e per conseguenza da ogni individualità, e della pena che questa produce: e codesto prevalere dell'uno o dell'altro elemento del piacere estetico dipenderà dall'esser l'idea intuitivamente percepita un più alto o più basso grado nell'oggettità della volontà. Ad esempio, con la contemplazione estetica della bella natura (sia in realtà, sia attraverso il mezzo dell'arte) nel campo inorganico e vegetale, e così con quella delle opere di bella architettura, prevarrà il godimento del puro conoscere scevro di volontà, essendo le idee qui concepite sol bassi gradi nell'oggettità della volontà, e non fenomeni di profonda significazione e molto espressivo contenuto. Viceversa, quando animali e uomini sono oggetto della contemplazione o rappresentazione estetica, consisterà il godimento piuttosto nell'obiettivo percepir tali idee, che sono le più chiare manifestazioni della volontà, mostrandoci la massima varietà di forme, ricchezza e profonda significanza dei fenomeni, e palesandoci nel modo più compiuto l'essenza della volontà: sia nella sua violenza, nella sua terribilità, nel suo appagamento, sia nel suo infrangersi (quest'ultimo nella rappresentazione tragica), e finalmente pur nel suo mutarsi o sopprimersi (ciò ch'è particolarmente il tema della pittura cristiana; come in genere la pittura storica e il dramma han per oggetto l'idea della volontà illuminata dalla piena conoscenza). Esamineremo adesso le arti ad una ad una: dal che la teoria del bello or ora formulata acquisterà compiutezza ed evidenza.

§ 43.

La materia, in quanto tale, non può essere rappresentazione di un'idea. Imperocché essa, come abbiamo trovato nel primo libro, è in tutto e per tutto causalità: il suo essere è un semplice agire. Ma causalità è forma del principio di ragione: conoscenza dell'idea invece esclude essenzialmente il contenuto di quel principio. Anche abbiamo trovato nel secondo libro esser la materia il sostrato comune a tutti i singoli fenomeni delle idee, e quindi l'anello di congiunzione tra l'idea e il fenomeno o cosa singola. Dunque, tanto per l'uno quanto per l'altro motivo, non può la materia di per sé rappresentare idea alcuna. Ciò si conferma a posteriori pel fatto che della materia come tale nessuna rappresentazione intuitiva è possibile, bensì unicamente un concetto astratto: non rappresentandosi in quella se non le forme e qualità, delle quali è base la materia, e in tutte le quali si palesano idee. Questo corrisponde pure al fatto, che causalità (l'intera essenza della materia) per sé non è rappresentabile intuitivamente: ma rappresentabile è solo un determinato nesso causale. All'opposto deve ciascun fenomeno di un'idea, essendo questa come tale spirata nella forma del principio di ragione, o nel principia individuationis, rappresentarsi nella materia, come qualità di questa. In questo senso è adunque la materia, come s'è detto, l'anello di congiunzione tra l'idea e il principium individuationis, il quale è la forma della conoscenza individuale, ossia il principio di ragione. Giustissimamente ha quindi Platone posto accanto all'idea e al suo fenomeno, ch'è la cosa singola – i quali entrambi comprendono le cose tutte del mondo – ancora la materia, come un terzo elemento, da quelli diverso (Timaeus, p. 345). L'individuo, in quanto fenomeno dell'idea, è sempre materia. Anche ciascuna qualità della materia è sempre fenomeno di un'idea, e come tale pur capace d'una contemplazione estetica, ossia conoscenza dell'idea che in lei si presenta. Questo vale egualmente per le più generiche qualità della materia, senza le quali essa non può esistere, e le cui idee sono la più debole oggettità della volontà. Tali sono: gravità, coesione, rigidità, fluidità, reazione contro la luce, etc.

Se consideriamo ora l'architettura, soltanto come arte bella, prescindendo dalla sua destinazione ai fini pratici, nei quali ella serve non alla conoscenza pura ma alla volontà, e non è adunque più arte come noi l'intendiamo, non ci è possibile attribuirle altro intento se non quello di rendere più chiare all'intuizione alcune delle idee, che sono i gradi più bassi nell'oggettità della volontà, quali gravità, coesione, solidità, durezza – le proprietà generiche della pietra; le prime, più semplici, più grosse manifestazioni visibili della volontà; le note del basso fondamentale della natura; – e poi, oltre quelle, la luce: che per molti rispetti è di quelle un contrapposto. Già in codesto basso grado dell'oggettità della volontà vediamo che la sua essenza si palesa in un conflitto: poiché la lotta tra gravità e solidità è propriamente l'unico proposito estetico della bella architettura; metterlo variamente in piena evidenza è il suo compito. Tale compito adempie, togliendo a quelle indelebili forze la via più breve del loro soddisfacimento, trattenendole col deviarle; la lotta viene così prolungata, e si fa in vario modo palese l'inesauribile tendenza di entrambe le forze. L'intera massa dell'edificio, abbandonata alla sua originaria tendenza, presenterebbe nient'altro che un cumulo il più possibile aderente alla terra: verso la quale incessante sospinge la gravità (perché così si manifesta quivi la volontà), mentre la solidità, anch'essa oggettità della volontà, le si oppone. Ma appunto codesta tendenza, codesta necessità viene dall'architettura impedita nella sua immediata soddisfazione; che sol mediatamente le vien concessa, per vie non dirette. Per esempio, l'architrave può premer la terra sol per mezzo delle colonne; la volta deve reggersi da sé, e appagar la sua attrazione verso la massa terrestre solo attraverso i pilastri, etc. Ma appunto in queste forzate vie indirette, appunto attraverso questi impedimenti, si dispiegano nel modo più manifesto e variato le forze inerenti al nudo masso di pietra; e più lungi non può andare il fine puramente estetico dell'architettura. Perciò senza dubbio la bellezza di un edifizio consiste nell'adattamento, visibile a tutta prima, di ciascuna parte al suo fine: e non al fine esteriore, arbitrario dell'uomo (che sotto questo rispetto appartiene l'opera all'architettura pratica), bensì direttamente alla consistenza dell'insieme; nella quale la posizione, grandezza e forma d'ogni parte ha con le altre una relazione tanto necessaria, che, qualora fosse possibile, sottraendone una sola crollerebbe l'edifizio intero. Imperocché solo col sostener ciascuna parte quanto le conviene di sopportare, e con l'esser ciascuna sorretta dove e come occorre, si sviluppa fino alla più perfetta evidenza quel contrasto, quella lotta tra solidità e gravità, onde son costituite nella pietra la vita, le manifestazioni della volontà; e chiaramente si palesano questi gradi infimi dell'oggettità della volontà. Non altrimenti deve la forma di ciascuna parte esser determinata dal proprio scopo e dalla propria relazione con l'insieme, non già dall'arbitrio. La colonna è la più semplice forma di sostegno, determinata soltanto dal suo fine: quindi la colonna attorta è goffa. Il pilastro quadrato è in realtà meno semplice, sebbene casualmente più facile a farsi che non la tonda colonna. Similmente sono le forme della cornice, dell'architrave, dell'arco e della cupola determinate in tutto e per tutto dal loro scopo diretto, e si spiegano quindi da sé. Le decorazioni dei capitelli etc., spettano alla scultura, e non all'architettura; dalla quale essi, come ornati aggiunti, non sono che tollerati, e potrebbero anche venir tralasciati. In ragione di quanto s'è detto, per la comprensione e il godimento estetico di un'opera d'architettura è imprescindibilmente necessario aver conoscenza intuitiva del suo materiale in quanto a peso, solidità e coesione. E la gioia, che proviamo d'una tale opera, verrebbe subitamente molto ridotta dallo scoprir che il materiale di costruzione fosse di pietra pomice: che allora essa ci apparirebbe quasi come un edifizio posticcio. Press'a poco il medesimo effetto produrrebbe saperla fatta di legno, mentre noi la credevamo di pietra: appunto perché ciò muterebbe e sposterebbe il significato, la necessità di tutte le parti, molto più debolmente rivelandosi quelle forze di natura nell'edilizio ligneo. Perciò non può veramente farsi col legno opera alcuna di bella architettura, per quanto possa il legno piegarsi a tutte le forme: la qual cosa è spiegabile soltanto con la nostra teoria. Se poi infine ci si dicesse, che l'edifizio, la cui vista ci rallegra, è formato di materiali tra loro affatto diversi, di molto dissimile gravità e consistenza, ma che l'occhio non sa distinguere, l'intero edifizio ci apparirebbe perciò insipido e incomprensibile, come una poesia in una lingua a noi ignota. Tutto ciò prova appunto, che l'architettura non agisce solo matematicamente, ma anche dinamicamente; e quel che per suo mezzo ci parla, non è per avventura semplice forma e simmetria, bensì sono piuttosto quelle elementari forze della natura, quelle prime idee, quegl'infimi gradi dell'oggettità della volontà. La regolarità dell'edifizio e delle sue parti è per un verso generata dal diretto adattamento di ciascuna parte alla consistenza dell'insieme; per l'altro serve ad agevolare la visione generale e la comprensione del tutto; e infine le figure regolari, mostrando la regolarità dello spazio come tale, contribuiscono alla bellezza. Ma tutto ciò ha valore e necessità subordinati, ed è lungi dal costituir l'essenziale: che la simmetria stessa non è punto richiesta assolutamente, potendo esser belle anche le rovine.

Una specialissima relazione hanno poi ancora le opere dell'architettura con la luce: in pieno splendore di sole, col cielo azzurro nello sfondo, sono due volte più belle; e tutt'altro effetto producono inoltre nello splendore lunare. Perciò anche nella costruzione di una bell'opera architettonica si ha sempre particolare riguardo agli effetti di luce e alle regioni del cielo. Tutto questo ha il suo motivo per massima parte nel fatto, che chiara e netta luce occorre a render ben visibili tutte le parti e le correlazioni loro; inoltre sono d'avviso, che l'architettura sia rivolta a palesare, così come palesa gravità e solidità, anche quest'opposta essenza della luce. Infatti, col venir la luce accolta, impedita, riflessa dalle grandi masse non trasparenti, nettamente delineate e variamente conformate, dispiega la sua natura e le sue proprietà nel modo più limpido ed evidente, con grande gioia dello spettatore: perché di tutte le cose la luce è quella che più rallegra, come condizione e correlato oggettivo del più perfetto modo di conoscenza intuitiva.

Ora, essendo le idee, che l'architettura trae alla chiara intuizione, i gradi infimi nell'oggettità della volontà, e venendo per conseguenza a esser relativamente scarsa la significanza oggettiva di ciò che l'architettura ci svela; ne deriva, che il godimento estetico provato alla vista d'un bell'edifizio in buona luce, non sta tanto nella percezione dell'idea, quanto nel correlato soggettivo stabilito con codesta percezione. Ossia consiste prevalentemente nel fatto, che in tal vista il contemplatore si sente strappato al modo di conoscere dell'individuo, e innalzato a quello del puro, scevro di volontà soggetto del conoscere; ossia alla pura, da ogni pena del volere e dell'individualità disciolta contemplazione. Sotto questo rispetto il contrario dell'architettura, l'estremo opposto nella serie delle arti belle, è il dramma: il quale porta alla conoscenza le idee di più alta importanza, sì che nel godimento estetico di esso il lato oggettivo è del tutto prevalente.

L'architettura ha di fronte alle arti plastiche e alla poesia questo carattere distintivo: non dà, come quelle, un'immagine della cosa, bensì la cosa stessa; non riproduce, come quelle, l'idea conosciuta, cedendo l'artista i proprii occhi allo spettatore, ma invece l'artista presenta semplicemente allo spettatore l'oggetto, e gli allevia la percezione dell'idea, portando il vero oggetto individuale alla chiara e completa espressione della sua essenza.

Molto raramente vengono le opere d'architettura – come le rimanenti opere dell'arte bella – eseguite per puri fini estetici: più spesso vengono subordinate ad altri fini pratici, all'arte stranieri; ed il gran merito dell'architetto consiste nel tener tuttavia di mira, e raggiungere, i fini puramente estetici anche in quella lor subordinazione a fini estranei, adattandoli di volta in volta, in vario modo, con abilità, allo scopo pratico, e rettamente giudicando qual bellezza estetico-architettonica s'adatti e si possa accordare con un tempio, quale con un palazzo, quale con un arsenale, e così via. Quanto più un rude clima accresce quelle esigenze del necessario e dell'utile, e più rigidamente le determina e inesorabilmente prescrive, tanto meno spazio rimane al bello nell'architettura. Nel mite clima dell'India, d'Egitto, di Grecia e di Roma, dove le esigenze della necessità erano imposte in minor numero e con meno rigore, potè l'architettura più liberamente tener dietro ai suoi fini estetici; sotto il nordico cielo questi le vennero molto limitati. Qui, dove necessità voleva chiusure, tetti acuminati e torri, dove l'architettura – potendo spiegar la propria bellezza solo in ristretti confini – ornarsi in compenso con decorazione tolta a prestito dalla scultura, come si può veder nella bella architettura gotica.

Se deve in tal modo l'architettura, per le esigenze del necessario e dell'utile, subir grandi limitazioni, ha appunto in ciò d'altra parte un poderoso appoggio; non potendosi ella punto reggere, per l'ampiezza ed il costo delle sue opere, come per la circoscritta sfera della sua speciale azione estetica, se in pari tempo non avesse, come arte utile e necessaria, un posto fermo e onorevole tra le umane occupazioni. È appunto la mancanza d'un tal posto, che impedisce a un'altra arte di starle accanto da sorella, sebbene sotto il rispetto estetico sia propriamente da porlesi vicino come a riscontro: intendo l'arte bella dell'idraulica. Imperocché ciò che opera l'architettura per l'idea della gravità, dove questa appare congiunta con la solidità, opera quella per l'idea medesima, dove a lei è associata la fluidità, ossia assenza di forma, estrema mobilità, trasparenza. Su per le rocce spumeggiando e mugghiando precipiti cascate, cataratte frangentisi mute in polvere d'acqua, fontane sprizzanti in alte liquide colonne, chiarospecchianti laghi svelano le idee della gravità fluida nella materia, come le opere architettoniche dispiegano le idee della materia solida. Nessun appoggio trova l'idraulica artistica nell'idraulica pratica; non potendosi gli scopi di quest'ultima accordare di regola co' suoi. Questo può accader soltanto per eccezione, ad esempio nella Cascata di Trevi in Roma14.

§ 44.

Quel che le due arti ricordate fanno per i gradi minimi dell'oggettità della volontà, fa in certo modo l'arte bella dei giardini per il grado, più elevato, della natura vegetale. La bellezza d'un limitato paesaggio consiste in gran parte nella varietà degli oggetti naturali che vi si trovano; e poi nel fatto che questi vi si distinguano nettamente, vi risaltino con evidenza, e tuttavia si presentino in convenevole armonia e varietà. Sono queste le condizioni, a cui l'arte bella dei giardini contribuisce: nondimeno ella è lungi dall'esser padrona della sua materia, come l'architettura è della propria; e quindi la sua azione rimane limitata. Il bello, che essa presenta, appartiene quasi per intero alla natura; essa v'ha poco contribuito. E pochissimo può d'altra parte contro il disfavore della natura: dove questa invece di preparare contrasta, i suoi risultati sono scarsi.

Adunque, in quanto il mondo vegetale – che senza aver l'arte per intermediaria si offre da per tutto al godimento estetico – è oggetto dell'arte, appartiene principalmente alla pittura di paese. Nel dominio di questa si trova, col mondo vegetale, anche tutta l'altra natura priva di conoscenza. Nella natura morta, e nella riproduzione di opere architettoniche, rovine, interni di chiese, etc., prevale il lato soggettivo del godimento estetico: ossia il piacere che ne abbiamo non sta principalmente e direttamente nella percezione delle idee rappresentate, bensì di più nel correlato soggettivo di questa percezione, nel puro conoscere scevro di volere. Perché, mentre il pittore ci fa veder le cose co' suoi occhi, sentiamo in pari tempo dentro di noi medesimi quasi riflettersi la profonda serenità di spirito e il perfetto silenzio della volontà, che sono stati necessari per concentrar sì appieno la conoscenza in quegli oggetti inanimati, e con tanto amore – ossia a tal grado di obiettività – riprodurli. L'effetto della vera e propria pittura di paesaggio è ancora, a dire il vero, dello stesso genere; ma poi che le idee rappresentate, come gradi più alti nell'oggettità della volontà, sono già più significanti ed espressive, vien fuori in maggior misura il lato obiettivo del piacere estetico, e sta a pari col soggettivo. Il puro conoscere, come tale, non è più quel che solo conta; ma con eguale potenza agisce l'idea conosciuta, il mondo come rappresentazione, in un notevole grado di oggettivazione della volontà.

Ma un grado ben più alto rivela la pittura e scultura d'animali; della quale ultima abbiamo importanti avanzi antichi, per esempio cavalli, a Venezia, a Monte Cavallo, sui rilievi di Elgin, ed anche a Firenze, in bronzo o marmo (quivi pur l'antico cignale, gli urlanti lupi); e i leoni dell'arsenale di Venezia, e in Vaticano tutta una sala piena d'animali in massima parte antichi, e così via. Ora, davanti a codeste rappresentazioni il lato oggettivo del piacere estetico prende un aperto sopravvento sul soggettivo. La serenità del soggetto, che tali idee conoscendo ha placato la propria volontà, vi si ritrova, è vero, come in ogni contemplazione estetica, ma la sua azione non viene sentita: imperocché ci occupa la inquietudine e la violenza della rappresentata volontà. È quello stesso volere, ond'è pur costituita la nostra essenza, che ci sta davanti agli occhi: in figure, nelle quali la sua manifestazione non è come in noi dominata e mitigata dalla riflessione, ma si presenta bensì in forti tratti, con un'evidenza da rasentare il grottesco e il mostruoso; e in compenso ostentantesi liberamente in piena luce, ingenua e aperta – ragione per cui, appunto, il nostro interesse va agli animali. La nota caratteristica delle specie già veniva fuori nella rappresentazione delle piante, mostrandosi tuttavia solamente nelle forme: qui acquista molto maggior rilievo, e si esprime non solo nella forma, bensì nell'azione, posizione e movenza; sebbene sia ancor sempre carattere della specie, e non dell'individuo. Questa conoscenza delle idee di gradi più alti, che noi acquistiamo nella pittura mediante un intermediario, possiamo raggiungere anche in maniera diretta, con la intuizione puramente contemplativa delle piante e l'osservazione degli animali; questi nel loro stato libero, naturale, a loro agio. La considerazione obiettiva delle lor svariate, mirabili forme e della loro attività è un'istruttiva lezione del gran libro della natura, una decifrazione della vera signatura rerum15: in lei vediamo i molteplici gradi e modi della manifestazione della volontà, la quale, in tutti gli esseri una e identica, ovunque la stessa cosa vuole – vuole appunto ciò, che come vita, come esistenza viene ad oggettivarsi, in sì infinita varietà, in sì infinite forme; le quali tutte sono accomodamenti alle diverse condizioni esteriori, paragonabili a molte variazioni d'uno stesso tema. Ma se dovessimo al contemplatore fornire, anche per la riflessione, e con una sola parola, un chiarimento sull'intima essenza di codesti esseri, potremmo meglio d'ogni altra usare quella formula sanscrita, la quale tanto spesso ricorre nei libri sacri degli Indù e vien detta Mahavakya, ossia la grande parola: «Tat tvam asi», che significa: «questo vivente sei tu».

§ 45.

Rappresentare intuitivamente, in maniera diretta, l'idea nella quale la volontà raggiunge il massimo grado della sua oggettivazione, è finalmente il gran compito della pittura storica e della scultura. Il lato obiettivo del piacere prodotto dal bello è qui affatto prevalente, e il lato soggettivo è rientrato nella penombra. Inoltre è da osservare, che ancor nel grado immediatamente più prossimo sotto di questo, nella pittura animale, il caratteristico è tutt'uno col bello: il più caratteristico leone, lupo, cavallo, pecoro, toro v'è anche ognora il più bello. La ragione di questo è che gli animali hanno solo il carattere della specie, e nessun carattere individuale. Ma nella rappresentazione dell'uomo si distingue invece il carattere della specie dal carattere dell'individuo: quello si chiama bellezza (in senso del tutto oggettivo), mentre questo mantiene il nome di carattere o espressione; e subentra la nuova difficoltà, di rappresentarli entrambi in pari tempo nello stesso individuo.

Umana bellezza è un'espressione oggettiva, la quale indica la più perfetta oggettivazione della volontà nel grado più alto della sua conoscenza possibile, l'idea dell'uomo in genere, pienamente espressa nella forma intuita. Ma per quanto prevalga qui il lato oggettivo del bello, rimane tuttavia suo perenne compagno il soggettivo. E appunto perché nessun oggetto ci rapisce così presto nell'intuizione puramente estetica, come fa il bellissimo aspetto e la forma dell'uomo, alla cui vista subitamente un piacere inesprimibile ci coglie, e sopra noi stessi e ogni nostro tormento ci eleva; appunto per questo ciò è possibile solo in quanto cotale evidentissima e purissima conoscibilità della volontà anche ci trasporti nel modo più lieve e rapido in quello stato del puro conoscere, in cui la nostra personalità, il nostro volere, con la sua assidua pena, svanisce, fin quando persiste la pura gioia estetica: perciò dice Goethe: «Chi scorge l'umana bellezza, niente di male può spirargli contro: egli si sente con se stesso e col mondo in accordo». Che alla natura possa riuscir una bella figura d'uomo, si spiega col fatto che la volontà, oggettivandosi a tale altissimo grado in un individuo, vince appieno sia per favorevoli circostanze sia per forza propria tutti gli ostacoli e la resistenza opposti a lei dalle manifestazioni della volontà nei gradi inferiori: di codesta sorte son le forze naturali, a cui ella deve ognora cominciar col conquistare e strappare la materia, a tutte comune. Inoltre il fenomeno della volontà nei gradi superiori ha sempre varietà di forma: già l'albero non è che un sistematico aggregato di germinanti fibre moltiplicate indefinitamente: questa complessità s'accresce man mano che si salga nei gradi, e il corpo umano è un complicatissimo sistema di parti affatto diverse, ciascuna delle quali, al complesso subordinata, ha tuttavia anche una vita propria. E l'esser tutte codeste parti appunto nel giusto modo subordinate all'insieme, e il contribuire armonicamente all'aspetto generale, nulla trovandovisi di eccessivo, nulla di manchevole; tali son le rare condizioni, di cui è risultato la bellezza, il carattere della specie perfettamente improntato. Così fa la natura. Ma come fa l'arte? Si crede, con l'imitar la natura. Ma a che cosa riconoscerebbe un artista l'opera di natura ben riuscita e da imitare, scegliendola tra le non riuscite, se egli non avesse del bello una nozione anteriore all'esperienza? E poi, ha mai la natura prodotto un essere umano perfettamente bello in ogni parte? Allora s'è pensato che l'artista dovesse scegliere le parti belle singolarmente distribuite in molte creature, per comporne un solo essere perfetto: opinione assurda e insensata. Imperocché ci si torna a chiedere: a qual segno deve conoscere, che proprio queste forme sono le belle, e non le altre? E possiamo vedere che sorta di bellezza hanno trovata gli antichi pittori tedeschi, con l'imitar la natura! Basta guardare i loro nudi. No: a posteriori, e per semplice esperienza, non si può aver cognizione del bello: questa è sempre, almeno in parte, a priori, sebbene di tutt'altra specie che i modi a noi noti a priori del principio di ragione. Questi si riferiscono alla general forma del fenomeno come tale, in quanto essa è base alla conoscenza in genere, al come – universale e senza eccezione – del fenomeno (da tal conoscenza nascono matematica e scienza naturale pura). Invece quell'altra maniera di conoscenza a priori, che rende possibile la rappresentazione del bello, non concerne la forma, bensì il contenuto dei fenomeni: non il «come» del loro manifestarsi, bensì il «che cosa». Noi tutti conosciamo, vedendola, la beltà umana; ma nell'artista una tal conoscenza avviene con tal chiarezza, ch'egli mostra quella beltà, come non l'ha veduta mai, e sorpassa nella sua rappresentazione la natura: questo è possibile sol perché la volontà, la cui adeguata oggettivazione nel suo massimo grado va qui giudicata e scoperta, è noi stessi. Solo così possiamo avere in effetti una cognizione anticipata di ciò che la natura (la quale è appunto la volontà che costituisce il nostro proprio essere) si sforza di rappresentare; e codesta cognizione anticipata nel vero genio s'accompagna con tal grado di riflessione, che esso, mentre nel singolo oggetto conosce l'idea rispettiva, quasi viene a comprender la natura attraverso mezze parole; e così può esprimer nettamente ciò ch'ella appena balbetta; tanto da imprimer nel duro marmo la bellezza della forma che a lei in mille tentativi fallisce, e quella bellezza contrappone alla natura, quasi esclamando: «Questo era, ciò che tu volevi esprimere!» – e, «Sì, questo era!» fa eco l'intenditore. Solo così potè il greco geniale scoprire il prototipo della forma umana, e porlo come canone nella scuola della scultura; ed anche solo in grazia di tale anticipazione è a noi tutti possibile di conoscere il bello, là dove esso è alla natura in un singolo esemplare effettivamente riuscito. Codesta anticipazione è l'ideale: è l'idea, in quanto essa, almeno a metà, è conosciuta a priori, e, come tale, venendo a completar quanto ci è offerto dalla natura a posteriori, diventa pratica per l'arte. La possibilità di simile anticipazione del bello a priori nello scultore, come del suo riconoscimento a posteriori nell'intenditore, sta in questo, che artista e conoscitore sono essi medesimi l'in-sé della natura, l'oggettivantesi volontà. Soltanto dal simile, come disse Empedocle, si conosce il simile: soltanto natura può comprendere se stessa; soltanto natura da fondo a se stessa: e similmente dal solo spirito è inteso lo spirito16.

L'assurda opinione che i greci abbiano trovato l'ideale della umana bellezza in modo affatto empirico, mediante scelta di singole parti belle, qui un ginocchio, là un braccio denudando o notando, ha del resto il suo riscontro in un'opinione analoga concernente la poesia: l'opinione che, p. es., gl'infinitamente vari caratteri de' suoi drammi, così veri, così sostenuti, così ricavati dal profondo, abbia Shakespeare notati nella propria personale esperienza della vita sociale, e poi riprodotti. L'impossibilità e assurdità di tale opinione non ha bisogno d'esser dimostrata: è evidente che il genio, come produce le opere dell'arte plastica sol per mezzo di una presaga anticipazione del bello, così produce le opere della poesia solo mediante una consimile anticipazione del caratteristico; per quanto l'una e l'altra richiedano l'esperienza come uno schema, indispensabile, perché quanto era loro noto oscuramente a priori venga innalzato alla piena chiarezza, e nasca così la possibilità di una meditata rappresentazione.

Umana bellezza fu qui sopra spiegata come la più perfetta oggettivazione della volontà nel più alto grado della sua conoscibilità. Essa si esprime attraverso la forma: questa è soltanto nello spazio, e non ha relazione necessaria col tempo; come l'ha, per esempio, il moto. Possiamo dire adunque: l'adeguata oggettivazione della volontà per mezzo d'un fenomeno spaziale è bellezza, nel senso oggettivo. La pianta non è altro che un tal fenomeno, puramente spaziale, della volontà; imperocché nessun movimento e quindi nessuna relazione col tempo (astraendo dal suo sviluppo) appartiene all'espressione della sua essenza: la sua forma esprime da sola tutta la sua essenza, e aperta la palesa. Ma uomo e animale per la piena rivelazione della volontà in loro manifestantesi abbisognano ancora d'una serie di atti, attraverso cui quel fenomeno viene a prendere in essi un'immediata relazione col tempo. Tutto ciò fu già spiegato nel libro che precede: alla nostra indagine presente si riannoda per quanto segue. Come il fenomeno puramente spaziale della volontà può oggettivar quest'ultima in ciascun grado perfettamente o imperfettamente, il che produce appunto bellezza o bruttezza: così può anche la temporale oggettivazione della volontà, ossia l'azione, e precisamente l'azione immediata, il movimento, corrisponder in modo puro e perfetto alla volontà che in lei si oggettiva; senza estranea mescolanza, senza superfluità, senza manchevolezza, ma solo esprimendo per l'appunto ogni volta quel determinato atto di volontà; – oppure può tutto questo accadere a rovescio. Nel primo caso, il movimento è compiuto con grazia; e nel secondo, senza. Come adunque bella è la ben rispondente rappresentazione della volontà in genere mediante il suo fenomeno puramente spaziale, così è grazia la ben rispondente rappresentazione della volontà mediante il suo fenomeno temporale; ossia l'espressione in tutto giusta e commisurata di ciascun atto di volontà, per mezzo del movimento e della posizione che l'oggettiva. Poiché movimento e posizione già presuppongono il corpo; quindi è giustissima e calzante la definizione di Winckelmann, quando dice: «La grazia è il particolare rapporto della persona agente con l'azione» (Werke, vol. I, p. 258). Se ne ricava naturalmente, che a piante può attribuirsi bellezza, ma non grazia, fuor che in senso figurato; ad animali e uomini entrambe, bellezza e grazia. La grazia consiste, adunque, in questo: che ogni movimento e atteggiamento venga eseguito o preso nel modo più facile, più conveniente e più comodo, e sia quindi l'espressione diretta del proposito suo, ossia dell'atto di volontà, senza nulla di superfluo (che il superfluo si presenta come agitazione disordinata, priva di senso, o posizione assurda) né di manchevole (che produce lignea rigidità). La grazia richiede, come condizione, un giusto equilibrio di tutte le membra, una regolare, armonica struttura del corpo; poiché sol per questo mezzo è possibile il perfetto agio e la palese opportunità in tutte le posizioni e movenze: e quindi la grazia non si dà senza un certo grado di bellezza corporea. Questa e quella perfette e congiunte sono il più limpido fenomeno della volontà nel grado supremo della sua oggettivazione.

È uno de' contrassegni dell'umanità – l'abbiamo osservato – il trovarsi in lei distinti il carattere della specie e quel dell'individuo; sì che, com'è detto nel libro precedente, ciascun essere umano rappresenta, in un certo senso, un'idea tutta a sé. Quindi le arti il cui fine è posto nel rappresentar l'idea dell'umanità, hanno per compito, oltre la bellezza – carattere della specie – anche il carattere individuale, che suol chiamarsi appunto carattere senz'altro. Quest'ultimo tuttavia, alla sua volta, solo in quanto sia da considerarsi non già come alcunché di casuale, come una singolarità appartenente in proprio a un dato individuo; bensì come un aspetto, specialmente rilevantesi in quell'individuo, dell'idea dell'umanità: a palesare la quale è perciò opportuna la rappresentazione dell'individuo medesimo. Quindi il carattere, pur essendo individuale, deve tuttavia esser colto e rappresentato idealmente, ossia mettendo in rilievo la sua significanza in rapporto con l'idea dell'umanità in genere (alla cui oggettivazione esso contribuisce a sua guisa): e oltre a ciò poi la rappresentazione è ritratto, riproduzione del singolo come tale, con tutte le sue accidentalità. Ma il ritratto medesimo dev'essere, come dice Winckelmann, l'immagine ideale dell'individuo.

Quel carattere, da cogliersi idealmente, che è il rilievo di uno speciale aspetto dell'idea dell'umanità, si fa visibile nei transitori affetti e passioni, nelle reciproche alterne modificazioni del conoscere e del volere: cose tutte esprimentisi nel volto e nel movimento.

Appartenendo ognora l'individuo all'umanità, e viceversa rivelandosi ognora l'umanità nell'individuo, anzi rivelandosi con la particolar significazione ideale di esso, non può né la bellezza esser cancellata dal carattere, né questo da quella: perché soppressione del carattere della specie a tutto vantaggio di quello individuale darebbe caricatura; e soppressione dell'individuale, per lasciare il solo carattere della specie, darebbe insignificanza. Dovrà quindi la rappresentazione, in quanto miri alla bellezza, – il che fa soprattutto la scultura – sempre modificar tuttavia quella (ossia il carattere della specie) in taluna cosa mediante il carattere individuale; e l'idea dell'umanità sempre esprimere in determinata, individuale maniera, rilevandone un particolare aspetto; imperocché l'umano individuo come tale ha la dignità di un'idea sua propria, ed all'idea dell'umanità è appunto essenziale il manifestarsi in individui di speciale significazione. Perciò nelle opere degli antichi troviamo, che la bellezza da loro limpidamente intuita non è espressa da una figura sola, ma da molte, aventi carattere diverso, quasi fosse colta sempre sotto un nuovo aspetto, e quindi altrimenti rappresentata in Apollo, altrimenti in Bacco, altrimenti in Ercole, altrimenti in Antinoo: anzi, il caratteristico può limitare il bello e addirittura arrivar fino alla bruttezza, nel Sileno ebbro, nel Fauno, e così via. Ma se il caratteristico perviene a sopprimer veramente il carattere della specie, ossia a toccare l'innaturale, diventa caricatura. Tuttavia molto meno ancora della bellezza deve la grazia venir sopraffatta dal caratteristico: qualunque posizione e movimento richieda l'espressione del carattere, devono tuttavia quelli esser presi o compiuti nel modo più adatto alla persona, più confacente allo scopo e più facile. Tale precetto osserverà non soltanto lo scultore e pittore, ma pur ciascun buon attore: in caso contrario, si ha anche qui caricatura, sotto forma di contorcimento, distorsione.

Nella scultura rimangono bellezza e grazia la qualità essenziale. Il vero carattere dello spirito, rilevantesi in affetto, passione, giuoco alterno del conoscere e volere, rappresentabile solo mediante l'espressione del volto ed il gesto, è soprattutto privilegio della pittura. Perché sebbene occhi e colorito, – i quali stanno fuor del dominio della scultura – molto contribuiscano alla bellezza, ben più sono essenziali per il carattere. Inoltre la bellezza si dispiega più completamente a chi l'osservi da vari lati: mentre la espressione, il carattere, possono anche da un sol punto di vista essere compresi appieno.

Essendo la bellezza precipuo fine della scultura, ha Lessing cercato di spiegare il fatto che Laocoonte non grida, con l'addurre che il gridare non sia compatibile con la bellezza. Poi che per Lessing questo argomento divenne il tema, o per lo meno il punto di partenza, d'un libro speciale, ed anche prima e dopo di lui tanto vi si è scritto intorno, sia a me concesso di esporre qui per incidenza la mia opinione a questo proposito; sebbene un'analisi tanto particolare non entri propriamente nella trama di un'argomentazione, che mira, in modo esclusivo, ai principi generali.

§ 46.

Che Laocoonte, nel celebre gruppo, non gridi, è palese, e la generale, sempre rinnovata sorpresa che se ne prova, deve provenir dal fatto che noi tutti, al suo posto grideremmo. E ciò richiede la natura stessa: che nel vivissimo dolor fisico e nella massima, improvvisa angoscia corporea, ogni riflessione, la quale potesse per avventura indurci a un tacito patire, è del tutto bandita dalla conscienza; e la natura si sfoga nel gridare, con che insieme esprime il dolore e il terrore, il salvatore invoca e l'assalitore spaventa. Già Winckelmann sentì quindi una mancanza, non trovando la espressione del gridare: ma nell'intento di giustificar lo scultore, fece invero di Laocoonte uno stoico, il quale non ritiene conforme alla propria dignità il gridare secundum naturam, bensì al proprio dolore aggiunge ancora l'inutile sforzo di comprimerne l'espressione: Winckelmann vede quindi in lui «lo spirito provato di un uomo grande, il quale lotta col martirio, e cerca di soffocare e rinserrare in sé l'espressione di ciò che prova: egli non prorompe in alte grida, come fa in Virgilio, ma solamente gli sfuggono angosciosi sospiri», e così via (Werke, vol. VII, p. 98. Lo stesso più ampiamente, vol. VI, pp. 104 sg.). Ora, quest'opinione di Winckelmann criticò Lessing nel suo Laocoonte, e la corresse nel modo sopra indicato; il motivo psicologico sostituì col motivo, puramente estetico, che la bellezza – principio fondamentale dell'arte antica – non ammette la espressione del grido. Un altro argomento da lui addotto, che cioè uno stato affatto passeggero e incapace di durata non si possa esprimere in un'immobile opera d'arte, ha contro di sé cento esempi di figure ammirabili le quali sono fissate in movimenti più che fuggitivi, danzando, lottando, inseguendo. Anzi, Goethe nel suo scritto sul Laocoonte, che inizia i Propilei (p. 8), tiene la scelta d'un tal momento affatto fuggitivo per addirittura indispensabile. A' nostri giorni Hirt (Horen, 1797, X), tutto riducendo alla massima verità dell'espressione, concluse nel senso che Laocoonte non grida, perché, già in procinto di morir soffocato, non può più gridare. Da ultimo Fernov (Römische Studien, vol. I, pp. 426 sg.) ha illustrato e pesato le tre opinioni precedenti, senza tuttavia recarne alcuna nuova; ma quelle tre componendo e unificando.

Non posso a meno di stupirmi, che sì riflessivi e acuti uomini faticosamente vadano a cercar lontano ragioni inadeguate, s'afferrino ad argomenti psicologici, o addirittura fisiologici, per chiarire un fatto, la cui ragione è ben prossima e subito palese ad uno spirito spregiudicato, – e stupirmi soprattutto che Lessing, il quale tanto s'appressò alla giusta spiegazione, non abbia poi colto per nulla nel segno.

Prima d'ogni indagine psicologica e fisiologica, se Laocoonte nella sua situazione debba o no gridare – ciò che d'altronde io affermerei senz'altro – riguardo a quel gruppo è da mettere in chiaro, che non poteva il gridare esservi espresso, per il semplice motivo che la rappresentazione del grido sta completamente fuor del dominio della scultura. Non si poteva dal marmo trarre un urlante Laocoonte, ma solo un che sgangheri la bocca e invano si sforzi d'urlare: un Laocoonte a cui la voce s'è arrestata nelle fauci, vox faucibus haesit. L'essenza, e quindi anche l'effetto del gridare sullo spettatore, è tutto nel suono, non nello spalancare la bocca. Quest'ultimo fenomeno, che di necessità accompagna il gridare, deve venir motivato e giustificato dal suono che per esso è prodotto: allora, come caratteristico per l'azione, è ammissibile, anzi necessario, quand'anche nuoccia alla bellezza. Ma nell'arte figurativa, a cui la rappresentazione del gridare è del tutto estranea e negata, effettivamente incomprensibile sarebbe il rappresentar la bocca spalancata, violento mezzo nel grido, che altera tutti i lineamenti e il resto dell'espressione; perché si porrebbe innanzi agli occhi un mezzo, che esige molti sacrifizi del rimanente, mentre il fine di esso, il grido, verrebbe a mancare insieme col relativo effetto sul nostro animo. Anzi – e questo è peggio – si produrrebbe con ciò lo spettacolo sempre ridicolo di uno sforzo che rimane senz'effetto: spettacolo da paragonarsi a quel che si procurò un burlone, riempiendo di cera il corno d'una guardia notturna addormentata, per poi risvegliarla e godersi i suoi vani tentativi di suonare. Là dove invece la rappresentazione del gridare sta nel dominio dell'arte, essa è pienamente ammissibile, perché serve alla verità, ossia alla compiuta rappresentazione dell'idea. Così nella poesia, la quale per la rappresentazione intuitiva si rivolge alla fantasia del lettore: perciò mugghia Laocoonte presso Virgilio, come un toro che si sia sciolto dai legami dopo che la scure l'ha colpito: perciò fa Omero (Il, XX, 48-53) orrendamente urlare Marte e Minerva, senza danno della lor dignità di dei, né della divina bellezza. E così nell'arte scenica: Laocoonte sulla scena doveva assolutamente gridare; anche Sofocle fa urlare Filottete, e sull'antica scena questi avrà urlato per davvero. Similmente ricordo d'aver visto in Londra il celebre attore Kemble rappresentare, in un dramma tradotto dal tedesco, Pizarro, la parte dell'americano Rolla, un mezzo selvaggio, ma di nobilissimo carattere: questi, ferito, diede in un grido alto e veemente, che, essendo oltremodo caratteristico, molto contribuiva alla verità dell'azione. All'opposto sarebbe un gridare dipinto o impietrato ancor più ridicolo, che una dipinta musica, quale già vien condannata nei Propilei goethiani; imperocché il gridare nuoce alla rimanente espressione e alla bellezza molto più della musica, la quale di solito occupa soltanto mani e braccia, e va considerata come un atto caratteristico della persona; sì che sotto questo rispetto si può benissimo rappresentare in pittura, fin quando non richieda moti impetuosi del corpo o deformazione della bocca: come per esempio la Santa Cecilia all'organo e il Violinista di Raffaello nella Galleria Sciarra in Roma, e molti altri. Poiché adunque, a causa dei limiti dell'arte, non poteva il dolore di Laocoonte venire espresso col grido, dovè l'artista porre in uso ogni altra espressione del dolore stesso: questo egli ha fatto con perfezione suprema, secondo espone sì magistralmente Winckelmann (Werke, vol. VI, pp. 104 sg.), la cui mirabile descrizione acquista perciò valore e verità pieni, quando se ne tolga soltanto l'attribuzione a Laocoonte di un animo stoico.

§ 47.

Essendo bellezza e grazia il principale oggetto della scultura, questa predilige il nudo, e tollera vestimento solo se esso non cela le forme. Del drappeggiamento si serve non per nascondere, ma per rappresentare in un modo indiretto la forma: maniera di rappresentare, che molto occupa l'intelletto, il quale così non perviene all'intuizione della causa, ossia della forma corporea, se non attraverso il solo effetto datogli direttamente, ossia attraverso la disposizione delle pieghe. Il drappeggiamento è quindi nella scultura in certo modo quel che nella pittura è lo scorcio.

L'uno e l'altro sono accenni: non già simbolici, ma tali, che – quando siano ben riusciti – direttamente costringono l'intelletto a intuir la cosa accennata come se fosse effettiva, rappresentata in realtà.

Mi sia concesso d'intercalar qui per incidenza un paragone riferentesi alle arti oratorie. Come la bella forma corporea è nel modo più vantaggioso visibile con un abbigliamento leggerissimo, o addirittura senza, e quindi un uomo molto bello se avesse buon gusto e gli fosse lecito usarne, andrebbe di preferenza quasi nudo, vestito appena a mo' degli antichi; – così ciascuno spirito bello, ricco di pensiero, si esprimerà sempre nella più naturale, schietta, semplice maniera; cercando, ove sia possibile, di comunicare agli altri i suoi pensieri, per alleviare così a se stesso la solitudine che in un mondo come questo deve sentire.

All'opposto povertà di mente, confusione, stortezza si vestiranno delle espressioni più ricercate e dei modi più oscuri per avvolgere così, in frasi difficili e pompose, piccoli, meschini, insipidi o comuni pensieri: come quegli che, mancando a lui la maestà della bellezza, a tale mancanza vuol riparare col vestito; e la meschinità o bruttezza della persona cerca di nascondere sotto barbarico sfoggio, luccicanti fronzoli, piume, gale, sboffi e mantello.

Imbarazzato come costui se dovesse andar nudo, sarebbe più d'un autore, se fosse costretto a tradurre in forma chiara la povera sostanza del suo libro sì pomposo ed oscuro.

§ 48.

La pittura storica ha, oltre la bellezza e la grazia, anche il carattere per suo oggetto principale: con la qual parola s'intende la rappresentazione della volontà nel massimo grado della sua oggettivazione, dove l'individuo – nel quale ha rilievo uno speciale aspetto dell'idea di umanità – acquista una sua particolare significanza, e questa non con la forma sola da a conoscere, ma con ogni maniera d'azione e con le modificazioni del conoscere e del volere (visibili nel volto e nei gesti) onde quell'azione è determinata e accompagnata. Poi che l'idea dell'umanità va espressa in sì vasta cerchia occorre che i suoi molteplici aspetti ci vengano offerti da individui ben significanti; e questi alla lor volta possono esser fatti palesi nella lor significazione solo mediante scene, eventi e atti svariati. Questo suo compito infinito adempie la pittura storica col porre davanti agli occhi ogni specie di scene della vita, di grande o piccolo significato. Né un individuo qualsiasi, né una qualsiasi azione possono essere senza significato: in ciascuno e con ciascuna si fa sempre più manifesta l'idea dell'umanità. Perciò nessunissimo fatto della vita umana va escluso dalla pittura. E gran torto si fa agli eccellenti pittori della scuola olandese, lodando esclusivamente la loro perizia tecnica, ma per il resto disdegnandoli, perché essi rappresentano di solito oggetti della vita comune: mentre invece si ritengono significanti solo i grandi fatti della storia universale o quelli della Bibbia. Si dovrebbe prima di tutto riflettere, che l'intimo significato di un'azione è affatto diverso dal significato esteriore, e l'uno spesso procede separato dall'altro. Il significato esterno è l'importanza di un'azione in rapporto alle sue conseguenze e nel mondo reale e pel mondo reale; ossia, in base al principio di ragione. Il significato intimo è la più o meno profonda penetrazione nell'idea dell'umanità, che quell'azione può dare col mettere in luce i meno comuni aspetti di tale idea; facendo che individualità nettamente e apertamente rivelantisi dispieghino – per mezzo di opportune circostanze – le loro caratteristiche. Solo il significato intimo conta nell'arte: l'esteriore conta nella storia. Entrambi sono affatto indipendenti l'uno dall'altro; possono presentarsi insieme, ma anche isolati. Un'azione altamente significativa per la storia può essere comune e banale nel suo senso interiore; e viceversa può una scena della vita comune avere un senso interiore grande, quando umani individui e umano agire e volere vi appaiano, fino alle più riposte pieghe, in una luce limpida e chiara. Anche può, in azioni di molto vario significato esteriore, esser l'interiore uno e identico. Così, per esempio, valgono rispetto a quest'ultimo in egual modo ministri, che sulla carta geografica si contendono terre e popoli, o contadini, che nella taverna vogliono l'un contro l'altro affermare il loro diritto a proposito di carte da giuoco e di dadi: come è indifferente se si giochi a scacchi con pezzi d'oro o di legno. Inoltre le scene e gli eventi, ond'è fatta la vita di tanti milioni d'uomini, e il loro agire e adoprarsi, la lor pena e la loro gioia, sono già di per sé importanti abbastanza per essere oggetto dell'arte; e devono, con la ricca varietà loro, dare materia sufficiente a che si dispieghi la multifronte idea dell'umanità. La fugacità stessa dell'attimo, che l'arte ha fissato in un tal quadro (detto oggi quadretto di genere), produce una lieve, particolare commozione: imperocché il fermar con durevoli tratti l'effimero mondo, che incessantemente si trasmuta, in singoli episodi, che pur danno immagine del Tutto, è tal compito della pittura, che per esso ella sembra rendere immobile il tempo, innalzando il singolo caso all'idea della sua specie. Finalmente i soggetti storici, ed esteriormente significativi, della pittura, hanno spesso lo svantaggio, che per l'appunto ciò che in essi è più significante non è rappresentabile per l'intuizione, bensì dev'esservi sovrapposto col pensiero. Sotto questo rispetto il significato nominale del quadro va di regola distinto dal reale: quello è il significato esterno, che viene ad aggiungersi soltanto come pensiero; questo è una faccia dell'idea dell'umanità, dal quadro rivelata all'intuizione. Quello sarà, per esempio, Mosè trovato dalla principessa egiziana: momento essenzialissimo per la storia; il senso reale invece, il vero dato dell'intuizione, è un trovatello che una donna salva dalla sua culla natante – episodio che può essere accaduto sovente. Solo il costume può qui far conoscere a un uomo colto che si tratta di quel determinato fatto storico; ma il costume, se ha valore per il senso nominale, è indifferente per il reale: poi che quest'ultimo conosce soltanto l'uomo come tale, e non le forme occasionali. Soggetti presi dalla storia non hanno alcun vantaggio su quelli che, tolti dalla semplice possibilità, non possono avere un titolo individuale, bensì generale: imperocché ciò, che veramente importa nei primi, non è l'individuale, non è il singolo fatto per se stesso, bensì quanto vi si contiene d'universale, l'aspetto dell'idea d'umanità, che per suo mezzo si esprime. D'altronde non sono perciò punto da rigettare anche determinati soggetti storici: ma in questo caso la vera mira artistica, sia del pittore sia dello spettatore, non tende a ciò che v'ha d'individuale, a ciò che propriamente costituisce la nota storica, bensì all'universale, che vi si esprime, all'idea. Inoltre vanno scelti solo quei soggetti storici, in cui la sostanza sia davvero rappresentabile, e non vada invece aggiunta col pensiero: che altrimenti il senso nominale troppo si allontana dal reale; e ciò che innanzi al quadro non è che pensato, diviene l'elemento più importante, a danno di ciò che è intuito. Se già sul palcoscenico è un difetto (come nella tragedia francese) che l'azione principale si svolga dietro le quinte, evidentemente questo difetto è di gran lunga maggiore nel quadro. Effetto decisamente cattivo producono le scene storiche sol quando costringono il pittore in un terreno arbitrario, e scelto con fini estranei all'arte; ma soprattutto quando codesto terreno è povero di soggetti pittorici e significanti, – come sarebbe, per esempio, la storia d'un piccolo, segregato, caparbio popolastro, fatto segno al disprezzo di tutti i grandi popoli dell'oriente e dell'occidente suoi contemporanei, qual è quello dei giudei. Poi che tra noi e tutti i popoli antichi sta come un termine la migrazione barbarica – nel modo stesso in cui tra l'attuale superficie terrestre e quella, di cui ci si mostrano pietrificati gli organismi, sta l'avvenuto spostamento del letto marino – è da considerarsi gran male che non siano per avventura gl'indiani o, i greci, o anche i romani il popolo la cui passata civiltà serva di precipua base alla nostra, bensì proprio codesti giudei. E fu specialmente una cattiva stella pei geniali pittori d'Italia, nel XV e XVI secolo, il doversi appigliare – nella breve cerchia in cui erano arbitrariamente ridotti, per la scelta dei loro argomenti – a ogni maniera di miseri soggetti: perché il Nuovo Testamento è, nella parte storica, quasi ancor più sfavorevole alla pittura che l'Antico non sia; e soggetto infelicissimo è la susseguente storia dei martiri e dei Padri della Chiesa. Bisogna tuttavia ben distinguere dai quadri, che hanno per soggetto la parte storica o mitologica del giudaismo e del cristianesimo, quelli, nei quali il verace ossia l'etico genio del cristianesimo viene offerto all'intuizione, rappresentandovisi uomini che di quel genio son pieni. Codeste rappresentazioni sono invero le più alte e ammirabili opere della pittura: riuscite unicamente ai maestri maggiori dell'arte, a Raffaello ed al Correggio – quest'ultimo particolarmente ne' suoi primi quadri. Opere di tal natura non vanno punto annoverate tra le pitture storiche, imperocché di solito non rappresentano un fatto, un'azione: sono bensì semplici gruppi di santi, o del Salvatore medesimo, spesso ancor bambino, con sua madre, angeli, etc. Nei loro volti, e specialmente negli occhi, vediamo l'espressione, il riflesso della più perfetta conoscenza: di quella, che non a singole cose è rivolta, bensì ha pienamente afferrato le idee, ossia l'intero essere del mondo e della vita. La qual conoscenza operando in essi, di ritorno, sulla volontà, non fornisce a questa, come l'altra conoscenza, motivi; ma viceversa è divenuta un quietivo d'ogni volontà, dal quale provengono la perfetta rassegnazione – ch'è lo spirito intimo del cristianesimo come dell'indiana saggezza – la rinunzia a tutte le brame, l'abdicazione, la soppressione della volontà e con essa dell'intera essenza di questo mondo: ossia, la redenzione. Così quei maestri dell'arte in eterno laudati ci espressero intuitivamente con le opere loro la saggezza suprema. E qui è la vetta dell'arte: la quale, dopo aver perseguito la volontà, nella sua adeguata oggettità – le idee – per tutti i gradi, dai più bassi, ove la eccitano cause, ai meno bassi, ove la eccitano stimoli, e finalmente ai superiori, in cui sì variamente la muovono motivi e ne dispiegano l'essenza; alla fine termina col rappresentarne la libera abolizione mediante quel solo grande quietivo, che a lei viene dalla perfetta cognizione della sua propria essenza17.

§ 49.

Tutte le nostre considerazioni sull'arte finora svolte hanno sempre per base la verità, che suo oggetto – la cui rappresentazione è scopo dell'artista, e la cui conoscenza deve quindi preceder come germe e principio l'opera di lui – è un'idea, nel senso platonico, e nient'altro: non la cosa singola, oggetto della comune percezione; né meno il concetto, ch'è oggetto del pensar razionale e della scienza. Sebbene idea e concetto abbiano qualcosa in comune, rappresentando l'una e l'altro come unità una pluralità di cose reali, dev'esser tuttavia risultata chiara e luminosa la differenza loro, dopo quanto nel primo libro si disse intorno al concetto; e intorno all'idea nel libro presente. Che nondimeno già Platone avesse ben compresa codesta differenza, non voglio punto affermare: che anzi taluni tra' suoi esempi d'idee e tra' suoi chiarimenti in proposito sono applicabili soltanto a concetti. Basti per ora di ciò, e andiamo pel nostro cammino: rallegrandoci bensì ogni qual volta ci accada d'incontrar la via segnata da un grande e nobile spirito, ma ognora mirando alla nostra meta e non alle tracce di quello. Il concetto è astratto, discorsivo, affatto indeterminato entro la propria sfera, determinato solo nei confini della medesima; raggiungibile e afferrabile da ciascuno con la sola ragione; comunicabile in parole senz'altra mediazione, tutto esaurito dalla propria definizione. L'idea invece, che al più va definita come adeguata rappresentante del concetto, è del tutto intuitiva, e, sebbene rappresenti un'infinità di singole cose, è tuttavia ben determinata. Dall'individuo come tale non è mai conosciuta, ma sol da quegli, che s'è elevato sopra ogni volere e ogni individualità a puro soggetto nel conoscere: quindi a lei perviene solamente il genio, e in secondo luogo chi si trovi in una disposizione geniale, mediante un innalzamento della sua pura forza conoscitiva, il più delle volte dalle opere del genio prodotta. L'idea non è quindi comunicabile senz'altro, ma solo condizionatamente, in quanto l'idea percepita e riprodotta nell'opera d'arte parla a ciascuno secondo la misura del suo valore intellettuale: perciò proprio le più eccellenti opere di ogni arte, i più nobili prodotti del genio, devono per l'ottusa maggioranza degli uomini rimaner libri chiusi in eterno, ad essa inaccessibili, separati da un largo abisso, sì come al volgo è inaccessibile il commercio dei principi. È vero, che anche i più ottusi ammettono per sentito dire le opere riconosciute grandi: ma nell'ombra si tengono pronti ognora a criticarle, non appena li si lasci sperare che possan farlo senza compromettersi – nel che gioiosamente si sfoga il loro astio a lungo celato contro tutte le cose grandi e belle, che per non averli mai toccati li umiliavano, e contro i creatori di quelli. Imperocché di regola, per riconoscere e ammettere spontaneamente, liberamente, il valore altrui, bisogna averne di proprio. Su ciò poggia la necessità della modestia malgrado qualsivoglia merito, ed anche la lode sproporzionatamente alta di codesta virtù: la quale, sola tra tutte le sue sorelle, da ciascuno, che ardisca esaltare un uomo in qualche modo segnalato, è ogni volta aggiunta alle altre lodi di lui, per conciliarsi gl'inetti e placarne il livore. Che cos'è la modestia, se non finta umiltà, con la quale, in un mondo turgido di bassa invidia, si vuol mendicare per i propri vantaggi e meriti il perdono di quelli che non ne hanno? Poiché colui il quale né vantaggi né meriti s'attribuisce, perché effettivamente non ne possiede, non è modesto, ma appena onesto.

L'idea è l'unità infranta nella pluralità, secondo la forma temporale e causale della nostra apprensione intuitiva: invece il concetto è l'unità, dalla pluralità novellamente ricostituita, mediante il procedere astratto della nostra ragione. Questa si può chiamare unitas post rem, quella unitas ante rem. Da ultimo la differenza tra concetto e idea si può ancora indicare con un paragone, dicendo: – II concetto somiglia a una inerte custodia, nella quale effettivamente viene a giustapporsi ogni cosa che vi si ponga; ma da cui nulla può esser tolto (mediante giudizi analitici) più di quanto vi si sia posto (mediante sintetica riflessione). L'idea invece sviluppa, in quegli che l'ha afferrata, rappresentazioni che sono nuove in rapporto al concetto omonimo: ella somiglia a un vivente, sviluppantesi organismo, dotato di forza generativa, il quale produce quel che non conteneva incasellato dentro di sé.

Da tutto ciò risulta che il concetto, per quanto sia giovevole alla vita, per quanto utile, necessario e fecondo alla scienza, è in eterno sterile per l'arte. Vera e unica sorgente d'ogni genuina opera d'arte è la percepita idea. Nella sua robusta originalità viene ella attinta unicamente alla vita medesima, alla natura, al mondo; e unicamente anche per mezzo del genio vero, o di chi sia per quell'attimo asceso fino a raggiungere la genialità. Sol da questa diretta concezione nascono capolavori, che recano in sé vita immortale. Appunto perché l'idea è intuitiva, e tale rimane, non è l'artista consapevole in abstracto dell'intenzione e della meta a cui tende l'opera sua; non un concetto, ma un'idea gli fluttua davanti: perciò non può render conto del suo operare. Lavora, come si suol dire, di puro sentimento, e inconsapevole, anzi per istinto. Viceversa imitatori, artefici di maniera, imitatores, servum pecus, procedono nell'arte movendo dal concetto: prendon nota di ciò che nelle vere opere d'arte piace e commuove, se lo rendono chiaro, lo afferrano in forma di concetto, astrattamente, e lo imitano infine, in modo aperto o palese, con avveduta intenzione. Succhiano il lor nutrimento, simili a piante parassite, da opere altrui; e, simili a polipi, prendono il colore di ciò che mangiano. Anzi, andando innanzi coi paragoni, si potrebbe affermare, che somigliano a macchine, le quali perfettamente tritino e frammischino quanto vi si getta dentro, ma senza poterlo mai digerire: sì che i diversi componenti si possan sempre ritrovare, trar fuori della miscela ed isolare: mentre il genio somiglierebbe invece all'organismo, che assimila, trasforma e produce. Imperocché il genio viene bensì educato e formato dai predecessori e dalle opere loro; ma la vita e il mondo stesso, direttamente, lo fecondano con l'intuizione: perciò anche una ricchissima cultura non può recar danno alla sua originalità. Tutti gl'imitatori, tutti i manieristi percepiscono in forma di concetto l'essenza dei capolavori altrui; ma concetti non possono mai dar vita interna a un'opera. I contemporanei – ossia l'opaca folla d'ogni generazione – non conoscono anch'essi altro che concetti, e vi si attaccano, e accolgono quindi le opere manierate con rapido e alto plauso: ma le stesse opere sono dopo brevi anni già indigeste, perché lo spirito del tempo – vale a dire, i concetti dominanti – in cui quelle avevano la loro unica base, è mutato. Soltanto le vere opere d'arte, le quali dalla natura, dalla vita sono direttamente inspirate, rimangono, come queste perennemente giovani, e poderose in eterno. Imperocché non appartengono a una data epoca, ma all'umanità: e come perciò appunto dal loro proprio tempo – a cui disdegnarono di conformarsi – furono tiepidamente accolte, e, svelando in modo indiretto e negativo gli errori di quello, furono tardi e contro voglia riconosciute; così in compenso non possono invecchiare, e ancor ne' tempi più lontani parlano con voce fresca e sempre giovane: non più esposte a venir trascurate o misconosciute, ma immutabilmente coronate e sanzionate dal plauso delle poche teste capaci di giudicare, le quali compaiono isolate e rare nei secoli18 e depongono i loro voti – la cui somma lentamente crescendo serve di base a quell'autorità, che sola costituisce il tribunale, a cui si allude quando diciamo di fare appello alla posterità. Sole formano il tribunale queste teste isolate, che successivamente appariscono: perché la folla della posterità sarà e rimarrà in ogni tempo stolta e ottusa come nel passato e come nel presente. Si leggano i lamenti di grandi spiriti, in ogni secolo, intorno ai loro contemporanei: sembrano di oggi, perché la razza è sempre la medesima. In ciascun tempo ed in ciascuna arte la maniera prende il posto del genio, che sempre è proprietà esclusiva di pochi: ma la maniera è come il vecchio vestito smesso della più recente, riconosciuta apparizione del genio. In conseguenza di tutto ciò, il plauso dei posteri non s'acquista di regola se non a costo del successo contemporaneo; e viceversa19.

§ 50.

Se adunque è fine di tutte le arti il comunicar la percepita idea, la quale appunto per l'interposizione dello spirito dell'artista, in cui apparisce purificata e isolata, diventa alfine accessibile anche a chi abbia ricettività più debole, e nessuna produttività; se inoltre è nell'arte da rigettarsi il muover dal concetto; non potremo per conseguenza approvare, che un'opera d'arte sia intenzionalmente e palesemente destinata all'espressione d'un concetto: com'è il caso dell'allegoria. Un'allegoria è un'opera d'arte, la quale significa alcunché di diverso da quel che rappresenta. Ma ciò che è intuitivo, e quindi anche l'idea, si esprime da sé in modo diretto e compiuto, né ha bisogno di altro intermediario, dal quale esso venga significato velatamente. Quel che in tal modo viene adunque significato e rappresentato mediante alcunché di affatto diverso, non potendo esso medesimo venire offerto all'intuizione, è sempre un concetto. Con l'allegoria viene quindi ognora significato un concetto, e per conseguenza la mente dello spettatore è condotta lungi dall'offertale rappresentazione intuitiva verso un'altra astratta, non intuitiva, che sta tutta fuori dell'opera d'arte: così il quadro o la statua devono compiere quel che compie, solo in modo più completo, la scrittura. Quel che per noi è il fine dell'arte – rappresentazione dell'idea percepibile solo intuitivamente – non è quivi più il fine. Per la mira, a cui nell'allegoria si tende, non è neppur necessaria una gran perfezione dell'opera d'arte: basta che si vegga che cosa sia l'oggetto; perché, una volta trovato questo, lo scopo è raggiunto, e lo spirito è condotto verso una rappresentazione di tutt'altra natura, verso un concetto astratto che era appunto il fine proposto. Allegorie nell'arte figurativa non sono perciò altro che geroglifici: il pregio artistico, che d'altronde possono avere come rappresentazioni intuitive, non appartiene loro in quanto sono allegorie, ma per un altro verso. Che la Notte del Correggio, il Genio della Fama di Annibale Carracci, le Ore del Poussin siano bellissime pitture, è cosa affatto indipendente dall'essere allegorie. Come allegorie non dicono più di un'iscrizione – anzi piuttosto meno. Siamo qui richiamati alla distinzione, fatta più sopra, tra il senso reale e il nominale d'un quadro. Il nominale è qui appunto l'allegorico, come, per esempio, il Genio della Fama; il reale è ciò che in effetti vien rappresentato: nel caso presente, un bel giovane alato, con bei fanciulli intorno. Questo esprime un'idea: ma cotal senso reale agisce solo fin che sia posto in oblio il senso nominale, allegorico; basta pensarvi, perché l'intuizione si allontani e un concetto astratto occupi lo spirito: ora il passaggio dall'idea al concetto è sempre una caduta. Sì, quel senso nominale, quell'intenzione allegorica fa spesso danno al senso reale, alla verità intuitiva: come, per esempio, l'innaturale luce nella Notte del Correggio, la quale, per quanto ben dipinta, tuttavia è motivata solo dall'allegoria, ed in realtà impossibile. Se quindi un quadro allegorico ha pregio d'arte, questo è del tutto separato e indipendente dall'ufficio dell'allegoria: un'opera siffatta serve insieme a due scopi, ossia all'espressione d'un concetto e all'espressione di un'idea, ma esclusivamente il secondo può essere un fine dell'arte, mentre l'altro è uno scopo estraneo; è la piacevolezza scherzosa, di far che un quadro serva in pari tempo come un'iscrizione, un geroglifico: piacevolezza inventata a vantaggio di coloro per cui è muta l'essenza vera dell'arte. Gli è allora come se un'opera d'arte fosse in pari tempo un arnese d'utilità pratica, nel qual caso anche serve a due scopi: per esempio una statua, che sia insieme candelabro o cariatide, o un bassorilievo, che sia contemporaneamente scudo d'Achille. Sinceri amici dell'arte non gusteranno né l'una né l'altro. È vero, che un'immagine allegorica può appunto in questa sua qualità produrre un vivo effetto sull'animo: ma l'effetto medesimo produrrebbe, in circostanze eguali, anche un'iscrizione. Così, per esempio, se nell'animo d'un uomo sia fermamente e fortemente radicata la brama della gloria, ed egli guardi alla gloria come a sua legittima proprietà, a lui negata sol finché ei non abbia prodotto i titoli del suo possesso; e quest'uomo venga davanti al Genio della Fama coronato d'alloro; tutto il suo animo ne sarà infervorato, e la sua energia spronata all'azione. Ma non accadrebbe altrimenti, se d'un tratto e' leggesse grande e chiara sulla parete la parola «gloria». Oppure, se un uomo abbia svelata una verità, la quale sia importante o come regola per la vita pratica, o come cognizione per la scienza, ma non trovi fede; agirà profondamente su di lui un'immagine allegorica del Tempo, che alzi il velo e scopra la verità nuda. Ma non altrimenti agirebbe il motto: «Le temps découvre la vérité». Imperocché ciò che quivi propriamente agisce è sempre il solo pensiero astratto, e non la cosa intuita.

Ora se, come abbiamo visto, l'allegoria nell'arte figurativa è una tendenza viziosa, asservita ad un fine, che all'arte è affatto estraneo, codesta tendenza diviene addirittura insopportabile, se è spinta a tal segno che la rappresentazione di sottigliezze forzate e introdotte arbitrariamente venga a cader nell'insulso. Di tal fatta è, per esempio, una testuggine, che voglia indicar la ritrosia femminile; la Nemesi, che si guardi in seno dentro al vestito, per significar ch'ella vede anche l'ascoso; la dichiarazione del Bellori, che Annibale Carracci abbia vestita di giallo la voluttà, per esprimere che le sue gioie tosto appassiscono e si fanno gialle come paglia. Se adunque tra la cosa rappresentata e il concetto, per suo mezzo significato, non è alcun legame che abbia per base la sussunzione sotto quel soggetto e l'associazione delle idee; ma segno e cosa significata stanno in connessione tutta convenzionale, mediante un ravvicinamento positivo e provocato a caso: allora io chiamo simbolo questa varietà dell'allegoria. Così la rosa è simbolo della discrezione, l'alloro simbolo della gloria, la palma simbolo della vittoria, la conchiglia simbolo del pellegrinaggio, la croce simbolo della religione cristiana: e qui vengono anche tutte le significazioni dirette attribuite ai semplici colori, per esempio, il giallo come colore della falsità, l'azzurro della fedeltà. Cotali simboli possono sovente giovar nella vita, ma all'arte il lor pregio è straniero: sono da considerare in tutto come geroglifici, o addirittura come caratteri cinesi, ed appartengono in realtà alla stessa categoria degli stemmi, della frasca posta a insegna di un'osteria, delle chiavi da cui si riconoscono i ciambellani, o del cuoio da cui si conoscono i minatori. Quando infine certi personaggi storici o mitici, oppure certi personificati concetti vengono fatti conoscere mediante simboli convenuti una volta per sempre, forse dovrebbero questi chiamarsi propriamente emblemi: tali sono le bestie degli Evangelisti, la civetta di Minerva, il pomo di Paride, l'ancora della Speranza, e così via. Ma solitamente si da il nome d'emblemi a quelle immagini parlanti, semplici, e illustrate da un motto, che servono a raffigurare una verità morale, e di cui si hanno grandi raccolte per opera di J. Camerarius, Alciatus e altri: esse formano il trapasso verso l'allegoria poetica, della quale sarà trattato in seguito. La scultura greca si rivolge all'intuizione, e però ella è estetica; l'indostana si rivolge al concetto, e però è solamente simbolica.

Questo giudizio dell'allegoria, poggiato sulle considerazioni fin qui da noi fatte intorno all'intimo essere dell'arte, e con quelle strettamente connesso, è proprio l'opposto dell'opinione di Winckelmann; il quale lungi dal dichiarar l'allegoria affatto estranea all'arte, e a lei spesso dannosa, costantemente ne sostiene le parti, anzi (Werke, vol. I, pp. 55 sg.) pone il supremo fine dell'arte nella «rappresentazione di concetti generali e di cose non percettibili dai sensi». Sia libero ciascuno d'accostarsi all'una o all'altra opinione. Ma a me, davanti a questa ed a consimili opinioni di Winckelmann, concernenti la vera e propria metafisica dell'arte, apparve limpida la persuasione, che si possa aver la massima sensibilità e il più esatto giudizio intorno al bello artistico, senza tuttavia essere in grado di dar ragione astratta e propriamente filosofica dell'essenza del bello e dell'arte: così come si può esser d'animo nobilissimo e virtuoso, e avere una coscienza molto delicata, la quale di caso in caso proceda con l'esattezza d'una bilancia di precisione, senza perciò essere in grado di approfondir filosoficamente e rappresentare in abstracto il valore etico delle azioni.

Ma un tutt'altro rapporto ha l'allegoria con la poesia che non con l'arte figurativa, e sebbene qui sia da respingere, colà è volentieri ammessa e vantaggiosa. Imperocché nell'arte figurativa ella conduce dal dato intuitivo, dal vero oggetto di tutte le arti, al pensiero astratto; mentre nella poesia è il rapporto inverso. Nella poesia quel ch'è dato direttamente con le parole è il concetto, e scopo più prossimo è sempre il condur da questo al dato intuitivo, la cui rappresentazione dev'essere intrapresa dalla fantasia dell'ascoltatore. Se nell'arte figurativa s'è condotti dal dato immediato verso qualche altra cosa, questa dev'esser sempre un concetto, perché qui soltanto l'astratto non può esser dato immediatamente; ma un concetto non può mai esser l'origine, né la sua comunicazione esser lo scopo di un'opera d'arte. Viceversa nella poesia il concetto è il materiale, il dato immediato, che si può quindi benissimo abbandonare, per far nascere un'immagine intuitiva del tutto diversa, con la quale vien raggiunto lo scopo. Nella connessione di una poesia può qualche concetto, o pensiero astratto, essere indispensabile, pur non potendo in sé e direttamente esser dato all'intuizione: esso viene allora sovente reso intuibile per mezzo d'un qualunque esempio che vi si possa sussumere. Questo si vede già in ogni espressione figurata, e accade in ogni metafora, paragone, parabola e allegoria, – tutte figure, che si distinguono solo per la lunghezza e ampiezza della loro rappresentazione. Per tal motivo sono d'eccellente effetto paragoni e allegorie nelle arti oratorie. Come dice bene Cervantes del sonno, per significare ch'esso ci sottrae a tutti i dolori morali e corporali, «essere un mantello che copre l'uomo tutto quanto!». Come bene esprime Kleist allegoricamente il pensiero, che filosofi e scienziati rischiarano il genere umano, nel verso:

Quei, la cui lampa notturna la terra tutta rischiara!20

Come fortemente e limpidamente Omero indica Ate di mali apportatrice, dicendo: «ella ha piedi delicati, poiché non calpesta la dura terra, ma s'aggira soltanto sulle teste degli uomini» (Il., XIX, 91)! Che effetto ebbe sul fuoruscito popolo romano la favola, detta da Menenio Agrippa, dello stomaco e delle membra! Come l'allegoria platonica della caverna, già riferita, bellamente esprime all'inizio del settimo libro della Repubblica un astrattissimo dogma filosofico! Similmente va considerata come profonda allegoria di filosofica tendenza la favola di Persefone, la quale, per avere gustato una melagrana nel mondo sotterraneo, cade in potere di questo: e ciò appare soprattutto luminosamente nella trattazione, superiore a ogni lode, che di tal favola Goethe ha intrecciato come episodio nel Trionfo della sensibilità. Tre ampie opere allegoriche io conosco: allegorica è in modo aperto ed espresso l'incomparabile Criticon di Baldassar Gracian, consistente in un vasto, ricco tessuto d'allegorie profondissime intrecciate l'un con l'altra, le quali servono qui a rivestir gaiamente verità morali, cui lo scrittore dà appunto in tal modo la massima evidenza intuitiva, stupefacendosi con la ricchezza delle sue invenzioni. Due allegorie dissimulate sono invece il Don Chisciotte e Gulliver in Lulliput. Quello rappresenta allegoricamente la vita di ciascuno, il quale non voglia, come gli altri, pensare soltanto al suo interesse personale, ma persegua un fine obiettivo, ideale, che s'è impadronito del suo pensiero e della sua volontà, per la qual cosa egli finisce, a dir vero, col comportarsi in questo mondo un po' stranamente. Nel Gulliver basta dar senso morale a tutto ciò ch'è materiale, per accorgersi a che abbia mirato quel satirical rogue, come lo chiamerebbe Amleto. Essendo adunque dato costante dell'allegoria poetica il concetto, che quella vuol rendere intuitivo mediante un'immagine, potrà dessa talvolta esprimersi o aiutarsi magari con un'immagine dipinta: ma questa non s'ha però da considerare come opera dell'arte figurativa, bensì unicamente qual parlante geroglifico; né può pretendere d'aver valore artistico, bensì solo poetico. Di tal natura è quella bella vignetta allegorica di Lavater, che tanto deve rianimare il cuore a ciascun nobile combattente per la verità: una mano, che sorreggendo una fiaccola viene punta da una vespa, mentre alla fiamma si bruciano dei moscerini; e in basso sta il motto:

S'arda pure le ali il moscerino,

Gli scoppi il capo e il piccolo cervello;

La luce riman sempre luce.

E s'anco la vespa più irosa mi punge,

Non lascio la luce cadere21.

Qui va ricordata inoltre quella pietra sepolcrale con un lume spento dal soffio, e che fuma; col motto:

Quand'è spento, si rende allor palese
Se luce era di sego, oppur di cera22.

Dello stesso genere è infine un antico albero genealogico tedesco, nel quale l'ultimo rampollo della remotissima schiatta espresse il suo proposito di menar la vita in tutta continenza e castità, lasciando così perire la stirpe, col rappresentar se stesso vicino alla radice dell'albero dai molti rami, nell'atto di reciderlo con le forbici e abbatterlo su di sé. E sempre di questo medesimo tipo sono tutte le immagini parlanti più sopra ricordate, dette emblemi, che si potrebbero anche definir brevi favole a colori, con la morale formulata in parole. Cosiffatte allegorie vanno sempre annoverate tra le poetiche, non tra le pittoriche, e appunto perciò sono ammesse: la rappresentazione figurata vi sta ognora come un accessorio, ed a lei non altro si domanda che di far conoscere la cosa. Ma come nell'arte figurativa, così anche nella poesia l'allegoria diventa simbolo, quando tra l'oggetto presentato all'intuizione e l'astrazione per suo mezzo indicata non è altro legame, se non arbitrario. Appunto perché ogni rapporto simbolico poggia in sostanza sopra una convenzione, tra gli altri svantaggi il simbolo ha pur quello che il suo significato si dimentica col tempo, e finisce col perdersi del tutto: chi indovinerebbe, se non lo sapesse, perché il pesce è simbolo del Cristianesimo? Soltanto uno Champolion: essendo esso in tutto e per tutto un geroglifico fonetico. E perciò l'Apocalissi di Giovanni ci sta ora innanzi press'a poco come i bassorilievi con l'iscrizione magnus Deus sol Mithra, intorno ai quali ancor si fanno chiose23.

§ 51.

Se ora, armati delle nostre considerazioni precedenti sull'arte in generale, ci volgiamo dalle arti figurative alla poesia, non dubiteremo, che anch'essa si proponga di rivelar le idee – gradi dell'oggettivazione della volontà – e con quella chiarezza e vivacità, in cui le percepì l'animo del poeta, comunicarle all'ascoltatore. Le idee sono essenzialmente intuitive: se quindi ciò, che nella poesia vien comunicato direttamente con parole, sono concetti astratti, è nondimeno palese l'intenzione di far che il lettore intuisca, nei rappresentanti di codesti concetti, le idee della vita; la qual cosa non può aversi senza l'aiuto della fantasia di lui. Ma per scuoter quest'ultima in conformità del fine, devono i concetti astratti, che sono il diretto materiale della poesia come della più arida prosa, esser riuniti in modo, che le loro sfere s'intersechino, sì che nessuna possa permaner nella sua astratta universalità; e in luogo di questa si presenti alla fantasia un suo rappresentante intuitivo, che le parole del poeta vengano sempre più a modificare secondo l'intento proposto. Come il chimico da liquidi affatto chiari e trasparenti ricava, mescolandoli, precipitazioni solide, così il poeta sa dall'astratta, trasparente universalità dei concetti, secondo la maniera con cui li collega, far precipitare il concreto, l'individuale, la rappresentazione intuitiva. Imperocché solo intuitivamente vien conosciuta l'idea: e conoscenza dell'idea è lo scopo di tutte le arti. La maestria del poeta, come quella del chimico, lo fa capace di raccoglier sempre quel precipitato per l'appunto che si era proposto. A tal fine servono nella poesia i molti epiteti, dai quali viene limitata l'universalità di ciascun concetto, sempre più, fino a renderlo intuibile. Omero accoppia quasi a ogni sostantivo un aggettivo, il cui concetto taglia la sfera del concetto primo, e tosto considerevolmente la riduce, sì che questo già molto s'avvicina all'intuizione: per esempio

Εν δ’επεσ΄ Ωκεανω λαμπρον φαος ηελιοιο,
‘Ελκον νυκτα μελαιναν επι ξειδωρον αρουραν.

(Occidit vero in Oceanum splendidum lumen solis,
Trahens noctem nigram super almam terram).

E i versi:

Un lieve vento dal cielo azzurro spira,
Sta immoto il mirto ed alto sta l'alloro24.

Da pochi concetti traggono innanzi alla fantasia sensibilmente tutta l'ebbrezza del clima meridionale.

Ausiliarii tutti proprii della poesia sono ritmo e rima. Del loro effetto, efficace in modo incredibile, non so dare altra spiegazione se non questa: che le nostre forze rappresentative, essenzialmente legate al tempo, ne abbiano derivata una proprietà, in grazia della quale noi si segue internamente ogni suono ripetentesi a regolari intervalli, e quasi facciamo coro. Perciò in parte ritmo e rima diventano un vincolo per la nostra attenzione, facendoci ascoltar più volentieri la recitazione; e in parte sorge dentro di noi per loro mezzo quasi un intuitivo accompagnamento musicale, anteriore a ogni giudizio, di ciò che vien recitato: dal che questo prende un certo potere di persuasione enfatico, indipendente da tutte le ragioni.

Per l'universalità della materia, di cui la poesia si vale a comunicar le idee – ossia, de' concetti – molto vasta è la cerchia del suo dominio. La natura tutta quanta, le idee in tutti i gradi si posson per suo mezzo rappresentare, nel mentre ella, a seconda dell'idea che vuol comunicarci, procede or descrivendo, ora narrando, ora rappresentando direttamente in forma drammatica. Ma, se nel rappresentare i gradi infimi dell'oggettità della volontà, l'arte figurativa supera il più delle volte la poesia, perché la natura inconsciente e anche quella puramente animale tutta l'essenza loro rivelano in un unico momento ben colto; viceversa è l'uomo – in quanto non con la semplice sua forma o con l'espressione del volto rivela se stesso, ma con una catena d'azioni e coi pensieri e affetti che l'accompagnano – il principale oggetto della poesia: e nessun'altra arte può gareggiare con lei, perché in questo alla poesia soccorre il progressivo sviluppo dell'argomento, negato alle arti figurative.

Rivelazione di quella idea, che è il grado più alto nell'oggettità della volontà, rappresentazione dell'uomo nella serie coordinata delle sue tendenze e dei suoi atti, questo è il grande soggetto della poesia. È vero bensì che anche l'esperienza, anche la storia insegnano a conoscere l'uomo; ma più spesso gli uomini che non l'uomo: ossia danno notizie empiriche sul contegno degli uomini tra loro, dalle quali emergono regole per la condotta individuale, piuttosto che far penetrare lo sguardo addentro nell'intimo essere dell'uomo. Non che questa penetrazione sia loro del tutto preclusa: ma ogni qual volta veramente si apra a noi nella storia, o nella personale esperienza, l'essenza dell'umanità, vuol dire che o da noi l'esperienza, o dallo storico la storia sono state percepite già con occhi d'artista, poeticamente, ossia nell'idea, e non nel fenomeno, nell'intimo essere, e non nelle relazioni. Assoluta condizione, per comprendere la poesia come la storia, è l'esperienza propria: perché è quasi il dizionario della lingua, che parlano entrambe. Ma la storia sta alla poesia come il ritratto sta al quadro storico: quello rende il vero nel particolare, questo il vero in generale: quello rende la verità del fenomeno, e col fenomeno documenta la verità; questo rende la verità dell'idea, che non si trova in nessun fenomeno singolo ma da tutti parla. Il poeta rappresenta con opportuna scelta e intenzione significanti caratteri in significanti situazioni: lo storico prende queste e quelli come vengono. Anzi, egli non ha da considerare e scegliere le circostanze e le persone secondo la loro interna, genuina significazione, esprimente l'idea; ma piuttosto secondo la significazione esterna, apparente, relativa, importante rispetto ai loro nessi, alle loro conseguenze. Nessuna cosa può guardare in sé e per sé, nel carattere e nell'espressione essenziali, bensì deve tutto considerare in rapporto alla relazione, alla concatenazione, all'influsso e a ciò che ne consegue; in rapporto, soprattutto, alla sua epoca. Non potrà quindi trascurar l'azione di un re, anche se poco importante, anzi in se stessa ordinaria: perché quest'azione ha conseguenze ed effetto. Viceversa non dovrà far cenno di azioni per se medesime significantissime, compiute da singoli, eminenti individui, quando non abbiano avuto né conseguenze né effetto. Imperocché la sua indagine procede secondo il principio di ragione, e s'attacca al fenomeno, di cui quello è forma. Coglie invece il poeta le idee, l'essenza dell'umanità, fuori d'ogni relazione, fuor d'ogni tempo, adeguata oggettità della cosa in sé nel suo grado più alto. Anche se in quella maniera d'indagine ch'è necessaria allo storico non può andar del tutto smarrita l'essenza intima, la significanza dei fenomeni, il nocciolo di tutti quei gusci, o almeno la si lascia ancora scoprire e riconoscere da chi la cerca; tuttavia quel che per se stesso e non per le sue relazioni è importante, ossia il vero sviluppo dell'idea, si ritroverà di gran lunga più preciso e limpido nella poesia che non nella storia. Ed alla poesia, per quanto suoni paradossale, sarà quindi da attribuire molto più genuina, intima, vera verità che alla storia. Imperocché lo storico è obbligato a seguire con esattezza gli eventi individuali secondo il corso della vita, quale si svolge nel tempo in concatenazioni variamente intrecciate di cause e di effetti; ma gli è impossibile di conoscer tutti i dati, tutto vedere, tutto investigare: ad ogni istante l'originale del suo quadro si allontana, oppure un originale falso si frappone innanzi al vero; e questo accade tanto spesso, ch'io credo potermi convincere essere in tutte le storie più di falso che di vero. Il poeta invece ha colto l'idea dell'umanità in uno dei suoi aspetti, che vuol rappresentare. Quel che per lui si oggettiva in quella, è l'essenza del suo proprio io: la sua conoscenza è, secondo fu sopra esposto a proposito della scultura, mezza a priori: il suo modello gli sta davanti allo spirito, fermo, limpido, in piena luce, e non può allontanarsi: perciò egli ci mostra pura e chiara nello specchio del proprio spirito l'idea, e la raffigurazione, ch'egli ne da, è, fino ai minimi particolari, vera come la vita stessa25.

I grandi storici antichi sono perciò, quando pongono in disparte gli elementi di fatto, per esempio, nei discorsi dei loro eroi, poeti; ed anzi tutta la loro trattazione della materia tiene dell'epico: ciò che per l'appunto dà unità ai loro racconti, e fa che questi contengano la verità interna pur là dove l'esterna non era agli storici accessibile, o addirittura era falsata. E se dianzi paragonammo la storia al ritratto, in opposizione alla poesia che corrisponderebbe alla pittura storica, troviamo che la massima di Winckelmann, dovere il ritratto esser l'ideale dell'individuo, fu seguita pur dagli antichi storici, rappresentando essi il singolo in modo che ne risultasse l'idea dell'umanità dentro esprimentevisi: mentre i moderni, pochi eccettuati, non offrono di solito che «un cesto di spazzatura e un ripostiglio d'oggetti fuori uso, e al più affari capitali e di stato». A quegli adunque, che vuol conoscere l'umanità nella sua intima essenza, identica in tutti i fenomeni e svolgimenti, nella sua idea, offriranno le opere dei grandi, immortali poeti un quadro ben più fedele e limpido che non possano gli storici offrirgli: imperocché anche i migliori tra questi sono lungi dall'esser come poeti i primi, e inoltre non hanno la mano libera. Il loro reciproco rapporto, sotto questo rispetto, può ancora esser chiarito dal paragone che segue. Lo storico semplice, puro, che non lavora se non sui dati, somiglia a taluno, che, senza conoscere punto la matematica, da figure per caso ritrovate calcola, misurando, i rapporti loro, venendo a un risultato empirico cui sono inerenti tutti gli errori della disegnata figura: mentre il poeta somiglia al matematico, che quelle relazioni costruisce a priori, in pura intuizione, e li manifesta non quali sono effettivamente nella figura disegnata, ma quali nell'idea ond'è immagine sensibile il disegno. Perciò dice Schiller:

Quello che mai né in alcun luogo è stato,
Quello soltanto non invecchia mai26.

Devo anzi, in riguardo alla cognizione dell'essenza dell'umanità, attribuire maggior pregio alle biografie, e soprattutto alle autobiografie, che non alla storia vera e propria – almeno come di solito è trattata. Imperocché per un verso sono in quelle raccolti i dati con più precisione e compiutezza che in questa; per l'altro, nella storia vera e propria non agiscono tanto uomini quanto popoli ed eserciti, e gl'individui, che riescono ad entrarvi, appariscono a sì gran distanza, con sì gran contorno e tale seguito, e coperti per di più da rigidi abiti di gala, e grevi, non pieghevoli armature, che davvero difficile si rende il riconoscere fra tutto questo il moto umano. Invece la vita fedelmente esposta di un singolo individuo, in una sfera limitata, ci mostra la condotta degli uomini in tutte le loro sfumature e in tutti i loro aspetti: l'eccellenza, la virtù, anzi la santità di alcuni, la perversità, la miseria morale, la malizia dei più, la scelleraggine di non pochi. In ciò, sotto il rispetto che qui esclusivamente consideriamo, ossia in rapporto all'intimo significato del fenomeno, è affatto indifferente, se gli oggetti intorno a cui s'aggira l'azione siano, relativamente considerati, piccolezze o cose di gran peso, masserie o regni: imperocché tutte codeste cose, senza importanza di per sé, ne acquistano solo in quanto la volontà è da esse agitata; il motivo ha importanza solo per la sua relazione con la volontà, mentre la relazione, che esso in quanto oggetto può avere con altri oggetti, non entra punto in gioco. Come un circolo d'un pollice di diametro e un altro con un diametro di quaranta milioni di miglia hanno esattamente le stesse proprietà geometriche, così sono gli avvenimenti e la storia d'un villaggio o quelli d'un regno, in sostanza, i medesimi; e si può negli uni come negli altri studiare e conoscere l'umanità. Si ha anche torto di ritenere che le biografie siano in tutto inganno e finzione. Anzi la menzogna (sebbene possibile dappertutto) v'è forse più difficile che altrove. La finzione è facilissima nel semplice conversare; ma – per quanto sembri paradossale – è già più difficile in una lettera, perché quivi l'uomo, abbandonato a se stesso, guarda in sé e non fuori, stenta ad aver da presso ciò che gli è estraneo e lontano, e non ha innanzi agli occhi la misura dell'effetto sopra un altr'uomo. Quest'altro invece, calmo, in una disposizione d'animo estranea a quella dello scrittore, scorre la lettera, la rilegge a varie riprese ed in tempi diversi, e così finisce con lo scoprirvi facilmente l'intenzione riposta. Il miglior modo, di conoscere un autore anche come uomo, è cercarlo nel suo libro, perché quivi agiscono ancor più forte e durevolmente tutte quelle condizioni: e farsi in una biografia diversi da quel che si è, è tanto difficile, che non ve n'ha forse alcuna, la quale non sia in complesso più vera di qualsivoglia altra storia scritta. L'uomo, che ritrae la propria vita, la vede nelle sue grandi linee: i singoli fatti s'impiccioliscono, le cose vicine s'allontanano, mentre s'avvicinano le lontane, i riguardi s'attenuano: egli sta con se medesimo in confessione, e vi si è disposto liberamente. Lo spirito della menzogna non l'afferra qui tanto facilmente: essendo in ogni uomo insita un'inclinazione alla verità, che per ciascuna bugia dev'esser prima rattenuta, e che all'atto del confessarsi acquista il predominio. Il rapporto tra biografia e storia dei popoli si rende manifesto con l'esempio che segue. La storia ci mostra l'umanità, come la vista da un alto monte ci mostra la natura: molto vediamo con un'occhiata, ampie distese, grandi masse; ma nulla è distintamente riconoscibile in tutto il suo vero essere. Viceversa la vita di un singolo individuo ci mostra l'uomo a quel modo stesso, con cui apprendiamo a conoscer la natura passeggiando tra i suoi alberi, piante, rocce e acque. Ma, come per mezzo della pittura di paesaggi, nella quale l'artista ci fa veder la natura con gli occhi suoi, vengono a noi resi molto più facili la conoscenza delle idee di questa e lo stato del puro conoscere, scevro di volontà, per tal conoscenza richiesto; così ha l'arte poetica per la rappresentazione delle idee, che noi potremmo cercar nella storia e nella biografia, grandi vantaggi su queste ultime: perché anche quivi il genio regge davanti a noi il chiarificante specchio, nel quale tutto ciò ch'è essenziale e significativo si raccoglie, e, posto in piena luce, ci si fa incontro, mentre ciò ch'è causale ed estraneo, viene rimosso27.

La rappresentazione dell'idea dell'umanità, che al poeta incombe, può da lui esser fatta o in modo che il rappresentato sia anche colui che rappresenta: il che accade nella poesia lirica, nella canzone in senso proprio, dove il poeta vede e descrive vivacemente solo il suo stato personale, sì che diviene essenziale in questo genere poetico una certa soggettività, a causa dell'argomento; oppure quegli che rappresenta è affatto distinto dalla cosa rappresentata, come accade in tutti gli altri generi poetici, dove chi rappresenta più o meno si cela dietro al rappresentato e finisce con lo scomparire. Nella romanza lirico-drammatica, chi rappresenta esprime ancora in qualche modo, mediante il tono e l'andatura dell'insieme, il proprio stato: molto più oggettiva della canzone, la romanza ha tuttavia ancor qualcosa di soggettivo, che impallidisce già vieppiù nell'idillio, e più ancora nel romanzo, e svanisce quasi del tutto nell'epopea, e, fino all'ultima traccia, nel dramma, che è il più oggettivo, e per vari riguardi più perfetto, ma anche più difficile genere poetico. La lirica è per questo motivo il genere più facile; e se l'arte in complesso è dominio esclusivo del genio vero, che è tanto raro, tuttavia anche un uomo il quale non sia nell'insieme molto eminente può, quando in effetti siano le sue forze spirituali innalzate da una forte eccitazione esteriore, da un qualche entusiasmo, mettere insieme una bella canzone: perché a ciò occorre non altro che una viva intuizione del proprio stato in un momento d'agitazione. Questo provano molti canti isolati composti da individui altrimenti ignoti, in ispecie i canti popolari tedeschi, dei quali noi abbiamo un'ottima raccolta nel Wunderhorn, e così pure innumerabili canti popolari d'amore o d'altro soggetto in tutte le lingue. Imperocché il cogliere e fissare nella canzone la disposizione del momento, è tutto il compito di questo genere poetico. Tuttavia nella lirica dei poeti veri si riflette l'intimo di tutta l'umanità; e tutto ciò, che milioni d'uomini passati, presenti, futuri hanno sentito o sentiranno nelle medesime situazioni sempre rinascenti, trova colà la sua voce. Quelle situazioni, per il loro costante ritorno, appunto come l'umanità rimangono perenni, e ognora producono i sentimenti medesimi: e perciò le liriche dei veri poeti durano per millenni giuste, efficaci e fresche. Il poeta, in sostanza, è l'uomo universale: tutto ciò che ha scosso un cuore umano, ciò che l'umana natura in qualsivoglia stato da se medesima esprime, tutto ciò che in un petto umano può trovarsi e covare, – è suo tema e sua materia; come, inoltre, tutta quanta la rimanente natura. Può così il poeta cantare la voluttà come il misticismo, essere Anacreonte o Angelus Silesius, scrivere tragedie o commedie, rappresentare animi alti o volgari, – secondo ha capriccio e vocazione. E a nessuno è lecito prescrivere al poeta d'esser nobile ed elevato, morale, pio, cristiano, essere questo o quello; e tanto meno rimproverarlo di non essere questo e quello. Egli è lo specchio dell'umanità, e la fa consapevole di ciò ch'ella sente ed opera.

Consideriamo ora più da presso l'essenza della canzone vera e propria, togliendo a esempio qualche modello eccellente e puro insieme: non di quelli, che già in certo modo s'accostano a un altro tipo, come sarebbe alla romanza, all'elegia, all'inno, all'epigramma, e così via; troveremo così, che l'essenza caratteristica della canzone in senso preciso è la seguente. È il soggetto della volontà, ossia il proprio volere, che empie la conscienza di chi canta; spesso come sciolto, appagato volere (gioia), e più spesso come un volere contrastato (dolore); sempre, tuttavia, come affetto, passione, animo agitato. Ma nondimeno accanto a questo, e insieme con questo, colui che canta diviene, alla vista della natura d'intorno, conscio di sé qual soggetto del puro conoscere, scevro di volontà: la cui incrollabile pace spirituale viene a trovarsi in contrasto con l'urto del volere sempre costretto, ancor sempre assetato. E la sensazione di tal contrasto, di tal giuoco alterno, è proprio ciò che s'esprime nel complesso della canzone, e costituisce in genere lo stato lirico. Si direbbe, che in tal stato ci si faccia dappresso il puro conoscere, per liberarci dal volere e dal suo impulso; noi lo seguiamo, ma sol per brevi istanti: sempre di nuovo il volere, il ricordo dei nostri fini personali, ci strappa alla pacata contemplazione; ma ogni volta ci discioglie dai lacci del volere la bella natura circostante, nella quale a noi si offre la pura conoscenza libera da volontà. Perciò sono nella canzone e nella disposizione lirica il volere (l'interesse personale per i propri fini) e la pura intuizione del mondo circostante in singolar modo frammisti: tra loro vengon cercate e immaginate relazioni; la disposizione soggettiva, la commozione della volontà comunica i suoi colori all'ambiente intuito, e questo a quella: di tutto questo stato d'anima sì commisto e discorde è la vera canzone un riflesso. Per rendere comprensibile con esempi questa analisi astratta d'uno stato ben lontano da ogni astrazione, sì può prender ciascuna delle immortali canzoni di Goethe; ma come particolarmente chiare per il nostro scopo ne raccomando solo alcune: Lamento d'un pastore, Il benvenuto e il commiato, Alla luna, Sul lago, Sensazione d'autunno28 Sono anche ottimi esempi le canzoni del Wunderhorn: soprattutto quella che comincia: O Brema, or ti debbo lasciare29. Come parodia comica, e giustissima, del carattere lirico, mi sembra notevole una canzone, in cui Voss descrive ciò che prova un copritetti ubriaco, nell'atto di cader da una torre; il quale, pur cadendo, fa l'osservazione, molto fuori luogo nel suo stato presente, e quindi spettante alla conoscenza scevra di volontà, che l'orologio della torre segna per l'appunto le undici e mezza. Chi divide la mia opinione sullo stato lirico, dovrà pur convenire che esso è propriamente la conoscenza intuitiva e poetica di quella massima stabilita nel mio scritto sul principio di ragione, e in quest'opera già ricordata, che l'identità del soggetto del conoscere con quello del volere può esser chiamata il miracolo κατ’εξοχην sì che l'effetto poetico della canzone poggia da ultimo sulla verità di quella massima. Nel corso della vita que' due soggetti o, per esprimermi alla buona, testa e cuore, vengono sempre più discostandosi l'uno dall'altro: sempre più scindiamo il nostro sentimento soggettivo dalla conoscenza oggettiva. Nel fanciullo sono entrambi ancor fusi del tutto: egli sa a stento distinguer sé da ciò che lo circonda, e vi si dissolve. Nel giovane, ogni percezione produce dapprima sentimento e stato d'animo; e molto bene è ciò espresso da Byron:

I live not in myself, but I become
Portion of that around me; and to me
High mountains are a feeling30.

Appunto perciò il giovine è tanto attaccato all'intuitiva faccia esterna delle cose; appunto perciò egli non è capace d'altra poesia che lirica, e soltanto l'uomo maturo è capace della drammatica. Il vecchio possiamo immaginarcelo al più come poeta epico, quali furono Ossian e Omero: perché il narrare appartiene al carattere del vecchio.

Nei generi più oggettivi, specialmente nel romanzo, nell'epopea e nel dramma, lo scopo, rivelazione dell'idea dell'umanità, viene raggiunto soprattutto con due mezzi: con esatta e profonda rappresentazione di significanti caratteri, e col trovar significanti situazioni, in cui quelli si dispieghino. Imperocché come al chimico tocca non solo presentar puri e genuini i corpi semplici e le lor principali combinazioni; ma anche esporli all'azione di reagenti tali, per cui le proprietà loro si rendano chiare e visibili appieno; così tocca al poeta non solo portarci innanzi con verità e fedeltà, come fa la natura medesima, significanti caratteri; ma deve, per farceli conoscere, metterli in situazioni, nelle quali le proprietà loro si svolgano compiutamente e si presentino nette con precisi contorni, situazioni che perciò appunto si chiamano significanti. Nella vita reale e nella storia è raro che il caso introduca situazioni di questa natura, e quelle poche stanno isolate, smarrite e nascoste nella folla delle situazioni insignificanti. La continuata importanza delle situazioni distingue il romanzo, l'epopea, il dramma dalla vita reale, altrettanto come li distingue l'accolta e la scelta di caratteri espressivi: ma nell'una cosa e nell'altra è inesorabile condizione dell'effetto la più rigida verità. E mancanza di unità nei caratteri, contraddizioni interne in quelli, oppur contrasti con l'essenza dell'umanità in genere, e impossibilità, o inverosimiglianza (che all'impossibilità è vicina) dei fatti, sia pur soltanto in circostanze secondarie, offendono nella poesia quanto figure mal disegnate, o falsa prospettiva, o luce difettosa offendono in pittura: perché noi vogliamo, là come qui, lo specchio fedele della vita, dell'umanità, del mondo, sol reso più limpido dalla rappresentazione e più significante della combinazione. Uno essendo lo scopo di tutte le arti, rappresentazione delle idee, e consistendo la sostanzial differenza di quelle solamente nel diverso grado di oggettivazione della volontà toccato all'idea da rappresentare, dal qual grado è a sua volta determinata la materia della rappresentazione; ne consegue che anche le arti tra loro più discoste si possono illustrare con reciproci confronti. Per esempio, a ben comprendere le idee esprimentisi nell'acqua, non basta veder l'acqua d'un placido stagno o corrente d'un corso regolare ed eguale: quelle idee si rivelano appieno sol quando l'acqua si mostra alle prese con tutte le situazioni e gli ostacoli che, operando su lei, la spingono alla manifestazione piena di tutte le sue proprietà. Perciò la troviamo bella quando precipita, rumoreggia, spumeggia, si slancia in alto o ricadendo si fa polvere, o alfine, ad arte costretta, come raggio sprizza verso il cielo. E così in circostanze diverse variamente mostrandosi, sempre afferma costante il carattere proprio. Altrettanto è a lei naturale sprizzar nell'alto, quanto star quieta come specchio: all'uno e all'altro stato è subito disposta, non appena se ne presentino le circostanze. Ora, ciò che con la materia liquida può fare un artefice del genere, fa con la solida l'architetto, e non altrimenti fa il poeta epico o drammatico con l'idea dell'umanità. Disvelamento e chiarimento dell'idea esprimentesi nell'oggetto di ogni arte, della volontà oggettivantesi in ogni grado, è di tutte le arti compito comune. La vita dell'uomo, quale apparisce il più sovente nella realtà, somiglia all'acqua come noi di solito la vediamo, in fiume e stagno: ma nell'epopea, nel romanzo e nella tragedia vengono eletti caratteri posti in circostanze, nelle quali tutte le lor proprietà si dispiegano, gli abissi dell'animo umano si dischiudono e fanno visibili in azioni straordinarie, altamente significative. Così l'arte poetica oggettiva l'idea dell'umanità, della quale è caratteristico il presentarsi in caratteri fortissimamente individuali.

Come vetta dell'arte poetica, tanto riguardo alla grandezza dell'effetto, quanto alla difficoltà dell'opera, è da considerarsi ed è generalmente ritenuta la tragedia. Per il complesso di tutta la nostra indagine è molto importante e da tener bene in conto, che scopo di quest'altissima creazione poetica è la rappresentazione della vita nel suo aspetto terribile; che il dolore senza nome, l'affanno dell'umanità, il trionfo della perfidia, la schernevole signoria del caso e il fatale precipizio dei giusti e degl'innocenti vengono qui a noi presentati: imperocché si ha in ciò un significante segno intorno alla natura del mondo e dell'essere. È il contrasto della volontà con se medesima, che qui, nel grado supremo della sua oggettità, dispiegato in tutta la sua pienezza, tremendamente balza alla luce. Nel dolore della umanità si fa visibile: e quello è prodotto parte dal caso e dall'errore, che quali dominatori del mondo intervengono, e per la loro malizia, che giunge fino ad aver l'apparenza di consapevolezza, sono personificati nel destino; parte proviene dall'umanità stessa, per le incrociantesi voglie degli individui, per la malvagità e perversità dei più. Una e identica volontà è quella, che in tutti vive e si manifesta, ma le sue manifestazioni si combattono e si dilaniano a vicenda. In un individuo si rivela potente, in un altro più debole, qui più, lì meno accordata con la riflessione e attenuata dalla luce della conoscenza, fin quando alfine in taluno questa conoscenza, purificata ed elevata mediante il dolore stesso, tocca il punto in cui il fenomeno, il velo di Maja, non più l'inganna. Allora la forma del fenomeno, il principium individuationis, viene da lei visto bene addentro; e perciò l'egoismo che su questo si fonda è spento, sì che i motivi prima sì poderosi perdono la loro forza, e in luogo di quelli la piena cognizione dell'essenza del mondo, agendo come quietivo della volontà, fa nascer la rassegnazione, la rinunzia non alla vita soltanto, ma all'intera volontà di vivere. Così vediamo nella tragedia i più nobili caratteri da ultimo rinunziar per sempre, dopo lungo combattere e soffrire, agli scopi fino allora sì vivamente perseguiti, e a tutti i piaceri della vita, o la vita stessa abbandonare volenterosi e lieti. Così il principe costante di Calderón; così Margherita nel Faust; così Amleto, cui il suo Orazio volentieri seguirebbe, ma Amleto gl'impone di rimanere, e ancora un poco respirare con dolore in questo duro mondo, per far luce sul destino di lui e lavar da ogni macchia la sua memoria; così ancora la Pulcella d'Orléans, la Fidanzata di Messina: tutti muoiono purificati dal dolore, ossia quando in loro la volontà di vivere è già morta. Questo è significato alla lettera nelle ultime parole del Mohammed di Voltaire, dove la Palmira grida a Mohammed: «Il mondo è fatto pei tiranni: vivi!». Invece il pretender la cosiddetta giustizia poetica poggia sopra un assoluto misconoscer l'essenza della tragedia, anzi l'essenza del mondo. Sfacciatamente questa pretesa si mostra in tutta la sua scipitaggine nei saggi critici, che il dr. Samuel Johnson ha scritto su ciascun dramma di Shakespeare, dov'egli in maniera proprio ingenua lamenta che la giustizia poetica sia sempre trascurata. Ed è vero: che male hanno commesso le Ofelie, le Desdemone, le Cordelie? Ma soltanto la piatta, ottimista, protestante-razionalistica, o propriamente giudaica concezione del mondo pretenderà la giustizia poetica e troverà il proprio soddisfacimento nel soddisfacimento di quella. Il vero senso della tragedia è la cognizione ben più profonda, che l'eroe non sconta i suoi peccati personali, ma il peccato universale, ossia la colpa stessa dell'essere:

Pues el delito mayor
Del hombre es haber nacido31,

come apertamente afferma Calderón.

Guardando più da presso il modo di compor la tragedia, voglio permettermi ancora un'osservazione. Il rappresentare una grande sventura è la sola cosa essenziale alla tragedia. Ma le molte vie, per le quali la sventura può essere introdotta dal poeta, sono di tre specie. Può accadere per la straordinaria perfidia, spinta a toccar gli estremi limiti della possibilità, d'un carattere, il quale diventa causa della sventura: esempi di questo genere sono Riccardo III, Jago nell'Otello, Shylok nel Mercante di Venezia, Franz Moor, la Fedra d'Euripide, Creonte nell'Antigone e così via. Oppure può accadere per un cieco destino, ossia caso ed errore: di tale specie è un vero modello il re Edipo di Sofocle, ed anche le Trachinie, e in genere la maggior parte delle tragedie antiche; tra le moderne sono esempi Romeo e Giulietta, il Tancred di Voltaire, la Fidanzata di Messina. La sventura può esser cagionata in fine dalla semplice situazione rispettiva delle persone, dai loro rapporti, sì che non v'ha bisogno né d'un mostruoso errore o d'un caso inaudito, né d'un carattere, che tocchi i confini umani del male: ma caratteri come sotto il rispetto morale ve n'ha tanti, in circostanze quali occorrono sovente, sono posti di fronte in modo, che la situazione loro li costringe a farsi l'un l'altro, sapendo e vedendo, il più gran male, senza che in ciò il torto sia tutto da una parte sola. Quest'ultima specie sembra a me di molto preferibile alle altre due: imperocché ci fa apparir la più grande delle sventure non come un'eccezione, non come effetto di circostanze rare o di mostruosi caratteri, ma come alcunché venuto facilmente e spontaneamente, quasi per naturale necessità, dall'azione e dai caratteri degli uomini; e appunto perciò la rende in terribile modo vicina a noi stessi. E se noi nelle altre due specie vediamo il mostruoso destino e l'orrenda malvagità bensì come forze terribili, ma che solo da gran distanza ci minacciano e alle quali possiamo sfuggire, senza cercar ricovero nella completa rinunzia, l'ultima invece presenta a noi quelle forze, onde felicità e vita son travolte, come fatte di tal natura che anche contro di noi possono aprirsi la via ad ogni istante; e il più gran dolore può venirci da complicazioni, la cui essenza può pesare anche sul nostro destino, e da azioni, che noi anche saremmo capaci di commettere, sì che non potremmo lagnarci d'ingiustizia. Allora rabbrividendo ci sentiamo già in mezzo all'inferno. Ma la composizione d'una tragedia di quest'ultimo tipo è pur la più difficile, dovendosi qui con un minimo impiego di mezzi e di moventi produrre il massimo effetto, solo mediante la situazione e la distribuzione di quelli: perciò anche in nome delle migliori tragedie questa difficoltà è girata. Qual perfetto modello del genere è tuttavia da citare un dramma, che sotto altro riguardo è di molto superato da altre opere del medesimo grande maestro: Clavigo. Della stessa natura è in un certo senso Amleto, se non guardiamo che alla situazione del protagonista davanti a Laerte e ad Ofelia; anche il Wallenstein ha questo merito; tale è pure il Faust, se si considera come azione principale soltanto ciò che accade a Margherita ed a suo fratello; così il Cid di Corneille, al quale manca nondimeno l'esito tragico, che invece si trova nell'analoga situazione di Max rispetto a Teda nel Wallenstein32.

§ 52.

Dopo aver fin qui considerato tutte le arti belle da quel punto di vista generale, che a noi si conviene, principiando dall'architettura, scopo della quale è render palese l'oggettivazione della volontà nel grado più basso in cui questa è visibile, ov'essa si mostra come oscuro, inconsciente, meccanico impulso della massa, e pur tuttavia già palesa interno dissidio e lotta; e il nostro esame concludendo con la tragedia, che nel grado supremo dell'oggettivazione della volontà appunto quell'interno dissidio ci disvela in tremenda grandezza e chiarezza; troviamo che nondimeno un'arte bella è rimasta e doveva rimanere esclusa da questa indagine, non essendo per lei alcun luogo conveniente nella trama della nostra esposizione: la musica. Ella è staccata da tutte le altre. In lei non conosciamo l'immagine, la riproduzione d'una qualsiasi idea degli esseri che sono al mondo; eppure ell'è una sì grande e sublime arte, sì potentemente agisce sull'intimo dell'uomo, sì appieno e a fondo vien da questo compresa, quasi lingua universale più limpida dello stesso mondo intuitivo; – che in lei di certo dobbiamo cercar ben più dell'exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerare animi, qual fu dichiarata da Leibniz33. E questi ebbe nondimeno ragione, in quanto ne guardò soltanto l'immediata ed esterna significazione, la scorza. Ma se non fosse nulla di più, dovrebbe la soddisfazione, ch'ella ci arreca, somigliare a quella che noi troviamo nella giusta soluzione d'un problema di calcolo; e non sarebbe punto quell'intima gioia, con la quale noi vediamo fatto parlante il più segreto recesso del nostro essere. Dal nostro punto di vista, adunque, dobbiamo riconoscere alla musica un significato ben più grave e profondo, riferentesi alla più interiore essenza del mondo e del nostro io; rispetto alla quale le relazioni di numeri, in cui quella si lascia scomporre, stanno non già come la cosa significata, ma appena come il segno significante. Che la musica debba stare al mondo, in un senso qualsiasi, come rappresentazione sta al rappresentato, come immagine all'originale, possiamo dedurre dall'analogia delle altre arti, alle quali tutte appartiene questo carattere, e la cui azione su di noi ha la stessa natura di quella della musica, ma solo è quest'ultima più forte, più rapida, più necessaria, più infallibile. Quella relazione d'immagine rispetto all'originale, ch'ella ha col mondo, deve pur essere ben intima, infinitamente verace e sommamente precisa, per esser da ciascuno compresa in un attimo; e dà a conoscere una tal quale infallibilità, dal fatto che la sua forma si lascia ricondurre a regole ben determinate, da esprimersi in numeri; regole cui non può sottrarsi, senza cessare interamente d'esser musica. Tuttavia il punto di paragone tra la musica e il mondo, il modo onde quella sta con questo nel rapporto d'imitazione o riproduzione, giace ben profondamente celato. S'è fatto musica in tutti i tempi, senza rendersi conto di ciò: paghi di comprenderla direttamente, s'è rinunziato a una conscienza astratta di questa immediata comprensione.

Nel mentre io abbandonavo tutto il mio spirito all'impressione della musica, facendo poi in seguito ritorno alla riflessione e al corso dei pensieri esposti nell'opera presente, venni a una conclusione sulla sua intima essenza e sul modo della sua relazione col mondo, la quale per necessaria analogia era da supporre fosse di natura imitativa. Tale conclusione essendo per me stesso sufficiente appieno, e per la mia indagine soddisfacente, sarà forse egualmente luminosa per chi mi abbia seguito finora convenendo col mio concetto del mondo. Ma di quella conclusione fornir la prova, riconosco esser cosa sostanzialmente impossibile; perché essa ammette e stabilisce un rapporto della musica, come rappresentazione, con ciò che per essenza non può mai essere rappresentazione; e la musica vuol considerata come immagine di un modello, che non può direttamente venir rappresentato esso medesimo. Non posso quindi fare altro, che qui, al termine del terzo libro, principalmente consacrato all'esame delle arti, esporre quel giudizio, ond'io m'appago, sulla mirabile arte dei suoni; e il consenso o il dissenso dipenderà dall'effetto prodotto sul lettore per una parte dalla musica, per l'altra da tutto l'unico pensiero, ch'io comunico in quest'opera. Ritengo inoltre necessario, perché si possa accogliere con piena persuasione l'indagine, che ora farò, intorno al senso della musica, ascoltar musica spesso, riflettendovi durevolmente. Ed anche a ciò occorre esser già molto famigliare con tutto il mio pensiero.

L'adeguata oggettivazione della volontà sono le idee (platoniche); provocar la conoscenza di queste (cosa possibile solo con una corrispondente modificazione nel soggetto conoscitivo) mediante rappresentazione di singoli oggetti (che non altro sono pur sempre le opere d'arte), è il fine di tutte le altre arti. Tutte oggettivano adunque la volontà in modo mediato, ossia per mezzo delle idee: e il nostro mondo non essendo se non fenomeno delle idee nella pluralità, per essere entrate nel principium individuationis (forma della conoscenza possibile all'individuo come tale), ne risulta che la musica, la quale va oltre le idee, anche dal mondo fenomenico è del tutto indipendente, e lo ignora, e potrebbe in certo modo sussistere quand'anche il mondo non fosse: il che non può dirsi delle altre arti. La musica è dell'intera volontà oggettivazione e immagine, tanto diretta com'è il mondo; o anzi, come sono le idee: il cui fenomeno moltiplicato costituisce il mondo dei singoli oggetti. La musica non è quindi punto, come l'altre arti, l'immagine delle idee, bensì immagine della volontà stessa, della quale sono oggettità anche le idee. Perciò l'effetto della musica è tanto più potente e insinuante di quel delle altre arti: imperocché queste ci danno appena il riflesso, mentre quella esprime l'essenza. Essendo adunque la medesima volontà che si oggettiva, tanto nelle idee quanto nella musica, ma solo in modo affatto diverso, deve trovarsi non proprio una diretta somiglianza, ma tuttavia un parallelismo, un'analogia tra la musica e le idee, delle quali è fenomeno molteplice e imperfetto il mondo visibile. L'indicare una tale analogia sarà come un chiarimento, che aiuti a comprendere questa dimostrazione difficile per l'oscurità del soggetto.

Nei suoni più gravi dell'armonia, nel basso fondamentale, io riconosco i gradi infimi dell'oggettivantesi volontà, la natura inorganica, la massa del pianeta. Tutti i suoni acuti, agili e rapidi, notoriamente sono da considerare sorti dalle vibrazioni concomitanti del suono fondamentale profondo, e al risuonar di questi risuonan tosto lievi anch'essi. È legge dell'armonia, accordare con una nota bassa soltanto quei suoni acuti, che insieme con lei già effettivamente risuonano nelle vibrazioni concomitanti (i suoi sons harmoniques). È un fatto analogo a quello, per cui tutti i corpi e organismi della natura devono esser considerati come svoltisi gradatamente dalla massa del pianeta; questa è il loro sostegno come la loro sorgente: e la medesima relazione hanno i suoni acuti col basso fondamentale. La profondità ha un termine, oltre il quale un suono non è più percettibile: e ciò corrisponde al non esservi materia percepibile senza forma e qualità, ossia senza manifestazione d'una forza, che non può esser meglio spiegata, e in cui un'idea si esprime; anzi corrisponde più generalmente al non esservi materia in tutto scevra di volontà. Come adunque dal suono, in quanto tale, è inseparabile un certo grado di altezza, così lo è dalla materia un certo grado di manifestazione della volontà. Il basso fondamentale è quindi per noi nell'armonia quel che il mondo nella natura inorganica: la massa più rude, su cui tutto posa e da cui tutto s'innalza e si sviluppa. Procedendo, in tutte le parti costituenti l'armonia, tra il basso e la voce guida che canta la melodia, riconosco l'intera scala delle idee, in cui la volontà si oggettiva. Quelle più vicine al basso corrispondono ai gradi inferiori, ossia ai corpi ancora inorganici ma già in più modi estrinsecantisi: le più alte mi rappresentano il mondo vegetale ed animale. I determinati intervalli della scala sono paralleli ai gradi determinati nell'oggettivazione della volontà, alle determinate specie della natura. Il discostarsi dall'aritmetica esattezza degl'intervalli, o mediante una qualsiasi tempera, o indotto dalla prescelta tonalità, è analogo al discostarsi dell'individuo dal tipo della specie: e anzi le dissonanze impure, che non danno un determinato intervallo, si posson paragonare ai mostri venuti da due specie animali, o da uomo e animale. A tutte codeste parti di basso e medie, che formano l'armonia, manca nondimeno quell'organismo nella progressione, che soltanto ha la parte superiore, ond'è cantata la melodia; la qual parte è la sola a potersi muovere rapida e leggera nelle modulazioni e digressioni, mentre tutte le altre hanno un andare più lento, senz'avere in ciascuna per sé un organismo costante. Più pesante di tutte si muove il basso fondamentale, il rappresentante della massa bruta: il suo salire e discendere si fa solo per grandi passaggi, in terze, quarte, quinte, e non mai d'un tono solo; che allora sarebbe, per contrappunto doppio, un basso trasportato. Questo tardo moto è a lui anche fisicamente naturale: un rapido passaggio o un gorgheggio nelle note gravi non si può neppure immaginare. Più svelte, ma ancor senza nesso melodico e significante progressione si muovono le parti più elevate, che corrono parallele al mondo animale. Il movimento isolato e la destinazione regolata di tutte le parti sono analoghi al fatto, che in tutto il mondo irrazionale, dal cristallo all'animale più perfetto, nessun essere ha una conscienza propriamente sistematica, che faccia della sua vita un complesso sensato; e nessuno ha una successione di sviluppi mentali, nessuno si perfeziona con la cultura; bensì tutti rimangono in ogni tempo eguali, secondo la propria natura, determinati da rigida legge. Finalmente nella melodia, nella voce principale, alta, canora, che il tutto guida, e libera, spontanea procede dal principio alla fine con l'organismo ininterrotto e significativo d'un pensiero unico, formando un tutto ben delineato, riconosco il grado supremo dell'oggettivazione della volontà, la conscia vita e lotta dell'uomo. Come l'uomo ognora guarda, egli solo essendo fornito di ragione, davanti o dietro a sé, sul cammino della propria realtà e delle possibilità innumerabili, compiendo un corso vitale consapevole, in cui tutto si collega e forma un insieme: così ha la melodia sola una significativa, voluta connessione da capo a fondo. Ella narra quindi la storia della volontà illuminata dalla riflessione, volontà che si manifesta nel reale con la serie degli atti suoi; ma dice di più, narra della volontà la storia più segreta, ne dipinge ogni emozione, ogni tendenza, ogni moto, tutto ciò, che la ragione comprende sotto l'ampio e negativo concetto di sentimento, né può meglio accogliere nelle proprie astrazioni. Perciò fu sempre detto esser la musica il linguaggio del sentimento e della passione, come le parole sono il linguaggio della ragione. Già Platone la dichiara ή των μελων κινησις μεμιμημενη, εν τοις παθημασιν όταν ψυχη γινηται (melodiarum motus, animi affectus imitans), De leg. VII; e anche Aristotele dice: δια τι οί ρυθμοι και τα μελη, φωνη ουσα, ηθεσιν εοικε; (cur numeri musici et modi, qui voces sunt, moribus similes sese exhibent?); Probl, c. 19.

Ora, come l'essenza dell'uomo sta nel fatto, che la sua volontà aspira, viene appagata e torna ad aspirare, e sempre così continua; anzi sua sola felicità, solo suo benessere è che quel passar dal desiderio all'appagamento e da questo a un nuovo desiderio proceda rapido, poi che il ritardo dell'appagamento è dolore, e il ritardo del nuovo desiderio è aspirazione vuota, languor, noia; così l'essenza della melodia è un perenne discostarsi, peregrinar lontano dal tono fondamentale per mille vie non solo verso i gradi armonici, la terza e la dominante, ma verso ogni tono, fino alla dissonante settima ed ai gradi eccedenti; eppur sempre succede da ultimo un ritorno al tono fondamentale. Per tutte codeste vie esprime la melodia il multiforme aspirar della volontà; ma col ritrovare infine un grado armonico, o meglio ancora il tono fondamentale, esprime l'appagamento. Trovar la melodia, scoprire in lei tutti i segreti più profondi dell'umano volere e sentire, è l'opera del genio: la cui azione è qui più facile a vedersi che altrove, libera da ogni riflessione e meditato intento – e potrebbe chiamarsi inspirazione. Qui, come ovunque nel dominio dell'arte, il concetto è infruttifero: il compositore disvela l'intima essenza del mondo, in un linguaggio che la ragione di lui non intende: come una sonnambula magnetica da rivelazione di cose, delle quali sveglia non ha concetto alcuno. In un compositore quindi, meglio che in ogni altro artista, è l'uomo dall'artista in tutto separato e distinto. Perfino nell'illustrazione di quest'arte mirabile il concetto lascia scorgere la propria povertà e i propri limiti: ma io voglio nondimeno tentar d'esporre fino all'ultimo l'analogia da me indicata. Come il rapido passaggio dal desiderio all'appagamento, e da questo a un nuovo desiderio, è felicità e benessere, così sono gioiose le melodie rapide, senza grandi deviazioni: tristi sono invece se lente, deviate in penose dissonanze, e solo attraverso molte battute facenti ritorno al tono fondamentale; sì da paragonarsi a un tardivo, contrastato appagamento del desiderio. Il ritardo della nuova eccitazione della volontà, il languore, non potrebbe esprimersi altrimenti che nel prolungato tono fondamentale, il cui effetto sarebbe ben presto intollerabile: già di molto s'avvicinano a ciò le monotone, inespressive melodie. I brevi, facili periodi d'una rapida musica a danza sembrano parlar d'una gioia comune, agevole a raggiungersi; mentre l'Allegro maestoso, in lunghi periodi, lenti passaggi, ampie deviazioni, esprime una più alta, più nobile aspirazione verso una meta lontana, e il suo finale conseguimento. L'Adagio parla del dolore d'una grande e nobile aspirazione, la quale disdegna ogni felicità meschina. Ma come mirabile è l'effetto del Minore e Maggiore! Come stupisce, che il mutar d'un semitono, il subentrar della terza minore in luogo della maggiore, c'inspiri immediatamente e inevitabilmente un senso d'angoscia e di pena, dal quale con la stessa rapidità ci libera il modo maggiore! L'Adagio raggiunge nel modo minore l'espressione del più alto spasimo, diviene il più sconvolgente lamento. Musica a ballo in minore sembra indicare la perdita d'una felicità mediocre, che piuttosto si dovrebbe disdegnare; sembra parlar d'un fine basso, conseguito con travagli e tribolazioni. L'inesauribile ricchezza di possibili melodie corrisponde all'inesauribile ricchezza della varietà d'individui, fisonomie e carriere vitali nella natura. Il passaggio da una tonalità a un'altra affatto diversa, venendo a toglier la connessione con ciò che precede, somiglia alla morte, in quanto ella è fine dell'individuo: ma la volontà, che in costui si palesava, vive dopo come prima, in altri individui palesandosi, la cui conscienza tuttavia non ha connessione di sorta con quella del primo.

Nel mostrar tutte queste analogie, non si deve tuttavia mai dimenticare che la musica non ha con esse una relazione diretta, ma soltanto indiretta: non esprimendo ella il fenomeno, ma l'intimo essere, l'in-sé d'ogni fenomeno, la volontà stessa. Non esprime adunque questa o quella singola e determinata gioia, questo o quel turbamento, o dolore, o terrore, o giubilo, o letizia, o serenità; bensì la gioia, il turbamento, il dolore, il terrore, il giubilo, la letizia, la serenità in se stessi, e, potrebbe dirsi, in abstracto, dandone ciò che è essenziale, senza accessori, quindi anche senza i loro motivi. Perciò noi comprendiamo la musica perfettamente, in questa purificata quintessenza. Di là procede che la nostra fantasia venga dalla musica con tanta facilità eccitata, tenti allora di dar forma a quel mondo di spiriti, che direttamente ci parla, invisibile e pur sì vivamente mosso, e di vestirlo con carne e ossa, cioè impersonarlo in un esempio analogo. Questa è l'origine del canto accompagnato da parole, e finalmente dell'opera, – la quale appunto perciò non dovrebbe mai abbandonare questa situazione subordinata per salire al primo luogo, e ridurre la musica a semplice mezzo della propria espressione; la qual cosa è un grosso errore e una brutta stortura. Imperocché sempre la musica esprime la quintessenza della vita e dei suoi eventi, ma non mai questi medesimi; le cui distinzioni quindi non hanno il minimo influsso sopra di lei. Appunto tale universalità, che a lei esclusivamente appartiene, malgrado la determinatezza più precisa, le dà l'alto valore, ch'ella possiede come panacea di tutti i nostri mali. Se quindi si vuol troppo adattar la musica alle parole, e modellarla sui fatti, ella si sforza a parlare un linguaggio che non è il suo. Da questo difetto nessuno s'è tenuto lontano come Rossini: perciò la musica di lui parla sì limpido e puro il linguaggio suo proprio, da non aver punto bisogno di parole, ed esercitare quindi tutto il suo effetto, anche se eseguita dai soli strumenti.

In conseguenza di tutto ciò possiamo considerare il mondo fenomenico (o la natura) e la musica come due diverse espressioni della cosa stessa; la quale è adunque il termine di unione dell'analogia che passa fra loro, la cui conoscenza si richiede per vedere addentro quell'analogia. La musica quindi è – guardata come espressione del mondo – un linguaggio in altissimo grado universale, che addirittura sta all'universalità dei concetti press'a poco come i concetti stanno alle singole cose. Ma la sua universalità non è punto quell'universalità vuota dell'astrazione, bensì ha tutt'altro carattere, ed è congiunta con una perenne, limpida determinatezza. Somiglia in ciò alle figure geometriche ed ai numeri: che, quali forme universali di tutti i possibili oggetti dell'esperienza ed a tutti applicabili, non sono tuttavia astratti, ma intuitivi e sempre determinati. Tutte le possibili aspirazioni, eccitazioni e manifestazioni della volontà; tutti quei fatti interni dell'uomo, che la ragione getta nell'ampio concetto negativo di sentimento, sono da esprimere nelle infinite melodie possibili; ma ognora nell'universalità di semplice forma, senza la materia; ognora nell'in-sé, e non nel fenomeno: quasi la più profonda anima di questo, senza il corpo. Da quest'intima relazione, che la musica ha con la vera essenza di tutte le cose, si trae pur la spiegazione del fatto che se a qualsivoglia scena, azione, evento, ambiente s'accompagna una musica adatta, questa sembra dischiudercene il senso più segreto, ed esserne il più esatto, il più limpido commentario; e nello stesso tempo pare a quegli, che intero s'abbandona all'effetto d'una sinfonia, di vedere innanzi a sé passare le vicende tutte della vita e del mondo: ma nondimeno non gli è possibile, quando vi rifletta, trovare una somiglianza tra quella musica e le cose che ondeggiavano a lui nella fantasia. Imperocché quivi la musica differisce, come ho detto, da tutte le altre arti: nell'essere non già una riflessa immagine del fenomeno o, meglio, l'adeguata oggettità della volontà, bensì l'immediato riflesso della volontà medesima; e per tutto ciò ch'è fisico nel mondo rappresentare il metafisico, per ogni fenomeno rappresentare la cosa in sé. Tanto si potrebbe quindi chiamare il mondo musica materiata, quanto materiata volontà. Così si spiega, perché la musica faccia apparire in più forte rilievo ogni quadro, anzi ogni scena della vita reale e del mondo: e tanto più, per quanto più analoga è la melodia di lei all'intimo spirito del dato fenomenico. Di qui viene che una poesia possa, come canto, venir sottomessa alla musica: o una rappresentazione intuitiva come pantomina; o questa e quella insieme, come opera. Tali scene isolate dell'umana vita, fatte soggetto all'universale linguaggio della musica, non sono mai con questa congiunte o a lei corrispondenti per una fissa necessità; bensì v'hanno il rapporto che un qualsivoglia esempio può avere col concetto generale: rappresentano con la determinatezza della realtà quel che la musica esprime nell'universalità della forma pura. Perché le melodie sono, in un certo modo, così come i concetti universali, un'astrazione della realtà. Quest'ultima, invero, fornisce l'intuitivo, il particolare e individuale, il caso singolo, in corrispondenza sia all'universalità dei concetti, sia all'universalità delle melodie; le quali universalità sono tuttavia, sotto un certo rispetto, contrarie: poiché i concetti contengono soltanto le forme primamente astratte dall'intuizione, quasi il vuoto guscio esterno delle cose, e sono quindi astrazioni vere e proprie; mentre la musica da invece il nocciolo più interno, precedente a ogni formazione, ossia il cuore della cosa. Questo rapporto si potrebbe esprimere benissimo nella lingua degli scolastici, dicendo: i concetti sono gli universalia post rem, mentre la musica dà gli universalia ante rem, e la realtà gli universalia in re. Al senso universale della melodia, posta ad accompagnare una poesia, potrebbero corrispondere egualmente altri esempi, scelti a piacere, dell'universale in quella espresso, nello stesso grado; perciò la stessa composizione s'adatta a più strofe, e perciò si può avere il vaudeville. Ma in genere l'esser possibile un rapporto tra una composizione musicale e una rappresentazione intuitiva poggia, come ho osservato, sul fatto che l'una e l'altra sono espressioni differentissime della stessa intima essenza del mondo. Ora, quando s'abbia davvero nel caso singolo un tal rapporto, e il compositore abbia saputo esprimere nell'universale lingua della musica quei moti della volontà, che formano il nocciolo di un evento, allora la melodia della canzone o la musica dell'opera è altamente espressiva. L'analogia, dal compositore trovata fra quel linguaggio e quei moti, deve nondimeno procedere dall'immediata cognizione dell'essenza del mondo, senza consapevolezza della ragione; non dev'essere imitazione fatta consapevolmente, mediante concetti, che allora non esprimerebbe la musica l'intima essenza, la volontà medesima, e non farebbe che imitare insufficientemente il fenomeno di quest'ultima, come ognor fa la musica imitativa, qual è per esempio Le stagioni di Haydn e anche la sua Creazione, in molti luoghi ove fenomeni del mondo intuitivo sono direttamente imitati. E così anche in tutte le descrizioni di battaglie: tutta roba da gettar via.

L'ineffabile senso intimo d'ogni musica, in grazia del quale ella ci passa davanti come un paradiso a noi ben famigliare e pure eternamente lontano, affatto comprensibile e pur tanto incomprensibile, proviene dal riflettere tutti i moti del nostro essere più segreto, ma senza la realtà loro, e tenendosi lungi dal loro tormento. Similmente la gravità essenziale alla musica, per cui è il ridicolo escluso affatto dal suo diretto dominio, si spiega con l'esser suo oggetto immediato non la rappresentazione, che sola può apparire illusoria e ridicola, ma la volontà stessa. E questa è per sua natura ciò che esiste di più grave, come ciò da cui tutto dipende. Come ricco di contenuto e di significanza sia il linguaggio musicale, provano perfino i segni di ripetizione, oltre al da capo, che in opere letterarie sarebbero intollerabili, mentre in quello appaiono opportuni e vantaggiosi, dovendosi udire due volte per afferrarlo appieno. In tutta questa trattazione intorno alla musica mi sono sforzato di render chiaro, come ella in un linguaggio universalissimo esprima l'essenza intima, l'in-sé del mondo, che noi, muovendo dalla sua manifestazione più limpida, significhiamo sotto il concetto di volontà; e l'esprima in una materia particolare, ossia con semplici suoni, con la massima determinatezza e verità. E d'altra parte, secondo io vedo e tendo, la filosofia non è se non compiuta, esatta riproduzione ed espressione dell'essenza del mondo, in concetti molto generali; sol con questi potendosi avere una visione, per ogni verso sufficiente e servibile, di tutta quell'essenza. Chi adunque m'ha seguito ed è penetrato nel mio pensiero, non mi troverà tanto paradossale, quando dico che, posto si potesse dare una spiegazione della musica, in tutto esatta, compiuta e addentrantesi nei particolari, ossia riprodurre estesamente in concetti ciò ch'ella esprime, questa sarebbe senz'altro una sufficiente riproduzione e spiegazione del mondo in concetti; oppur le equivarrebbe in tutto, e sarebbe così la vera filosofia. Né il motto di Leibniz sopra citato, giustissimo da un inferior punto di vista, suonerebbe paradossale venendo a esser parodiato nel senso della nostra superiore concezione della musica, così: Musica est exercitium metaphysices occultum nescientis se philosophari animi. Imperocché scire, sapere, significa sempre aver deposto la conoscenza in concetti astratti. E poi che la musica, per la verità da più parti confermata del motto leibniziano, non è altro, astraendo dal suo significato estetico, o interno, e guardandola in modo affatto esteriore ed empirico, che il mezzo di afferrar direttamente, e in concreto, numeri più grandi e relazioni numeriche più complesse, quali di solito possiam conoscere solo indirettamente per mezzo di concetti, ne viene che, riunendo quelle due sì diverse e pure esatte concezioni della musica, possiamo farci un concetto sulla possibilità d'una filosofia dei numeri, qual era quella di Pitagora e anche dei Cinesi nel Y-King; e in questo senso interpretare il detto di Pitagora riferito da Sesto Empirico (adv. Math., 1. VII): τω αριθμω δε τα παντ’ επεοικεν (numero cuncta assimilantur). Ma se infine applichiamo questo modo di vedere alla nostra precedente dimostrazione dell'armonia e della melodia, troveremo che una filosofia morale pura, senza spiegazione della natura, come Socrate la voleva introdurre, è affatto analoga a una melodia senz'armonia, come Rousseau in modo esclusivo la voleva; e all'opposto, una fisica e metafisica pura, senza etica, corrisponde a una pura armonia senza melodia. A queste osservazioni incidentali mi sia lecito annodarne alcune altre, riferentisi ancora all'analogia della musica col mondo fenomenico. Trovammo nel precedente libro, che il grado supremo d'oggettivazione della volontà, l'uomo, non può apparir solitario e distaccato dagli altri gradi inferiori; ma li presuppone, come questi presuppongono gl'infimi. Così pure la musica, la quale, proprio come il mondo, oggettiva la volontà direttamente, è perfetta soltanto nell'armonia completa. La voce acuta, che fa da guida alla melodia, abbisogna, per produrre tutto il suo effetto, dell'accompagnamento di tutte le altre voci, fino al basso più profondo, il quale è da considerarsi come principio di tutte; la melodia entra qual parte integrante nell'armonia, come questa in quella. E come soltanto nell'insieme di tutte le voci la musica esprime ciò che d'esprimer si propone, così l'unica volontà, che sta fuori del tempo, trova la sua perfetta oggettivazione soltanto nella completa unione di tutti i gradi, che lungo un'infinita scala di progressiva evidenza manifestano il suo essere. Molto notevole è ancora l'analogia che segue. Abbiamo nel precedente libro veduto che, malgrado il reciproco adattamento, rispetto alle specie, di tutti i fenomeni della volontà (il che dà luogo alla considerazione teleologica), rimane tuttavia un non eliminabile contrasto tra quei fenomeni individualmente; il quale è in tutti i lor gradi visibile, e riduce il mondo a un perenne campo di battaglia tra i fenomeni tutti dell'una e identica volontà, facendo palese così l'intimo dissidio di quest'ultima con se medesima. A ciò pur si trova corrispondenza nella musica. Invero un sistema armonico di suoni interamente puro è impossibile non solo fisicamente, ma già perfino aritmeticamente. I numeri stessi, co' quali si esprimono i toni, hanno irrazionalità non riducibili: nessuna scala sarebbe mai possibile a calcolare, entro la quale ogni quinta stesse al tono fondamentale come 2 sta a 3, ogni terza maggiore come 4 a 5, ogni terza minore come 5 a 6, e così via. Perché, se i toni sono esatti rispetto al tono fondamentale, non lo son più reciprocamente, che allora, per esempio, dovrebbe la quinta esser la terza minore della terza, etc. I toni della scala rassomigliano ad attori, che debbano rappresentare or questa or quella parte. Una musica perfettamente esatta non si può adunque pensare, nonché eseguire, e dalla purezza piena si discosta ogni possibile musica. Questa può solamente celare le dissonanze in lei essenziali, distribuendole fra tutti i toni, ossia per mezzo di tempera. Si veda a questo proposito l'I di Chladni, § 30, e del medesimo la Breve esposizione della teoria dei suoni e dell'armonia, p. 1234. Avrei ancor parecchio da aggiungere sul modo onde la musica vien percepita, ossia unicamente nel tempo e per il tempo, con assoluta esclusione dello spazio, ed anche senz'influsso della conoscenza di causalità, ossia dell'intelletto: imperocché i suoni musicali già producono come effetto l'impressione estetica, senza che si debba risalire alla loro causa, come accade nell'intuizione. Ma non voglio prolungar questi discorsi, che probabilmente già a taluno sono apparso nel mio terzo libro troppo prolisso, o troppo mi sono addentrato nei particolari. Ciò era tuttavia necessario per il mio scopo, e tanto meno sarà biasimato, quanto più ci si rappresenti l'importanza, di rado conosciuta abbastanza, e l'alto valore dell'arte; riflettendo che se, a nostro modo di vedere, tutto il mondo visibile non è se non oggettivazione, specchio della volontà, e accompagna questa alla conoscenza di sé, anzi, come tosto vedremo, alla sua possibile redenzione; e riflettendo in pari tempo, che il mondo come rappresentazione, quando lo si consideri a parte, ed essendo svincolati dal volere lo si lasci occupare esso solo la conscienza, è il più gioioso e l'unico innocente aspetto della vita; di tutto ciò noi dobbiamo considerar l'arte come il più alto grado, il più completo sviluppo, poi che ella sostanzialmente fa quel medesimo che fa il mondo visibile, ma con più concentrazione, compiutezza, consapevole intento; e può quindi nel pieno significato della parola esser chiamata la fioritura della vita. Se il mondo intero quale rappresentazione non è che la visibilità della volontà, l'arte è quella, che fa più limpida codesta visibilità, la camera oscura, che gli oggetti fa apparire più puri e meglio vedere e abbracciar con lo sguardo. È lo spettacolo nello spettacolo, la scena sulla scena, come nell'Amleto.

Il godimento del bello, il conforto che l'arte può dare, l'entusiasmo dell'artista, che gli fa dimenticare i travagli della vita, unico privilegio del genio, il solo che lo compensi del dolore cresciuto di pari passo con la chiarità della conscienza, e della squallida solitudine fra una gente eterogenea, – tutto ciò poggia sul fatto che, come ci si mostrerà in seguito, l'in-sé della vita, la volontà, l'essere medesimo sono un perenne soffrire, in parte miserabile, in parte orrendo; mentre l'essere medesimo quale semplice rappresentazione, puramente intuita, o riprodotta dall'arte, libera da dolore, offre un significante spettacolo. Quest'aspetto del mondo puramente conoscitivo, e la riproduzione sua in un'arte qualsiasi è l'elemento dell'artista. Egli è incatenato dallo spettacolo dell'oggettivata volontà: vi si indugia, non si stanca di guardarlo e di riprodurlo, e talora ne fa egli medesimo le spese, ossia egli medesimo è la volontà, che in quel modo s'oggettiva e perdura in continuo dolore. Quella pura, vera e profonda conoscenza dell'essere del mondo gli si fa scopo di per se stessa: ed egli a lei si ferma. Non diviene ella adunque per lui, come vedremo nel seguente libro accadere per il santo arrivato alla redenzione, un quietivo della volontà; non lo redime per sempre dalla vita, ma solo per brevi istanti, e non è ancor una via a uscir dalla vita, ma solo a volte un conforto nella vita stessa; fin che la sua forza, così accresciuta, stanca alfine del giuoco, non si volga al serio. Come simbolo di questo passaggio si può considerar la Santa Cecilia di Raffaello. Al serio ci volgeremo adunque noi pure nel libro seguente.

LIBRO QUARTO


IL MONDO COME VOLONTÀ

SECONDA CONSIDERAZIONE


Affermazione e negazione della volontà di vivere, dopo raggiunta la conoscenza di sé.


Tempore quo cognitio simul advenit, amor e medio supersurrexit.

Oupneck' hat, studio Anquetil Duperron,
vol. II, p. 216


§ 53.

L'ultima parte del nostro esame si annunzia come la più grave, poi che tocca le azioni degli uomini: oggetto che a ciascuno direttamente importa, e a nessuno può essere straniero o indifferente. Anzi, tanto è conforme alla natura dell'uomo il riferire a quello tutte le altre cose, che in ogni indagine di varie parti contesta egli terrà sempre la parte riferentesi alle azioni, almeno fin dove l'interessa, per il risultato ultimo di tutto quanto in quell'indagine si contiene; ed a questa sola porrà seria attenzione, anche se non bada a nessun'altra. Sotto il rispetto indicato, la parte del nostro esame che ora segue si potrebbe chiamare, secondo il comune modo d'esprimersi, filosofia pratica; in opposizione alla filosofia teoretica finora trattata. Ma ogni filosofia è a mio avviso teoretica sempre, essendo a lei essenziale, qualunque sia l'oggetto immediato della ricerca, il rimaner nel campo della considerazione pura e l'investigare, non già il dar precetti. Invece il diventar pratica, il guidar la condotta, il modificare il carattere, sono vecchie pretese cui ella, con più maturo giudizio, dovrebbe alfine rinunciare. Imperocché qui, dove si tratta del valore e del non valore d'un'esistenza, di salvazione o di condanna, non sono i suoi morti concetti a dare l'esito, bensì lo dà l'essenza più intima dell'uomo medesimo, il demone che lo guida e che non lo ha scelto, ma che da lui è stato scelto, come dice Platone – il suo carattere intelligibile, come Kant si esprime. La virtù non s'insegna, più che non s'insegni il genio: per lei è il concetto tanto infruttifero, e solo valevole come strumento, quanto è infruttifero per l'arte. Altrettanto stolti saremmo nell'attenderci, che i nostri sistemi morali e le nostre etiche suscitassero uomini virtuosi, nobili e santi, come nel chiedere alle nostre estetiche di suscitare poeti, scultori, musici.

La filosofia non può in nessun caso fare altro, se non chiarire e spiegare ciò che è dato; recare alla limpida, astratta conoscenza della ragione, sotto ogni rispetto e da ogni punto di vista, quell'essenza del mondo che a ciascuno si esprime intelligibile in concreto, ossia come sentimento. Ora, come nei tre libri precedenti s'è cercato d'operar questo passaggio alla consapevolezza razionale nel modo generico proprio della filosofia, e muovendo da altri principi; così nel presente libro sarà in egual modo considerata la condotta dell'uomo: il quale aspetto del mondo dovrebbe non solo, secondo osservai, per giudizio soggettivo, ma anche oggettivo, essere riguardato come di tutti il più importante. Mi terrò in questo fedele al metodo finora seguito; mi fonderò su quanto ho esposto innanzi, come necessaria premessa; anzi propriamente quell'unico pensiero, che forma il contenuto di tutta la mia opera, svolgerò in relazione con la condotta umana, come l'ho svolto fin qui in relazione con tutti gli altri oggetti: venendo così a far l'ultimo sforzo ch'io posso, per la comunicazione il più possibile compiuta del pensiero medesimo.

Il punto di vista indicato, e l'annunziato metodo d'indagine, già lasciano capire che in questo libro di etica non bisogna attendersi ad alcuna prescrizione, ad alcuna teoria dei doveri: ancor meno vi sarà formulato un principio morale universale, quasi universale ricetta per la produzione di tutte le virtù. Né discorreremo di un «dovere assoluto», perché questo, secondo si espone nell'Appendice, contiene una contraddizione; né di una «legge per la libertà», che si trova nello stesso caso. In genere non discorreremo punto di dovere: poiché si parla così a bambini e a popoli in istato d'infanzia, ma non a coloro che han resa propria tutta la cultura di un'età fatta maggiorenne. Gli è pure una contraddizione che s'afferra con mano, proclamar libera la volontà e tuttavia prescrivere a lei leggi, in base alle quali ella deve volere: – «deve volere!» – come chi dicesse: ferro fatto di legno! Invece, come appare da tutto il nostro modo di vedere, è la volontà non soltanto libera, bensì onnipotente: da lei procede non pure la sua condotta, ma anche il suo mondo; e quale ella è, tale appare la sua condotta, tale appare il suo mondo: sua conscienza di sé sono quella e questo, e null'altro: ella determina se stessa, e determina con ciò condotta e mondo: perché nulla è fuori di lei, e condotta e mondo sono lei medesima. Così soltanto ella è veramente autonoma; eteronoma è invece secondo ogni altra concezione. Il nostro sforzo filosofico può appena pervenire a interpretare e spiegare la condotta dell'uomo, le massime sì diverse, anzi contraddittorie, di cui quella condotta è vivente espressione, in rapporto con le considerazioni che abbiam fatte finora, nel modo stesso in cui abbiam cercato d'interpretare gli altri fenomeni del mondo, recandone l'essenza più intima nel dominio della limpida conoscenza astratta. La nostra filosofia affermerà in ciò quella stessa immanenza, affermata nelle considerazioni precedenti: non userà, venendo meno alla grande dottrina kantiana, le forme del fenomeno, di cui è espressione universale il principio di ragione, come un bastone da salto, per oltrepassare il fenomeno, che solo dà a quello un senso, e approdare allo sconfinato dominio delle vuote finzioni. Questo reale mondo della conoscibilità, nel quale noi stiamo e che sta in noi, rimane non soltanto materia, ma limite del nostro studio: ed è sì ricco di contenuto, che non potrebbe esaurirlo neppur l'indagine più profonda, di cui fosse capace lo spirito umano. Poiché adunque il mondo reale, conoscibile, non lascerà mai argomento e realtà venir meno alle nostre considerazioni etiche, come già non ne lasciò mancare alle considerazioni precedenti; nulla ci sarà più inutile che il far ricorso a vuoti, negativi concetti, e poi far credere a noi stessi d'aver detto qualcosa, quando con solenne cipiglio abbiam parlato d'«assoluto», d'«infinito», di «soprasensibile», e di quant'altre pure negazioni consimili possan darsi ancora (ουδεν εστι, η το της στερησεως ονομα, μετα αμυδρας επινοιας.— nihil est, nisi negationis nomen, cum obscura notione. Jul. or. 5); in luogo delle quali si potrebbe dir, più brevemente, «nubicuculia» (νεφελοκοκκυγία). Piatti di tal fatta, ben coperti ma vuoti, non avremo noi bisogno di mettere in tavola. Insomma, anche qui come per il passato ci guarderemo dal raccontare storie gabellandole per filosofia. Imperocché noi siamo d'avviso, che da una filosofica cognizione del mondo sia oltre ogni misura lontano chi pensi di poterne coglier l'essenza, e sia pur sotto i più bei trucchi, storicamente. E questo è il caso, non appena nel concetto, che colui ha del mondo in sé, venga a trovarsi un qualsiasi divenire, o esser divenuto, o esser per divenire; e un prima e poi acquisti la pur minima importanza, e quindi in modo palese o nascosto si cerchi e trovi un principio e una fine del mondo, e una via da quello a questa. Codesto isterico filosofare da il più spesso una cosmogonia, la quale consente molte varietà, ma può dare anche un sistema di emanatismo, una dottrina della caduta; oppure, se disperando dei vani tentativi per quelle strade si riduce a prenderne un'altra, ultima, dà viceversa una teoria dell'eterno divenire, del nascere, del sorgere, del balzar alla luce dalle tenebre, dall'oscuro fondo, dal fondo dei fondi, dal fondo senza fondo, e quanti sono vaniloqui di tal sorta. Tutte cose le quali si tolgono di mezzo con l'osservare, che essendo un'eternità intera, ossia un tempo infinito, già trascorsa fino all'attimo presente, tutto quel che può e deve accadere deve anche essere già accaduto. Poiché codesta filosofia storica, per quante arie voglia darsi, prende, come se Kant non fosse mai esistito, il tempo per una determinazione della cosa in sé: e s'arresta quindi a ciò che Kant chiama fenomeno, in opposizione alla cosa in sé, e Platone chiama il divenire che mai non è, in opposizione all'essere che mai non diviene; s'arresta a ciò, insomma, che gl'Indiani chiamano il velo di Maja. E quest'è appunto la conoscenza vincolata al principio di ragione, con la quale mai non si giunge all'essenza intima delle cose, ma non si fa che perseguire all'infinito i fenomeni, muovendo intorno senza fine e senza meta, come fa lo scoiattolo nella gabbia a ruota; finché per avventura stanchi alla fine o sopra o sotto in un punto qualsiasi ci si ferma, e si pretende di far rispettare questo punto anche dagli altri. La vera considerazione filosofica del mondo, ossia quella che c'insegna a conoscere l'essenza intima, e ci conduce così di là dal fenomeno, è appunto quella che non chiede il donde e il dove e il perché, ma sempre e in tutto domanda esclusivamente il che cosa del mondo: ossia quella, che le cose considera non già in una lor qualunque relazione, non già nel loro principiare e finire, non già insomma secondo una delle quattro forme del principio di ragione; ma viceversa ha per oggetto proprio quel che avanza, quando abbiamo tolto via tutta la conoscenza sottomessa al principio medesimo, quel che in tutte le relazioni si manifesta senza esser da loro dipendente, l'essenza del mondo ognora eguale a se stessa, le idee del mondo. Da tal conoscenza essenziale procede, come l'arte, anche la filosofia; anzi, come vedremo in questo libro, ne procede pur quella disposizione dell'animo, che sola conduce alla vera santità e alla redenzione del mondo.

§ 54.

I tre primi libri avranno fatto veder chiaramente e sicuramente, spero, che nel mondo quale rappresentazione la volontà ha il proprio specchio, in cui se stessa conosce, per gradi progressivi di limpidità e di compiutezza; de' quali il più alto è l'uomo. Ma l'essere dell'uomo raggiunge la sua piena espressione sol mediante la serie coerente delle sue azioni. E il conscio nesso delle azioni è reso possibile dalla ragione, che da mezzo all'uomo di dominarne con lo sguardo il complesso in abstracto.

La volontà considerata in se stessa è inconsciente: è un cieco, irresistibile impeto, qual noi già vediamo apparire nella natura inorganica e vegetale, com'anche nella parte vegetativa della nostra propria vita. Sopravvenendo il mondo della rappresentazione, sviluppato per il suo servigio, ella acquista conoscenza del proprio volere e di ciò ch'ella vuole, che altro non è se non il mondo, la vita, così come si presenta. Perciò il mondo fenomenico l'abbiam chiamato specchio della volontà, e sua oggettità: e ciò che la volontà sempre vuole è la vita, appunto perché questa non è altro che il manifestarsi di quel volere per la rappresentazione; perciò è tutt'uno, e semplice pleonasmo, quando invece di «volontà» senz'altro diciamo «volontà di vivere».

Essendo la volontà la cosa in sé, l'interna sostanza, l'essenza del mondo, mentre la vita, il mondo visibile, il fenomeno è solamente lo specchio della volontà; ne viene che il fenomeno accompagna la volontà sì fedelmente, come l'ombra il corpo; e dov'è volontà, sarà pur vita, mondo. Alla volontà di vivere è adunque la vita assicurata; e fin quando pieni siamo della volontà di vivere, non dobbiamo trovarci in ansia per la nostra esistenza – neppure in vista della morte. Vediamo bensì l'individuo nascere e perire: ma l'individuo è soltanto fenomeno, non esiste se non per la conoscenza irretita nel principio di ragione, nel principio individuationis: in virtù di questo invero riceve la propria vita come un dono, vien fuori dal nulla, soffre poi per morte la perdita di quel dono, e al nulla fa ritorno. Ma noi vogliamo invece considerar la vita filosoficamente, ossia nelle sue idee; e troveremo allora che né la volontà, la cosa in sé di tutti i fenomeni, né il soggetto del conoscere, quegli che guarda tutti i fenomeni, da nascita e morte sono in alcun modo toccati. Nascita e morte toccano per l'appunto al fenomeno della volontà, ossia alla vita; e di questa è proprio il manifestarsi in individui, i quali nascono e periscono come effimere apparenze, palesantisi nella forma del tempo, di ciò che in sé nessun tempo conosce, ma deve tuttavia nel modo suddetto manifestarsi, per oggettivare il suo vero essere. Nascita e morte toccano in egual maniera alla vita, e si fanno equilibrio come reciproche condizioni l'una dell'altra: o, se si preferisce il termine, come poli di tutto il fenomeno vitale. La più saggia di tutte le mitologie, l'indiana, ciò esprime attribuendo a quel medesimo Dio, che simboleggia la distruzione e la morte (come Brama, il più peccaminoso e basso Dio della Trimurti, simboleggia la generazione, la nascita, e Visnu la conservazione), attribuendo a Shiva, dico, in pari tempo il collare di teschi ed il Lingam, simbolo della generazione, la quale si presenta quivi adunque come adeguamento della morte. La qual cosa significa, che generazione e morte sono per natura correlati, che a vicenda si neutralizzano e sopprimono. Ed è lo stesso pensiero, che Greci e Romani indusse a ornare i preziosi sarcofagi come ancora li vediamo, con feste, danze, nozze, cacce, lotte d'animali, baccanali, ossia con rappresentazioni del più impetuoso ardore vitale: ardore che non solo essi ci mostrano in codeste scene festive, ma perfino in gruppi voluttuosi, arrivando fino all'accoppiamento di satiri e di capre. Loro scopo era palesemente quello di rivolgere la mente dalla morte dell'individuo compianto all'immortal vita della natura, e con ciò indicare, sia pure senz'averne astratta conscienza, che tutta la natura è fenomeno ed anche adempimento della volontà di vivere. Forma di tal fenomeno sono tempo, spazio e causalità, e quindi, per lor mezzo, individuazione; la qual cosa fa sì, che l'individuo debba nascere e morire; ma essa non tocca la volontà di vivere, della cui manifestazione l'individuo non è che un singolo esempio o saggio, più che il complesso della natura non venga toccato dalla morte di un individuo. Poiché non l'individuo, ma la specie sola importa alla natura, la quale per la conservazione della specie si affatica con ogni sforzo, a quella provvedendo con sì larga prodigalità, mediante la smisurata sovrabbondanza dei germi e la gran forza della fecondità. Invece l'individuo non ha per lei valore alcuno, perché tempo infinito, infinito spazio, e, in tempo e spazio, infinito numero di possibili individui, sono il regno della natura; quindi ella è ognor pronta a lasciar cadere l'individuo, il quale non solo in mille modi, per i più piccoli accidenti, è esposto alla rovina, ma alla rovina è fin da principio destinato e dalla natura stessa condotto, a partir dall'istante, in cui esso è servito alla conservazione della specie. Apertissimamente esprime in ciò la natura medesima quel grande vero, che le idee soltanto, e non gli individui, hanno effettiva realtà, cioè sono compiuta oggettità della volontà. Ora, essendo l'uomo la natura stessa, nel più alto grado della sua autoconscienza, e la natura non essendo se non l'oggettivata volontà di vivere, può l'uomo, che abbia bene afferrato questa concezione e vi si tenga stretto, consolarsi a giusta ragione della morte sua e degli amici suoi, contemplando l'immortal vita della natura, la quale è lui stesso. Così va dunque inteso Shiva con il Lingam, e così quegli antichi sarcofagi, i quali con le lor figure della più fervida vita ammoniscono il dolorante contemplatore: Natura non contristatur.

Che nascita e morte vadano considerate come alcunché spettante alla vita, ed essenziale a codesto fenomeno della volontà, risulta anche dal fatto, che l'una e l'altra ci si presentano semplicemente come espressioni, elevate a più alta potenza, di ciò, in cui pur tutta la rimanente vita consiste. Questa invero è in tutto e per tutto nient'altro che un perenne mutar della materia in un fisso permaner della forma: e non altra è la caducità degli individui di fronte all'eternità della specie. La continuata nutrizione e riproduzione si distingue dalla nascita soltanto per il grado; e soltanto per il grado si distingue la continuata escrezione dalla morte.

La prima di codeste analogie si mostra, nel modo più semplice e chiaro, nella pianta. Questa è unicamente la ripetizione costante di uno stesso impulso, della sua più semplice fibra, che si aggruppa in foglia e ramo; è un sistematico aggregato di piante consimili, l'una con l'altra sostenentisi, la cui costante riproduzione è il suo unico impulso: per soddisfarlo appieno ella da ultimo ascende, attraverso la scala delle metamorfosi, fino al fiore e al frutto, compendio del suo essere e della sua aspirazione, nel quale per la via più breve consegue ciò ch'era sua meta unica, e d'un tratto compie in mille ciò ch'avea fino allora operato in un solo esemplare: la riproduzione di se stessa. Il suo sviluppo prima di pervenire al frutto sta a questo, come la scrittura alla stampa. Evidentemente il medesimo accade pur tra gli animali. Il processo nutritivo è un perenne generare, il processo generativo è una nutrizione innalzata a più alta potenza: la voluttà nel generare è il benessere, elevato a più alta potenza, del sentimento vitale. E d'altra parte la escrezione, il continuo esalare e rigettar materia, è il medesimo di quel ch'è in più alta potenza la morte, l'opposto della generazione. E come in ciò basta a noi conservar la forma, senza rimpianto per la rigettata materia, così dobbiamo in egual maniera contenerci, quando per morte accade in più alta potenza e nella totalità, ciò che ciascun giorno e ciascuna ora accade in parte con l'escrezione: come siamo indifferenti nel primo caso, così non dovremmo sbigottirci davanti al secondo. Sotto questo rispetto apparisce altrettanto stolto il pretender la durata della propria individualità, la quale vien sostituita da altri individui, quanto il pretendere che perduri intatta la materia del nostro corpo, la quale da materia nuova è continuamente sostituita. Imbalsamare i cadaveri non è meno stolto, che non sia il conservare con cura i propri escrementi. Per ciò che tocca la conscienza individuale congiunta con l'individuale corpo, si avverta ch'essa viene quotidianamente interrotta in modo completo dal sonno. Il sonno profondo non è, nel tempo della sua durata, diverso dalla morte, in cui sovente va a finire, per esempio, nei casi di assideramento; diverso n'è soltanto per l'avvenire, ossia per la possibilità del risveglio. La morte è un sonno, nel quale si dimentica l'individualità: ma tutto il rimanente si risveglia, o piuttosto non s'è mai addormentato35.

Prima d'ogni altra cosa dobbiamo ben persuaderci, che la forma del fenomeno della volontà, ossia la forma della vita o della realtà, è invero il solo presente, non l'avvenire, né il passato: questi esistono unicamente nel concetto, unicamente nella concatenazione della conoscenza, in quanto ella segue il principio di ragione. Nel passato nessun uomo è vissuto, e nell'avvenire nessuno vivrà: il presente solo è forma d'ogni vita, ed è sicuro dominio, che alla vita non può mai essere strappato. Il presente è ognora qui, col suo contenuto: l'uno e l'altro tengon fermo, senza vacillare; come l'arcobaleno sulla cascata. Imperocché alla volontà è la vita, alla vita il presente sicuro e certo. È vero, che se pensiamo ai trascorsi millennii, ai milioni d'uomini che in quelli vissero, ci domandiamo: Che cosa furono? che cosa ne è accaduto? Ma dobbiamo invece richiamarci alla memoria il passato della nostra esistenza personale, e vivacemente riprodurcene le scene nella fantasia, e poi domandarci ancora: Che cosa è stato tutto ciò? che cosa ne è accaduto? La stessa sorte è toccata al nostro passato e alla vita di quei milioni. O dovremmo noi pensare, che il passato acquisti un'esistenza nuova, per avere avuto il suggello della morte? Il nostro individuale passato, anche il più prossimo, quello di ieri, non è più che un sogno della fantasia, fatto di nulla, e così è il passato di tutti quei milioni d'esseri. Che cosa fu? che cosa è? La volontà: di cui è specchio la vita; e il conoscere scevro di volontà, che in quello specchio limpidamente la volontà vede riflessa. Chi non ancora ha ciò compreso, o non vuole comprenderlo, deve alla domanda fatta più sopra, intorno al destino delle generazioni trapassate, aggiungere quest'altra: perché proprio lui, lui che interroga, ha la gioia di posseder questo prezioso, fuggitivo presente, che solo è reale, mentre quelle centinaia di generazioni, e perfino gli eroi e i sapienti delle età trascorse, sono caduti nella notte del passato e perciò ridotti a nulla, quand'egli, col suo insignificante io, esiste di fatto? O più brevemente, ma senza diminuir la stranezza della cosa: perché questo presente, il suo presente, si ha proprio ora e non fu invece già da tempo? Con queste domande strane, vede il suo essere e il suo tempo come indipendenti l'uno dall'altro, e quello come gettato in questo; egli ammette in verità due presenti, l'uno dei quali appartiene all'oggetto, l'altro al soggetto, e si stupisce per il caso felice della loro coincidenza. Ma in verità (come si vede nel mio scritto sopra il principio di ragione), il presente è formato soltanto dal punto d'incontro dell'oggetto, la cui forma è il tempo, col soggetto, che non ha per forma nessun modo del principio di ragione. Ora, ogni oggetto è volontà, in quanto questa è divenuta rappresentazione, e il soggetto è il necessario correlato dell'oggetto; ma oggetti reali si danno soltanto nel presente; passato e futuro contengon semplici concetti e fantasmi, sì che il presente è l'essenzial forma del fenomeno della volontà, e da questa inseparabile. Il presente solo è ciò che sempre esiste, e incrollabile perdura. Mentre, guardato empiricamente, esso è quanto v'ha di più soggettivo, all'occhio metafisico, il quale guarda oltre le forme dell'intuizione empirica, si mostra come l'unico Permanente, il Nunc stans degli scolastici. Principio e fondamento del suo contenuto è la volontà di vivere, o la cosa in sé, – che siamo noi stessi. Ciò che sempre nasce e perisce, mentre o è già stato o sarà in futuro, appartiene al fenomeno come tale, in virtù delle forme di questo, che rendono possibile il cominciare e il finire. Bisogna dunque pensare: Quid fuit? Quod est. Quid erit? Quod fuit. E si prenda l'espressione nel senso preciso della parola, intendendo non già simile bensì idem. Imperocché alla volontà è certa la vita, alla vita il presente. Quindi può anche dire ognuno: «Io sono una volta per tutte signore del presente, e per tutta l'eternità questo mi accompagnerà come la mia ombra: perciò non mi maraviglia il come esso sia venuto fino a me, e come accada che ora ap punto sia qui». Possiamo paragonare il tempo a un cerchio che gira senza fine: la parte ognora discendente sarebbe il passato, quella sempre ascendente, il futuro: il punto in alto, indivisibile, che la tangente tocca, sarebbe il presente, che non ha estensione: come la tangente non ruota col cerchio, così non ruota il presente, il punto di contatto dell'oggetto, di cui è forma il tempo, col soggetto, che non ha forma, perché non appartiene al dominio conoscibile, bensì d'ogni conoscibile è condizione. Oppure: il tempo somiglia a un'infrenabile corrente, e il presente a una roccia, contro cui quella si frange, senza pervenire a trascinarla con sé. La volontà, come cosa in sé, non è sottomessa al principio di ragione più che non vi sia sottomesso il soggetto della conoscenza, il quale poi finalmente in un certo senso è la volontà medesima, o la sua manifestazione. E come alla volontà è certa la vita, suo proprio fenomeno, così è certo anche il presente, unica forma della vita reale. Non abbiamo dunque da indagar né il passato innanzi la vita, né il futuro dopo la morte: invece come unica forma in cui la volontà si svela dobbiamo conoscere il presente36. Tale forma non verrà mai meno alla volontà, ma neppur questa a quella. Chi s'appaga quindi della vita qual è, chi in tutte guise la vita afferma, può fiducioso considerarla come infinita, e il timor della morte bandire come un inganno, che a lui inspiri lo stolto timore di poter un giorno perdere il presente, e gli ponga innanzi agli occhi la prospettiva di un tempo senza presente: inganno che nel rispetto del tempo corrisponde all'altro nel rispetto dello spazio, per cui ciascuno nella propria fantasia ritiene il posto della sfera terrestre da lui occupato essere il punto superiore della sfera stessa, e tutto il rimanente vede al disotto. Proprio così collega ciascuno il presente con la propria individualità, e ritiene abbia con questa ogni presente a cessare; e passato ed avvenire siano senza presente. Ma, come sulla sfera terrestre ogni dove sta disopra, così pure è presente la forma d'ogni vita; e il temer la morte, perché questa ci strappa il presente, non è più saggio che il temer si possa scivolare giù dal globo della Terra, sul quale per fortuna ci si trovi ora proprio al punto superiore. All'oggettivazione della volontà è essenziale la forma del presente, che qual punto senza estensione divide il tempo di qua e di là infinito, e immobilmente sta fermo, pari a un eterno meriggio, senza la rinfrescante sera; così come il sole in realtà arde senza interruzione, mentre in apparenza cade nel seno della notte. Perciò, quando un uomo teme la morte come annientamento di sé, gli è come se altri pensasse poter il sole alla sera lamentarsi: «Ahimè! io sprofondo nell'eterna notte»37. E viceversa: chi è oppresso dai pesi della vita, chi la vita bensì vorrebbe, e la vita afferma, ma ne ha in orrore i tormenti, e soprattutto più non sa tollerare il duro destino, che a lui proprio è toccato, questi non ha da sperar liberazione nella morte, né si può salvare col suicidio: sol con falsa illusione lo trae a sé l'oscuro, freddo Orco qual porto di riposo. La terra si volge dal giorno verso la notte; l'individuo muore; ma il sole brilla senza posa in eterno meriggio. Alla volontà di vivere è certa la vita: la forma della vita è un presente senza fine; né importa il come nascano e periscano nel tempo gl'individui, fenomeni dell'idea, comparabili a sogni fugaci. Il suicidio ci apparisce già da questo un'azione vana e quindi stolta: e quando saremo progrediti più oltre nella nostra indagine, ci si presenterà in una luce ancor più sfavorevole.

I dogmi mutano, e il nostro sapere è illusorio, ma la natura non sbaglia: il suo corso è sicuro, ed ella non lo cela. Ogni cosa è tutta in lei, ed ella è tutta in ogni cosa. In ciascun animale ha ella il suo centro: ogni animale ha trovato sicuramente la propria via dell'essere, come sicuramente la troverà per uscirne: frattanto vive senza tema di annientamento e libero da preoccupazioni, sorretto dalla conscienza di essere egli la natura medesima, e come lei eterno. Soltanto l'uomo trae seco in concetti astratti la certezza della propria morte: tuttavia questa, ed è molto strano, può angustiarlo solo per momenti isolati, quando una circostanza la richiama alla fantasia. Contro la poderosa voce della natura può la riflessione ben poco. Anche in lui, come nell'animale che non pensa, impera come durevole stato quella certezza, proveniente dalla più intima conscienza, ch'egli è la natura, è il mondo medesimo; per la qual certezza il pensiero della morte sicura e mai lontana nessun uomo inquieta visibilmente, che ciascuno invece vive come dovesse vivere in eterno. E questa condizione di cose va tanto lontano, da potersi dire che nessuno abbia una vera, vivente persuasione della certezza della propria morte, perché altrimenti non potrebb'essere una sì gran differenza tra la sua disposizione d'animo e quella d'un condannato a morte; ma che l'uomo, pur riconoscendo quella certezza in abstracto e teoricamente, la mette in disparte come altre verità teoriche, inservibili nella pratica, senza punto accoglierla nella sua vivente conscienza. Chi ben consideri questa particolarità dello spirito umano, vedrà che le sue spiegazioni psicologiche, fondate sull'abitudine o sull'adattamento all'inevitabile, non sono in nessun modo sufficienti, e che la ragione è quella, più profonda, indicata. Con quella va pur spiegato, perché in tutti i tempi, presso tutti i popoli si trovino e stiano in onore dogmi d'un qualsivoglia perdurar dell'individuo dopo la morte, sebbene le prove dovessero sempre esserne insoddisfacenti, mentre forti e numerose son le prove del contrario; anzi, il contrario veramente non ha bisogno di prove, bensì da un intelletto sano vien riconosciuto come un fatto, e come tale confermato dalla fiducia, che la natura né smentisce né erra, ma la sua azione e il suo essere apertamente manifesta, o addirittura ingenuamente esprime: mentre siamo noi stessi che col nostro vaneggiare l'intorbidiamo, per ricavarne arzigogolando ciò che ai nostri occhi miopi per l'appunto si confà.

Ma la verità, che ora abbiamo recata a chiara conscienza, che, per quanto il singolo fenomeno della volontà abbia nel tempo principio e nel tempo fine, la volontà stessa come cosa in sé non viene da ciò punto toccata, e neppure il correlato d'ogni oggetto, il conoscente e mai conosciuto soggetto; e similmente il fatto che alla volontà di vivere è sempre certa la vita: tutto ciò non va confuso con quelle dottrine della persistenza individuale. Imperocché alla volontà, considerata come cosa in sé, com'anche al puro soggetto del conoscere, all'eterno occhio del mondo, non tocca un perdurare più che non tocchi un perire, queste essendo determinazioni che valgono solamente nel tempo, mentre quelli stanno fuori del tempo. Perciò l'egoismo dell'individuo (di questo singolo fenomeno della volontà illuminato dal soggetto del conoscere) può dalla nostra concezione suesposta tanto poco alimento e conforto ricavare per il suo desiderio di esistere in un tempo infinito, quanto poco ne ricava dal conoscer che dopo la sua morte il rimanente mondo esterno seguiterà nondimeno a esistere nel tempo; il che esprime proprio la stessa concezione di sopra, ma da un punto di vista oggettivo e quindi temporale. Imperocché è bensì vero, che ogni individuo è effimero solo in quanto fenomeno, mentre come cosa in sé è fuori del tempo, e perciò non ha fine; ma pur soltanto come fenomeno è distinto dalle altre cose del mondo, mentre come cosa in sé esso è la volontà, che in tutto si palesa, e la morte cancella l'illusione che separa la sua conscienza dall'universale: questa è la vera eternità. Il suo non esser toccato dalla morte è proprietà di lui in quanto cosa in sé, mentre per il fenomeno coincide col permanere del rimanente mondo esteriore38. Da ciò procede che l'intima conscienza, non altro che sentita, di quanto abbiamo or ora elevato a chiara cognizione, impedisce bensì, come s'è detto, che il pensiero della morte avveleni la vita al consapevole essere razionale, essendo tale conscienza la base di quell'ardore vitale, che sorregge ciascun vivente, e lo fa procedere animoso nell'esistenza, quasi morte non fosse, almeno fin tanto ch'egli ha la vita innanzi agli occhi e alla vita è rivolto; ma non impedisce tuttavia che quando la morte si presenta all'individuo o nella realtà o anche soltanto nella fantasia, e questo deve guardarla in faccia, un tremendo terrore lo colga, ed esso cerchi in tutte le maniere di sfuggire. Perché al modo che quando la sua conoscenza era rivolta alla vita come tale, doveva di questa riconoscer l'eternità, così, quando la morte gli si fa innanzi, deve riconoscerla per quel ch'essa è, la temoral fine del singolo fenomeno temporale. Ciò che temiamo nella morte, non è punto il dolore: in parte, perché questo sta di qua dalla morte; in parte, perché sovente dal dolore ci rifugiamo nella morte, come d'altronde all'opposto affrontiamo talvolta il più atroce dolore, sol per isfuggire un momento alla morte, fosse pur rapida e lieve. Distinguiamo adunque dolore e morte come due mali affatto diversi; ciò, che nella morte temiamo, è in realtà la fine dell'individuo, che tale apertamente ci si palesa la morte; e poi che l'individuo è la volontà di vivere medesima, in una singola oggettivazione, tutto l'esser suo contro la morte si ribella. Ma, dove in siffatta maniera il sentimento ci lascia senza difesa, può nondimeno subentrare la ragione, e per massima parte vincere le ripugnanze di quello, elevandoci ad una considerazione più alta, dove noi, invece del singolo, abbiamo davanti agli occhi il tutto. Perciò una cognizione filosofica dell'essenza del mondo, la quale fosse pervenuta fino al punto in cui ci troviamo nella nostra indagine, ma non andasse più oltre, già potrebbe superare i terrori della morte: nella misura, in cui la riflessione avesse per un dato individuo il sopravvento sul diretto sentire. Immaginiamo un uomo, che le verità finora esposte abbia ben fissate nella mente, ma non sia insieme arrivato, né per esperienza propria, né per visione larga delle cose, a riconoscer come essenziali in ogni vita un diuturno dolore, bensì nella vita trovi soddisfazione, e ci si senta a suo pieno agio, e con tranquilla riflessione desideri veder continuata indefinitamente la sua vita, quale fu in passato, o aver sempre nuovo principio. E sia il suo ardor vitale sì grande, che per le gioie del vivere egli accetti volenteroso tutti i fastidi e le pene, a cui il vivere è soggetto. Un tale uomo starebbe «con salde ben midollate ossa sulla bene arrotondata, durabile terra», e non avrebbe nulla da temere: armato della conoscenza, che noi gli diamo, indifferente guarderebbe la morte sulle ali del tempo rapida appressantesi, contemplandola come una falsa apparenza, un impotente fantasma, che può far paura ai deboli, ma nessuna forza ha su quegli, che sa d'esser egli medesimo quella volontà, la cui oggettivazione o immagine è il mondo intero; quegli, cui rimangono perciò sicuri sempre la vita ed il presente, la vera, l'unica forma del fenomeno della volontà; quegli, cui nessun passato o avvenire infinito, nel quale e' non si trovasse, può sbigottire, poiché li considera come il vano miraggio ed il velo di Maja; quegli, che non dovrebbe quindi temer la morte, più che il sole non tema la notte. A questa concezione innalza Krishna nella Bhagavat Gita il suo principiante discepolo Arjuna, allorché questi alla vista dell'esercito pronto per la battaglia (circa nella stessa guisa di Serse) colto da pensosa tristezza sbigottisce e vorrebbe desister dalla lotta, per iscongiurar la distruzione di tante migliaia di vite: a quella concezione lo innalza Krishna, e la morte delle migliaia non val più a trattenerlo: egli dà il segnale della battaglia. La stessa concezione esprime il Prometeo di Goethe, soprattutto quando dice:

Qui io sto, uomini formo
A immagine di me,
Una razza, che eguale mi sia
Nel soffrire, nel piangere,
Nel godere e rallegrarsi,
E di te non curarsi,
Come me!39.

Ed alla stessa concezione ancora potrebbero la filosofia di Bruno e quella di Spinoza condurre chi non si sentisse disturbato o scosso nella persuasione dai loro errori e difetti. La filosofia di Bruno non contiene una vera etica, e quella ch'è nella filosofia di Spinoza non nasce punto dall'essenza della sua dottrina, bensì, pur essendo in sé apprezzabile e bella, v'è collegata sol con deboli e troppo visibili sofismi. Alla concezione suddetta finalmente perverrebbero forse molti uomini, se la loro conoscenza andasse di pari passo con il loro volere, ossia se liberi d'ogni falso miraggio, fossero in grado d'aver chiara e limpida conscienza di sé. Imperocché qui sta, per la conoscenza, la base dell'intera affermazione della volontà di vivere.

La volontà afferma se stessa, s'è detto: mentre nella sua oggettità, ossia nel mondo e nella vita, la sua propria essenza viene a lei data compiutamente e limpidamente, codesta conoscenza non impedisce punto il suo volere; anzi appunto quella vita in siffatto modo conosciuta viene anche come tale dalla volontà voluta, con cognizione, in maniera consapevole e meditata, come prima era voluta senza cognizione, quale cieco impulso. Il contrario, la negazione della volontà di vivere, si mostra quando, raggiunta quella cognizione, la volontà finisce; allor che i singoli fenomeni conosciuti non agiscono più come motivi della volontà, ma invece tutta intera la cognizione, maturata con l'afferrar le idee, dell'essenza del mondo, il quale rispecchia la volontà, diventa un quietivo della volontà stessa, e così la volontà liberamente si sopprime. Questi concetti affatto sconosciuti, e difficilmente comprensibili in questa forma generica, diventeranno chiari, spero, con l'esposizione, che tosto seguirà, dei fenomeni, o, nel caso nostro, modi di agire, ne' quali da un lato s'esprime l'affermazione, nei suoi diversi gradi, e dall'altro la negazione. Imperocché entrambe procedono bensì dalla conoscenza, ma non da quella astratta, che si rivela in parole, bensì da una conoscenza vivente, la quale unicamente si rivela nei fatti e nel tenore di vita; e rimane indipendente dai dogmi, che in proposito, come conoscenza astratta, occupano la ragione. Semplicemente l'una e l'altra esporre, e recare a limpida conoscenza della ragione, può essere mio scopo: e non prescrivere o raccomandar questa o quella; il che sarebbe stolto non meno che inutile, perché la volontà è in sé assolutamente libera, da sola determina se stessa, né sono leggi per lei. Questa libertà e la sua relazione con la necessità dobbiamo nondimeno in primo luogo, e prima di procedere alla suindicata esposizione, illustrare e in maniera precisa determinare; e inoltre sulla vita, la cui affermazione o negazione forma il nostro problema, avanzare alcuni pensieri generici, riferentisi alla volontà e ai suoi oggetti. Da tutto tutto ciò verrà a noi alleviata la conoscenza, che ci proponiamo, del valore etico delle azioni, a seconda della loro più intima essenza.

Poiché, come s'è detto, tutta quest'opera non è se non lo sviluppo di un pensiero unico, ne deriva, che tutte le sue parti hanno la più stretta connessione tra loro, e non solo ciascuna sta in necessaria relazione con quella, che immediatamente precede, e quindi quella sola vuol presente al lettore come immediata premessa, secondo accade in tutte le filosofie, le quali consistono in una serie di deduzioni; ma ogni parte dell'opera intera è con tutte le altre connessa, e le presuppone. Si richiede adunque, che dal lettore sia ricordato non soltanto ciò che immediatamente precede, ma tutta la trattazione anteriore: sì che di volta in volta egli possa sempre riannodarne ogni parte alla pagina che ha davanti, stianvi pur molt'altre cose frammezzo. Ammonimento, che anche Platone ha fatto al suo lettore, per i tortuosi avvolgimenti dei suoi dialoghi, che il pensiero fondamentale riprendon sol dopo lunghi episodi, ma da ciò appunto fatto più limpido. Da parte nostra è tale ammonimento necessario, perché il frazionar l'unico nostro pensiero in molte considerazioni è bensì il solo modo che abbiamo di comunicarlo, ma è un dar forma artificiosa e non naturale al pensiero stesso. A render più facile l'esposizione e l'intendimento giova l'aver distinto, in quattro libri, quattro principali punti di vista, come giova l'attentissimo ravvicinar ciò che è affine e omogeneo: tuttavia la materia non permette assolutamente un andare in linea retta, come fa il procedimento storico, ma invece rende necessaria un'esposizione più complicata. E questa, a sua volta, richiede un ripetuto studio dell'opera; soltanto così diviene chiaro il nesso d'ogni parte con ciascun'altra, e alla fine tutte insieme s'illuminano a vicenda e splendono in piena chiarità40.

§ 55.

Che la volontà come tale sia libera, già risulta dal fatto che a nostro modo di vedere ella è la cosa in sé, la sostanza di tutti i fenomeni. Questi li sappiamo invece in tutto soggetti al principio di ragione, nei suoi quattro modi: e conoscendo noi, che necessità ed effetto di una data causa sono concetti identici, e convertibili, tutto ciò che è fenomeno, ossia oggetto per il soggetto conoscente in quanto individuo, è per un verso causa, e per l'altro effetto; e in quest'ultima qualità è determinato necessariamente, né può quindi esser diverso da quel che è. Tutto il contenuto della natura, il complesso dei suoi fenomeni, è adunque assolutamente necessario, e la necessità di ogni parte, di ogni fenomeno, di ogni fatto si può ciascuna volta scoprire, dovendosi trovar la causa, da cui quelli come effetti provengono. Ed a ciò non v'ha eccezione: consegue dall'illimitato potere del principio di ragione. Ma d'altra parte questo mondo medesimo, in tutti i suoi fenomeni, è per noi anche oggettità della volontà; la quale, non essendo né fenomeno né rappresentazione o oggetto, bensì cosa in sé, non è al principio di ragione, forma d'ogni oggetto, sottomessa: e quindi non è determinata come effetto da una causa, e non conosce necessità, ossia è libera. Il concetto di libertà è dunque propriamente concetto negativo, essendo il suo contenuto nient'altro che negazione della necessità, ovvero del rapporto di causa ed effetto, conforme al principio di ragione. Ora, qui ci sta innanzi nel modo più palese il punto d'eliminazione d'un grande contrasto, l'unione di libertà e necessità, onde sovente s'è in questi tempi parlato, ma, per quanto io mi sappia, non mai con chiarezza e proprietà. Ciascuna cosa è in quanto fenomeno, in quanto oggetto, assolutamente necessaria: ma la stessa cosa è in sé volontà, e questa è del tutto libera in eterno. Il fenomeno, l'oggetto, è necessariamente e immutabilmente determinato nella catena delle cause e degli effetti, la quale non può avere interruzione alcuna. Ma l'essere in genere di questo oggetto, e la maniera del suo essere, ossia l'idea che vi si palesa, o, con altre parole, il suo carattere, è fenomeno immediato della volontà. Per la libertà ch'è propria, di codesta volontà, esso potrebbe non essere, o anche essere originariamente e sostanzialmente affatto diverso; nel qual caso l'intera catena, della quale esso è un anello, ma che a sua volta è fenomeno della medesima volontà, sarebbe tutt'altra. Ma da che ha preso ad esistere, l'oggetto è entrato nella serie delle cause e degli effetti, vi è determinato con necessità, né può quindi più diventare un altro, ovvero modificarsi, né uscir dalla serie, ovvero sparire. L'uomo è, come ogni altra parte della natura, oggettità della volontà: perciò quanto s'è detto vale anche per lui. Come ciascuna cosa nella natura ha le sue forze e qualità, che a un dato stimolo reagiscono in un dato modo, e costituiscono il suo carattere, così l'uomo ha pure il carattere suo, secondo il quale i motivi provocano le sue azioni con necessità. Ed è in questo modo d'agire, che si palesa il suo carattere empirico; mentre in questo poi si palesa il suo carattere intelligibile, la volontà in sé, della quale egli è fenomeno determinato. Ma l'uomo è della volontà il fenomeno più perfetto; il quale, per sussistere, com'è dimostrato nel secondo libro, dovè essere illuminato da un sì alto grado di conoscenza, che in questa si rese possibile addirittura, come abbiam veduto nel libro terzo, una riproduzione in tutto adeguata dell'essenza del mondo, sotto la forma della rappresentazione; il che si ha mediante la percezione delle idee, ed è il vero specchio del mondo. Nell'uomo adunque può la volontà pervenire alla piena conscienza di sé, alla chiara ed esauriente cognizione del suo proprio essere, quale nel mondo intero si rispecchia. Dall'effettiva presenza di codesto grado di cognizione procede l'arte, come abbiam visto nel libro che precede. Ma alla fine di tutto il nostro studio risulterà, che mediante la cognizione medesima, quando la volontà la riferisce a se stessa, diventa possibile una soppressione e autonegazione della volontà, nel suo fenomeno più perfetto: sì che la libertà, la quale altrimenti, spettando solo alla cosa in sé, non può mai mostrarsi nel fenomeno, stavolta anche nel fenomeno si rivela; e sopprimendo l'essenza che del fenomeno è base, mentr'esso pur continua a durare nel tempo, genera un dissidio del fenomeno con se medesimo, e perciò appunto ci offre i casi di santità e di abnegazione. Tutto questo si potrà intendere appieno soltanto alla fine del presente libro. Per ora non si fa che accennare genericamente, come l'uomo da tutti gli altri fenomeni della volontà si distingua, pel fatto che la libertà, ossia indipendenza dal principio di ragione, la quale spetta unicamente alla volontà come cosa in sé e sta col fenomeno in contrasto, in lui può nondimeno apparire anche nel fenomeno, dov'ella tuttavia di necessità si presenta come un dissidio del fenomeno da se medesimo. In questo senso non può non solo la volontà in sé, ma perfino l'uomo esser chiamato libero, e distinto così da tutti gli altri esseri. Ma, come ciò sia da intendere, apparirà chiaro nel seguito; e per adesso ancora dobbiamo lasciare del tutto in disparte questo argomento. Imperocché preme piuttosto mettere in guardia contro l'errore, che le operazioni dell'uomo singolo, determinato, non siano soggette a necessità di sorta, ossia la forza del motivo sia meno certa che la forza della causa, ovvero la conseguenza dedotta dalle premesse. La libertà della volontà come cosa in sé non si trasmette punto in modo diretto al suo fenomeno, prescindendo, come s'è detto, dal caso accennato più sopra, che fa eccezione; neppur là dove essa raggiunge il grado massimo di visibilità, ossia neppure all'animale ragionevole, che abbia carattere individuale, cioè alla persona. Questa non è mai libera, per quanto sia fenomeno di una libera volontà; perché appunto di tal libero volere ella è già il fenomeno determinato; e con l'entrar, che questo fa nella forma di tutti gli oggetti, nel principio di ragione, frange l'unità di quella volontà in una pluralità di azioni, la quale non di meno a causa dell'unità, sita fuor del tempo, di quel volere in sé, si presenta regolare come una forza di natura. Ma poiché tuttavia quel libero volere è, che si rende visibile nella persona e in tutta la sua condotta, stando a questa come il concetto sta alla definizione, così va pure ogni singolo atto della persona medesima attribuito alla libera volontà, e come tale s'annunzia immediatamente alla conscienza: perciò, com'è detto nel libro secondo, si ritiene ognuno libero a priori (ossia, nel caso attuale, in virtù del suo sentimento originario) in tutte le azioni sue; nel senso che a lui, in ciascun dato caso, ogni azione sia possibile. E solo a posteriori, per esperienza e per meditazione dell'esperienza, riconosce che la sua condotta risulta determinata con necessità dell'incontro del carattere coi motivi. Di là proviene, che i più rozzi uomini, seguendo i loro sentimenti, sostengano nel modo più vivo la piena libertà delle singole azioni, mentre i grandi pensatori di tutti i tempi, anzi perfino le dottrine religiose più profonde, l'abbiano negata. Tuttavia a quegli, cui s'è reso chiaro che l'intera essenza dell'uomo è volontà, e ch'egli medesimo non è che fenomeno di questa volontà, fenomeno avente il principio di ragione per forma necessaria, conoscibile già dal soggetto stesso, la quale in questo caso si presenta come legge della motivazione, a quegli un dubbio circa la possibilità di non compiere una certa azione, dato un certo carattere e un certo motivo, farà lo stesso effetto che un dubbio sull'eguaglianza fra i tre angoli d'un triangolo e due retti. La necessità di ciascuna singola azione ha con sufficienza illustrato Priestley nella sua Doctrine of philosophical necessity; ma il coesistere di questa necessità con la libertà del volere in sé, ossia fuori del fenomeno, l'ha per il primo dimostrato Kant41, il cui merito è in ciò particolarmente grande, facendo la distinzione tra carattere intelligibile ed empirico. Distinzione, che io in tutto e per tutto mantengo, essendo il primo la volontà come cosa in sé, in quanto si manifesta in un determinato individuo, e in un determinato grado; ed essendo l'altro questa manifestazione medesima, qual ella si presenta con la condotta, nel tempo, e già con la propria forma corporea, nello spazio. Perché s'intenda bene la relazione loro, nessuna espressione val meglio di quella usata nel mio scritto introduttivo: il carattere intelligibile di un uomo doversi considerare come un atto di volontà, che sta fuori del tempo, ed è quindi indivisibile e immutabile; mentre il fenomeno di quello, sviluppato e frazionato nel tempo e nello spazio e in tutte le forme del principio di ragione, è il carattere empirico, quale si palesa sperimentalmente in tutta la condotta e in tutta la vita dell'uomo medesimo. Come tutto l'albero non è che il fenomeno sempre ripetuto dell'unico e identico impulso, il quale nel modo più semplice si presenta nella fibra e si ripete nell'aggregamento di fibre, onde risultano foglia, picciuolo, ramo, tronco, essendovi facilmente riconoscibile: così tutte le azioni dell'uomo non sono che la manifestazione ripetuta ognora, al quanto diversa sol nella forma, del suo carattere intelligibile; e l'induzione risultante dalla somma di quegli atti ci dà il carattere empirico di lui. Ma non mi metterò qui a riprodurre, rimaneggiandola, l'esposizione magistrale di Kant, bensì faccio conto che sia già conosciuta.

Nel 1840 ho trattato a fondo e distesamente l'importante capitolo sulla libertà del volere, nella mia premiata memoria per concorso su quel tempo; ed ho soprattutto scoperta la cagione dell'inganno, per cui si crede di trovar nell'autoconscienza, come fatto reale, un'assoluta libertà del volere data empiricamente, ovvero un liberum arbitrium indifferentiae: che proprio a ciò mirava, acutamente, il problema messo a concorso. Nel mentre io rinvio adunque il lettore a quello scritto, e così pure al cap. 10 della memoria sui problemi fondamentali dell'etica, pubblicata insieme con l'altra sotto il titolo I due problemi fondamentali dell'etica, tralascio qui l'imperfetta argomentazione sulla necessità degli atti volitivi, data nella prima edizione; e voglio invece chiarire ancora con una breve spiegazione l'inganno esposto più sopra, che ha come premessa il 19° capitolo del nostro secondo volume e non poteva quindi trovarsi nella memoria citata.

Se prescindiamo dal fatto, che essendo la volontà, come vera cosa in sé, per sua natura alcunché di originario e di indipendente, deve anche nell'autoconscienza il sentimento di quella originarietà e indipendenza accompagnare i suoi atti, sebbene essi quivi siano già determinati – l'illusione d'una libertà empirica del volere (in luogo della libertà transcendentale, che solo gli si può attribuire), proviene dalla situazione isolata e subordinata dell'intelletto di fronte alla volontà: situazione esposta nel capitolo 19° del secondo volume, specialmente al numero 3. Perché l'intelletto apprende le risoluzioni della volontà solo a posteriori, ed in maniera empirica. Quindi non ha, al momento di scegliere, nessun dato per saper ciò che la volontà deciderebbe. Non entra nella conoscenza dell'intelletto il carattere intelligibile, in virtù del quale, dati questi o quei motivi, una sola decisione è possibile, e perciò necessaria; ma soltanto il carattere empirico gli divien noto a grado a grado, per i suoi singoli atti. Sembra perciò alla conoscente conscienza (all'intelletto) che, in un dato caso, siano alla volontà due opposte risoluzioni in pari modo possibili. Invece è come se davanti a una sbarra fissata verticalmente ma scossa nel suo equilibrio e oscillante si dicesse che «può abbattersi a destra o a sinistra»; il qual «può» non ha tuttavia che un valore soggettivo, e in verità vuol dire: «secondo i dati che a noi constano»; mentre oggettivamente è la caduta già in modo necessario determinata, non appena ha principio l'oscillazione. Similmente è la decisione della propria volontà sol per il suo osservatore, ossia il proprio intelletto, indeterminata, e quindi relativa e soggettiva; mentre in se stessa e oggettivamente, ad ogni scelta che si offra, la decisione è già determinata e necessaria. Ma codesta determinazione non sale alla coscienza, se non con la decisione che ne deriva. Ne abbiamo perfino una prova empirica, quando ci sta davanti una scelta difficile e importante, e tuttavia soggetta a una condizione che noi speriamo, ma che non s'è ancora avverata; sì che lì per lì non possiamo far nulla, e dobbiamo attender passivamente. Allora prendiamo a riflettere qual sarà la nostra decisione, quando si saranno presentate le circostanze, che ci permettano libera azione e scelta d'un partito. Il più sovente a favor dell'uno parla più forte la lungi veggente, ragionevole riflessione; ed a favor dell'altro la spontanea inclinazione. Fino a quando noi, costretti, restiamo passivi, sembra che la parte della ragione abbia il sopravvento; ma già prevediamo con qual violenza l'altra parte ci tirerà, non appena sarà venuto il momento d'agire. Fino allora ci siamo affaticati, con fredda meditazione del pro e contro, a porre nella miglior luce i motivi dell'una e dell'altra parte, affinchè ciascuno possa agire con tutta la sua forza sulla volontà, quando sarà il momento, e un errore da parte dell'intelletto non abbia per avventura a disviare la volontà, facendo ch'ella si risolva altrimenti da come si risolverebbe quando tutto vi avesse egualmente influito. Ma questo limpido prospettare i contrastanti motivi è tutto ciò che l'intelletto può far per la scelta. La scelta vera esso l'attende con la medesima passività, con la medesima curiosità intenta, come se attendesse quella d'una volontà estranea. Ben possono a lui, dal suo punto di vista, entrambe le risoluzioni apparire come egualmente possibili: questa è appunto l'illusione dell'empirica libertà del volere. Che in modo affatto empirico entra la risoluzione, come un tratto finale, nella sfera dell'intelletto; tuttavia essa proviene dalla natura intima, dal carattere intelligibile della volontà individuale nel suo conflitto con certi dati motivi; e quindi ha forza d'assoluta necessità. In ciò l'intelletto non può altro fare, che lumeggiar da ogni parte e ben chiaro la natura dei motivi, ma non già determinare la volontà medesima; essendo questa a lui inaccessibile, anzi, come abbiamo veduto, insondabile.

Se un uomo potesse, in pari circostanze, agire una volta in un modo e una volta in modo diverso, ciò significherebbe essersi la sua volontà frattanto mutata; e la volontà starebbe adunque nel tempo, che sol nel tempo può aversi mutazione. Sarebbe, così, o la volontà un semplice fenomeno, oppure il tempo una determinazione della cosa in sé. Quindi la contesa intorno alla libertà dell'azione individuale, intorno al liberum arbitrium indifferentiae, rientra propriamente nella quistione se la volontà stia o no nel tempo. Se ella, come appar dimostrato dalla dottrina kantiana e da tutta la mia esposizione, è la cosa in sé, fuori del tempo e d'ogni altra forma del principio di ragione, non soltanto deve l'individuo agire in egual modo in casi eguali, non soltanto ogni sua mala azione sarà sicura garanzia d'altre innumerevoli, che egli deve compiere e non può tralasciare: ma ben si potrebbe anche, come dice Kant, sol che fossero conosciuti appieno il carattere empirico e i motivi, prevedere il futuro, come si prevedono eclissi di sole o di luna. Come è conseguente la natura, così è il carattere: ciascuna singola azione deve essergli conforme, come ogni fenomeno accade secondo la legge naturale: la causa, nel fenomeno, e il motivo, nell'azione, sono semplicemente gli impulsi occasionali, com'è dimostrato nel secondo libro. La volontà, di cui è fenomeno l'intero essere e l'intera vita dell'uomo, non può in un caso particolare venir meno a se stessa, e ciò che l'uomo vuole in complesso, vorrà pur sempre di volta in volta.

L'affermazione d'una libertà empirica del volere, d'un liberi arbitrii indifferentiae, è strettissimamente connessa col fatto d'aver posto l'essenza dell'uomo in un'anima, la quale in origine sarebbe un essere conoscente, anzi proprio astrattamente pensante, e solo in seguito anche un essere volitivo: attribuendo così alla volontà natura secondaria, mentre secondaria è invece la conoscenza. La volontà fu perfino considerata come un atto di pensiero e identificata col giudizio; particolarmente per opera di Cartesio e Spinoza. Ciascun uomo sarebbe adunque diventato quel ch'egli è, solo per effetto della sua conoscenza. Al mondo e' verrebbe come una nullità morale; quivi conoscerebbe le cose, e si risolverebbe allora a esser questo o quello, ad agire così o così; potrebbe, anche in seguito a nuova conoscenza, scegliere una nuova linea di condotta, ossia diventare affatto un altro. Inoltre, quando così fosse, ei dovrebbe un oggetto riconoscer per buono, e come tale volerlo, invece che prima volerlo, e sol per effetto di codesto suo volere, chiamarlo buono. Secondo la mia concezione fondamentale, tutto ciò è un capovolger lo stato vero delle cose. La volontà è l'elemento primo e originario; la conoscenza non sopraggiunge che più tardi, appartenendo al fenomeno della volontà, come strumento di questa. Ciascun uomo è quindi quel ch'egli è, per la sua volontà, e il suo carattere è originario; essendo il volere la base del suo essere. Dalla sopravveniente conoscenza apprende, nel corso dell'esperienza, ciò ch'egli è; ossia, apprende a conoscere il proprio carattere. Se stesso conosce adunque per effetto e in conformità della natura del suo volere: e non già vuole, secondo l'antica concezione, per effetto e in conformità del suo conoscere. Se questa fosse vera, basterebbe ch'egli riflettesse sul come più gli piacerebbe essere, e così sarebbe: tale è la libertà del volere, secondo la concezione suddetta. La quale adunque consiste propriamente nel ritener che l'uomo si faccia da sé, nella luce della conoscenza. Io viceversa dico: l'uomo si fa da sé prima d'ogni conoscenza, e questa interviene per dar lume a quel ch'è già fatto. Quindi non può l'uomo decider d'esser fatto in un modo piuttosto che altrimenti, né può diventare un altro: bensì egli è, una volta per sempre; e quel che sia, conosce successivamente. Pei seguaci della vecchia dottrina, egli vuole ciò che conosce; per me, conosce quel che vuole.

I Greci chiamarono il carattere ηθος, ed ηθος le manifestazioni del carattere, ossia i costumi; ma questa parola deriva da εθος, abitudine: la scelsero quindi per indicare metaforicamente la costanza del carattere con la costanza dell'abitudine. Το γαρ ηθος απο του εθους εχει την επωνυμιαν. ηθικη γαρ καλειται δια το εθιζεσθαι (a voce εθος, i. e. consuetudo, ή̃θος est appellatum: ethica ergo dicta est απο του εθιζεσθαι, sive ab assuescendo), dice Aristotele (Eth. magna, i, 6, p. 1186, e Eth. End., p. 1220, e Eth. Nic., p. 1103, ed. berlinese). Stobeo attesta: οί δε κατα Ζηνωνα τροπικως˙ ηθος εστι πηγη βιου, αφ’ ής αί κατα μερος πραξεις ρεουσι (Stoici autem, Zenonis castra sequentes, metaphorice ethos definiunt vitae fontem, e quo singulae manant actiones). II, cap. 7. Nella dottrina cristiana troviamo il dogma della predestinazione, riferentesi alla scelta della grazia o della dannazione (San Paolo, Epist. ai Romani, 9, 11-24); dogma nato evidentemente dal concetto che l'uomo non muti, e la sua condotta nella vita, ossia il suo carattere empirico, non sia che la manifestazione del carattere intelligibile, lo sviluppo di ben definite tendenze, già nel bambino evidenti e immutabili: sì che all'uomo già dalla nascita sia la sua condotta precisamente determinata, ed in sostanza rimanga la medesima fino all'ultimo. Questo è pure il concetto nostro, ma non m'assumo certo di sostenere le conseguenze, che vennero dall'unione di tal concetto giustissimo coi dogmi, che lo avevan preceduto nella dottrina ebraica, e che generarono la difficoltà massima, l'eternamente indistricabile nodo gordiano, intorno a cui s'aggira la più gran parte delle dispute ecclesiastiche. Una tal difesa è assai male riuscita perfino all'apostolo Paolo, col suo apologo del vasaio, introdotto per questo fine: il risultato sarebbe quello espresso nei versi che seguono:

Tema gl'Iddii
L'umana razza!
Han nelle eterne
Mani il potere:
Possono usarlo
Come a lor piace42.

Ma siffatte considerazioni sono in verità estranee al nostro soggetto. Più appropriati saranno alcuni chiarimenti sul rapporto tra il carattere e la conoscenza, nella quale stanno tutti i motivi di quello.

I motivi, che determinano la manifestazione del carattere, ossia l'azione, sul carattere medesimo agiscono pel tramite della conoscenza. Ma la conoscenza è mutevole, sovente oscilla tra errore e verità, sebbene di regola venga sempre più a rettificarsi, se pure in grado assai diverso, col proceder della vita. Perciò è possibile, che la condotta di un uomo venga osservabilmente cambiata, senza che si possa inferirne un cambiamento del suo carattere. Quel che l'uomo veramente e genericamente vuole, l'aspirazione del suo più intimo essere e la meta, a cui seguendo quell'aspirazione egli è diretto, tutto ciò non possiamo mai modificare né con influenze esteriori né con ammonimenti: per riuscirvi, dovremmo rifarlo di pianta. Seneca dice benissimo: vette non discitur, mostrando con ciò di anteporre la verità ai suoi cari Stoici, che ammonivano διδακτην ειναι την αρετην (doceri posse virtutem). Dall'esterno si può influir sulla volontà solo mediante motivi. Ma questi non posson mai mutare la volontà medesima, che su lei hanno potere solo a condizione ch'ella sia qual è. Il lor potere si riduce adunque a modificare la strada della sua aspirazione; ossia a far ch'ella cerchi per un'altra via quel che immutabilmente s'è proposto. Ammonimenti, o più retta conoscenza, insomma tutti gl'influssi esteriori, possono bensì avvertirla d'aver sbagliato nei mezzi, e far ch'ella persegua per tutt'altra via, o addirittura in tutt'altro oggetto, il medesimo scopo, a cui già mirava secondo la propria intima natura: ma non posson mai fare ch'ella voglia davvero cosa diversa da quella fino allora voluta; la quale rimane immutabile, essendo per l'appunto tutt'uno con quella volontà medesima, che altrimenti dovrebbe esser soppressa. Invece la mutevolezza della conoscenza, e quindi della condotta, va tant'oltre, che la volontà si sforza di raggiungere il suo scopo immutabile, per esempio il paradiso di Maometto, or nella vita reale, ora in un mondo immaginario; disponendo a ciò i mezzi opportuni, e quindi nel primo caso adoprando astuzia, violenza e inganno, nel secondo astinenza, giustizia, elemosina, pellegrinaggio alla Mecca. Ma per questo non è mutata la sua aspirazione, e tanto meno egli stesso. Quindi, anche se il suo operare può esser molto diverso in diverse epoche, è il suo volere tuttavia rimasto il medesimo. Velle non discitur.

Perché i motivi agiscano, si richiede non soltanto la loro esistenza, ma anche l'esser conosciuti: perché, come dice l'eccellente espressione degli scolastici, già ricordata, causa finalis movet non secundum suum esse reale, sed secundum esse cognitum. Perché, ad esempio, si palesi il rapporto, che reciprocamente hanno in un dato uomo egoismo e compassione, non basta che costui possegga delle ricchezze e vegga la miseria di altri; egli deve anche sapere, che cosa può farsi con la ricchezza, sia per sé, sia per altri; e non solo rappresentarglisi l'altrui pena, ma deve anch'egli sapere che cosa sia pena, e pur che cosa sia gioia. Tutto ciò non saprebbe egli forse tanto bene in un primo incontro, quanto in un secondo; e se in occasione simile agisce differentemente, questo dipende solo dall'esser diverse, in realtà, le circostanze: soprattutto nella parte che dipende dal suo conoscimento; anche se paiano esser le medesime. Come l'esser ignorate toglie a circostanze effettivamente esistenti ogni maniera d'azione, così posson d'altra parte circostanze affatto immaginarie agire al modo delle reali; non solo per effetto d'una illusione isolata, ma anche nel loro complesso, e durevolmente. Se per esempio un uomo viene fermamente convinto che ogni buona azione gli sarà a cento doppi ripagata nella vita futura, codesta persuasione vale e vige come una sicura cambiale a lunghissima scadenza, ed egli per egoismo può dare, come, sotto altri riguardi, per egoismo prenderebbe. Né con ciò è cambiato: velle non discitur. In virtù di questo grande influsso della conoscenza sulla condotta, pur rimanendo immutata la volontà, accade che solo a poco a poco si sviluppi il carattere e vengano in luce i suoi vari tratti. Perciò apparisce esso in ogni età della vita diverso: ed alla vivace, impetuosa giovinezza può seguire una posata, misurata, virile maturità. Specialmente il lato cattivo del carattere si manifesta col tempo sempre più; ma talora invece le passioni, a cui ci abbandonammo nella giovinezza, vengono più tardi spontaneamente frenate, sol perché si sono allora mostrati alla conoscenza i motivi che possono far loro ostacolo. Ed è perciò che noi tutti siamo, in sulle prime, innocenti: la qual cosa significa che noi non conosciamo, né altri conosce, il lato cattivo della nostra propria natura: solo incontrandosi coi motivi questo si palesa, e solo col tempo entrano i motivi nella nostra conoscenza. Alla fine impariamo a conoscere noi stessi, come affatto diversi da quel che ritenevamo a priori; e sovente abbiamo di noi medesimi orrore.

Rimorso non proviene mai dall'essersi mutata la volontà (cosa impossibile), bensì la conoscenza. Ciò che v'ha d'essenziale e di proprio in quanto io ho potuto per l'innanzi volere, debbo volere oggi ancora; perché io medesimo sono codesta volontà, la quale sta fuor del tempo e fuor del mutamento. Non posso quindi pentirmi mai di ciò che ho voluto, ma posso bensì di ciò che ho fatto; perché, da falsi concetti guidato, ho fatto cose non conformi alla mia volontà. L'accorgersene, in grazia di più esatta conoscenza, costituisce il rimorso. Ciò non s'estende per avventura soltanto al saper vivere, alla scelta dei mezzi e al giudizio se un dato scopo convenga alla mia propria volontà, ma anche al dominio etico in senso vero e proprio. Posso per esempio aver agito con più egoismo di quanto sia conforme al mio carattere, fuorviato da esagerate rappresentazioni della necessità in cui mi trovavo, o anche dall'astuzia, falsità, malvagità altrui, o anche dalla mia precipitazione; ovvero mancanza di riflessione; determinato da motivi non già chiaramente conosciuti in abstracto, ma semplicemente intuiti, sotto l'influenza del presente e della commozione che ne risultò: così forte, che a dir vero non possedevo più l'uso della mia ragione. In questo caso, il ritorno della riflessione non è se non rettificata conoscenza, dalla quale può sorgere rimorso, che poi si manifesta ognora nel rimediare al mal fatto, fin dove sia possibile. Va tuttavia osservato, che per illuder noi stessi ci predisponiamo apparenti precipitazioni, le quali in realtà sono atti meditati in segreto. Perché nessuno inganniamo e lusinghiamo con sì fini artificii quali usiamo per noi medesimi. Può darsi anche il caso opposto: un eccesso di fiducia verso altri, o ignoranza del valore relativo da attribuire ai diversi beni della vita, o un qualsiasi dogma astratto, al quale io cessi poi di prestar fede, possono avermi indotto ad agire con meno egoismo di quanto il mio carattere richieda; preparandomi così rimorso d'altra natura. Sempre è adunque il rimorso rettificata conoscenza del rapporto tra l'azione e il vero e proprio intento. Come alla volontà manifestantesi nel solo spazio, ossia con la semplice figura, resiste la materia già da altre idee, in questo caso le forze naturali, dominata, e di rado lascia apparire in tutta la sua purezza e limpidità la figura che qui tendeva a farsi visibile; così la volontà, che si rivela solo nel tempo, ossia con azioni, trova analogo ostacolo nella conoscenza, che a lei di rado fornisce esatti i dati, per modo che l'azione non riesce ben corrispondente alla volontà, e quindi ci prepara il rimorso. Il rimorso proviene perciò sempre da conoscenza fattasi più retta, e non da mutazione della volontà, che è impossibile. Il tormento della coscienza per un atto commesso è tutt'altro che rimorso: è dolore per l'aver conosciuti noi stessi nel nostro vero essere, ossia nella nostra volontà. Si fonda sulla certezza d'aver tuttora la medesima volontà. Fosse questa mutata, e fosse quindi semplice rimorso il tormento della coscienza, questo cadrebbe da sé: imperocché l'accaduto non potrebbe più dare inquietudine, riflettendo le manifestazioni d'una volontà, la quale non è più quella dell'uomo che si è pentito. Chiariremo più oltre ampiamente il valore del tormento di coscienza.

L'influsso che la conoscenza, in quanto mezzo dei motivi, esercita non proprio sulla volontà medesima, ma sul suo manifestarsi nelle azioni, è anche base del principale divario tra l'azione dell'uomo e quella dell'animale, essendo in entrambi diverso il modo di conoscere. L'animale ha soltanto rappresentazioni intuitive; l'uomo, per via della ragione, possiede anche rappresentazioni, astratte, o concetti. Ora, sebbene animale e uomo vengano con pari necessità determinati dai motivi, l'uomo ha nondimeno in più dell'animale una completa facoltà di scelta; la quale spesso venne anche presa per una libertà del volere nei singoli atti, mentre non è se non la possibilità di un conflitto combattuto fino in fondo tra più motivi, de' quali il più forte determina alla fine con necessità il volere. Occorre a ciò, che i motivi abbian preso la forma di pensieri astratti; perché sol per mezzo di questa è possibile una vera e propria deliberazione, ossia il pesare gli opposti motivi d'agire. Nell'animale può la scelta aver luogo soltanto tra motivi presenti all'intuizione, sì che essa è limitata alla stretta sfera della sua attuale, intuitiva apprensione. Perciò la necessità, onde il volere è determinato dal motivo, necessità eguale a quella dell'effetto, data la causa, può solo presso gli animali esser mostrata intuitivamente e immediatamente, avendo qui anche lo spettatore davanti agli occhi nella stessa immediatezza i motivi e l'effetto loro; mentre nell'uomo quasi sempre i motivi sono rappresentazioni astratte, delle quali non è partecipe lo spettatore; e perfino a colui, che agisce, il conflitto dei motivi nasconde la necessità dell'azione. Imperocché solamente in abstracto possono più rappresentazioni, in forma di giudizi o catene d'illazioni, coesistere nella conscienza, e poi, libere da ogni determinazione temporale, l'una contro l'altra agire, finché la più forte predomini sulle rimanenti e determini la volontà. Questa è la perfetta facoltà di scelta, o capacità di deliberazione, privilegio dell'uomo di fronte all'animale; per essa fu all'uomo attribuita libertà del volere, ritenendosi che il suo volere sia un semplice risultato delle operazioni intellettive, senza che un determinato impulso serva all'intelletto di base; mentre, in verità, la motivazione non fa che agir sulla base ed a condizione del determinato impulso di lui, che è individuale, ossia è un carattere. Una più ampia esposizione di quella capacità deliberativa, e della derivante varietà dell'arbitrio umano e animale, si trova nell'opera I due problemi fondamentali dell'etica (1a ed., pp. 35 sgg.), alla quale rinvio dunque per tale soggetto. D'altronde codesta capacità deliberativa dell'uomo appartiene anch'essa alle cose, che fanno la sua vita tanto più tormentosa di quella degli animali; perché i nostri maggiori dolori in genere non stanno nel presente, come rappresentazioni intuitive o sentimento immediato, bensì nella ragione, come concetti astratti, torturanti pensieri, da cui è affatto libero l'animale, che vive soltanto nel presente, e quindi in invidiabile assenza di pensiero.

La suesposta dipendenza dell'umana capacità deliberativa della facoltà del pensare in abstracto, e quindi del giudicare e dedurre, sembra esser quella che ha traviato tanto Cartesio quanto Spinoza, facendo loro identificar le decisioni della volontà con la facoltà di affermare e negare (che è il giudizio), dal che Cartesio dedusse esser la volontà, secondo lui indifferentemente libera, responsabile anche di ogni errore teorico. Spinoza ne dedusse invece esser la volontà determinata necessariamente dai motivi, come il giudizio dalle ragioni43; il che ha del resto il suo valore, ma tuttavia si presenta come una conclusione esatta da false premesse.

La dimostrata varietà del modo onde l'animale e l'uomo vengono mossi da motivi, estende di molto la sua influenza sull'essere d'entrambi, ed è causa precipua del profondo e visibilissimo divario nella loro esistenza. Che mentre l'animale vien sempre mosso da una rappresentazione esclusivamente intuitiva, s'affatica l'uomo ad escludere del tutto questo genere di motivazione, e farsi condurre soltanto da rappresentazioni astratte; traendo in ciò tutto il possibile vantaggio dal suo privilegio della ragione, e, senza dipender dal presente, non già l'effimero godimento o dolore scegliendo o fuggendo, ma considerando dell'uno e dell'altro le conseguenze. Nella più parte dei casi, all'infuori delle azioni affatto insignificanti, ci determinano motivi astratti, pensati, e non già impressioni momentanee. Quindi è per noi ogni singola privazione abbastanza lieve a sopportare nel momento, ma orribilmente grave ogni rinunzia: perché quella tocca soltanto l'attimo che fugge, questa invece tocca l'avvenire, e chiude in sé privazioni innumerevoli, delle quali è l'equivalente. La causa del nostro dolore, come della nostra gioia, per lo più non sta adunque nel reale presente, ma sol negli astratti pensieri: sono questi, che spesso ci gravano insopportabilmente, e creano pene, di fronte alle quali assai piccole sono tutte le sofferenze dell'animalità, poi che il nostro stesso dolore fisico non viene spesso neppur sentito vicino a quelle; ed anzi, soffrendo di violenti dolori morali, noi ci produciamo dolori fisici solo per distogliere con ciò dai primi l'attenzione: tale è il motivo per cui, nel massimo dolore morale, ci strappiamo i capelli, battiamo il petto, laceriamo il volto, rotoliamo per terra; tutte cose che propriamente non sono se non violente distrazioni da un pensiero che pare intollerabile. Appunto perché il dolore morale, essendo di gran lunga il maggiore, ci rende insensibili al dolore fisico, diventa facilissimo il suicidio al disperato, o a chi è consumato da un morboso travaglio, anche se costui per l'innanzi, in condizioni tranquille, davanti al pensiero del suicidio s'arretrava sbigottito. Similmente la pena e la passione, ossia il travaglio del pensiero, consumano il corpo più spesso e più a fondo che le sofferenze fisiche. Perciò dice a ragione Epitteto: Ταρασσει τους ανθρωπους ου τα πραγματα, αλλα τα περι των πραγματων δογματα (Perturbant homines non res ipsae, sed de rebus decreta) (V), e Seneca: «Plura sunt, quae nos terrent, quam quae premunt, et saepius opinione quam re laboramus» (Ep. 5). Anche Eulenspiegel satireggiava benissimo la natura umana, quando in salita rideva, in discesa piangeva. Perfino bimbi, che si son fatti del male, non piangono per il dolore, ma piangono quando li si compiange, per il pensiero, in tal maniera suscitato, del dolore. Così gran divarii nell'agire e nel soffrire provengono dalla varietà nel modo di conoscenza animale ed umano. Inoltre il presentarsi del limpido e deciso carattere individuale, che soprattutto distingue l'uomo dall'animale, avendo quest'ultimo quasi unicamente il carattere della specie, è in egual modo determinato dalla scelta tra più motivi, possibile solo mediante i concetti astratti. Che solo dopo precedente scelta sono le risoluzioni diverse nei diversi individui un segno del carattere individuale di questi, in ciascuno variato; mentre l'azione dell'animale dipende solo dalla presenza, o assenza, dell'impressione, premesso poi che questa sia per la sua specie un motivo. Perciò finalmente nell'uomo soltanto è la decisione, e non il semplice desiderio, un valido segno del suo carattere, per lui stesso e per gli altri. Ma la risoluzione diventa certa, per lui stesso come per gli altri, solamente con l'azione. Il desiderio è semplice effetto necessario dell'impressione presente, sia per uno stimolo esterno, sia per una passeggera disposizione interiore; ed è quindi così immediatamente necessario e privo di riflessione come l'agir delle bestie: perciò esprime, a mo' di questo, il carattere della specie, e non l'individuale. Ossia mostra ciò che l'uomo in genere, e non l'individuo, che prova quel desiderio, sarebbe capace di fare. L'azione soltanto, come quella che già per essere un atto umano richiede sempre una certa riflessione, e perché l'uomo di regola è signore della propria ragione, e quindi è riflessivo, ossia si risolve secondo motivi astratti pensati, è l'espressione della massima intelligibile della sua condotta, il risultato del suo interno volere; e sta come una consonante della parola, che indica il suo carattere empirico, il quale a sua volta non è che l'espressione temporale del suo carattere intelligibile. Perciò in uno spirito sano gravano la coscienza solamente azioni, e non desiderii e pensieri. Imperocché solamente le nostre azioni ci tengono innanzi lo specchio della nostra volontà. L'azione più sopra accennata, punto meditata, ed effettivamente commessa nel cieco impeto, è in un certo modo un che di mezzo tra il semplice desiderio e la decisione: quindi essa mediante vero pentimento, ma che si mostri anche in azione, può come una linea mal disegnata venir soppressa nell'immagine della nostra volontà; la quale immagine è la nostra vita. Del resto può qui, come un singolare raffronto, trovar luogo l'osservazione, che il rapporto tra desiderio e atto ha un'analogia affatto fortuita, ma precisa, con quello che passa tra distribuzione elettrica ed elettrica comunicazione.

In virtù di tutta codesta indagine sulla libertà del volere e su quanto vi si riferisce, troviamo che, sebbene la volontà in sé e fuor del fenomeno si possa chiamar libera, anzi onnipotente, vien poi nei suoi singoli fenomeni illuminati dalla conoscenza, ossia negli uomini e negli animali, determinata da motivi, contro i quali ciascun carattere reagisce sempre nello stesso modo, regolarmente e necessariamente. Vediamo l'uomo, in grazia della sopraggiuntagli conoscenza astratta, o di ragione, avere in più dell'animale una facoltà di scelta, la quale tuttavia fa di lui un campo di battaglia per il conflitto dei motivi, senza sottrarlo al loro dominio; essa è condizione quindi, perché il carattere individuale si manifesti appieno, ma non va punto considerata come libertà del volere singolo, ossia indipendenza dalla legge di causalità; la cui necessità si estende all'uomo come ad ogni altro fenomeno. Fino al punto indicato, adunque, e non oltre, va il divario che la ragione, o conoscenza mediante concetti, fa nascere tra il volere umano e l'animale. Ma qual tutt'altro fenomeno della volontà umana, all'animalità affatto estraneo, possa prodursi, quando l'uomo abbandona l'intera, al principio di ragione sottomessa conoscenza delle singole cose in quanto tali, e mediante conoscenza delle idee egli va oltre il principium individuationis, ove un effettivo palesarsi della vera e propria libertà della volontà come cosa in sé diventa possibile, sì che il fenomeno finisce col trovarsi in un certo dissidio con se medesimo, espresso con la parola abnegazione, ed anzi alla fine l'in-sé del suo essere viene soppresso: questa verace ed unica immediata manifestazione della libertà della volontà in se stessa, anche nel fenomeno, non ancora può qui venire esposta chiaramente, bensì formerà da ultimo l'oggetto della nostra indagine.

Intanto, dopo che ci si è fatta chiara, attraverso le presenti dimostrazioni, l'immutabilità del carattere empirico, in quanto essa è semplice manifestazione del carattere intelligibile posto fuori del tempo; e così pure la necessità, con cui le azioni procedono dall'incontro del carattere coi motivi: dobbiamo ora in primo luogo rimuovere una deduzione che molto facilmente se ne potrebbe trarre a favore delle nostre tendenze riprovevoli. Dovendosi considerare il nostro carattere come estrinsecazione temporale d'un atto di volontà posto fuori del tempo, e quindi indivisibile e immutabile, ossia di un carattere intelligibile, da cui immutabilmente è determinato e conformemente a cui s'esprime nel suo fenomeno (il carattere empirico) quanto v'ha d'essenziale nella nostra condotta, ossia il contenuto empirico di essa; mentre l'inessenziale di codesto fenomeno, l'esterno atteggiamento della nostra vita, dipende dalle forme in cui si presentano i motivi; si potrebbe concluderne, che sia fatica vana il lavorare a un miglioramento del proprio carattere, o il resistere alla forza delle cattive tendenze: tal che meglio sarebbe sottomettersi all'ineluttabile, e immediatamente cedere a ogni inclinazione, sia pur malvagia. Ma le cose stanno a questo proposito come stanno per la teoria dell'ineluttabile destino e della conseguenza derivatane, detta αργος λογος, e a' nostri giorni fatalismo musulmano: la cui refutazione, quale si attribuisce a Crisippo, è esposta da Cicerone nel libro de fato, capp. 12, 13.

Che sebbene tutto si possa considerar come irrevocabilmente predeterminato dal destino, ciò non accade se non mediante la concatenazione delle cause. In nessun caso può esser destinato, che si abbia un effetto senza la sua causa. Non è già predeterminato, adunque, un fatto qualsiasi senz'altro: ma come effetto di cause preesistenti; non l'effetto solo, cioè, ma anche i mezzi, cui esso dovrà succedere come risultato, per disposizione del destino. Mancando i mezzi, manca sicuramente anche il risultato: questo e quelli sempre secondo la determinazione del destino, che tuttavia noi veniamo a conoscere solo dopo l'evento. Come gli eventi saranno sempre conformi al destino, ossia all'infinita concatenazione delle cause, così saranno le nostre azioni conformi sempre al nostro carattere intelligibile; ma, come non abbiamo cognizione anticipata di quello, così non ci è dato di guardare a priori dentro di questo; bensì unicamente a posteriori, con l'esperienza, veniamo a conoscere tanto gli altri quanto noi stessi. Se il nostro carattere intelligibile comporta, che noi prendiamo una buona risoluzione solo dopo lunga lotta contro un'inclinazione cattiva, bisogna che questa lotta preceda e che se ne attenda la fine. La riflessione sull'immutabilità del carattere, sull'unità della sorgente, da cui derivano tutte le nostre azioni, non ha potere d'indurci a precorrere, a favor dell'una o dell'altra parte, la decisione voluta dal carattere: solo a decisione presa, potremo vedere di qual fatta noi siamo, e specchiarci nelle nostre azioni. Da ciò appunto è spiegata la soddisfazione oppure l'angoscia, con cui guardiamo indietro al cammino percorso nella nostra vita: soddisfazione e angoscia non procedono dall'esistere tuttora quelle azioni trapassate; che esse sono svanite, furono e non sono più; ma la lor grande importanza per noi proviene dal loro significato, proviene dall'esser codeste azioni l'immagine del carattere, lo specchio della volontà, contemplando il quale noi conosciamo il nostro più intimo io, il nocciolo della nostra volontà. Poiché questo non ci è noto in antecedenza, ma soltanto dopo, ci tocca affaticarci e combattere nel tempo, affinchè l'immagine, che veniamo a creare con le nostre azioni, riesca tale, che la sua vista ci rassereni il più possibile, e non ci travagli. Ma il valore di questa serenità o angoscia sarà, come dicemmo, indagato in appresso. A questo luogo spetta invece ancora la seguente, per sé stante, considerazione.

Accanto al carattere intelligibile e all'empirico ne va ricordato un terzo, da entrambi diverso, il carattere acquisito, che si acquista vivendo, con l'uso del mondo; e di questo si parla, quando un uomo è lodato per aver carattere, o biasimato per mancarne. Si potrebbe in verità ritenere, che il carattere empirico, come fenomeno del carattere intelligibile, essendo immutabile, e, come ogni fenomeno naturale, in sé conseguente, anche l'uomo dovrebbe similmente apparir sempre eguale a se stesso e conseguente; né aver quindi necessità di acquistare artificialmente un carattere mediante esperienza e riflessione. Ma altro è il caso dell'uomo: e, pur essendo ognora il medesimo, non sempre tuttavia comprende se stesso, bensì sovente si misconosce, fin quando non abbia in un certo grado acquistata la vera e propria conoscenza di sé. Il carattere empirico è, come semplice istinto naturale, in sé irragionevole: anzi, le sue manifestazioni vengono per di più dalla ragione turbate; e maggiormente turbate, per quanta maggior riflessione e forza di pensiero ha l'uomo. Imperocché queste gli tengono ognora davanti ciò che all'uomo in genere, in quanto carattere della specie, s'appartiene, e sì nel volere, sì nell'oprare è a lui possibile. In tal modo gli è resa più difficile la comprensione di quel che veramente egli vuole e può per effetto della individualità propria. Trova in sé le disposizioni per tutte, siano pur diverse, le umane tendenze e forze; ma il vario grado di quelle nella sua individualità non gli si fa chiaro senza esperienza; e quand'egli invero ha dato opera a soddisfar le aspirazioni, che sole al suo carattere sembrano conformi, sente tuttavia, soprattutto in qualche momento e in talune disposizioni, la spinta verso aspirazioni addirittura opposte e inconciliabili con le prime; e quelle, se le prime vuol seguire indisturbato, devono essere soffocate appieno. Poiché, come il nostro fisico andare sulla terra è sempre una linea, e giammai una superficie, così dobbiamo nella vita, quando afferriamo qualcosa e vogliamo possederla, innumerevoli altre lasciarne, rinunziandovi, a destra e sinistra. Non ci possiamo risolvere a ciò, e invece andiamo afferrando, come bimbi al mercato, tutto quanto ci seduce al passaggio; allora gli è lo sforzo insensato, di trasformare in una superficie la linea della nostra via; andiamo correndo a zig-zag, vagolando come fuochi fatui qua e là, e non perveniamo a nulla. O, per usare un'altra immagine, come, secondo la teoria hobbesiana del diritto, originariamente ciascuno ha un diritto sopra ciascuna cosa, ma su nessuna esclusivo; e quest'ultima si può pervenire ad avere tuttavia su talune cose, col rinunziare al proprio diritto su tutte le rimanenti, mentre gli altri fanno lo stesso per ciò che noi abbiamo scelto; così proprio accade nella vita, dove noi una qualunque aspirazione determinata, sia essa verso godimento, onore, ricchezza, scienza, arte o virtù, possiamo allora soltanto seguire con serietà e con fortuna, quando abbiam fatto getto d'ogni aspirazione estranea a quella, e rinunziato a tutto il resto. A tanto non basta né il semplice volere, né, in sé, il potere: un uomo deve anche sapere ciò che vuole, e sapere ciò che può: solo così mostrerà carattere, e riuscirà a qualcosa di buono. Prima di giungere a questa consapevolezza, egli, malgrado la natural conseguenza del carattere empirico, è nondimeno privo di carattere; e, sebbene trascinato dal suo demone debba restar fedele a se stesso e percorrer la sua via, non seguirà una linea diretta, bensì oscillante e disuguale; esiterà, devierà, tornerà sui propri passi, preparando a sé pentimento e dolore. Tutto questo, perché nel grande e nel piccolo tante cose vede come possibili e raggiungibili dall'uomo, e tuttavia non sa quanto di ciò a lui solo s'adatti, e possa da lui venir compiuto o anche semplicemente goduto. Invidierà quindi taluno per una situazione e per condizioni, che sono bensì adatte al carattere di quegli, ma non al suo, e nelle quali si sentirebbe infelice, o addirittura non potrebbe reggere. Imperocché come il pesce solamente nell'acqua, l'uccello solamente nell'aria, la talpa solamente sotto la terra sta bene, così ogni uomo sta bene solamente nell'atmosfera a lui propizia; per esempio, l'aria della corte non è respirabile per tutti. Per mancanza di sufficiente giudizio a questo proposito molti compiranno ogni sorta di tentativi destinati a fallire, faranno in caso particolare violenza al proprio carattere, mentre in generale dovranno pure seguirlo; e quanto avranno in tal modo, contro la natura propria, faticosamente raggiunto, non darà loro alcun piacere; quanto avranno in tal maniera appreso, resterà cosa morta; perfino sotto il rispetto morale un'azione troppo nobile per il loro carattere, venuta non da un puro, immediato impulso, ma da un concetto, da un dogma, perderà ogni valore, ai loro stessi occhi, per l'egoistico pentimento che le succederà. Velle non discitur. Come dell'irremovibilità dei caratteri altrui ci rendiamo persuasi sol con l'esperienza, e prima di persuadercene crediamo infantilmente di poter con ragionevoli argomentazioni, con preghiere e suppliche, con esempio e generosità, indurre altri a smuoversi dalla sua natura, a cambiare il suo modo d'agire, a discostarsi dal suo modo di pensare, o addirittura d'allargare le sue capacità; così ci accade anche di fronte a noi medesimi. Solo per esperienza possiamo apprendere ciò che vogliamo e ciò che possiamo; prima, non lo sappiamo, non abbiamo carattere e dobbiamo sovente venir rigettati, da duri urti esteriori, sulla nostra via. E quando alla fine l'abbiamo appreso, allora s'è conseguito quel che nel mondo si chiama carattere, ossia il carattere acquisito. Il quale non è altro che la conoscenza il più possibile compiuta della propria individualità: è l'astratta, e quindi limpida consapevolezza del proprio carattere empirico, e della misura e direzione delle sue capacità intellettuali e corporee, ovvero di tutte le forze e debolezze della propria individualità. Questo ci mette in grado di adempiere con riflessione e metodo il compito individuale, in sé immutabile, che per l'innanzi sregolatamente abbandonavamo alla natura; e le lacune, che capricci o debolezze nostre producevano, riempire con l'aiuto di saldi concetti. La condotta, resa assolutamente necessaria dalla nostra natura individuale, veniamo a formularla in massime chiaramente conosciute, a noi ognora presenti, secondo le quali noi quella pratichiamo sì consapevolmente, come fosse una condotta appresa, senza mai venir confusi da una passeggera disposizione o da un'impressione momentanea, senza venire inceppati dall'amaro o dal dolce di un singolo incidente occorso per via, senza incertezza, senza esitazione, senza inconseguenze. Non più, come novizi, aspetteremo, proveremo, andremo a tentoni, per vedere ciò che propriamente vogliamo e ciò che possiamo; questo ci è noto una volta per sempre, in ogni scelta abbiamo principii generali da applicare ai casi singoli, e subito veniamo alla decisione. Conosciamo la nostra volontà in genere, e non ci lasciamo sviare né da disposizioni fugaci né da pressioni esterne, a prendere in un caso particolare una decisione che sia contraria alla nostra volontà generica. Conosciamo egualmente la natura e la misura delle nostre forze e delle nostre debolezze, e ci risparmieremo così molti dolori. Che in verità non esiste godimento se non nell'uso e sentimento delle proprie forze, e il maggior dolore è la riconosciuta mancanza di forze, là dove se n'avrebbe bisogno. Avendo bene indagato dove le nostre forze stiano, e dove le nostre debolezze, svilupperemo, useremo, cercheremo di adoprare in tutti i modi le nostre spiccate naturali attitudini, sempre volgendoci dalla parte ove queste giovano e hanno valore; ma rigidamente e con dominio di noi stessi evitiamo gli sforzi, a cui da natura abbiamo poche disposizioni: ci guarderemo dal tentar ciò che in nessun modo ci riuscirebbe. Solo chi è giunto a questo, sarà sempre con piena consapevolezza tutto intero se stesso, né mai da se stesso sarà lasciato in asso, poi che sempre ha saputo di che fosse capace. Proverà dunque sovente la gioia di sentire le proprie forze, e raramente avrà il dolore d'esser richiamato alle proprie debolezze: umiliazione che forse produce il peggior dolore morale. Molto meglio si può sopportare di veder limpidamente la propria sfortuna, che la propria inettitudine. Una volta che noi siamo resi consapevoli appieno delle nostre forze e debolezze, non tenteremo più di mostrare capacità che non abbiamo, non giocheremo con falsa moneta, perché alla fine codesta ciurmeria vien pure a fallire. Essendo l'uomo intero un semplice fenomeno della sua volontà, nulla può darsi di più stolto che, rimuovendosi dalla riflessione, voler esser altro da quel che si è: poi che gli è una diretta contraddizione della volontà da se medesima. Imitare qualità e caratteristiche altrui è molto più vile che portare altrui vesti: che il giudizio sulla nostra insignificanza viene così pronunziato da noi stessi. Conoscenza della propria natura e delle sue capacità d'ogni maniera e dei suoi inalterabili confini è sotto questo rispetto la più sicura via, per arrivare alla maggior possibile soddisfazione di se medesimo. Imperocché vale per le circostanze interne, quel che vale per le esterne, non essere a noi nessun conforto più efficace che la piena certezza dell'immutabile necessità. Non tanto ci strazia un male, che ci abbia colti, quanto il pensiero delle circostanze, le quali avrebbero potuto stornarlo; nulla quindi conferisce a tranquillarci, come il considerar l'accaduto dal punto di vista della necessità, secondo cui tutti gli eventi accidentali appariscono strumenti d'un sovrano destino, sì che noi riconosciamo il male occorsoci come prodotto ineluttabilmente dal conflitto di circostanze interne ed esterne. Il fatalismo, adunque. In verità noi ci lamentiamo e infuriamo sol fin quando abbiamo speranza con ciò o di influire su altri, o di eccitare noi stessi ad uno sforzo inaudito. Ma ragazzi e adulti sanno benissimo rassegnarsi, non appena vedano chiaramente che il male è irreparabile:

θυμόν ὲνὶ στὴθεσσι φίλον δαμάσαντες ὰνάγκη
(Animo in pectoribus nostro domito necessitate).

Noi somigliamo agli elefanti presi prigionieri, i quali per molti giorni orrendamente infuriano e lottano, fin quando scorgono che tutto è vano, e quindi d'un tratto calmi offrono il collo al giogo, per sempre domati. Siamo come il re David, il quale, mentre ancora viveva suo figlio, incessantemente investiva Jehovah con suppliche, e disperatamente si dimenava: ma, non appena il figlio fu morto, non ci pensò più. Di qui proviene, che innumerevoli mali permanenti, come deformità, miseria, bassa condizione, bruttezza, spiacevole luogo di residenza, siano da innumerevoli uomini sopportati affatto indifferentemente, né vengano più sentiti, come cicatrizzate ferite, sol perché questi uomini sanno che interna o esterna necessità non lascia quivi adito a mutamento; mentre i felici non comprendono come si possan sopportare quei mali. Ora, come con l'esterna, così con l'interna necessità nulla ci riconcilia tanto bene, quanto l'averne chiara contezza. Quando abbiamo una volta per sempre conosciuto chiaramente sì le nostre buone qualità e forze, sì i nostri difetti e debolezze, e conformemente a tal conoscenza abbiam segnata a noi la nostra meta, e ci siam rassegnati all'irraggiungibile, sfuggiamo con ciò nel più sicuro modo, finché la nostra individualità lo consente, all'amarissimo tra tutti i mali, al malcontento di noi stessi, inevitabile conseguenza del non conoscer la propria individualità, della falsa opinione e della presunzione che ne deriva. Agli amari capitoli, in cui è raccomandata la cognizione di sé, si applica eccellentemente il distico ovidiano:

Optimus ille animi vindex laedentia pectus
Vincula qui rupit, dedoluitque semel.

E ciò basti intorno al carattere acquisito, il quale invero non tanto importa per l'etica propriamente detta, quanto per la vita sociale; ma la cui illustrazione andava qui posta presso quella del carattere intelligibile e dell'empirico, come terza specie coordinata. Sulle prime abbiamo dovuto indugiare con un esame alquanto più esteso, per renderci chiaro come la volontà sia in tutti i suoi fenomeni soggetta alla necessità, pur potendo nondimeno esser chiamata in se stessa libera, anzi onnipotente.

§ 56.

Questa libertà, questa onnipotenza, di cui l'intero mondo visibile, suo fenomeno, è manifestazione ed immagine, e progressivamente si svolge secondo le leggi che porta seco la forma della conoscenza – può anche, e propriamente là ove a lei, nel suo più perfetto fenomeno, è venuta la conoscenza in tutto adeguata del suo proprio essere, novellamente manifestarsi: o nel volere ancor qui, al vertice della riflessione e della consapevolezza di sé, quel che già da cieca e di sé inconscia voleva, e in tal caso la conoscenza, sia particolare, sia generale, rimane per lei sempre motivo; oppur, viceversa, codesta conoscenza diventa a lei un quietivo, il quale ogni volere sopisce e cancella. Si ha così l'affermazione o negazione, già più sopra genericamente stabilita, della volontà di vivere; la quale, essendo rispetto alla condotta dell'individuo una generica, non particolare manifestazione della volontà, non altera con modificazioni lo sviluppo del carattere, né trova la sua espressione in singoli atti; bensì o con un sempre più forte rilievo di tutta la condotta precedente, o all'opposto con la soppressione di quella, esprime in forma vivente la massima che, dietro conoscenza alfine raggiunta, la volontà liberamente ha fatto sua. Il più chiaro svolgimento di tutto ciò, principal soggetto di quest'ultimo libro, ci è ora alquanto alleviato e preparato dalle considerazioni sulla libertà, sulla necessità e sul carattere, che sono venute qui a intercalarsi; ma più sarà, se, discostandosi ancora una volta dal soggetto primo, avremo innanzi rivolta la nostra attenzione alla vita medesima, volere o non voler la quale è la grande quistione. E ciò in maniera, da cercar di conoscere in generale, che cosa propriamente venga alla volontà medesima, la quale in tutto è di questa vita la più intima essenza, dalla propria affermazione, e come e fino a che punto tale affermazione l'appaghi, anzi possa appagarla; in breve, che cosa genericamente e sostanzialmente sia da considerare come suo stato in questo mondo che è suo, ed a lei sotto ogni rispetto appartiene.

In primo luogo desidero, che si richiami qui la considerazione con cui abbiamo chiuso il secondo libro, indottivi dalla domanda colà formulata, intorno alla meta e allo scopo della volontà. Invece di trovar risposta, ci risultò evidente che la volontà, in tutti i gradi del suo fenomeno, dai più bassi ai più alti, manca affatto d'un fine ultimo e d'uno scopo; continuamente aspira, perché aspirare è la sua unica essenza, a cui non pone termine alcun fine raggiunto; non è quindi capace d'alcun appagamento finale, e solo per una costrizione può esser trattenuta, ma in sé si estende nell'infinito. Questo vedemmo nel più semplice di tutti i fenomeni naturali, nella gravità, che non ha posa nel tendere e non cessa di premere verso un punto centrale senza estensione, il cui raggiungimento segnerebbe l'annientarsi di essa e della materia: non cessa, foss'anche l'universo tutto concentrato in una densa sfera. Questo vediamo ancora negli altri fenomeni semplici della natura: il solido tende, sia liquefacendosi o dissolvendosi, alla fluidità, dove tutte le sue forze chimiche diventano libere; mentre la solidità è come una loro prigione, in cui vengono chiuse dal freddo. Il liquido tende allo stato gassoso, nel quale tosto passa, non appena sia libero da ogni pressione. Nessun corpo è senza affinità, ossia senza un suo tendere; ovvero senza desiderio e bramosia, come direbbe Jakob Böhm. L'elettricità propaga nell'infinito la sua interna scissione, pur se la massa terrestre ne assorbe l'effetto. Il galvanismo è egualmente, finché la pila vive, un atto incessantemente senza scopo rinnovato di scissione e di riconciliazione. Appunto un consimile diuturno tendere, non mai soddisfatto, è la vita della pianta, un incessante svilupparsi, attraverso forme sempre più elevate, finché il punto ultimo, il seme, diventi alla sua volta principio. E questo si ripete all'infinito: mai un termine, mai definitivo appagamento, mai un riposo. In pari tempo rammenteremo, dal secondo libro, che ovunque le svariate forze naturali e forme organiche si contrastano la materia in cui vogliono spiccare, ciascuno possedendo solo quel che all'altro ha rapito; e così viene alimentato un perenne battagliar per la vita e la morte, dal quale appunto sgorga precipuamente la resistenza, che ognora tien frenata quell'aspirazione, ond'è costituita l'essenza più intima di tutte le cose. E questa preme invano, ma tuttavia non può venir meno alla propria natura, e si tormenta, fin quando il suo fenomeno perisce, mentre tosto altri ne afferrano avidi il posto e la materia.

Da tempo conoscemmo quest'aspirazione, costituente l'in-sé di ogni cosa, come identica e tutt'una con ciò che in noi, dov'essa si manifesta con la maggior chiarezza, alla luce della più piena conscienza, si chiama volontà. La sua compressione mediante un ostacolo, che si mette fra lei e una sua mira, chiamiamo quindi dolore; viceversa il suo conseguir la mira chiamiamo appagamento, benessere, felicità. Cotali denominazioni possiamo pur riferire ai fenomeni del mondo privo di conoscenza, più deboli di grado, ma nell'essenza identici. Questi vedremo allora presi da perenne soffrire, senza durabile felicità. Perché ogni aspirare proviene da mancanza, da insoddisfazione del proprio stato: è quindi dolore, finché non sia appagato; ma nessun appagamento è durevole, anzi non è che il principio di una nuova aspirazione. L'aspirazione vediamo ovunque in più forme compressa, diuturnamente pugnando; quindi sempre come dolore. Non ha termine l'aspirare, non ha dunque misura e termine il soffrire.

Ma quel che così sol con più acuta attenzione ed a fatica scopriamo nella natura priva di conoscenza, limpido ci appare nella conoscente, nella vita animale; il cui perenne soffrire è facile a dimostrarsi. E, senza indugiare in codesto grado intermedio, ci volgeremo là, dove, dalla più luminosa conoscenza rischiarato, tutto nel modo più chiaro si disvela: nella vita dell'uomo. Imperocché come il fenomeno della volontà diventa più compiuto, così diventa anche più e più palese il dolore. Nella pianta non è ancora sensibilità, e quindi punto dolore: un grado certamente tenue di sofferenza è insito negli animali infimi, infusori e radiari; perfino negl'insetti è la capacità di sentire e di soffrire ancor limitata: solo col perfetto sistema nervoso dei vertebrati la si presenta in alto grado, e sempre più alto, quanto più l'intelligenza si sviluppa. Nella stessa misura dunque, onde la conoscenza perviene alla chiarezza, e la conscienza si eleva, cresce anche il tormento, che raggiunge perciò il suo massimo grado nell'uomo; e anche qui tanto più, quanto più l'uomo distintamente conosce ed è più intelligente. Quegli, in cui vive il genio, soffre più di tutti. In questo senso, ossia rispetto alla conoscenza in genere, e non già al semplice sapere astratto, io intendo e adopro qui quel detto del Kohelet: Qui auget scientiam, auget et dolorem. Tal preciso rapporto tra il grado della conscienza e quel dolore ha oltremodo bellamente espresso in un disegno quel filosofo pittore, o dipingente filosofo, che fu Tischbein. La superior metà del suo foglio rappresenta donne, alle quali vengono rapiti i figli, e che in diversi gruppi e atteggiamenti manifestano il profondo materno dolore, angoscia, disperazione, variamente; l'inferior metà del foglio mostra, in affatto pari disposizione e aggruppamento, pecore, a cui si portano via gli agnellini: sì che a ogni umana testa, a ogni umano atteggiamento sulla metà superiore del foglio, corrisponde là sotto un'animalesca analogia. E quivi si vede chiaramente, come il dolore possibile all'ottusa conscienza animale si comporti di fronte al possente strazio, che solo fu reso possibile dalla limpidità del conoscere, dalla chiarità della conscienza.

Studieremo perciò nell'umana esistenza l'intimo ed essenziale destino della volontà. Ciascuno ritroverà facilmente nella vita dell'animale le stesse condizioni, soltanto più deboli, espresse in gradi diversi; e, guardando anche la sofferente animalità, avrà di che convincersi abbastanza che sostanzialmente ogni vita è dolore.

§ 57.

In ogni grado, che la conoscenza illumina, apparisce a sé la volontà come individuo. Nell'infinito spazio e infinito tempo vede l'umano individuo se stesso come finito, e per conseguenza, come una quantità evanescente di fronte a quelli, in essi gettata; e, per la loro sconfinatezza, ha sempre un relativo quando e dove della sua esistenza, non mai assoluto: perché il suo luogo e la sua durata sono parti finite di un infinito e di un illimitato. Il suo vero e proprio essere è soltanto nel presente, la cui non trattenuta fuga verso il passato è un perenne passar nella morte, un perenne morire; che la sua vita trascorsa, prescindendo dalle sue eventuali conseguenze nel presente, com'anche dalla testimonianza che dà della volontà di lui, la quale v'è dentro impressa, è già del tutto chiusa, morta, e ridotta a nulla: quindi ragion vuole che gli sia indifferente, se angosce o gioie fossero il contenuto del suo passato. Il presente sfugge ognora dalle sue mani diventando passato: l'avvenire è affatto incerto e sempre corto. È dunque la sua esistenza, anche se guardata soltanto sotto l'aspetto formale, un perenne precipitar del presente nel morto passato, un perenne morire. Ma ora guardiamola anche sotto l'aspetto fisico; è chiaro che, come il nostro camminare si sa essere nient'altro che un costantemente trattenuto cadere, così la vita del nostro corpo è un costantemente trattenuto morire, una morte sempre rinviata: e nello stesso modo, per concludere, l'attività del nostro spirito è un costante allontanare la noia. Ciascun respiro rimuove la morte ognora premente, con la quale noi veniamo così a combattere in tutti i minuti; come la combattiamo, a maggiori intervalli, con ciascun pasto, ciascun sonno, ciascun riscaldamento, e così via. Alla fine la morte deve vincere: perché a lei apparteniamo già pel fatto d'essere nati, ed ella non fa che giocare alcun tempo con la sua preda, prima d'inghiottirla. Frattanto continuiamo la nostra vita con grande interesse e gran cura, fin quando è possibile, come si gonfia più a lungo e più voluminosamente che si può una bolla di sapone, pur con la ferma certezza che scoppierà.

Già vedemmo la natura priva di conoscenza avere per suo intimo essere un continuo aspirare, senza meta e senza posa; ben più evidente ci apparisce quest'aspirazione considerando l'animale e l'uomo. Volere e aspirare è tutta l'essenza loro, affatto simile a inestinguibile sete. Ma la base d'ogni volere è bisogno, mancanza, ossia dolore, a cui l'uomo è vincolato dall'origine, per natura. Venendogli invece a mancare oggetti del desiderio, quando questo è tolto via da un troppo facile appagamento, tremendo vuoto e noia l'opprimono: cioè la sua natura e il suo essere medesimo gli diventano intollerabile peso. La sua vita oscilla quindi come un pendolo, di qua e di là, tra il dolore e la noia, che sono in realtà i suoi veri elementi costitutivi. Tal condizione s'è dovuta singolarmente esprimere anche col fatto, che quando l'uomo ebbe posti nell'inferno tutti i dolori e gli strazi, per il cielo non rimase disponibile se non appunto la noia.

Ma il permanente aspirare, ond'è costituita l'essenza d'ogni fenomeno della volontà, ha nei gradi superiori dell'oggettivazione il suo primo e più general fondamento, pel fatto che quivi la volontà a se stessa appare come un corpo vivo, con l'obbligo ferreo di nutrirlo: e ciò che dà impero a quest'obbligo, gli è appunto l'esser codesto corpo nient'altro se non la stessa oggettivata volontà di vivere. L'uomo, come la più compiuta oggettivazione di quella volontà, è per conseguenza anche il più bisognoso di tutti gli esseri: è in tutto e per tutto un volere, un abbisognare reso concreto, è il concremento di mille bisogni. Con questi egli sta sulla terra, abbandonato a se stesso, incerto di tutto fuor che della propria penuria e delle proprie necessità: l'ansia per la conservazione di quell'esistenza, fra tante sì gravi e ogni giorno rinnovantisi esigenze, riempie di regola l'intera vita umana. Vi si collega immediatamente la seconda imperiosa brama, quella di continuare la specie. In pari tempo minacciano l'uomo da ogni parte i più svariati pericoli, per isfuggire ai quali occorre permanente vigilanza. Con cauto passo, e ansiosamente spiando intorno, va egli per la sua via, perché mille accidenti e mille nemici lo insidiano. Così camminava nelle foreste, e così cammina nella vita civilizzata: non v'ha per lui sicurezza di sorta:

Qualibus in tenebris vitae, quantisque periclis
Degitur hocc'aevi, quodcunque est!

Lucr., II, 15.

La vita dei più non è che una diuturna battaglia per l'esistenza, con la certezza della sconfitta finale. Ma ciò che li fa perdurare in questa sì travagliata battaglia non è tanto l'amore della vita, quanto la paura della morte, la quale nondimeno sta inevitabile nello sfondo, e può a ogni minuto sopravvenire. La vita stessa è un mare pieno di scogli e di vortici, cui l'uomo cerca di sfuggire con la massima prudenza e cura; pur sapendo, che quand'anche gli riesca, con ogni sforzo e arte, di scamparne, perciò appunto si accosta con ogni suo passo, ed anzi vi drizza in linea retta il timone, al totale, inevitabile e irreparabile naufragio: alla morte. Questo è il termine ultimo del faticoso viaggio, e per lui peggiore di tutti gli scogli, ai quali è scampato.

Ma qui ci si presenta subito come molto notabile, che da un lato i dolori e strazi dell'esistenza possono facilmente accumularsi a tal segno che la morte stessa, nel fuggir la quale consiste l'intera vita, diviene desiderata, e spontaneamente le si corre incontro; dall'altro, che non appena miseria e dolore concedono all'uomo una tregua, la noia è subito vicino tanto, che quegli per necessità ha bisogno d'un passatempo. Quel che tutti i viventi occupa e tiene in molto, è la fatica per l'esistenza. Ma dell'esistenza, una volta che sia loro assicurata, non sanno che cosa fare: perciò il secondo impulso, che li fa muovere, è lo sforzo di alleggerirsi dal peso dell'essere, di renderlo insensibile, di «ammazzare il tempo», ossia di sfuggire alla noia. Quindi vediamo, che quasi tutti gli uomini al riparo dei bisogni e delle cure, quand'abbiano alla fine rimosso da sé tutti gli altri pesi, si trovano esser di peso a se stessi, e hanno per tanto di guadagnato ogni ora che passi, ossia ogni sottrazione fatta a quella vita appunto, per la cui conservazione il più possibile lunga avevano fino allora impiegate tutte le forze. E la noia è tutt'altro che un male di poco conto: che finisce con l'imprimere vera disperazione sul volto. Essa fa sì che esseri, i quali tanto poco s'amano a vicenda, come gli uomini, tuttavia si cerchino avidamente, e diviene in tal modo il principio della socievolezza. Anche contro di essa, come contro altre universali calamità, vengono prese pubbliche precauzioni, e già per ragion di stato; perché questo male, non meno del suo estremo opposto, la fame, può spingere gli uomini alle maggiori sfrenatezze: panem et circenses vuole il popolo. Il severo sistema penitenziario di Filadelfia fa strumento di punizione la semplice noia, per mezzo di solitudine e inazione: ed è sì terribile, che già ha condotto i reclusi al suicidio. Come il bisogno è il perpetuo flagello del popolo, così è flagello la noia per le classi elevate. Nella vita borghese è rappresentata dalla domenica, come il bisogno dai sei giorni di lavoro.

Tra il volere e il conseguire trascorre dunque intera ogni vita umana. Il desiderio è, per sua natura, dolore: il conseguimento genera tosto sazietà: la mèta era solo apparente: il possesso disperde l'attrazione: in nuova forma si ripresenta il desiderio, il dolore: altrimenti, segue monotonia, vuoto, noia, contro cui è la battaglia altrettanto tormentosa quanto contro il bisogno. Quando desiderio e appagamento si susseguono senza troppo brevi e senza troppo lunghi intervalli, n'è ridotto il soffrire, ch'entrambi producono, ai minimi termini, e se n'ha la più felice vita. Imperocché quel che fuori di ciò si potrebbe chiamar la parte più bella, la più pura gioia della vita, appunto perché ci solleva sull'esistenza reale e ci trasmuta in sereni spettatori di questa: ossia il puro conoscere, cui ogni volere è estraneo, il godimento del bello, il genuino piacere dell'arte, richiedendo attitudini già rare, è dato solo a pochissimi, ed anche a' pochissimi soltanto come un effimero sogno. E la più elevata forza intellettuale fa proprio costoro capaci di ben maggiori sofferenze, di quante non possano mai sentire i più ottusi, e inoltre solitarii li lascia tra esseri molto da loro diversi: sì che pur quel vantaggio si compensa. Ma alla più parte degli uomini sono le gioie puramente intellettuali inaccessibili; del piacere, che consiste nel puro conoscere, sono quasi affatto incapaci: in tutto sono confinati nel volere. Quindi, se cosa alcuna vuol destar la loro attenzione, esser per loro interessante, deve (e ciò è insito nel valore stesso della parola) stimolare in qualche modo la loro volontà, sia pur soltanto per un remoto e anche meramente possibile rapporto con lei; la volontà non può mai restare affatto fuori del gioco, perché l'esser loro sta di gran lunga più nel volere che nel conoscere: azione e reazione è il loro unico elemento. Le ingenue manifestazioni di questa lor natura si possono cogliere anche in piccolezze e in fatti ordinari: per esempio, scrivono nei luoghi notabili, che vanno a visitare, il loro nome, per così reagire, per agire sul luogo, poi che il luogo non ha agito su di loro; inoltre non sanno facilmente contentarsi di contemplare un esotico, raro animale, ma devono stuzzicarlo, provocarlo, scherzare con esso, per sentire nient'altro che azione e reazione. Quel bisogno d'eccitazione della volontà si mostra soprattutto nell'invenzione e nella pratica del giocare alle carte, che benissimo esprime l'aspetto lamentevole dell'umanità.

Ma per quanto la natura, per quanto la fortuna abbia operato; chiunque noi siamo, e qualunque cosa possediamo; il dolore ch'è essenza della vita non si lascia rimuovere:

Πηλειδης δ’ω̣μωξεν, ιδων ουρανον ευρον

(Pelides autem ejulavit, intuitus in coelum latum).

E ancora:

Ζηνος μεν παις ηα Κρονιονος, αυταρ οιζυν
Ειχον απειρεσιην

(Jovis quidem filius eram Saturni!, verum aerumnam
Habebam infinitam).

Gl'incessanti sforzi di bandire il dolore non servono che a mutarne l'aspetto. Questo è dapprima mancanza, bisogno, ansia per la conservazione della vita. Quando sia riuscito, il che è assai difficile, lo scacciare il dolore in questa sua forma, ecco che tosto si ripresenta in mille altre, variando secondo età e circostanze, come istinto sessuale, appassionato amore, gelosia, invidia, odio, paura, ambizione, avarizia, infermità, ecc. ecc. E se finalmente non riesca a trovar via in nessun'altra forma, viene sotto la malinconica, grigia veste del tedio e della noia, contro cui si tentano rimedii variati. Quando poi si pervenga da ultimo a discacciare anche quelli, sarà difficile che accada senza riaprir con ciò la via al dolore in una delle precedenti forme, e ricominciar così il ballo da principio; imperocché tra dolore e noia viene ogni vita umana di qua e di là rimbalzata. Per disanimante che sia questa considerazione, voglio tuttavia richiamare accessoriamente l'attenzione sopra un suo lato, dal quale si può attingere conforto, o anzi addirittura trarre forse una stoica indifferenza per il proprio male. Che la nostra intolleranza di esso procede massimamente dal fatto, che noi lo riteniamo venuto per caso, provocato da una catena di cause, la quale potrebbe agevolmente essere diversa. Per il male immediatamente necessario e affatto universale, come è per esempio la necessità della vecchiaia e della morte e di molti quotidiani disagi, non usiamo rattristarci. È piuttosto il considerar l'accidentalità delle circostanze, le quali ci produssero un dolore, che dà a questo il pungolo. Se invece abbiamo conosciuto, che il dolore come tale è inerente all'essenza della vita, od è inevitabile, ed unicamente la sua figura, la forma in cui si presenta, dipende dal caso; che insomma il nostro dolore attuale riempie uno spazio, nel quale, se quello non fosse, immediatamente un altro subentrerebbe, per ora impedito dal primo; che quindi, in sostanza, ben poco potere ha su noi il destino; allora potrebbe una cotal riflessione, facendosi persuasione vivente, portar seco un notevole grado di stoica imperturbabilità, e diminuir l'angosciosa inquietudine per il nostro bene. Ma in realtà una sì efficace signoria della ragione sopra il dolore direttamente sentito, la si trova di rado, o mai.

D'altronde codesta considerazione sull'inevitabilità del dolore, e sul fatto che un dolore scaccia l'altro, e che il dolore nuovo interviene con lo sparir dell'antico, potrebbe condurci alla paradossale, ma non stolta ipotesi, che in ciascun individuo la misura del dolore in lui sostanziale venga una volta per sempre determinata dalla sua natura: la qual misura né potrebbe rimaner vuota, né superata, per varia che fosse la forma del dolore. Il suo soffrire o godere non sarebbe quindi determinato punto dal di fuori, ma solo da quella misura, da quella disposizione, la quale bensì potrebbe, per lo stato fisico, aver qualche diminuzione o accrescimento secondo le epoche, ma in complesso resterebbe la medesima e non altro sarebbe, se non ciò che si chiama il temperamento dell'individuo, o, meglio, il grado in cui questi, secondo s'esprime Platone nel primo libro della Repubblica, è εΰκολος oppure δύσκολος, ossia d'animo leggero o grave. In favor di questa ipotesi non soltanto parla la ben nota esperienza, secondo cui i grandi dolori ci rendono affatto insensibili ai minori, e, viceversa, nella assenza di dolori grandi, anche le minime molestie ci tormentano e contristano; ma l'esperienza ci ammonisce ancora, che se una grande sventura, la quale ci faceva rabbrividire solo a pensarla, è effettivamente sopravvenuta, il nostro animo resta nondimeno, tosto superato il primo schianto, pressoché immutato; e così, all'opposto, dopo l'avvento d'una felicità a lungo sognata, non ci sentiamo in complesso e alla lunga notevolmente meglio e più soddisfatti di prima. Il momento solo in cui quelle mutazioni si presentano ci scuote con particolar forza, sia come profondo dolore, sia come alta gioia; ma questa e quello rapidamente svaniscono, perché si fondavano sopra un'illusione. Sorgono invero non già dall'immediatamente attuale godere o patire, ma dall'aprirci un nuovo avvenire, che viene in essi anticipato. Sol prendendo a prestito dall'avvenire hanno potuto essere sì anormalmente intensi: e quindi non durano. In favor dell'ipotesi formulata, per cui, come nel conoscere, così anche nel sentimento del soffrire o del godere una grandissima parte è soggettiva e determinata a priori, possono ancora essere addotte come prove le osservazioni, secondo le quali l'umana gaiezza, o tristezza, palesemente non da circostanze esteriori è determinata, da ricchezza o condizione sociale; poiché noi incontriamo altrettante facce liete tra' poveri, quanto tra' ricchi: e inoltre, i motivi pe' quali accadono i suicidii sono così profondamente diversi; non potendo noi indicare nessuna sventura grande abbastanza da dover provocare con molta verosimiglianza in ciascun carattere il suicidio, e poche tanto piccole, che nessun'altra di egual peso non l'abbia già altra volta provocato. Se dunque il grado della nostra letizia o malinconia non è tuttodì il medesimo, ciò attribuiremo, in virtù di quest'opinione, non al mutar delle circostanze esterne, ma a quello dello stato interno, delle condizioni fisiche. Che quando si produce una vera, se pur sempre temporanea, elevazione della nostra gaiezza, sia pur fino alla gioia, questo suol essere senz'alcuna ragione esteriore. Sì, sovente vediamo il nostro dolore provenir solo da un determinato fatto esterno, e solo da questo siamo visibilmente oppressi e turbati: allora crediamo che, se esso venisse meno, ne seguirebbe la massima contentezza. Ma è un'illusione. La misura del nostro dolore e benessere è in complesso, secondo la nostra ipotesi, determinata soggettivamente per ogni istante, e in rapporto ad essa è ogni esterna cagione di turbamento appena ciò ch'è pel corpo un vescicante, verso il quale traggono tutti gli umori cattivi, che altrimenti restan dispersi pel corpo. Il dolore nel nostro essere, prodotto da un dato motivo per questo spazio di tempo, e quindi non rimovibile, sarebbe senza quella determinata causa esteriore di sofferenza distribuito in cento punti, e comparirebbe in forma di cento piccole molestie e fastidi a proposito di cose, che invece allora trascuriamo del tutto, perché la nostra capacità di soffrire è già riempita da quella pena centrale, che tutta la sofferenza altrimenti dispersa ha concentrata in un punto. A ciò corrisponde anche l'osservazione, che se alla fine una grande, conturbante angoscia ci vien tolta dal petto mediante un esito felice, tosto subentra un'altra al suo posto, la cui materia già c'era tutta, ma non poteva entrar come angoscia nella conscienza, perché questa non aveva capacità disponibile per lei, sì che quella materia d'angoscia rimaneva appena come oscura, inosservata parvenza nebbiosa all'estremo limite del suo orizzonte. Ma tosto che lo spazio è libero, ecco questa materia pronta farsi subito innanzi, e occupare il trono della dominante (πρυτανευουσα) angoscia del momento: pur se, nella sua sostanza, è molto più leggera che la materia di quell'angoscia svanita; nondimeno sa tanto gonfiarsi, da farlesi eguale in apparente grandezza, e in tal modo, come precipua angoscia del momento, rimpie appieno il trono.

Smisurata gioia e molto vivo dolore si ritrovano sempre soltanto nella stessa persona: imperocché l'una è condizione dell'altro, ed entrambi poi han per condizione una vivacità grande dello spirito. Entrambi sono prodotti, come or ora vedemmo, non dal puro presente, ma da anticipazione dell'avvenire. Ed essendo il dolore alla vita essenziale, ed anche, nel suo grado, determinato dalla natura del soggetto, sì che subitanee modificazioni non possono, essendo sempre esteriori, mutare veramente quel grado; ne viene, che all'eccessivo giubilo o dolore sempre è base un errore e vaneggiamento: onde quelle due sovreccitazioni dell'animo si potrebbero evitar con l'intendimento. Ogni immoderato giubilo (exultatio, insolens laetitia) poggia sempre sull'illusione d'aver trovato alcunché nella vita, che non vi si può punto trovare, ossia durevole riposo dei torturanti, ognora rinascenti desideri o affanni. Da ogni singola illusione di tal fatta bisogna più tardi inevitabilmente far ritorno, e poi, quando scompare, pagarla con dolori altrettanto amari, per quanto gioia aveva recato il suo apparire. Somiglia sotto questo rispetto interamente ad un'altura, dalla quale si possa venir giù solo cadendo; perciò la si dovrebbe evitare: ed ogni improvviso, immoderato dolore è proprio nient'altro che la caduta da una cotale altezza, lo svanire d'una tale illusione: e quindi questa è condizione di quello. Si potrebbero perciò evitare entrambi, qualora si avesse sopra di sé il potere di veder con tutta chiarezza le cose, sempre nel loro complesso e nella lor connessione, e fermamente guardarsi dall'attribuir loro in effetti il colore, che si vorrebbe avessero. L'etica stoica mirava soprattutto a liberar l'animo da tutta codesta illusione e dalle sue conseguenze, e dargli invece incrollabile imperturbabilità. Di quest'intendimento è pieno Orazio, nella celebre ode:

Aequam memento rebus in arduis

Servare mentem, non secus in bonis

Ab insolenti temperatam

Laetitia.

Ma il più delle volte vogliamo sottrarci alla conoscenza, simile ad amara medicina, che il dolore è essenziale alla vita, e quindi non dal di fuori fluisce in noi: bensì ciascuno ne porta nel suo proprio interno l'inesauribile sorgente. Noi cerchiamo piuttosto ognora una singola causa esterna, quasi un pretesto, al dolore che mai da noi si rimuove; come l'uomo libero si forma un idolo, per avere un signore. Imperocché infaticabilmente andiamo di desiderio in desiderio, e sebbene ogni soddisfazione raggiunta, per quanto ci promettesse, tuttavia non ci appaga, anzi il più sovente non tarda a mostrarci come un mortificante errore, non vediamo, ciò malgrado, che attingiamo con la botte delle Danaidi, e invece corriamo incontro a desiderii sempre nuovi:

Sed, dum abest quod avemus, id exsuperare videtur
Caetera; post aliud, quum contigit illud, avemus;
Et sitis aequa tenet vitai semper hiantes.

Lucr., III, 1095

E così o continua all'infinito, oppure, il che è più raro, e presuppone già una certa forza di carattere, continua fin quando capitiamo in un desiderio, che non può essere appagato, ed a cui tuttavia non si rinunzia: allora gli è come se avessimo quel che cercavamo, cioè qualcosa che in ogni istante possiamo accusar come sorgente dei nostri mali, invece d'accusarne la nostra propria natura, e per cui noi, in dissidio col nostro destino, veniamo in compenso riconciliati con la nostra esistenza, allontanandosi di nuovo la cognizione, che a codesta esistenza sia essenziale il dolore, e impossibile un vero appagamento. La conseguenza di quest'ultima maniera di sviluppo è una cotal disposizione malinconica, il perpetuo portar con sé un unico, grande dolore, e il derivantene disdegno di tutti i minori dolori o godimenti; quindi una condizione già più degna, che non sia il continuo correre in caccia di sempre nuovi fantasmi, il che è molto più comune.

§ 58.

Qualsiasi soddisfacimento, o ciò che in genere suol chiamarsi felicità, è propriamente e sostanzialmente sempre negativo, e mai positivo. Non è una sensazione di gioia spontanea, e di per sé entrata in noi, ma sempre bisogna che sia l'appagamento d'un desiderio. Imperocché desiderio, ossia mancanza, è la condizione preliminare d'ogni piacere. Ma con l'appagamento cessa il desiderio, e quindi anche il piacere. Quindi l'appagamento o la gioia non può essere altro se non la liberazione da un dolore, da un bisogno: e con ciò s'intende non solo ogni vero, aperto soffrire, ma anche ogni desiderio, la cui importunità disturbi la nostra calma, e perfino la mortale noia, che a noi rende un peso l'esistenza. Ora, è difficilissimo raggiungere e menare a compimento alcunché: a ogni nostro proposito contrastano difficoltà e fatiche senza fine, e a ogni passo si accumulano gli ostacoli. Quando poi finalmente tutto è superato e raggiunto, nient'altro ci si può guadagnare, se non d'essere liberati da una sofferenza, o da un desiderio: quindi ci si trova come prima del loro inizio, e non meglio. Direttamente dato è a noi sempre il solo bisogno, ossia il dolore. Invece l'appagamento e il piacere non li possiamo conoscere che mediatamente, per ricordar la passata sofferenza e privazione, venuta meno all'apparire di quelli. Da ciò proviene, che dei beni e vantaggi, che possediamo in effetti, non siamo punto ben persuasi, né li apprezziamo, bensì ci sembra naturale l'averli; che essi ci letiziano solo indirettamente, con l'impedir sofferenze. Bisogna averli perduti, per sentirne il pregio: perché il bisogno, la privazione, il soffrire è la sensazione positiva, che si manifesta direttamente. Perciò anche ci rallegra il ricordo di angustia, malattia, bisogni superati, che tal ricordo è l'unico mezzo per godere dei beni presenti. Nemmeno è da negare, che sotto questo rispetto e dal punto di vista dell'egoismo, il quale è la forma della volontà di vivere, lo spettacolo o la descrizione di mali altrui ci dà soddisfazione e piacere appunto per quella via, secondo esprime in bel modo e sincero Lucrezio, al principio del secondo libro:

Soave, mari magno, turbantibus æquora ventis,
E terra magnum alterius spectare laborem:
Non, quia vexari quemquam est jucunda voluptas;
Sed, quibus ipse malis careas, quia cernere suave est.

Tuttavia ci si mostrerà in seguito, che questa maniera di gioia, proveniente da siffatta mediata conoscenza del nostro benessere, sta molto vicina alla sorgente della vera e propria malvagità positiva.

Che ogni felicità sia di natura soltanto negativa, e non positiva; che non possa quindi esser mai durevole appagamento o letificazione, ma sia sempre nient'altro che liberazione da un dolore o bisogno, al quale o un nuovo dolore oppur languore, vuota nostalgia e noia deve seguire; è provato anche in quel fedele specchio dell'essenza del mondo e della vita, che è l'arte, e soprattutto nella poesia. Che ogni poesia epica o drammatica ha soltanto capacità di rappresentare uno sforzo, un'aspirazione attiva, una lotta per la conquista della felicità, e non mai la felicità stessa durevole e compiuta. Conduce il suo eroe attraverso mille traversie e pericoli fino alla mèta: appena questa è raggiunta, lascia tosto cadere il sipario. Che altro non le resterebbe, se non mostrare che la luminosa mèta, in cui l'eroe sognava di trovare la felicità, era una beffa; e quando l'ha toccata, egli non si trova meglio di prima. Poiché una vera, durevole felicità non è possibile, non può nemmeno essere oggetto dell'arte. È vero, che l'idillio precisamente si propone di rappresentarla: ma si vede, appunto, che l'idillio come tale non si può reggere. Sempre, nelle mani del poeta, o diventa epico, ed è allora semplicemente un epos di poco rilievo, intessuto di piccoli dolori, piccole gioie, e piccoli sforzi: e questo è il caso più frequente; o si riduce a poesia descrittiva, descrive la bellezza della natura, cioè propriamente il puro conoscere fuor della volontà, che invero è in effetti il solo bene reale, cui né sofferenza né bisogno precede, né rimorso, né dolore, né vuoto, né tedio necessariamente segue. Ma un tal bene non può riempir tutta la vita, bensì appena qualche istante. Quel che vediamo nella poesia, ritroviamo nella musica, nella cui melodia già riconoscemmo, genericamente espressa, la più intima storia della volontà resa consapevole di sé, la più segreta vita, aspirazione, sofferenza, gioia, il flusso e riflusso dell'umano cuore. La melodia è sempre una deviazione dal tono fondamentale, con mille strani andirivieni, fino alla più dolorosa dissonanza, indi ritorna da ultimo al tono fondamentale, che esprime l'appagamento e il rasserenarsi della volontà, ma col quale non c'è più in seguito altro da fare, e prolungato a lungo genererebbe solo una pesante e inespressiva monotonia, analoga alla noia.

Tutto quanto dovevano chiarire queste considerazioni, l'irraggiungibilità di durevole soddisfazione e il valore negativo d'ogni felicità, trova spiegazione in ciò ch'è mostrato alla fine del secondo libro; che cioè la volontà, di cui è oggettivazione la vita umana come ogni fenomeno, è un aspirar senza mèta e senza fine. L'impronta di questa infinità troviamo stampata anche in tutte le parti del suo intero fenomeno, dalla forma più generale di questo, spazio e tempo senza fine, al più perfetto di tutti i fenomeni, alla vita e all'ansia degli uomini. Si possono teoricamente ammettere tre estremi della vita umana, e considerarli come elementi della vita realmente umana. In primo luogo, il poderoso volere, le grandi passioni (Ragia-Cuna). Apparisce nei grandi caratteri storici; è rappresentato nell'epos e nel dramma: ma può mostrarsi anche in una piccola sfera, perché la grandezza degli oggetti si misura qui solo secondo il grado, in cui quelli muovono la volontà, e non secondo i loro rapporti esterni. Indi, in secondo luogo, il puro conoscere, il percepir le idee, che ha per condizione una conoscenza emancipata dal servigio della volontà: la vita del genio (Sattva-Guna). Finalmente, in terzo luogo, la massima letargia della volontà, e quindi della conoscenza che ne dipende: vuota aspirazione, paralizzante noia (Tama-Guna). La vita individuale, lungi dal permanere in uno di codesti estremi, appena raramente li tocca, ed il più spesso non è che fiacco e vacillante appressarsi ora a questa ora a quella parte, un povero volere oggetti meschini, che ognora si rinnova e così ci sottrae alla noia. È davvero incredibile, come insignificante e priva di senso, vista dal di fuori, e come opaca e irriflessiva, sentita dal di dentro, trascorra la vita di quasi tutta l'umanità. È un languido aspirare e soffrire, un sognante traballare attraverso le quattro età della vita fino alla morte, con accompagnamento d'una fila di pensieri triviali. Gli uomini somigliano a orologi, che vengono caricati e camminano, senza sapere il perché; ed ogni volta, che un uomo viene generato e partorito, è l'orologio della vita umana di nuovo caricato, per ancora una volta ripetere, frase per frase, battuta per battuta, con variazioni insignificanti, la stessa musica già infinite volte suonata. Ciascun individuo, ciascun volto umano e ciascuna vita non è che un nuovo breve sogno dell'infinito spirito naturale, della permanente volontà di vivere; non è che una nuova immagine fuggitiva, che la volontà traccia per gioco sul foglio infinito dello spazio e del tempo, lasciandola durare un attimo appena percettibile di fronte all'immensità di quelli, e poi cancellandola, per dar luogo ad altre. Nondimeno, e in ciò è l'aspetto grave della vita, ognuna di tali immagini fugaci, ognuno di tali insipidi capricci dev'essere pagato dalla intera volontà di vivere, in tutta la sua violenza, con molti e profondi dolori, e in ultimo con un'amara morte, a lungo temuta, finalmente venuta. Per questo ci fa così subitamente malinconici la vista d'un cadavere.

La vita d'ogni singolo, se la si guarda nel suo complesso, rilevandone solo i tratti significanti, è sempre invero una tragedia; ma, esaminata nei particolari, ha il carattere della commedia. Imperocché l'agitazione e il tormento della giornata, l'incessante ironia dell'attimo, il volere e il temere della settimana, gli accidenti sgradevoli d'ogni ora, per virtù del caso ognora intento a brutti tiri, sono vere scene di commedia. Ma i desideri sempre inappagati, il vano aspirare, le speranze calpestate senza pietà dal destino, i funesti errori di tutta la vita, con accrescimento di dolore e con morte alla fine, costituiscono ognora una tragedia. Così, quasi il destino avesse voluto aggiungere lo scherno al travaglio della nostra esistenza, deve la vita nostra contenere tutti i mali della tragedia, mentre noi non riusciamo neppure a conservar la gravità di personaggi tragici, e siamo invece inevitabilmente, nei molti casi particolari della vita, goffi tipi da commedia.

Ma per quanto i grossi e piccoli tormenti riempiano ogni vita umana, tenendola in perenne inquietudine e moto, non possono tuttavia coprir l'insufficienza della vita rispetto alla soddisfazione dello spirito, e il vuoto e l'insulsaggine dell'esistenza, né bandire la noia, ch'è sempre pronta a empire ogni pausa lasciata dall'angoscia. Di là è venuto, che lo spirito umano, non ancora contento delle angosce, amarezze e occupazioni impostegli dal mondo reale, si crea per di più, in forma di mille variate superstizioni, un mondo immaginario, col quale si affatica in tutti i modi, dissipandovi e tempo e forze, non appena il mondo reale gli lasci un riposo ch'egli non sa gustare. Codesto è anche spessissimo, in origine, il caso di quei popoli, cui la dolcezza del clima e del suolo fa agevole la vita; soprattutto degli Indù, e poi dei Greci, dei Romani, e più tardi degl'Italiani, Spagnuoli e così via. Demoni, Dei e santi si crea l'uomo a propria immagine; a essi devono incessantemente venire tributati sacrifizi, preci, adornamento di templi, voti e conseguenti offerte, pellegrinaggi, saluti, addobbo delle loro immagini, etc. Il loro culto s'intreccia dappertutto con la realtà, anzi l'oscura: ogni avvenimento della vita vien preso allora come un effetto dell'azione di quegli esseri: i rapporti con loro riempiono metà della vita, alimentano diuturnamente la speranza e diventano spesso, pel fascino dell'illusione, più interessanti dei rapporti con la vita reale. Sono l'espressione e il sintomo del doppio bisogno, che spinge l'uomo da una parte verso aiuto e sostegno, dall'altra verso occupazione e passatempo: e quand'anche operino spesso all'opposto contro il primo di codesti bisogni, facendo sì che, in caso di sventure e pericoli, vengano e tempo prezioso e forze non già usati a difendersene, bensì vanamente sciupati in preghiere e sacrifizi, appunto per questo servono ancor meglio al secondo bisogno, mediante quella fantastica comunicazione con un sognato mondo di spiriti. E questo è il frutto, tutt'altro che disprezzabile, d'ogni superstizione.

§ 59.

Siamo ormai persuasi a priori, per le generalissime considerazioni fatte, per avere investigato i primi fondamenti elementari della vita umana, che questa già per sua generica disposizione è incapace d'ogni vera felicità, anzi è essenzialmente un dolore in molteplici forme, e uno stato al tutto infelice. Potremmo adesso suscitare questa persuasione molto più vivacemente in noi, se, procedendo più a posteriori, venissimo a esaminare casi meglio determinati, presentassimo immagini alla fantasia, e volessimo con esempi raffigurare il martirio senza nome, che esperienza e storia ci offrono, da qualunque parte si guardi, e sotto qualsivoglia aspetto s'investighi. Ma il capitolo non avrebbe mai fine, e ci allontanerebbe dal punto di vista della generalità, che è essenziale alla filosofia. Inoltre una cotale analisi potrebb'esser forse tenuta per semplice declamazione sull'umana miseria, come se ne son fatte tante, e come tale accusata d'essere unilaterale, perché procederebbe da fatti singoli. Da codesto rimprovero e sospetto va perciò esente la nostra affatto fredda e filosofica dimostrazione, procedente dall'universale, e condotta a priori, dell'inevitabile dolore radicato nell'essenza della vita. La conferma a posteriori è facile averla dovunque. Ciascuno, che si sia svegliato dai primi sogni di giovinezza, e abbia osservato la propria e l'altrui esperienza, e guardato intorno nella vita, nella storia del passato e del tempo suo, come infine nelle opere dei grandi poeti, troverà per risultanza, quando un pregiudizio incancellabilmente impresso non paralizzi il suo giudizio, che quest'umano mondo è il regno del caso e dell'errore, i quali senza pietà vi imperano, nelle grandi come nelle piccole cose; e accanto a quelli agitano inoltre follia e malvagità la sferza. Di là deriva, che ogni cosa buona si faccia strada solo a fatica, e alcunché di nobile e di saggio ben raramente venga alla luce, raggiungendo efficacia o attenzione; mentre l'assurdo e lo stolto nel dominio del pensiero, il triviale e lo scipito nel dominio dell'arte, il malvagio e l'insidioso nel dominio delle azioni, soli tengono il campo, appena turbati da brevi interruzioni. E viceversa l'eccellenza in ogni genere è sempre un'eccezione, un caso tra milioni; sì che, quando s'è manifestata in un'opera durevole, questa, dopo esser sopravvissuta al rancore dei suoi contemporanei, rimane isolata, e la si conserva come un aerolite, caduto da un ordine di cose diverso da quello che qui regna. Per ciò che tocca poi la vita individuale, ogni storia di vita è una storia di dolore; che ogni corso vitale è, di regola, una prolungata serie di grandi e piccole sventure, che ciascuno cela del suo meglio, perché sa come altri raramente ne proverebbero simpatia o compassione, bensì quasi sempre soddisfazione, vedendo un'immagine delle pene da cui sono essi in quel momento immuni. E forse non si darà mai il caso che un uomo, al termine della sua vita, se capace di riflessione e in pari tempo sincero, desideri di ricominciarla; ma invece ben più volentieri sceglierà il completo non essere. Il contenuto essenziale del celeberrimo monologo nell'Amleto è, ridotto in breve, questo: il nostro stato è così miserabile, che un completo non essere dovrebbe senz'altro essergli preferito. Ora, se il suicidio ci portasse veramente al non essere, sì che l'alternativa «essere o non essere» ci stesse innanzi nel pieno significato della parola, sarebbe assolutamente da scegliere, come una desiderabilissima conclusione (a consummation devoutly to be wish'd). Ma in noi è qualcosa, che ci dice, non stare il fatto così; tutto non sarebbe finito, la morte non è un assoluto annientamento. Corrisponde a ciò quanto attesta il padre della storia44, né mai fu contraddetto da allora, non essere esistito uomo alcuno, il quale più d'una volta non abbia desiderato di non vedere il dì seguente. Quindi la brevità della vita, tanto spesso lamentata, potrebbe forse essere quel che la vita ha di meglio. Se finalmente a ciascuno si volessero porre sottocchio gli orrendi dolori e strazi, a cui è la sua vita perennemente esposta, lo coglierebbe raccapriccio: e se si conducesse il più ostinato ottimista attraverso gli ospedali, i lazzaretti, le camere di martirio chirurgiche, attraverso le prigioni, le stanze di tortura, i recinti degli schiavi, pei campi di battaglia e i tribunali, aprendogli poi tutti i sinistri covi della miseria, ove ci si appiatta per nascondersi agli sguardi della fredda curiosità, e da ultimo facendogli ficcar l'occhio nella torre della fame di Ugolino, certamente finirebbe anch'egli con l'intendere di qual sorte sia questo meilleur des mondes possibles. Donde ha preso Dante la materia del suo Inferno, se non da questo nostro mondo reale? E nondimeno n'è venuto un inferno bell'e buono. Quando invece gli toccò di descrivere il cielo e le sue gioie, si trovò davanti a una difficoltà insuperabile: appunto perché il nostro mondo non offre materiale per un'impresa siffatta. Perciò non gli rimase se non trasmetterci, in luogo delle gioie paradisiache, gli ammaestramenti, che a lui furono colà impartiti dal suo antenato, dalla sua Beatrice, e da differenti santi. Da ciò apparisce abbastanza chiaro, di qual natura sia questo mondo. È vero bensì che nella vita umana, come in ogni cattiva mercanzia, il lato esterno è mascherato con falso splendore: sempre si cela ciò che soffre; mentre quanto può ciascuno procacciarsi di pompa e di lustro porta in evidenza, e quanto più interna contentezza gli manca, tanto più desidera nell'opinione altrui passare per felice. A tanto giunge la stoltezza: e l'opinione altrui è una mira essenziale per le fatiche di tutti, sebbene la sua completa insignificanza sia già di per sé espressa dal fatto che in quasi tutte le lingue la parola vanità, vanitas, significa in origine il vuoto e il nulla. Ma anche sotto codesto orpello possono gli affanni della vita crescere in tal modo (e ciò accade tutti i giorni), che la morte, d'ordinario temuta soprattutto, viene ghermita con avidità. O addirittura, se il destino vuol mostrare tutta la sua malizia, anche quel rifugio può esser chiuso a chi soffre; e questi, nelle mani di nemici infelloniti, rimanere esposto a lunghi, lenti martiri senza scampo. Invano il tormentato chiede allora aiuto a' suoi Dei: rimane implacabilmente in preda al suo destino. Ma codesta impossibilità di scampo è appunto lo specchio dell'indomabilità del suo volere, di cui è oggettità la sua persona. Come non può una forza esterna mutare o sopprimere questo volere, così non può alcuna forza estranea liberarlo dai tormenti, che produce la vita, la quale è fenomeno di quel volere. Sempre l'uomo è ridotto a contar su se stesso, e in ogni cosa e nella sostanza delle cose. Invano si forma Dei, per mendicare e carpire con adulazioni ciò che solo può dargli la sua forza di volontà. Se il Vecchio Testamento aveva fatto del mondo e dell'uomo l'opera d'un Dio, si vide il Nuovo Testamento costretto, per insegnar che salvezza e redenzione dal dolore di questo mondo può solo dal mondo stesso partire, a far di quel Dio un uomo. La volontà dell'uomo è, e rimane, ciò da cui tutto per l'uomo dipende. Saniassi, martiri, santi d'ogni fede e nome, hanno spontaneamente e volentieri sofferti quei martiri, perché era in loro soppressa la volontà di vivere; fin la lenta distruzione del suo fenomeno fu quindi a loro gradita. Ma non voglio anticipare il discorso che dovrà venire in seguito. Non posso però tenermi dal dichiarare, che a me l'ottimismo, quando non sia per avventura il vuoto cianciar di cotali sotto la cui piatta fronte non altro alberga se non parole, sembra non pure un pensare assurdo, ma anche iniquo davvero, un amaro scherno dei mali senza nome patiti dall'umanità. Né si pensi, poi, che la fede cristiana sia favorevole all'ottimismo; che per contro negli Evangeli le parole mondo e male sono usate quasi come sinonimi45.

§ 60.

Or che abbiamo terminate entrambe le spiegazioni, ch'era necessario intercalare, intorno alla libertà della volontà in sé, insieme con la necessità del suo fenomeno, e intorno alla sorte di lei nel mondo, che ne rispecchia l'essenza (mondo nella cognizion del quale ella deve affermarsi o negarsi); or possiamo portare a maggior chiarezza quest'affermazione o negazione, che più indietro esaminammo e spiegammo sol genericamente, con l'esporre le maniere di condotta, in cui quelle trovano la loro espressione, e considerarle nel loro intimo significato.

L'affermazione della volontà è il volere stesso permanente, non turbato da nessuna conoscenza, qual suol riempire la vita dell'uomo in generale. Essendo già il corpo dell'uomo l'oggettità della volontà, quale questa appare in un dato grado e in un dato individuo; così il suo volere svolgentesi nel tempo è quasi la parafrasi del corpo, il commento che illustra il senso del tutto e delle sue parti; è un altro modo di presentarsi della stessa cosa in sé, di cui è già fenomeno anche il corpo. Potremmo quindi, invece che affermazione della volontà, dire affermazione del corpo. Il tema fondamentale di tutti gli svariati atti di volontà è il soddisfacimento dei bisogni, che dall'esistenza corporale nella sua salute sono inseparabili, e già nel corpo hanno la loro espressione e si riducono alla conservazione dell'individuo, alla continuazione della specie. Ma mediatamente, per questo mezzo, i più molteplici motivi acquistano impero sulla volontà, e producono i più diversi atti di volontà. Ognuno di questi è solo un saggio, un esempio, della volontà generica qui manifestantesi: di qual natura sia tal saggio, qual parvenza abbia il motivo e quale comunichi ad esso, non è distinzione essenziale; essenziale è soltanto, che alcunché si voglia, e l'intensità del volere. La volontà può diventar visibile solo in relazione coi motivi, come l'occhio soltanto nella luce mostra la sua forza visiva. Il motivo sta davanti alla volontà come un multiforme Proteo: promette ognora piena soddisfazione, estinzione della sete della volontà; ma una volta raggiunto, eccolo tosto riapparire in altra forma, ed in essa eccitar daccapo la volontà, sempre secondo il grado di vivezza che questa possiede, e la sua relazione con la conoscenza; grado e relazione, che appunto mediante codesti saggi ed esempii diventano palesi come carattere empirico.

Fin dall'inizio della sua conscienza, l'uomo si trova in atto di volere, e la sua conoscenza rimane di regola in costante relazione con la sua volontà. Egli cerca dapprima di conoscere appieno gli oggetti del volere, quindi i mezzi per raggiungerli. Fatto questo, sa quel che gli tocca di fare, e d'ordinario non tende ad altro sapere. Attivamente agisce: la conscienza di lavorar sempre per lo scopo della sua volontà lo regge e mantiene operoso: il suo pensiero va soltanto alla scelta dei mezzi. Tale è la vita di quasi tutti gli uomini: vogliono, sanno ciò che vogliono, vi tendono con tanto successo, quanto basta a proteggerli dalla disperazione, e con tanto insuccesso, quanto occorre a proteggerli dalla noia e dalle sue conseguenze. Di là viene una certa letizia, o almeno tranquillità, a cui né ricchezza né povertà nulla propriamente tolgono: che il ricco e il povero godono non ciò ch'essi hanno, che, come s'è mostrato, agisce sol negativamente; ma ciò che con la loro attività sperano di conseguire. Vanno innanzi dandosi da fare, con molta gravità, e anzi con aria d'importanza: non altrimenti fanno i loro giuochi i ragazzi. È sempre un'eccezione, quando il corso d'una tal vita è deviato per effetto d'un conoscere indipendente dal servigio della volontà, e rivolto all'essenza del mondo in genere: sia che se ne produca il bisogno estetico della contemplazione, o il bisogno morale della rinunzia. I più incalza attraverso l'esistenza il travaglio, senza lasciare loro tempo a riflessione. Sovente, all'opposto, la volontà s'infiamma ad un grado, che di gran lunga trascende l'affermazione del corpo: grado che poi vivaci slanci e poderose passioni rivelano, nelle quali l'individuo non pure afferma il suo proprio essere, ma quel degli altri nega, e cerca di sopprimere, dove gl'intralcia la via.

La conservazione del corpo mediante le sue stesse forze è un così minimo grado dell'affermazione della volontà, che se ci si fermasse volontariamente a questo, noi potremmo ritener cessata, con la morte del corpo, anche la volontà che in esso si manifestava. Ma già la soddisfazione dell'istinto sessuale va oltre l'affermazione della nostra esistenza, la quale empie un sì breve spazio di tempo, e afferma la vita oltre la morte individuale, per un tempo indefinito. La natura, sempre vera e conseguente, e in questo punto addirittura ingenua, ci disvela apertamente l'intimo significato dell'atto generativo. La nostra conscienza, la vivacità dell'istinto, c'insegna che in codesto atto s'esprime la più risoluta affermazione della volontà di vivere, pura e senza ulteriore aggiunta (come per avventura sarebbe la negazione d'altri individui); e così nel tempo e nella serie causale, ossia nella natura, appare quale effetto dell'atto una nuova vita: di contro al generatore viene a porsi il generato, diverso da quello nel fenomeno, ma in sé, nell'idea, identico ad esso. È quindi per codesto atto, che le generazioni dei viventi si collegano l'una con l'altra in un tutto, e si perpetuano. La generazione è, per ciò che tocca il generante, semplice espressione e simbolo della sua risoluta affermazione della volontà di vivere; per ciò che tocca invece il generato, essa non è punto la cagione della volontà che in lui si manifesta, non conoscendo la volontà in sé né vera causa sostanziale, né effetto; bensì è, come ogni causa, soltanto l'occasione pel manifestarsi di codesta volontà in un dato tempo e in un dato luogo. In quanto cosa in sé, non è la volontà del generante diversa da quella del generato: che unicamente il fenomeno, e non la cosa in sé, è soggetto al principio individuationis. Con quell'affermazione che va oltre il nostro corpo, fino alla produzione fenomenica di un corpo nuovo, sono anche dolore e morte, in quanto appartenenti al fenomeno della vita, novellamente affermati; e la possibilità della redenzione, che può venir da una più perfetta capacità di conoscere, è in tal caso proclamata infeconda. Qui sta la profonda ragione della vergogna onde si cela il traffico generativo. Questo concetto è rappresentato miticamente nel dogma della dottrina cristiana, secondo il quale noi tutti siamo partecipi del peccato di Adamo (che evidentemente non era se non la soddisfazione della voglia sessuale), e per esso andiamo soggetti a soffrire e morire. Con ciò quella dottrina va oltre il modo di vedere fondato sul principio di ragione, e penetra l'idea dell'uomo; l'unità della quale viene ricostituita dal suo frazionamento negl'innumerevoli individui, mediante il vincolo della generazione che tutti li riunisce. Vede così da un lato ogni individuo come identico ad Adamo, al rappresentante dell'affermazione della vita, e in questa qualità destinato al peccato (peccato originale), al dolore, e alla morte: dall'altro lato, la conoscenza dell'idea le fa apparire ogni uomo come identico al Redentore, a quegli che rappresenta la negazione della volontà di vivere, e sotto questo rispetto partecipe del sacrificio di Lui, per merito di Lui redento, e salvato dai vincoli del peccato e della morte, ossia del mondo (Epist. ai Romani, 5, 12-21).

Un'altra mitica rappresentazione del nostro concetto intorno all'appagamento sessuale, visto come affermazione della volontà di vivere di là dalla vita individuale, come un lasciarsi cader preda della vita con quell'atto, o quasi come un rinnovato impegno verso la vita stessa, è il mito greco di Proserpina; alla quale era ancor possibile il ritorno dal mondo sotterraneo, fintanto che ella non ne avesse gustati i frutti: ma che a quel mondo appartenne intera, non appena ebbe gustata la melagrana. Dall'incomparabile narrazione, che Goethe fa di questo mito, ne risulta ben chiaro il significato, soprattutto quando, immediatamente dopo l'assaggio della melagrana, improvviso irrompe l'invisibile coro delle Parche:

Tu sei nostra!

Digiuna dovevi ritornare:

Ed il morso nel pomo ti fa nostra46.

È notevole che Clemente Alessandrino (Strom., ni, e. 15) esprima la cosa con la stessa immagine e gli stessi termini: Οί μεν ευνουχισαντες ὲαυτους απο πασης αμαρτιας, δια την βασιλειαν των ουρανων, μακαριοι ούτοι εισιν, οι̃ του κοσμου νηστευοντες (Qui se castrarunt ab omni peccato, propter regnum coelorum, ii sunt beati, a mundo jejunantes).

L'istinto sessuale si conferma essere la risoluta, la più forte affermazione della vita, anche pel fatto che per l'uomo naturale, come per l'animale, esso è il fine ultimo, il supremo scopo della vita sua. Sua prima aspirazione è conservar se stesso: e non appena v'ha provveduto, non tende più ad altro che alla continuazione della specie: più in là di questo non può, in quanto semplice essere naturale, aspirare. Anche la natura, la cui essenza intima è appunto la volontà di vivere, trascina con ogni sua possa l'uomo, come l'animale, alla continuazione della specie. Ella ha con ciò raggiunto lo scopo, a cui l'individuo poteva servirle, ed è oramai affatto indifferente al suo perire; che a lei, come alla volontà di vivere, soltanto la conservazione della specie importa, e l'individuo è un nulla. Poiché nell'istinto sessuale l'intima essenza della natura, la volontà di vivere, nel modo più forte si palesa, dissero gli antichi poeti e filosofi – Esiodo e Parmenide – con molto senso, che Eros è il Primo, il Creatore, il Principio, dal quale ebbero origine tutte le cose. (Si vegga Arist. Metaph., i, 4). Ferecide ha detto: Εις ερωτα μεταβεβλησθαι τον Δια, μελλοντα δημιουργειν (Jovem, cum mundum fabricare vellet, in cupidinem sese transformasse). Proclus ad Plat. Tim. 1. III. Un'estesa trattazione di questo soggetto abbiamo avuta di recente da G. F. Schoemann, De cupidine cosmogonica, 1852. Anche la Maja degl'Indiani, della quale è opera e tessuto l'intero mondo apparente, viene parafrasata con la parola amor.

I genitali sono, molto più di qualsivoglia altra parte del corpo, alla semplice volontà e non alla conoscenza soggetti: anzi, la volontà vi si mostra pressoché altrettanto indipendente dalla conoscenza, quanto nelle parti che, dietro semplici stimoli, servono alla vita vegetativa, alla riproduzione; parti in cui la volontà agisce cieca, come nella natura priva di conoscenza. Imperocché il generare non è che una riproduzione trapassata in un nuovo individuo, quasi riproduzione in seconda potenza, come la morte non è che escrezione in seconda potenza. In conseguenza di tutto ciò i genitali sono il vero e proprio fuoco della volontà, e quindi il polo opposto al cervello, al rappresentante della conoscenza, ossia all'altra parte del mondo, al mondo come rappresentazione. Quelli sono il principio conservatore della vita, che vita senza fine assicura al tempo; e in tal qualità furon dai Greci venerati nel Phallus, dagl'Indiani nel Lingam, i quali sono adunque il simbolo dell'affermazione della volontà. La conoscenza invece rende possibile la soppressione del volere, la redenzione mediante libertà, il superamento e l'annientamento del mondo.

Già al principio di questo quarto libro abbiamo estesamente studiato, come la volontà di vivere abbia da guardare nella sua affermazione il proprio rapporto con la morte: questa non la tocca, perché sta nella vita come alcunché d'implicito in lei, e che a lei spetta. Alla morte fa da eguale contrappeso il suo opposto, la generazione; la quale, malgrado la morte dell'individuo, assicura e garantisce per sempre la vita alla volontà di vivere. Per ciò esprimere, diedero gl'Indiani il Lingam come attributo al Dio della morte Shiva. Colà abbiamo pure dimostrato come chi stia con piena consapevolezza fermo nella risoluta affermazione della vita, guarda senza paura la morte.

Su ciò adunque non altre parole. Senza chiara consapevolezza, la maggior parte degli uomini è di questo sentimento, e afferma costantemente la vita. Come specchio di tale affermazione sussiste il mondo, con individui innumerabili, in tempo infinito e infinito spazio, e infinito dolore, tra generazione e morte senza fine. Ma di ciò da nessuna parte è lecito alzare altri lamenti: perché la volontà esegue a sue spese la grande tragedia e commedia, ed è anche il suo proprio spettatore. Il mondo è per l'appunto quello che è, perché la volontà, di cui esso è fenomeno, è quella che è; perché la volontà così vuole. Per i dolori la giustificazione è che la volontà anche quivi afferma se stessa; e quest'affermazione è giustificata e compensata dal fatto, che la volontà quei dolori patisce. Ci si apre già qui un'occhiata sulla eterna giustizia, in complesso; in seguito la conosceremo più da vicino e più chiaramente anche nel particolare. Tuttavia occorre prima parlare della giustizia temporale o umana47.

§ 61.

Ci sovviene, dal secondo libro, che nella natura intera, in ogni grado dell'oggettivazione della volontà, necessariamente era una lotta perenne tra gli individui di tutte le specie, e con ciò appunto si esprimeva un intimo contrasto della volontà di vivere con se medesima. Nel grado supremo dell'oggettivazione anche quel fenomeno si presenterà, come ogni altro, con maggiore chiarezza, e si lascerà quindi indagare più addentro. A tal fine andremo in primo luogo a rintracciar nella sua sorgente l'egoismo, quale origine di tutte le lotte.

Tempo e spazio chiamammo principium individuationis, perché sol per loro mezzo, ed in loro, è possibile pluralità dell'identico. Sono le forme essenziali della conoscenza naturale, ossia procedente della volontà. La volontà deve quindi manifestarsi ovunque in pluralità d'individui. Ma questa pluralità non tocca la volontà in sé, bensì i suoi fenomeni: è intera e indivisa in ciascuno di essi, e si vede intorno innumerabili volte ripetuta l'immagine della sua propria essenza. Ma codesta, ch'è la vera realtà, ella non trova tuttavia direttamente se non dentro di sé. Perciò vuole ciascuno aver tutto per sé, vuol tutto possedere, o almeno dominare, ed ogni cosa, che gli si opponga, vorrebbe distruggere. A ciò s'aggiunge, negli esseri conoscenti, che l'individuo rappresenta il soggetto conoscente, contiene cioè il mondo intero; ossia, che tutta la natura all'infuori di lui, e quindi anche tutti i rimanenti individui, esistono soltanto nella sua rappresentazione; soltanto come di sua rappresentazione egli n'è consapevole, ossia sol mediatamente, e come d'alcunché dipendente dal suo proprio essere individuale; che venendogli meno la conscienza, per necessità gli vien meno anche il mondo; vale a dire, l'esistere o non esistere di questo diventano per lui termini equivalenti e non distinguibili. Ogni individuo conoscente è adunque in verità, e si riconosce per tale, tutta intera la volontà di vivere, ovvero l'in-sé del mondo medesimo; ed è anche la condizione integrante del mondo quale rappresentazione. È per conseguenza un microcosmo, che s'ha da valutare egualmente come il macrocosmo. La natura stessa, sempre e ovunque veritiera, fin dall'origine e all'infuori d'ogni riflessione gli fa semplicemente e direttamente sicura tale conoscenza. Ora, con entrambe le necessarie determinazioni surriferite si spiega come ogni individuo, per quanto infinitamente piccolo nello sterminato mondo e quasi evanescente nel nulla, si faccia nondimeno centro dell'universo, la propria esistenza e il proprio benessere consideri innanzi a ogni altra cosa, anzi, dal punto di vista naturale, ogni altra cosa sia pronto a sacrificare a codesta esistenza; pronto a distruggere il mondo, sol per conservare un po' più a lungo il suo proprio io, che è appena una goccia nel mare. Tale disposizione è l'egoismo, proprio d'ogni cosa nella natura. Ma esso è pure la via, per cui l'interno contrasto della volontà con se medesima perviene alla più terribile manifestazione. Imperocché questo egoismo si fonda per essenza sul riferito antagonismo tra microcosmo e macrocosmo: cioè sul fatto che l'oggettivazione della volontà ha per forma il principium individuationis, sì che la volontà in egual modo si riflette in numero infinito d'individui; intera e compiuta sotto i due aspetti (volontà e rappresentazione) in ciascuno di essi. Mentre adunque ogni individuo è dato a se medesimo, direttamente, come tutta quanta la volontà e tutta quanta la capacità rappresentativa, i rimanenti individui gli son dati sol come rappresentazioni sue; perciò importa a lui il proprio essere e la propria conservazione più di tutto l'altro insieme. Alla propria morte guarda ciascuno come alla fine del mondo, e invece accoglie come una cosa abbastanza indifferente quella dei suoi conoscenti, s'egli non v'è per avventura interessato di persona. Nella conscienza salita al suo più alto grado, la conscienza umana, deve anche l'egoismo, come la conoscenza, il dolore, la gioia, aver toccato il vertice più alto, e deve nel modo più terribile palesarsi il contrasto degli individui, da esso determinato. Ciò vediamo dappertutto, nel piccolo come nel grande; ciò vediamo ora sotto l'aspetto terrificante, nella vita di grandi tiranni e uomini scellerati, e nelle guerre che devastano il mondo, ora sotto l'aspetto ridicolo, dov'è fatto tema di commedia; e in particolar modo si rivela nella presunzione e nella vanità, le quali Rochefoucault ha come nessun altro colto e rappresentato in abstracto: tale ci appare nella storia del mondo e nella nostra propria esperienza. Ma nel modo più evidente balza fuori, non appena una qualche turba di uomini sia sciolta da ogni legge e ordinamento: allora si mostra subitamente con tutta evidenza il bellum omnium contra omnes, che Hobbes, nel primo capitolo De cive, mirabilmente ha descritto. Appare, che non soltanto ciascuno cerca di rapire all'altro ciò ch'egli stesso vuol avere, ma spesso addirittura v'ha chi, per accrescere d'un trascurabile incremento il proprio benessere, tutto il bene o la vita dell'altro distrugge. Questa è l'espressione suprema dell'egoismo, i cui fenomeni, sotto tale rispetto, possono venir superati soltanto da quelli della malvagità vera e propria, la quale affatto disinteressatamente, senz'alcun proprio vantaggio, cerca il danno e il dolore altrui. Ma di ciò in seguito. Con questo scoprimento della fonte dell'egoismo si ponga a riscontro la descrizione di esso, fatta nella mia memoria per concorso a premio, intorno al fondamento della morale, § 14.

Una tra le principali sorgenti del dolore, il quale abbiamo veduto essenzialmente ed inevitabilmente connaturato a tutta la vita, non appena questa in realtà e con determinata figura si mostri, è quella Eris, la lotta fra gl'individui tutti, l'espressione del dissidio interiore, da cui è travagliata la volontà di vivere, e che per mezzo del principii individuationis viene alla luce: mezzo barbaro di render visibile direttamente e crudamente tale dissidio sono le lotte tra gli animali. In questo originario contrasto risiede una sorgente inesauribile di dolore, malgrado le misure che si son prese per combatterlo, e che ora esamineremo da vicino.

§ 62.

Fu già spiegato, che la prima e semplice affermazione della volontà di vivere non è se non l'affermazione del proprio corpo, ossia esplicazione della volontà mediante atti nel tempo, fin dove il corpo, nella sua forma e natura disposta a' suoi fini, rappresenta la stessa volontà spazialmente – e non oltre. Codesta affermazione si dimostra sotto specie di conservazione del corpo, usando a ciò tutte le forze di esso. A lei si collega direttamente la soddisfazione dello stimolo sessuale; anzi, questa appartiene a quella, in quanto i genitali al corpo appartengono. Perciò la volontaria, da nessun motivo determinata rinunzia alla soddisfazione di quello stimolo, è già un rinnegar la volontà di vivere, è una spontanea autosoppressione di esso stimolo in seguito a sopravvenuta conoscenza che agisce come quietivo: perciò tal rinnegamento del proprio corpo si presenta già come un'opposizione della volontà contro il suo proprio fenomeno. Imperocché sebbene qui il corpo oggettivi nei genitali la volontà della propagazione, questa non viene tuttavia voluta. Appunto perciò, ossia per essere rinnegamento o soppressione della volontà di vivere, tale rinunzia è una grave e dolorosa vittoria su noi stessi; ma di questo sarà detto in seguito. Ora, mentre la volontà presenta quell'autoaffermazione del proprio corpo in un numero infinito d'individui coesistenti, può, in grazia dell'egoismo connaturato in ciascuno, molto facilmente in un individuo andar oltre codesta affermazione, fino alla negazione della stessa volontà, manifestantesi in un altro individuo. La volontà del primo irrompe nei confini dell'altrui affermazione di volontà, sia in quanto l'individuo l'altrui corpo distrugge o ferisce, sia in quanto costringe le forze dell'altrui corpo a servir la volontà propria, invece della volontà che in quello stesso altrui corpo si palesa; come, per esempio, quando alla volontà, palesantesi in forma d'altrui corpo, le forze di codesto corpo sottrae, e con ciò accresce la forza a servizio della volontà propria oltre i termini naturali di questa; sì che afferma la volontà propria oltre il suo proprio corpo, mediante negazione della volontà manifestantesi in un corpo estraneo. Quest'irrompere nei confini dell'altrui affermazione di volontà fu chiaramente conosciuto dai più remoti tempi, e il suo concetto espresso con la parola ingiustizia. Imperocché le due parti interessate riconoscono istantaneamente la cosa; non già, invero, come l'abbiamo qui esposta in limpida astrazione, bensì come sentimento. Chi subisce l'ingiustizia sente l'irromper nella sfera dell'affermazione del suo proprio corpo, mediante negazione di essa da parte di un individuo estraneo, sotto forma d'un dolore diretto e morale, affatto distinto e diverso dal male fisico, provato in pari tempo per l'azione stessa, o dal rammarico del danno. D'altra parte, a quegli che commette l'ingiustizia si affaccia la cognizione ch'egli è, in sé, la volontà medesima, la quale anche in quell'altro corpo si manifesta, e nell'un fenomeno s'afferma con tale veemenza, da farsi negazione appunto della volontà stessa nell'altro fenomeno, oltrepassando i confini del proprio corpo e delle sue forze; quindi egli, considerato come volontà in sé, combatte per l'appunto con la sua veemenza contro se medesimo, se medesimo dilania; anche a lui s'affaccia questa cognizione istantaneamente, non già in astratto, ma come oscuro sentimento: e questo è chiamato rimorso, ossia, più precisamente nel caso sopraddetto, sentimento della commessa ingiustizia.

L'ingiustizia, il cui concetto abbiamo così analizzato nella più generica astrazione, si esprime in concreto nel modo più compiuto, più caratteristico e più tangibile col cannibalismo: questo è il suo tipo più chiaro ed evidente, l'orrenda immagine del massimo contrasto della volontà con se medesima, nel grado supremo della sua oggettivazione, che è l'uomo. Subito dopo viene l'assassinio: al cui compimento segue perciò il rimorso, del quale abbiamo indicata or ora in maniera astratta e arida la significazione, immediatamente, con terribile evidenza; ed alla pace dello spirito reca un colpo insanabile per la vita intera; essendo il nostro orrore per l'assassinio commesso, com'anche il nostro arretrarci davanti all'assassinio da commettere, prodotto dallo sconfinato attaccamento alla vita, che penetra ogni essere vivente, appunto in quanto è fenomeno della volontà di vivere (del resto, quel sentimento che accompagna l'atto dell'ingiustizia e del male analizzeremo in seguito più distesamente, e innalzeremo alla limpidità del concetto). Sostanzialmente identica all'assassinio, e sol per grado diversa, è da considerarsi la consapevole mutilazione, o anche semplice lesione del corpo altrui, o addirittura ogni colpo infertogli. Inoltre si manifesta l'ingiustizia nella sottomissione dell'altrui individuo, nel costringerlo a schiavitù; e finalmente nell'attacco contro l'altrui proprietà; il quale, ove la proprietà stessa si consideri come frutto del lavoro dell'aggredito, è in sostanza identico al ridurre a schiavitù. La spoliazione sta alla schiavitù, come la semplice ferita sta all'assassinio.

Imperocché proprietà, la quale non si strappi all'uomo senza ingiustizia, può, secondo la nostra spiegazione dell'ingiustizia, esser soltanto quella che l'uomo ha conquistata con le proprie forze: strappandogliela, veniamo a sottrarre le forze del suo corpo alla volontà in codesto corpo oggettivata, per farle servire alla volontà oggettivata in un altro corpo. Invero l'autor dell'ingiustizia, mediante assalto non dell'altrui corpo, ma di una cosa inanimata, da quel corpo affatto diversa, irrompe tuttavia nella sfera dell'altrui affermazione di volontà, solo in quanto con la cosa sono quasi confuse e identificate le forze e l'attività del corpo stesso. Ne segue che ogni genuino, ossia ogni morale diritto di proprietà, poggia in origine unicamente sull'acquisto mediante il lavoro; come già s'ammetteva press'a poco generalmente anche prima di Kant, e addirittura come già esprime chiaramente e bellamente il più antico di tutti i codici: «I saggi, cui è nota l'antica età, dichiarano che un campo coltivato appartiene a colui il quale ne rimosse gli sterpi, lo nettò ed arò; come un'antilope appartiene al primo cacciatore che l'abbia ferita a morte» – Leggi Manu, IX, 44. Solo con l'affievolimento senile di Kant posso spiegarmi tutta la sua dottrina del diritto, singolare intreccio di errori germinati l'un dall'altro, ed il fatto ch'egli voglia fondare il diritto di proprietà sulla presa di possesso. Come mai potrebbe la semplice affermazione della mia volontà, d'escluder altri dal possesso d'una cosa, costituire a ciò un immediato diritto? È chiaro, che quest'affermazione abbisogna alla sua volta d'una base di diritto; mentre invece Kant ammette ch'ella sia un diritto di per sé. E in qual modo allora agirebbe con ingiustizia, nel significato morale, colui il quale non rispettasse quelle pretese all'esclusivo possesso di un oggetto, fondate unicamente sulla lor propria dichiarazione? Perché dovrebbe turbarlo in tal caso la sua coscienza? essendo tanto chiaro, e facile a comprendere, che non vi può essere alcuna legittima presa violenta di possesso, ma semplicemente una legittima approvazione, conseguimento dell'oggetto, con l'impiegarvi forze che originariamente ci appartengono. Quando, per esempio, un oggetto viene mediante un qualsivoglia sforzo altrui, sia pur minimo, coltivato, migliorato, protetto contro i rischi, conservato, e si riducesse pur codesto sforzo a coglier dal ramo o sollevar dal suolo un frutto selvatico, è palese che chi s'attacca secondo a tale oggetto toglie al primo il risultato del lavoro ch'egli vi ha speso, e fa che il corpo di questi serva alla propria volontà, invece che a quella di lui, afferma la sua propria volontà oltre la sfera del fenomeno a lei spettante, e nega la volontà dell'altro: ossia, commette ingiustizia48. Viceversa il semplice godimento d'un oggetto, senz'alcun lavoro o difesa del medesimo contro la distruzione, non costituisce diritto su di esso più che non costituisca diritto al possesso esclusivo l'affermazione della propria volontà. Se quindi una famiglia ha essa sola esercitata la caccia in una riserva, sia pure durante un secolo, ma senz'avervi introdotto alcun miglioramento, non può senza morale ingiustizia contrastarla a un intruso straniero, che voglia per l'appunto colà andare a caccia. Il cosiddetto diritto del primo occupante, secondo il quale per il semplice godimento avuto di un oggetto si pretende di avere in più anche una ricompensa, ossia un esclusivo diritto al godimento futuro, è moralmente del tutto infondato. A chi su esso unicamente s'appoggia potrebbe il nuovo venuto opporre con molto miglior diritto: «Appunto perché tu già sì a lungo ne hai goduto, è giusto che ora anche altri ne godano». Di ogni cosa, che non si presti a lavoro alcuno, sia per miglioramento, sia per difesa contro i rischi, non può aversi esclusivo possesso moralmente fondato, se non mediante volontaria cessione da parte di tutti gli altri, o come ricompensa di servigi altrimenti prestati; il che già presuppone una comunità governata da convenzioni, ossia lo Stato. Il diritto di possesso moralmente fondato, quale s'è dedotto più sopra, dà per sua natura al possessore un diritto sulla cosa posseduta altrettanto illimitato, quanto è quello ch'egli ha sul proprio corpo; ne viene, ch'egli può trasmettere il suo possesso, per mezzo di cambio o donazione, ad altri; i quali allora posseggono l'oggetto col suo medesimo diritto morale.

Venendo a ciò che concerne in genere l'attuazione dell'ingiustizia, questa può farsi mediante violenza, o mediante insidia; che, dal punto di vista morale, sostanzialmente sono la stessa cosa. In primo luogo è nell'assassinio moralmente tutt'uno, se io mi servo del pugnale o del veleno; e così in ogni lesione corporale. I rimanenti casi di ingiustizia si posson tutti ridurre al fatto che io, con l'attuar l'ingiustizia, obbligo l'individuo estraneo a servir la mia volontà, in luogo della sua; ad agir secondo la mia, e non secondo la sua. Tenendo la via della violenza, conseguo questo risultato mediante causalità fisica; tenendo la via dell'insidia, lo conseguo invece mediante motivazione, ossia causalità procurata dalla conoscenza; col porre innanzi alla volontà altrui motivi illusori, in virtù dei quali l'individuo ingannato, credendo di seguir la volontà sua, segue la mia. Poiché il terreno in cui stanno i motivi è la conoscenza, io posso arrivare a quel risultato solo falsando l'altrui conoscenza, e questa falsificazione è la menzogna. Essa tende ognora a influire sull'altrui volontà; e non sull'altrui conoscenza sola, in sé e in quanto tale, ma sulla conoscenza come mezzo, ossia in quanto determina la volontà. Imperocché il mio stesso mentire, procedendo dalla mia volontà, ha bisogno d'un motivo: ma tale può esser soltanto la volontà altrui, non l'altrui conoscenza in sé e per sé; poi che questa come tale non può aver mai un influsso sulla volontà mia, né, per conseguenza, muoverla, né essere un motivo dei suoi fini: bensì tale può essere unicamente l'altrui volere ed agire; e l'altrui conoscenza invece non è tale se non mediatamente. Ciò vale non solo per tutte le menzogne sgorgate da un palese vantaggio personale, ma anche per quelle prodotte da pura malvagità, la quale voglia pascersi delle dolorose conseguenze d'un errore altrui da lei generato. Perfino la semplice fanfaronata mira, mediante l'aumento di stima che ne viene, o una più favorevole opinione da parte degli altri, ad esercitare un'influenza più o meno grande sul loro volere ed agire. Il rifiutarsi a dire una verità, ossia, in genere, a un'asserzione, in sé non costituisce un torto; mentre invece è tale ogni credito aggiunto a una menzogna. Chi allo smarrito viandante si rifiuta d'additar la buona via, non gli fa alcun torto; glielo fa quegli che lo mette sulla via falsa. Da quanto s'è detto risulta che ogni menzogna, al pari d'ogni violenza è, in quanto tale, torto; avendo in quanto tale per fine di allargare il dominio della mia volontà su altri individui, cioè di affermar la volontà mia negando la loro, proprio come fa la violenza. Ma la più compiuta menzogna è il patto infranto; perché quivi tutte le determinazioni suriferite sono raccolte compiutamente e limpidamente. Invero, quando io stringo un patto, la prestazione che altri mi promette è, direttamente ed esplicitamente, il motivo della mia, che dovrà tosto seguire. Le promesse vengono scambiate consapevolmente, e in tutta forma. La verità della dichiarazione fatta con quelle da ciascuno si intende che stia in suo potere. Se l'altra parte rompe il patto, essa m'ha ingannato e, insinuando nella mia conoscenza motivi solo illusori, ha diretto la mia volontà secondo i propri fini, ha esteso il dominio della volontà propria sopra un altro individuo, e quindi ha compiuto una vera e propria ingiustizia. Su ciò si fondano la legittimità morale e la validità dei contratti. Ingiustizia mediante violenza non è per chi la commette tanto obbrobriosa, quanto è l'ingiustizia mediante insidia; perché quella attesta forza fisica, la quale, in ogni circostanza, fa grande effetto sugli uomini; mentre questa, andando per via obliqua, è prova di debolezza, ed abbassa chi la compie, sì come individuo fisico che come individuo morale; ancor più lo abbassa, in quanto menzogna e inganno possono riuscire solo a condizione, che chi li adopra manifesti in pari tempo ripugnanza e disprezzo verso tali armi, per guadagnarsi fiducia, e la sua vittoria sta nel farsi attribuire la lealtà che non possiede. La profonda ripugnanza, che malizia infedeltà e tradimento destano ognora, viene dall'esser fedeltà e lealtà il vincolo, che ricongiunge esteriormente in unità la volontà sparpagliata nella folla degli individui, ponendo così un limite alle conseguenze dell'egoismo prodotto da quel frazionamento. Infedeltà e tradimento spezzano quest'ultimo vincolo esterno, e aprono con ciò alle conseguenze dell'egoismo un campo senza confini.

Nella concatenazione del nostro pensiero abbiamo trovato il contenuto del concetto d'ingiustizia nella particolar natura dell'azione, con cui un individuo tanto allarga l'affermazione della volontà manifestantesi nel suo corpo, da farne la negazione della volontà manifestantesi nei corpi altrui. Abbiamo anche mostrato con esempi affatto generici i limiti ove ha principio il dominio dell'ingiusto, determinandone insieme le gradazioni, dalle massime alle minime, con pochi concetti fondamentali. Da ciò risulta, che originario e positivo è il concetto dell'ingiusto: mentre l'opposto concetto del giusto è derivato, negativo. Imperocché non alle parole dobbiamo tenerci, ma ai concetti. In verità, non si sarebbe mai fatta parola del giusto, se non vi fosse l'ingiusto. Il concetto di giustizia contiene semplicemente la negazione dell'ingiustizia, e in esso viene compresa ogni azione, che non sia trasgressione del confine su esposto, ossia negazione dell'altrui volontà per maggiore affermazione della propria. Quel confine partisce adunque, rispetto a una determinazione puramente e semplicemente morale, l'intero campo delle azioni possibili in azioni ingiuste o giuste. Un'azione che non vada a ficcarsi, al modo spiegato più sopra, nella sfera dell'affermazione della volontà altrui, tale affermazione negando, non è ingiusta. Perciò il negare aiuto in caso di stringente necessità altrui, l'indifferente contemplar chi muore di fame, mentre noi stiamo nell'abbondanza, è bensì crudele e perverso, ma non è un far torto: soltanto si può dir con tutta certezza, che colui il quale è capace di spingere a tal punto la sua insensibilità e durezza, sicuramente saprà compiere anche ogni ingiustizia, non appena le sue voglie lo chiedano e nessuna costrizione l'impedisca.

Il concetto di diritto, come negazione dell'ingiusto, ha nondimeno trovato la sua principale applicazione, e senza dubbio anche la sua prima origine, nei casi in cui tentata ingiustizia viene impedita con violenza: il quale impedimento alla sua volta non può essere ingiustizia, bensì è diritto: anche se la violenza impiegatavi, considerata in se stessa e isolatamente, sarebbe ingiustizia, e qui venga giustificata sol dal suo motivo, diventando diritto. Se un individuo nell'affermazione della sua volontà va tanto lontano, da irrompere nella sfera dell'affermazione di volontà inerente alla mia persona in quanto tale, e viene con ciò a negar l'affermazione mia, il mio difendermi da tale violenza è solo un negar quella negazione; e quindi, da parte mia, non altro è che l'affermar la volontà per essenza e originariamente manifestantesi nel mio corpo, e già implicite esprimentesi col semplice fenomeno del corpo stesso: non è quindi ingiustizia, bensì diritto. Il che vai quanto dire: io ho allora un diritto, di negar quella negazione con ogni forza atta a toglierla di mezzo; diritto che, si vede facilmente, può arrivare fino all'uccisione dell'individuo estraneo, il cui atto a mio danno, quale premente violenza esteriore, può essere impedito mediante una reazione alquanto più forte di esso, senza commettere ingiustizia di sorta, e quindi con diritto; imperocché tutto quanto vien fatto da parte mia sta sempre esclusivamente nella sfera dell'affermazione di volontà inerente alla mia persona come tale, e già in lei espressa (sfera che è il teatro della battaglia); né irrompe nella sfera altrui: sì che è solo negazione della negazione, ossia affermazione e non negazione. Io posso adunque, senza ingiustizia, costringer la volontà estranea che nega la volontà mia quale si manifesta nel mio corpo e nell'uso delle forze di esso per la propria conservazione, senza negare io perciò un'altrui volontà contenuta in eguali confini, a desister da codesta negazione: ossia ho, in siffatta misura, un diritto di coercizione.

In tutti i casi nei quali io ho un diritto di coercizione, un pieno diritto di usar violenza contro gli altri, posso egualmente, secondo le circostanze, opporre all'altrui violenza anche l'astuzia, senza commettere ingiustizia; ed ho quindi un vero e proprio diritto alla menzogna, nella stessa misura in cui ho diritto alla coercizione violenta. Perciò, chi assicuri al malandrino che lo sta frugando, di non aver null'altro su di sé, agisce con pieno diritto; così anche colui, il quale attiri con una menzogna in cantina il ladro entratogli di notte in casa, e ve lo rinchiuda. Chi sia trascinato prigione da malfattori, per esempio, da pirati barbareschi, ha il diritto, per liberarsi, di ucciderli non soltanto con aperta violenza, ma anche con inganno. Similmente una promessa strappata con diretta violenza corporale non lega in nulla; perché quegli, che subisce una tal costrizione, può con pieno diritto liberarsi di chi gli usa violenza, con l'uccisione, nonché con l'insidia. Chi non può riprender con la forza il bene rubatogli, non commette ingiustizia se lo riacquista con inganno. Perfino, se taluno dissipa al gioco il denaro che m'ha involato, ho diritto di barare a suo danno: perché quanto io gli tolgo, già mi appartiene. Chi ciò volesse negare, dovrebbe ancor più negar la legittimità dell'insidia guerresca, la quale è addirittura una menzogna in azione, e conferma il motto della regina Cristina di Svezia: «Le parole degli uomini non vanno calcolate per nulla: grazia se si può credere ai loro atti». Così da presso il limite del giusto sfiora quello dell'ingiusto! Del resto, credo superfluo dimostrare, che tutto ciò concorda appieno con quanto è detto più sopra intorno all'illegittimità della menzogna come della violenza: può anche servir d'illustrazione alle singolari teorie sopra la menzogna necessaria49.

In virtù di tutto quanto ho esposto finora, torto e diritto sono semplicemente determinazioni morali; tali, cioè, che abbian valore rispetto alla considerazione dell'umana attività in se stessa, e in rapporto all'intimo significato di codesta attività in sé. Questo valore si rivela direttamente nella conscienza, in primo luogo, per il fatto che l'agire contro giustizia è accompagnato da un interno rammarico, il quale in chi commette l'ingiustizia è la conscienza, semplicemente sentita, dell'eccessiva forza onde s'afferma in lui la volontà, arrivando fino al punto di negare il fenomeno della volontà altrui. E l'autor dell'ingiustizia, essendo bensì distinto come fenomeno della sua vittima, le è nondimeno identico nell'essenza. L'ulteriore esplicazione di codesto intimo significato d'ogni fenomeno potrà seguire solo più tardi. Per un altro verso, chi patisce l'ingiustizia è dolorosamente consapevole della negazione della propria volontà, quale essa volontà è già espressa mediante il corpo di lui, ed i suoi naturali bisogni, pel cui appagamento la natura lo fa contar sulle forze di questo corpo medesimo. Anche è consapevole, in pari tempo, che senza commettere ingiustizia potrebbe opporsi in tutti i modi a quella negazione, se non gliene mancasse la forza. Cotal valore puramente morale è l'unico, che diritto e ingiustizia abbiano per l'uomo come uomo (non come cittadino nello Stato); l'unico, quindi, che sussisterebbe anche nello stato di natura, senz'alcuna legge positiva; l'unico, che costituisce la base e il contenuto di tutto quanto s'è perciò chiamato diritto naturale, ma meglio si chiamerebbe diritto morale: estendendosi il suo valore non già al subire, alla realtà esterna, ma solo all'agire e alla consapevolezza del proprio volere individuale, che l'agire fa nascere nell'uomo; consapevolezza, che si chiama coscienza. La quale nello stato di natura non in tutti i casi può farsi valere anche al di fuori, sopra altri individui, ed impedire che violenza regni in luogo del diritto. Nello stato di natura dipende invero semplicemente da ciascuno, di non agire in nessun caso con ingiustizia, ma non già di non subire in nessun caso ingiustizia, poiché ciò dipende da quella forza esteriore che ci è toccata. Perciò sono i concetti di giusto e ingiusto bensì validi anche per lo stato di natura, e punto convenzionali; ma quivi valgono sol come concetti morali, per l'autoconscienza che ciascuno ha della propria volontà. Ovvero sono, sulla scala dei differentissimi gradi d'intensità, con cui la volontà di vivere s'afferma negli individui umani, un punto fermo, simile al punto di congelazione nel termometro: il punto, ove l'affermazione della volontà propria diventa negazione dell'altrui, ossia con l'agire ingiustamente indica il grado della sua vivacità congiunto col grado dell'irretimento della conoscenza nel principio individuationìs (il quale è la forma della conoscenza posta per intero al servigio della volontà). Chi voglia ora porre da canto la considerazione puramente morale degli atti umani, o negarla, e gli atti stessi guardar soltanto sotto il rispetto del loro effetto esteriore e del loro successo, potrà invero chiamar con Hobbes giustizia e ingiustizia convenzionali determinazioni, arbitrariamente assunte, e punto esistenti all'infuori della legge positiva; né mai potremmo noi fargli intendere per esteriore esperienza ciò che non all'esteriore esperienza s'appartiene. Così al medesimo Hobbes, il quale caratterizza in modo singolarissimo quel suo pensiero affatto empirico, negando nel suo libro De principiis geometrarum tutta la matematica pura vera e propria, e ostinato affermando avere il punto estensione, e aver larghezza una linea, non potremo metter mai sotto gli occhi un punto senza estensione e una linea senza larghezza, per provargli l'a priori della matematica, più di quanto possiamo fargli intendere l'a priori del diritto: perché egli si è asserragliato contro ogni conoscenza non empirica.

La pura filosofia del diritto è dunque un capitolo della morale, e si riferisce in modo diretto soltanto all'azione che si compie, non già a quella che si subisce. Che solo la prima è esplicazione della volontà, e la morale non considera se non la volontà. Il subire è un semplice accidente: solo in via indiretta la morale può considerarlo, ed esclusivamente per dimostrare, che quanto si fa con l'unico fine di non patire un'ingiustizia, non è atto ingiusto. Quel capitolo della morale, sviluppato, avrebbe come contenuto la precisa determinazione del limite, fino al quale un individuo può arrivare nell'affermazione della volontà già oggettivata nel suo corpo, senza che codesta affermazione diventi negazione di quella volontà medesima, rilevantesi in un altro individuo; ed inoltre dovrebbe determinar le azioni, che andando oltre il limite sopraddetto sono ingiuste, e tali quindi da poter essere impedite senza commettere ingiustizia. Sempre rimarrebbe così oggetto dell'indagine l'azione sola.

Ma nell'esperienza esteriore, come accidente, si presenta il fatto dell'ingiustizia patita: e vi si manifesta più limpido che altrove, come già fu detto, il fenomeno dell'opposizione della volontà di vivere contro se stessa, risultante dalla pluralità degli individui e dall'egoismo; l'una e l'altro determinati dal principio individuationis, che è la forma del mondo quale rappresentazione per la conoscenza individuale. Abbiamo anche visto più sopra, che un'assai gran parte del dolore inerente all'umana vita ha in quel contrasto degl'individui la sua perenne sorgente.

Ma la ragione, a tutti codesti individui comune, la quale fa sì ch'essi non conoscano, come gli animali, soltanto il caso singolo, ma anche la connessione dell'insieme, in astratto, ha presto insegnato loro a conoscer la sorgente di quel male, e li ha richiamati a considerare i mezzi di farlo minore, o, quando fosse possibile, di sopprimerlo, mediante un sacrificio comune, che tuttavia vien vantaggiosamente compensato dal profitto che a tutti ne deriva. Per quanto gradevole sia invero all'egoismo individuale, capitandone il caso, il commettere un'ingiustizia, tale atto ha nondimeno un correlato necessario nel patir che altri fa l'ingiustizia medesima, avendone un grande dolore. E quando la ragione, considerando genericamente, si innalzò sul punto di vista unilaterale dell'individuo a cui appartiene, sciogliendosi per un istante dal vincolo che a lui la lega, vide che il godimento, provato da ciascuno individuo per l'atto ingiusto commesso, è superato ognora da un dolore relativamente più grande, che prova chi quell'atto subisce. E vide, inoltre, come tutto essendo in ciò affidato al caso, ciascuno avrebbe avuto da temere, che a sé il dolore dell'ingiustizia sofferta toccasse ben più frequente del piacere per un'eventuale ingiustizia commessa. E la ragione ne ricavò che, tanto per diminuire il male su tutti disteso, quanto per distribuirlo quanto più fosse possibile uniformemente, il migliore e unico mezzo fosse risparmiare a tutti il dolore di subire l'ingiustizia, per questa via: rinunziar tutti anche al piacere di commetterla. Questo mezzo adunque, che l'egoismo per mezzo della ragione facilmente trovò, e gradatamente perfezionò, procedendo con metodo e abbandonando il proprio unilaterale punto di vista, è il contratto sociale o la legge.

L'origine, ch'io qui gli assegno, esponeva già Platone nella Repubblica. In verità è tale origine essenzialmente l'unica, e posta dalla natura della cosa. Né può lo Stato averne avuta altra, in nessun paese, che gli è appunto codesta maniera di nascita, codesta finalità, a farne uno Stato; ed è poi indifferente se in questo o in quel popolo l'abbia preceduto la condizione d'una moltitudine di selvaggi indipendenti (anarchia), o di schiavi dominati per arbitrio dal più forte (dispotismo). Nell'un caso e nell'altro non s'aveva Stato: lo Stato sorge solo mediante quel comune accordo; ed a seconda che tale accordo sia più o meno puro da anarchia o dispotismo, è anche lo Stato più o meno perfetto. Le repubbliche tendono all'anarchia, le monarchie al dispotismo, e la via intermedia della monarchia costituzionale, che per ovviare a quei mali s'è escogitata, tende al predominio delle fazioni. Per fondare uno Stato perfetto, si deve incominciar dal creare esseri, cui Natura consenta di sacrificare il bene proprio al bene pubblico. Ma frattanto qualcosa già s'ottiene, dall'esservi una famiglia, il cui bene sia da quello del paese affatto inseparabile: sì che ella, almeno nelle cose essenziali, non possa mai vantaggiar l'uno senza l'altro. Qui sta la forza e il pregio della monarchia ereditaria.

Se la morale mira esclusivamente all'azione giusta o ingiusta, e può, a quegli il quale sia per avventura risoluto di non fare atto ingiusto, stabilir nettamente i confini delle sue operazioni; la dottrina dello Stato, invece, la scienza della legislazione, mira soltanto all'ingiustizia patita, né mai si occuperebbe dell'ingiustizia commessa, se non fosse per l'ognor necessario correlato di questa, ossia la patita: la quale è l'oggetto della sua attenzione, quasi il nemico contro cui ella si affatica. Ove si potesse concepire un atto ingiusto, col quale non fosse d'altra parte congiunta un'ingiustizia sofferta, lo Stato conseguentemente non lo punirebbe in nessun modo. Inoltre, poiché nella morale è oggetto di considerazione ed unica realtà l'animo, l'intenzione, per essa la volontà risoluta di commettere ingiustizia, quando pur sia arrestata e resa impotente da una forza estranea, equivale in tutto all'ingiustizia effettivamente commessa; e la morale condanna nel suo tribunale, come ingiusto, chi quell'intenzione aveva. Viceversa lo Stato non toccano animo e intendimento, sol come tali, né punto né poco; bensì solamente l'atto (sia esso poi tentato o compiuto), in ragione del suo correlato, del patire, che ne viene dall'altra parte: per lo Stato è una realtà l'azione, il fatto accaduto; l'intendimento, il volere non s'indaga se non in quanto da esso vien reso manifesto il significato dell'atto. Quindi lo Stato non vieterà ad alcuno di meditar permanentemente violenza omicida o veleno a danno altrui, non appena sia persuaso che il timore della pena capitale e della tortura arresteranno sempre gli effetti di quell'intenzione. E lo Stato non ha pur minimamente il folle proposito di distruggere l'inclinazione all'ingiustizia, la malvagia intenzione; bensì ad ogni possibile impulso verso il compimento di un torto vuol porre accanto una prevalente ragione di non commetterlo, la qual consiste nell'ineluttabile punizione: perciò è il codice penale un elenco, il più possibile completo, di contromotivi opposti a tutte le azioni delittuose presupposte come possibili. La scienza statale, o legislazione, per questo suo fine torrà a prestito dalla morale il capitolo, che costituisce la filosofia del diritto, e che oltre a dar l'intimo significato del giusto e dell'ingiusto ne determina i netti confini; ma esclusivamente per adoprarne il rovescio, e tutti quei termini, che la morale pone come insormontabili da chi non voglia commettere ingiustizia, considerar sotto l'aspetto opposto: come termini, il cui valicamento da parte d'altri non va tollerato, se non si vuol patire ingiustizia, e da cui s'ha il diritto di respingere altrui. Tali termini vengono così sotto codesto rispetto, fin dove si può passivo, barricati dalle leggi. Ne risulta che, come molto argutamente lo storico fu definito un profeta a rovescio, così è un moralista a rovescio il giurista; e quindi anche la scienza del diritto in senso proprio, ossia la dottrina dei diritti, che si possono affermare, è una morale a rovescio nel capitolo, in cui questa insegna i diritti che non si possono violare. Il concetto dell'ingiustizia e della sua negazione, della giustizia, il quale è in origine concetto morale, diventa giuridico trasportando il punto di partenza dall'aspetto attivo al passivo, ossia mediante un capovolgimento. Ciò, aggiunto alla dottrina giuridica di Kant, il quale molto falsamente deriva dal suo imperativo categorico l'istituzione dello Stato come un dovere morale, ha prodotto anche nell'età più moderna di tanto in tanto il singolarissimo errore, che lo Stato sia un istituto per l'incremento della moralità, nasca da un tendere verso di essa e sia quindi rivolto contro l'egoismo. Come se l'interno animo, l'eternamente libero volere, al quale soltanto si riferiscono moralità o immoralità, si potesse dal di fuori modificare, e per influsso esterno mutare! Ancor più stolto è il teorema, secondo il quale lo Stato è condizione della libertà nel senso morale e quindi della moralità: mentre invece la libertà risiede di là dal fenomeno, altro che di là dalle umane istituzioni! Lo Stato, come ho detto, è sì poco rivolto contro l'egoismo in genere e in quanto tale, che viceversa per l'appunto dall'egoismo è originato: da quell'egoismo bene inteso, metodicamente procedente, salito dal punto di vista individuale al generale, e assommante in sé l'egoismo di tutti. A servizio di questo è lo Stato: poggiando sulla retta premessa, che non sia da attendersi moralità pura, ossia un giusto agire per principi morali; che se così non fosse, esso diventerebbe superfluo. Non punto, adunque, contro l'egoismo, bensì esclusivamente contro gli effetti dannosi dell'egoismo, che dalla folla degli individui egoisti si producono a svantaggio reciproco di tutti, e ne turbano il benessere, è lo Stato rivolto: il quale a tal benessere mira. Perciò diceva già Aristotele (De Rep., III): Τελος μεν ουν πολεων το ευ ζη̣ν˙ τουτο δε εστιν το ζη̣ν˙ ευδαιμονως και καλως (Finis civitatis est bene vivere, hoc autem est beate et pulchre vivere). Anche Hobbes ha giustissimamente e in modo eccellente esposto quest'origine e finalità dello Stato, quali vengono d'altronde espresse dall'antico principio di tutti i gli ordinamenti statali, salus publica suprema lex esto. Se lo Stato raggiungesse appieno il suo fine, produrrebbe lo stesso effetto come se universalmente regnasse perfetta giustizia d'intenzioni. Ma l'intima essenza, l'origine di codeste due condizioni di cose sarebbero l'una l'opposto dell'altra. Imperocché nel secondo caso s'avrebbe, che nessuno voglia compiere ingiustizia; nel primo, invece, che nessuno voglia patire ingiustizia; e a tal fine sarebbero appieno adoprati i mezzi opportuni. Così può la medesima linea venir tracciata da opposte direzioni, e un animale da preda con la museruola è innocuo come un erbivoro. Ma più in là di questo punto lo Stato non può andare: non può quindi mostrarci un aspetto pari a quello, che risulterebbe da generale, reciproca benevolenza ed amore. Poiché, come abbiamo or ora notato che esso, per propria natura, non vieterebbe un atto ingiusto, dal quale non risultasse dall'altra parte alcun patimento d'ingiustizia, ed ogni ingiustizia vieta sol perché tale condizione sarebbe impossibile; così viceversa assai volentieri farebbe sì, conformemente alla propria tendenza rivolta al benessere generale, che ciascuno ricevesse benevolenza e ogni maniera d'atti d'amor del prossimo; se nondimeno anche questi atti ricevuti non avessero un correlato inevitabile nella prestazione di benefizi e di opere altruistiche. Ma invece ogni cittadino dello Stato vorrebbe in ciò assumere la parte passiva, e nessuno l'attiva; e quest'ultima per nessun motivo si potrebbe pretenderla dall'uno piuttosto che dagli altri. Perciò si può imporre il negativo soltanto, che appunto costituisce il diritto, e non il positivo, che va sotto il nome di doveri d'amore, o doveri imperfetti.

La legislazione toglie a prestito, come s'è detto, la dottrina pura del diritto, ossia dottrina intorno all'essenza ed ai limiti del diritto e del torto, dalla morale, per adoprarla capovolta secondo i fini proprii, che alla morale sono estranei, e su questa base stabilire la legislazione positiva coi mezzi per sostenerla, ossia lo Stato. La legislazione positiva è adunque la dottrina morale del diritto puro, applicata a rovescio. Quest'applicazione può accadere con riguardo alle speciali condizioni e circostanze di un determinato popolo. Ma sol quando la legislazione positiva nella sostanza è costantemente guidata dal principio del diritto puro, ed ogni sua sanzione ha nella dottrina del diritto puro la propria base, può dirsi che codesta legislazione siffattamente formata sia davvero un diritto positivo, e lo Stato un'associazione giuridica: Stato nel vero senso della parola, istituzione moralmente ammissibile, e non immorale. In caso contrario la legislazione positiva è viceversa il fondamento di una positiva ingiustizia, è essa medesima un'ingiustizia imposta, pubblicamente ammessa. Di tal fatta è ogni dispotismo, e la costituzione della più parte degli Stati musulmani; di tal natura sono perfino talune parti di molte costituzioni, come per esempio la schiavitù, il lavoro obbligato, e così via. La dottrina pura del diritto, o diritto naturale, anzi meglio diritto morale, sta, neppur sempre a rovescio, a base d'ogni legislazione giuridica positiva, come la matematica pura sta a base d'ogni ramo dell'applicata. I punti più importanti della dottrina pura del diritto, quali la filosofia deve trasmetterli, pei fini suddetti, alla legislazione, sono i seguenti: 1. Spiegazione dell'intimo e proprio valore nonché dell'origine dei concetti di giusto e d'ingiusto, e della loro applicazione e del loro posto nella morale. 2. Deduzione del diritto di proprietà. 3. Deduzione del valore morale dei contratti: essendo questo il fondamento morale del contratto sociale. 4. Spiegazione dell'origine e finalità dello Stato, della relazione di codesta finalità con la morale, e della conseguente trasposizione della dottrina morale del diritto, invertita, alla legislazione. 5. Deduzione del diritto penale. Il rimanente contenuto della teoria del diritto non è se non l'applicazione di quei principii, più precisa determinazione dei confini del giusto e dell'ingiusto per tutte le possibili contingenze della vita, le quali vengono perciò riunite e suddivise sotto speciali riguardi e titoli. In queste dottrine particolari s'accordano quasi del tutto i manuali del diritto puro: sol nei principii suonano assai diversi; imperocché i principii sono sempre in relazione con qualche sistema filosofico. Ora che noi, in conformità del sistema nostro, abbiamo esposto in forma breve e generica sì, ma tuttavia netta e chiara, i primi quattro di quei punti essenziali, ci tocca ancora di parlar nello stesso modo del diritto penale.

Kant gettò la falsissima affermazione, che fuori dello Stato non esista alcun diritto perfetto di proprietà. Secondo la deduzione fatta più sopra, esiste invece proprietà anche nello stato di natura, con pieni diritti naturali, ossia morali; la quale non può senza ingiustizia venire offesa, e senza ingiustizia può esser difesa fino all'estremo. Invece è certo, che fuori dello Stato non c'è diritto di pena. Ogni diritto di punire è fondato unicamente sulla legge positiva, la quale prima dell'atto compiuto ha sancito per questo una pena; la cui minaccia, come contromotivo, dovrebbe prevaler su tutti gli eventuali motivi di quell'atto. Codesta legge positiva si deve considerare come sanzionata e riconosciuta da tutti i cittadini dello Stato. Si fonda dunque sopra un patto comune, al cui adempimento in ogni circostanza, ossia all'esecuzione della pena da una parte e al sofferimento di essa dall'altra, i membri dello Stato sono vincolati: perciò la pena può con diritto venire imposta. Conseguentemente l'immediato fine della pena nel singolo caso è adempimento della legge come d'un contratto. Ma scopo unico della legge è il trattenere, col timore, dalla violazione degli altrui diritti: poi che appunto, perché ciascuno sia protetto contro l'ingiustizia, ci si è riuniti nello Stato, i pesi del suo mantenimento assumendo su di sé. La legge adunque e la sua esecuzione, la pena, sono essenzialmente rivolte al futuro, non al passato. Ciò distingue pena da vendetta, la quale ultima è motivata esclusivamente dal fatto accaduto, ossia dal passato, in quanto tale. Ogni imposizione di dolore fatta, senza mirare al futuro, per un'ingiustizia commessa, è vendetta, e non può avere altro fine, se non confortare se stesso del male sofferto, mediante la vista di un male altrui, da noi cagionato. Ciò costituisce cattiveria e crudeltà, né si può eticamente giustificare. L'ingiustizia, che altri compie verso me, non mi dà minimamente il diritto di commettere ingiustizia a suo riguardo. Pagar male con male, senz'altra mira, non è cosa da giustificarsi moralmente né in altro modo in virtù di qualsivoglia principio ragionevole; ed il jus talionis, eretto a principio indipendente ed a finalità ultima del diritto penale, è vuoto di senso. Perciò è in tutto priva di base e assurda la teoria di Kant intorno alla pena, concepita qual semplice compensazione per la compensazione. E nondimeno la viene ancor fuori negli scritti di molti giuristi, in mezzo a ogni maniera di frasi pompose, che si riducono a una vuota filastrocca, come ad esempio: venire il delitto per mezzo della pena espiato, neutralizzato, cancellato, e così via. Ma nessun uomo ha la facoltà di stabilirsi giudice e compensatore in senso puramente morale, ed i misfatti di un altro punire con dolori da sé causati, ed a quegli imporre così espiazione per ciò che ha fatto. Questa sarebbe arrogantissima presunzione; onde il detto biblico: «Mia è la vendetta, esclama il Signore, e voglio io compensare». Ha bensì l'uomo il diritto di provvedere alla sicurezza della società; ma ciò può accadere solo mediante interdizione di tutti quegli atti che indica la parola «criminale», per impedirli col mezzo dei contromotivi, che sono le minacciate pene; la qual minaccia può avere efficacia sol con l'esecuzione, quando il caso sia, malgrado l'interdizione, avvenuto. Che perciò scopo della punizione o più precisamente della legge punitiva, sia il trattenere altrui col timore dal compiere un reato, è una verità così universalmente riconosciuta, anzi di per se stessa luminosa, che in Inghilterra fu perfino già espressa nell'antica formula d'accusa (indictment), di cui oggi ancora si serve nei processi criminali l'avvocato della corona; la quale termina: «if this be proved, you, the said N. N., ought to be punished with pains of law, to deter others from the like crimes, in ali time coming» 50. Servire al futuro è ciò che distingue la pena dalla vendetta; e la pena ha questa finalità sol quando viene applicata come esecuzione di una legge; la quale esecuzione, solo siffattamente annunziandosi come inevitabile in ogni altro caso futuro, dà alla legge la forza d'intimidazione in cui sta appunto la sua finalità. Qui un kantiano immancabilmente osserverebbe, che secondo questo modo di vedere il delinquente punito viene adoprato «sol come mezzo». Ma questo principio, così infaticabilmente ripetuto da tutti i kantiani, «che si debba sempre trattar l'uomo sol come fine, mai come mezzo», è bensì un principio che suona con aria d'importanza, e quindi appropriatissimo per tutti coloro, i quali amano d'avere una formula, che tolga loro la fatica di continuare a pensare; tuttavia guardato alla luce è una sentenza oltremodo vaga, indeterminata, la quale per ciascun caso, in cui debba essere applicata, richiede dapprima particolare spiegazione, determinazione e modificazione, mentre, presa così in maniera generica, è insufficiente, poco concludente, e per di più problematica. L'assassino, che per virtù di legge è consacrato alla pena capitale, deve invero ed a buon diritto essere usato come semplice mezzo. Perché la sicurezza pubblica, scopo principale dello Stato, è da lui turbata anzi soppressa, se la legge rimane ineseguita: lui, la sua vita, la sua persona devono essere ora il mezzo per l'esecuzione della legge, e quindi per la restaurazione della pubblica sicurezza; e un mezzo egli diviene a pieno diritto, per l'adempimento del contratto sociale, che da lui medesimo, in quanto egli era cittadino dello Stato, aveva avuto sanzione, e per effetto del quale, col fine d'aver sicurtà di godere la propria vita, la propria libertà, i propri possessi, aveva questa vita, questa libertà, questi possessi dati in pegno. Ed il pegno è ora scaduto. La teoria della pena qui esposta, che balza evidente per ogni sana ragione, è in verità sostanzialmente un pensiero tutt'altro che nuovo; bensì un pensiero quasi messo al bando da nuovi errori, sì ch'era necessario chiarirlo limpidissimamente. La sua spiegazione è, nella sostanza, già contenuta in ciò che a tal proposito dice Puffendorf, De officio hominis et civis, 1. 2, cap. 13. Vi si accorda egualmente Hobbes, Leviathan, capp. 15 e 28. Ai nostri giorni l'ha sostenuta, come si sa, Feuerbach. La si trova d'altronde già nei detti dei filosofi antichi: Platone l'espone chiaramente nel Protagora (p. 114, ed. Bip.), e anche nel Gorgia (p. 168), e finalmente nell'undecimo libro delle Leggi. Seneca esprime appieno il pensiero di Platone e la teoria di tutte le pene nelle brevi parole: «Nemo prudens punit, quia peccatum est; sed ne peccetur» (De Ira, I, 16).

Abbiamo dunque conosciuto nello Stato il mezzo, mediante cui l'egoismo armato di ragione cerca di sfuggire ai suoi proprii perniciosi effetti rivolgentisi contro se medesimo; ciascuno favorisce il bene di tutti, perché vi vede compreso il bene suo proprio. Ove lo Stato raggiungesse appieno il suo fine, potrebbe aversi da ultimo, poiché esso mediante le forze umane in sé congiunte sa ognor più trarre a suo servigio anche la rimanente natura, con la rimozione d'ogni maniera di mali alcunché d'analogo al paese di Cuccagna. Ma per un verso esso è tuttora sempre lontano da questo termine; per l'altro innumerevoli mali, alla vita necessariamente inerenti, manterrebbero come prima la vita in dolore; tra i quali, fossero pur tutti gli altri eliminati, da ultimo la noia occuperebbe ogni posto da quelli lasciato; per un altro verso ancora la discordia degli individui non può mai dallo Stato esser tolta in tutto di mezzo, che essa stuzzica nel piccolo, dov'è interdetta nel grande, ed infine Eris, felicemente cacciata dall'interno, si volge ancora al di fuori: bandita per mezzo dell'ordinamento civile dalle contese degli individui, ritorna dall'esterno in forma di guerra dei popoli, e pretende allora in grosso e tutto in una volta, come debito accumulato, le sanguinose vittime, che mediante saggia provvidenza le si erano sottratte singolarmente. E ammesso finalmente, che tutto ciò si potesse superare e toglier di mezzo, con una saggezza fondata sull'esperienza di millennii, il risultato ultimo sarebbe l'eccesso di popolazione sull'intero pianeta; terribile male, che oggi solo un'audace fantasia riesce a rappresentarsi51.

§ 63.

Abbiamo conosciuta la giustizia temporale, che ha sua sede nello Stato, quale compensatrice o punitrice; e abbiam visto, ch'essa divien giustizia solo riguardo al futuro; imperocché senza tale riguardo ogni punizione e compensazione d'un delitto sarebbe ingiustificata, anzi sarebbe non altro che l'aggiunta di un secondo male al male accaduto, senza ragione e significato. Tutt'altra condizione si ha con la giustizia eterna, già innanzi ricordata; la quale regge non lo Stato, bensì il mondo, non dipende da umani ordinamenti, non è soggetta al caso ed all'errore, mai insicura, oscillante ed errante, bensì infallibile, ferma e sicura. Il concetto della compensazione racchiude già il tempo in sé: quindi non può l'eterna giustizia punire con determinata misura; non può, come la giustizia penale, concedere dilazioni e fissar termini, e, sol per mezzo del tempo sanando il misfatto con le cattive conseguenze di esso, del tempo aver bisogno per sussistere. La pena dev'esser qui col misfatto siffattamente congiunta, da formare tutt'uno.

Δοκειτε πηδα̣ν τ’αδικηματ’ εις θεους

Πτεροισι, κα̉πειτ’ εν Διος δελτου πτυχαις

Θνητοις δικάζειν: Ουδ’ ό πας ουρανος,

Διος γραφοντος τας βροτων άμαρτιας,

Εξαρκεσειεν, ουδ’ εκεινος αν σκοπων

Πεμπειν έκαστω̣ ζημιαν˙ αλλ’ή Δικη

Ενταυθα που 'στιν εγγυς, ει βουλεσθ’ όρα̣ν.

Eurip., ap. Stob. Ed. i, e. 4

(Volare penis scelera ad aetherias domus

Putatis, illic in Jovis tabularia

Scripto referri: tum Jovem lectis super

Sententiam proferre? – sed mortalium

Facinora cœli, quantaquanta est, regia

Nequit tenere; nec legendis Juppiter

Et puniendis par est. Est tamen ultio,

Et, intuemur, illa nos habitat prope).

Ora, che una tal divina giustizia veramente esista nell'essenza del mondo, risulterà presto luminosamente appieno, da tutto il nostro pensiero finora svolto, a chi lo abbia afferrato.

Il fenomeno, l'oggettità dell'unica volontà di vivere è il mondo, in tutta la molteplicità delle sue parti e figure. L'essere, e il modo dell'essere, nel tutto come in ciascuna parte, è costituito solo dalla volontà. Essa è libera, essa è onnipotente. In ogni cosa appare la volontà, quale essa medesima in sé e fuori del tempo si determina. Il mondo non è che lo specchio di questo volere; ed ogni limitazione, ogni male, ogni tormento, che il mondo contiene, appartengono all'espressione di ciò che la volontà vuole: sono quali sono, perché essa così vuole. È rigorosa giustizia, quindi, che ogni creatura sopporti l'essere in genere, e quindi l'essere della sua specie e della sua particolare individualità, interamente com'essa è, e in condizioni quali esse sono, in un mondo quale esso è, governato dal caso e dall'errore, temporaneo, effimero, ognora sofferente: e qualunque sorte le tocchi, qualunque le possa toccare, sarà sempre giustizia. La responsabilità dell'essere e della costituzione del mondo può essa solamente, e nessun altro, portare: poiché come potrebbe un altro assumerla per sé? Se si vuol vedere ciò che gli uomini, moralmente considerati, sono in tutto e per tutto, si consideri in tutto e per tutto il loro destino. Esso è penuria, miseria, strazio, tormento e morte. L'eterna giustizia impera: s'essi non fossero, presi collettivamente, così dappoco, non sarebbe neppure il lor destino, collettivamente preso, così triste. In questo senso possiamo dire: il mondo stesso è il giudizio universale. Se si potesse mettere in un piatto di bilancia tutto il dolore del mondo, e tutta la colpa del mondo nell'altra, la bilancia starebbe sicuramente in bilico.

Certo che alla conoscenza, quale essa, dalla volontà in proprio servizio generata, si forma nell'individuo in quanto tale, il mondo non appare come da ultimo si disvela all'osservatore, ossia come oggettità dell'una e unica volontà di vivere, che è l'individuo medesimo; invece il velo di Maja, come dicono gl'Indiani, turba lo sguardo dell'inconscio individuo: a lui, in luogo della cosa in sé, apparisce solo il fenomeno nel tempo e nello spazio, nel principio individuationis, e nelle rimanenti forme del principio di ragione. In questa limitata cognizione non vede l'essenza delle cose, che è unica, bensì i suoi fenomeni, distinti, disgiunti, innumerevoli, contraddittori. Gli apparisce allora il piacere come alcunché di affatto diverso dal dolore; in un uomo vede l'aguzzino e l'assassino, in un altro il paziente e la vittima, distinte come due unità indipendenti sono per lui la cattiveria e la sofferenza. Vede taluno vivere nella gioia, nella sovrabbondanza, nei piaceri, e contemporaneamente altri morire di penuria e di freddo innanzi alla sua porta. Allora si domanda: dov'è la compensazione? Ed egli medesimo, nel violento impulso della volontà, che è sua origine e sua essenza, si aggrappa ai piaceri e ai godimenti della vita, vi si tiene fortemente stretto, non sapendo, che appunto per questo atto della sua volontà egli afferra e stringe a sé tutti quei dolori e tormenti della vita, alla cui vista rabbrividisce. Vede la sofferenza, vede la malvagità nel mondo: ma lungi dal riconoscere, che entrambe non sono se non diverse facce del fenomeno dell'unica volontà di vivere, le crede molto diverse, anzi addirittura opposte, e cerca spesso mediante la malvagità, ossia cagionando il male altrui, di sfuggire al dolore, alla sofferenza del proprio individuo, circoscritto nel principio individuationis, ingannato dal velo di Maja. Imperocché, come sull'infuriante mare che, per tutti i lati infinito, ululando montagne d'acqua innalza e precipita, siede in barca il navigante e sé affida al debole naviglio; così siede tranquillo, in mezzo a un mondo pieno di tormenti, il singolo uomo, poggiandosi fidente sul principio individuationis, ossia sul modo onde l'individuo conosce le cose, in quanto fenomeno. Lo scofinato mondo, pieno di mali ovunque, nell'infinito passato, nell'infinito futuro, è a lui straniero, anzi è a lui come una fiaba: la sua infinitesima persona, il suo presente privo d'estensione, il suo momentaneo benessere hanno soli realtà ai suoi occhi; e per conservarli fa di tutto, fin quando una miglior conoscenza non gl'illumini la vista. Fino allora vive appena nella più intima profondità della sua conscienza l'oscurissimo sentore, che quel mondo non gli sia poi veramente tanto straniero, bensì abbia con lui una relazione, dalla quale il principium individuationis non può proteggerlo. Da codesto presentimento viene quell'invincibile terrore, comune a tutti gli uomini (e fors'anche agli animali più intelligenti) che li coglie all'improvviso, quando per un caso purchessia smarriscono la guida del principii individuationis, allorché il principio di ragione in una qualunque delle sue forme sembra avere un'eccezione: per esempio, quando pare che si produca una mutazione senza causa, o un morto ritorni, o in qualsiasi maniera il passato o il futuro si faccian presenti, o il lontano vicino. L'orribile sbigottimento per tali cose si fonda sul fatto, che essi si smarriscono rispetto alle forme conoscitive del fenomeno, le quali sole tengono distinto il lor proprio individuo dal resto del mondo. Ma tale distinzione sta semplicemente nel fenomeno, e non nella cosa in sé: su ciò appunto poggia l'eterna giustizia. In effetti ogni godimento temporale si basa ed ogni saggezza si muove sopra un terreno minato. Godimento e saggezza proteggono l'uomo dalle sventure e gli procacciano piaceri; ma la personalità è semplice fenomeno, e la sua varietà dagli altri individui, nonché l'esser priva dei dolori che questi sopportano, dipendono dalla forma del fenomeno, dal principio individuationis. Secondo la vera essenza delle cose, ciascuno ha da considerar come propri tutti i dolori del mondo, anzi tutti i dolori possibili avere come reali per sé, fin quando egli è deliberata volontà di vivere, ossia afferma con ogni forza la vita. Per la conoscenza, che vede più lontano del principii individuationis, una vita temporale felice, donata dal caso, o a lui strappata con saggezza, fra dolori innumerevoli altrui, è nient'altro che il sogno d'un mendico, in cui questi si vegga re, ma per apprendere al risveglio, che solo una fuggitiva illusione l'aveva separato dai dolori della sua vita.

Allo sguardo circoscritto nella conoscenza che segue il principio di ragione, nel principio individuationis, si sottrae l'eterna giustizia: quello non ha punto cognizione di lei, a men che non la consegua mediante finzioni. Vede il malvagio, che ha commesso misfatti e crudeltà d'ogni maniera, vivere nei piaceri e uscirsene indisturbato dal mondo. Vede l'oppresso trascinare una vita piena fino all'ultimo di dolori, senza che si mostri un vendicatore, un compensatore. Ma l'eterna giustizia sarà compresa sol da colui, che si eleva su quella conoscenza procedente sulla traccia del principio di ragione e legata ai singoli oggetti: da colui, che conosce le idee, penetra con l'occhio oltre il principium individuationis, e comprende che alla cosa in sé non toccano le forme del fenomeno. Questi solamente, in grazia della stessa conoscenza, può comprendere la vera essenza della virtù, secondo ci verrà presto chiarito in rapporto con la presente trattazione; sebbene per la pratica della virtù non sia punto domandata codesta conoscenza in abstracto. Chi adunque è pervenuto alla suddetta conoscenza, intende chiaramente che, essendo la volontà l'in-sé di tutti i fenomeni, l'affanno inflitto altrui o personalmente sofferto, la malvagità e il dolore colpiscono pur sempre l'una e identica essenza; anche se i fenomeni, in cui questa e quella condizione si manifestano, esistono come individui distinti e addirittura separati da tempi e spazii lontani. Intende, che la differenza da ciò che produce il dolore a ciò che deve sopportarla è semplice fenomeno e non tocca la cosa in sé, ossia è la volontà in entrambi vivente; la quale, ingannata dalla conoscenza avvinta al suo servigio, se stessa disconosce, in uno dei propri fenomeni cercando accresciuto benessere, mentre nell'altro produce gran dolore; e così con violento impulso, ficca i denti nella sua carne medesima, non sapendo che ognora se stessa unicamente ferisce, palesando in tal modo, per il mezzo dell'individuazione, il contrasto interiore ch'ella trae nel suo intimo. Il tormentatore e il tormentato sono tutt'uno. Quegli erra nel non ritenersi partecipe del tormento, erra questi nel non ritenersi partecipe della colpa. Ove si aprissero a entrambi gli occhi, quegli, che infligge dolore, conoscerebbe di vivere in tutto quanto sul vasto mondo patisce tormento e invano si chiede, se dotato di ragione, perché sia stato chiamato a esistere in sì grandi dolori, che non sa d'aver meritati; e il tormentato conoscerebbe, che ogni malvagità, la quale viene commessa o fu un giorno commessa sulla terra, procede da quella volontà, che costituisce anche l'essere suo, che anche in lui si manifesta. Mediante codesto fenomeno e per la sua affermazione egli ha preso su di sé tutti i dolori, che da tale volontà promanano; e giustamente li soffre fin quando egli è quella volontà. Da questa conoscenza muove il veggente poeta Calderón in La vita è sogno:

Pues el delito mayor
Del hombre es haber nacido52.

Come non dovrebbe essere una colpa, poi che per una eterna legge sopra v'incombe la morte? Calderón non fece che esprimere in quel versetto il dogma cristiano del peccato originale.

La vivente conoscenza dell'eterna giustizia, del bilanciere, che inseparabilmente congiunge il malum culpae col malo poenae, richiede completa elevazione sulla individualità e sul principio che la fa possibile: essa rimarrà quindi alla più parte degli uomini ognora inaccessibile, com'anche l'affine cognizione pura e limpida dell'essenza di tutte le virtù, la quale verrà tosto chiarita. Perciò i sapienti primi padri del popolo indiano l'espressero, sì, nei Veda, i quali eran permessi soltanto alle tre caste rigenerate, ossia nella dottrina esoterica, direttamente, fin dove concetto e lingua l'afferrano e la loro maniera d'esposizione, ancora immaginativa e anche rapsodica, consente; ma nella religione popolare, o dottrina exoterica, l'hanno comunicata sol miticamente. La rappresentazione diretta la troviamo in varie guise espressa nei Veda, il frutto della più alta conoscenza e sapienza umana, il cui nocciolo è finalmente pervenuto a noi nelle Upanishad; espressa particolarmente nel fatto, che davanti allo sguardo del discepolo si fanno sfilare per ordine tutti quanti gli esseri del mondo, viventi e inanimati, e per ciascuno viene ripetuto quel detto ch'è divenuto una formula e si chiama, come tale, mahavakya: Tatoumes, o, più esattamente tat tvam asi, che significa: questo tu sei53. Ma al popolo questa grande verità venne tradotta, fin dove esso poteva afferrarla con la propria limitazione, nel modo di conoscenza retto dal principio di ragione; il qual modo, per sua natura, non può punto accoglier tale verità pura ed in sé, che anzi sta con essa in diretta opposizione, bensì ne ha ricevuto un surrogato nella forma del mito. Il surrogato era sufficiente come regola per l'azione, rendendo afferrabile mediante rappresentazione figurata il valore etico di quella, pur nella forma di conoscenza regolata dal principio di ragione, che a tal valore rimane eternamente straniera. E codesto è lo scopo di tutte le dottrine religiose, essendo esse in genere rivestimenti mitici delle verità impenetrabili dalla rozza mente umana. Quel mito si potrebbe in questo senso chiamare, nel linguaggio di Kant, un postulato della ragion pratica: ma come tale considerato ha il grande vantaggio di non contenere nessun elemento, che non ci stia davanti agli occhi nel dominio della realtà, e quindi può tutti i suoi concetti documentare con intuizioni. Il mito, a cui alludo, è quello della migrazione delle anime. Esso insegna, come tutti i dolori, che nella vita s'infliggono ad altri esseri, in una vita successiva su questo stesso mondo devono essere scontati precisamente coi medesimi dolori; e ciò va tanto lontano, che chi uccide anche un semplice animale, rinascerà un giorno nel tempo infinito con la forma di codesto animale e subirà la stessa morte. Insegna, che cattiva condotta trae con sé una futura vita, in questo mondo, in forma d'esseri miseri e spregiati; che si rinascerà quindi in caste inferiori, o donna, o animale, o Paria, o Ciandala, o lebbroso, o coccodrillo e così via. Tutti gli affanni che il mito minaccia, documenta con intuizioni tratte dalla vita reale, mediante creature dolorose, le quali neppur sanno come abbiano meritata la lor pena; e non gli abbisogna di prender per appoggio nessun altro inferno. Come ricompensa invece promette rinascita in forme migliori e più nobili, quale bramano, quale sapiente, quale santo. La più alta ricompensa, che attende gli animi più nobili e la più compiuta rassegnazione, ricompensa concessa anche alla donna, che in sette vite successive volontariamente sia morta sul rogo del marito, come all'uomo la cui bocca pura non abbia mai pronunziato una sola menzogna, può il mito esprimerla solo negativamente nel linguaggio terreno, mediante la promessa tanto spesso ripetuta, di non più rinascere: «non adsumes iterum existentiam apparentem». Oppure come l'esprimono i Buddhisti, che non ammettono né i Veda né le caste: «Tu raggiungerai il Nirvana, ossia uno stato, in cui non sono quattro cose: nascita, età, malattia e morte».

Non mai un mito s'è accostato più strettamente, non mai s'accosterà alla verità filosofica, cui sì pochi uomini possono salire, come fa questa remotissima dottrina del più nobile e più antico popolo; nel quale essa, per quanto in molte parti tralignata, regna nondimeno tuttora come fede generale ed ha sulla vita un effettivo influsso, oggi come quattro millenni or sono. Questo non plus ultra di rappresentazione mitica hanno quindi di già Pitagora e Platone accolto con ammirazione, e tratto dall'India, o dall'Egitto, e onorato, e applicato, e, non sappiamo fino a qual punto, essi stessi creduto. Noi invece spediamo oramai ai bramani, clergymen inglesi e fratelli moravi esercenti la tessitura, per ammonirli compassionevolmente d'una verità superiore e spiegar loro, che son creati dal nulla, e che di ciò devono con gratitudine rallegrarsi. Ma ci succede come a chi tira una palla contro una roccia. In India non potranno metter mai radice le nostre religioni: la sapienza originaria dell'uman genere non sarà soppiantata dagli accidenti successi in Galilea. Viceversa torna l'indiana sapienza a fluire verso l'Europa, e produrrà una fondamentale mutazione nel nostro sapere e pensare.

§ 64.

Ma ora procediamo dalla nostra posizione non mitica, bensì filosofica, dell'eterna giustizia, alle connesse considerazioni sul valore etico dell'azione e della coscienza, la quale è il conoscimento sentito di quel valore. Voglio solo, in questo luogo, richiamar dapprima l'attenzione su due particolarità dell'umana natura, le quali posson contribuire a render chiaro come ciascun uomo abbia la consapevolezza, almeno come sentimento oscuro, dell'essenza di quella eterna giustizia, e del suo fondamento, ch'è l'unità e l'identità della volontà in tutti i suoi fenomeni. Affatto indipendentemente dallo scopo, che dimostrammo aver lo Stato nell'infliggere la pena, scopo su cui poggia il diritto punitivo, quando una cattiva azione è stata commessa dà soddisfazione non solo all'offeso (il quale di solito è acceso da sete di vendetta), ma anche allo spettatore più indifferente, il vedere che quegli, il quale cagionò altrui un dolore, patisca a sua volta dolore in egual misura. A me pare che qui si esprima nient'altro se non la conscienza di quella eterna giustizia; conscienza che tuttavia da una mente non purificata vien tosto malcompresa e falsata; perché questa, irretita nel principio individuationis, cade in un'anfibolia di concetti, e pretende dal fenomeno ciò che spetta solo alla cosa in sé. Né comprende, come in sé l'offensore e l'offeso siano tutt'uno, e sia una medesima essenza la quale, non riconoscendo se stessa nel suo proprio fenomeno, porta tanto l'affanno quanto la colpa. Invece, domanda di riveder anche l'affanno in quello stesso individuo a cui tocca la colpa. Quindi vorrebbero i più pretendere ancora, che un uomo fornito d'un alto grado di malvagità, grado che può trovarsi in molti uomini, ma non congiunto come in costui con altre qualità, il quale per non comune forza d'ingegno fosse agli altri di gran lunga superiore e quindi indicibili dolori procurasse a milioni d'uomini, per esempio come conquistatore; vorrebbero pretendere, dico, che un tal uomo espiasse quando che sia e comunque tutti quei dolori con una misura di dolori eguale. Imperocché non sanno, che in sé il tormentatore e i tormentati sono tutt'uno, e la medesima volontà, mediante la quale questi esistono e vivono, è pur quella, che nel tormentatore apparisce, e che appunto per mezzo di lui perviene alla più chiara manifestazione della propria essenza, e che soffre negli oppressi come nell'oppressore, anzi soffre in quest'ultimo tanto più, quanto più alta chiarezza e limpidità ha la conscienza di lui, e più grande veemenza ha la sua volontà. Che tuttavia codesta disposizione a chiedere tal forma di giustizia cessi d'ottenebrare la conoscenza più approfondita, non più imprigionata nel principio individuationis, conoscenza da cui viene ogni virtù e nobiltà d'animo, dimostra già l'etica cristiana, la quale vieta senz'altro di render male per male e fa operare l'eterna giustizia come fosse nel dominio della cosa in sé, diverso dal fenomeno («Mia è la vendetta, io voglio punire, dice il Signore»: Rom., 12, 19).

Un carattere molto più sorprendente, ma anche molto più raro nell'umana natura, esprime quell'aspirazione a trarre l'eterna giustizia nel dominio dell'esperienza, ossia dell'individuazione; e in pari tempo è indice d'una consapevolezza sentita, ma non ancora limpida, del fatto che, come ho detto più sopra, la volontà di vivere recita a proprie spese la grande tragedia e commedia, e che la medesima ed unica volontà vive in tutti i fenomeni. Tale carattere è il seguente. Vediamo talvolta un uomo per una grande iniquità subita, o di cui forse è stato semplice testimone, infuriarsi a tal segno, che impegna la sua propria vita, consapevolmente e senza possibile salvezza, per prendere vendetta di chi quell'iniquità ha commessa. Lo vediamo per esempio ricercare durante anni un potente oppressore, ucciderlo alfine e quindi morire egli medesimo sul patibolo, come aveva preveduto, e che anzi spesso non aveva punto cercato d'evitare; avendo la sua vita conservato valore per lui soltanto come mezzo per la vendetta. Specialmente fra gli spagnoli si trovano questi esempi54. Se noi adunque osserviamo attentamente lo spirito di quella sete di compensazione, la troviamo assai differente dalla vendetta comune, che vuole mitigare il male sofferto mediante la vista del male provocato. Troviamo, anzi, che il suo scopo merita d'esser chiamato non tanto vendetta quanto punizione: poi che in lei si ritrova propriamente l'intento di un'azione sul futuro, mediante l'esempio, e senza alcun fine di proprio vantaggio, né per l'individuo vendicatore, perché esso vi soccombe, né per una società, la quale foggia a sé con leggi la sicurezza; che essendo quella pena inflitta da un singolo, non dallo Stato, e neppure in esecuzione d'una legge, colpisce invece sempre un'azione, che lo Stato non voleva e non poteva punire, e di cui disapprova la pena. Mi sembra che lo sdegno, il quale spinge un siffatto uomo sì lungi oltre i confini d'ogni egoismo, balzi dalla più profonda con scienza, che esso sia la volontà stessa di vivere, la quale in tutti gli esseri, in tutti i tempi si rivela; che ad esso il più lontano avvenire appartenga in egual maniera che il presente, e non possa essere indifferente. Affermando questa volontà, pretende che nello spettacolo, in cui è rappresentata l'essenza di lei, non riapparisca una così mostruosa iniquità, e vuole, con l'esempio d'una vendetta contro la quale non esiste difesa, che il timor della morte non trattiene il vendicatore, sbigottire ogni malfattore futuro. La volontà di vivere, pure affermandosi ancora, non si lega qui più al singolo fenomeno, all'individuo, bensì abbraccia l'idea dell'uomo e vuol conservarne il fenomeno puro da codesta mostruosa, rivoltante iniquità. È un raro, significante, anzi elevatissimo tratto di carattere, mediante il quale il singolo si sacrifica, aspirando a farsi braccio dell'eterna giustizia, di cui ancora disconosce la vera essenza.

§ 65.

Con tutte le considerazioni fatte finora sulle azioni umane abbiamo preparata l'ultima, e molto alleviato il compito che ci rimane: elevare a chiarezza filosofia e concatenare nel nostro sistema il vero significato etico dell'azione, che nella vita si indica con le parole buono e cattivo, con le quali ci s'intende perfettamente.

Ma voglio dapprima ricondurre al lor senso verace quei concetti di buono e cattivo, che dagli scrittori filosofici dei nostri giorni vengono trattati, cosa singolarissima, come concetti semplici, e quindi non atti ad analisi alcuna. Questo farò, affinchè non s'abbia per avventura a restare nella nebbiosa illusione, ch'essi contengano più di quanto contengono in effetti, e già esprimano in sé e per sé quanto occorre al nostro argomento. E posso farlo, perché io stesso son così lontano dal cercarmi nell'etica un riparo dietro la parola buono, quanto lontano fui dal cercarlo finora dietro le parole bello e vero; per poi far credere mediante l'appiccicamento di un – tà – che oggi si pretende ch'abbia una speciale σεμνότης e quindi in molti casi può servire, e mediante un'aria solenne, d'aver con la formulazione di codeste tre parole fatto più che indicar tre concetti assai ampi ed astratti, e quindi punto ricchi di contenuto, i quali hanno ben diversa origine e diverso valore. A quale uomo invero, cui sian noti gli scritti dei dì nostri, non son venute finalmente a nausea quelle tre parole, per quanto riferentisi in origine a sì nobili cose, allor ch'egli ha dovuto mille volte vedere, come i più inetti all'esercizio del pensare credano che basti averle emesse, a bocca spalancata e con l'aria d'una pecora inspirata, per aver rivelato una solenne saggezza?

L'esplicazione del concetto di vero è già data nello scritto sul principio di ragione, cap. 5, §§ 29 sgg. Il contenuto del concetto di bello ha per la prima volta trovato la sua giusta illustrazione in tutto il nostro terzo libro. Ora ricondurremo al suo significato il concetto di buono, cosa che può farsi con molto poco. Questo concetto è essenzialmente relativo, e indica la conformità di un oggetto con una qualsivoglia determinata aspirazione della volontà. Quindi tutto ciò che conviene alla volontà in qualunque delle sue manifestazioni, e soddisfa la sua mira, vien pensato sotto il concetto di buono, per quanta varietà vi possa essere nel rimanente. Perciò noi diciamo buon cibo, buone strade, tempo buono, buone armi, buon presagio, etc.: in breve, chiamiamo buono tutto ciò che è come noi vogliamo che sia; quindi per l'uno può esser buono ciò che per l'altro è addirittura l'opposto. Il concetto di buono si suddivide in due sottospecie: quella cioè della soddisfazione immediata e quella della mediata, vale a dire la soddisfazione della volontà nel futuro: e sono il piacevole e l'utile. Il concetto opposto viene espresso con la parola cattivo, e più raramente e astrattamente con la parola male, che indica così tutto quanto non si confaccia a ciascuna aspirazione della volontà. Come tutti gli altri esseri, che posson venire in relazione con la volontà, si son poi detti buoni anche uomini, ai desiderati fini favorevoli, servizievoli, amicamente disposti, benefici; buoni adunque nel medesimo senso, e sempre con la riserva della relatività di codesto senso, quale si mostra per esempio nella frase: «Costui è buono verso di me, e non verso di te». Coloro invece, il cui carattere comportava di non porre ostacolo in genere alle altrui aspirazioni, e costantemente erano servizievoli, benevoli, amichevoli, benefici, furon chiamati uomini buoni per cotale relazione della loro condotta con la volontà degli altri. Il concetto opposto s'indica in tedesco, e da forse cent'anni anche in francese, riferendosi ad esseri conoscenti (animali e uomini) con parola diversa da quella usata per gli esseri privi di conoscenza – ossia la parola böse (malvagio), méchant, mentre in quasi tutte le altre lingue codesto divario non esiste, e κακος, malus, cattivo, bad vengono usati sì per gli uomini sì per le cose inanimate, quando si oppongano ai fini di una determinata, individuale volontà. Partita adunque in tutto e per tutto dal lato passivo del buono, l'indagine poteva solo più tardi volgersi all'attivo, e studiar la condotta dell'uomo chiamato buono non più in rapporto ad altri, bensì a lui medesimo, proponendosi in particolar modo la spiegazione sì della stima puramente obiettiva, che quella condotta visibilmente produceva in altri, sì della singolar contentezza di sé prodotta in lui stesso; come, al contrario, dell'intimo dolore, che accompagna la cattiva intenzione, per quanti vantaggi esteriori produca a chi la nutre. Ora, di qui ebbero origine i sistemi etici, tanto filosofici quanto religiosi. Gli uni e gli altri cercan sempre di collegare in qualche modo la felicità con la virtù; i primi, o in virtù del principio di contraddizione, o anche in virtù del principio di ragione, ma sempre sofisticamente; gli ultimi invece affermando l'esistenza d'altri mondi da quello che può esser conosciuto dall'esperienza55.

Viceversa per l'indagine nostra l'intima essenza della virtù si rivelerà come una tendenza in direzione affatto opposta a quella che conduce alla felicità, ossia al benessere e alla vita.

In virtù di quanto fu detto più sopra, il buono è, considerato nel suo concetto, των προς τι,sia è ogni cosa buona essenzialmente relativa, avendo la sua essenza sol nel suo rapporto con una volontà in atto. Bene assoluto è quindi una contraddizione: sommo bene, summum bonum, significa ancora lo stesso, cioè propriamente il finale appagarsi della volontà, dopo il quale nessun volere nuovo subentri: un ultimo motivo, il cui raggiungimento produca una indistruttibile soddisfazione della volontà. Per le considerazioni fatte finora in questo quarto libro, un tal bene non si può concepire. La volontà non può per qualsivoglia appagamento cessar di ricominciare ognora a volere, più di quanto possa il tempo cominciare o finire: una durevole soddisfazione, che appaghi appieno e per sempre la sua sete, non esiste per lei. Ella è la botte delle Danaidi: non v'ha per lei alcun sommo bene, alcun bene assoluto, bensì ognora appena un bene provvisorio. Ma se frattanto piacesse mantenere un posto onorifico a un'antica espressione, la quale per abitudine non si vorrebbe del tutto sopprimere, come a un funzionario emerito, allora si potrebbe chiamar bene assoluto, summum bonum in modo tropico e figurato, la completa soppressione e negazione della volontà, la vera assenza di volontà, che unica per sempre placa e sopprime la sete del volere, unica da quella pace la quale non può più esser turbata, unica ci redime dal mondo. Di lei tratteremo alla fine di tutta la nostra opera, considerandola come unico radicale rimedio della malattia, di fronte alla quale tutti gli altri beni non sono che palliativi anodini. In tal senso il greco τελος, com'anche il latino finis bonorum, corrisponde ancor meglio alla verità. E questo basti intorno alle parole buono e cattivo; veniamo ora al sodo.

Se un uomo, non appena ne abbia l'occasione e nessun potere esterno lo trattenga, è sempre inclinato a commettere ingiustizia, lo chiamiamo cattivo. Secondo la nostra spiegazione dell'ingiustizia, ciò significa che costui non solo afferma la volontà di vivere, quale essa si manifesta nel suo corpo, ma in codesta affermazione va tanto oltre, da negare la volontà manifestantesi in altri individui. Egli pretende con ciò le forze loro pel servigio della volontà propria, e l'esistenza loro cerca di sopprimere, quando della volontà di lui essi contrariano le aspirazioni. Di ciò è sorgente prima un alto grado di egoismo, la cui essenza fu esposta più sopra. Due cose son qui subito palesi: primo, che in un tale uomo si esprime una volontà di vivere estremamente impetuosa, oltrepassante di gran lunga l'affermazione del suo proprio corpo; secondo, che la conoscenza di lui, tutta presa dal principio di ragione e prigioniera nel principio individuationis, rimane attaccata alla distinzione completa messa da quello tra la sua persona e tutte le altre. Perciò egli cerca solo il benessere proprio, affatto indifferente a quello di tutti gli altri, il cui essere è a lui del tutto estraneo, separato dal suo mediante un ampio abisso. Gli altri vede egli addirittura come larve senza realtà. E codeste due note sono gli elementi fondamentali del carattere malvagio.

Quella grande vivacità del volere è intanto già in sé e per sé una perenne fonte di dolore. Dapprima, perché ogni volere, in quanto tale, deriva dalla privazione, ossia dal dolore (perciò, come il lettore ricorderà dal terzo libro, il momentaneo tacere della volontà, che si produce appena noi come puro, privo di volontà soggetto del conoscere – correlato dell'idea – ci abbandoniamo alla contemplazione estetica, è già per l'appunto un elemento principale della gioia provata davanti al bello). In secondo luogo, perché, in forza della causale concatenazione delle cose, quasi tutte le aspirazioni rimangono inappagate, e la volontà viene ben più spesso ostacolata che soddisfatta; sì che, anche per questo, vivace e forte volere trae sempre con sé vivace e forte soffrire. Imperocché ogni soffrire non è null'altro se non inappagato e contrariato volere: lo stesso dolore del corpo, quando questo vien ferito o distrutto, è in quanto dolore unicamente possibile pel fatto, che il corpo non è se non la volontà medesima fattasi oggetto. Perciò adunque, poi che molto e vivo soffrire da molto e vivo volere è inseparabile, già l'espressione del volto in uomini assai cattivi ha l'impronta dell'interno dolore. Quand'anche abbiano raggiunto ogni felicità esteriore, hanno sempre aspetto d'infelici, a meno che non si trovino in uno stato di giubilo momentaneo o che s'infingano. Da questo interno tormento, che in loro è proprio direttamente essenziale, vien prodotta in ultimo perfino quella gioia del male altrui, non più causata dal semplice egoismo, ma addirittura disinteressata, che è la malvagità vera e propria, e sale fino alla crudeltà. Per essa l'altrui dolore non è più un mezzo a ottenere il conseguimento dei fini della propria volontà, bensì scopo a se stesso. La precisa spiegazione di questo fenomeno è la seguente. Essendo l'uomo fenomeno della volontà, illuminato dalla più chiara conoscenza, paragona sempre l'effettivo, provato appagamento della sua volontà con quello, solamente possibile, che la conoscenza gli pone davanti agli occhi. Da ciò nasce l'invidia: ogni privazione viene infinitamente esasperata dall'altrui godimento, e sollevata dal sapere che anche altri patiscono la privazione medesima. I mali a tutti comuni, e dalla umana vita inseparabili, poco ci turbano: e similmente quelli che al clima, al paese tutto appartengono. Il ricordo di mali maggiori, che non siano i nostri, placa il dolore di questi: attenua i nostri la vista dei dolori altrui. Ora, un uomo preso da un estremo, impetuoso impeto della volontà, con ardente cupidigia vorrebbe tutto abbracciare per ispegnere la sete dell'egoismo; ma intanto, com'è fatale, deve sperimentar che ogni appagamento è illusorio, né il bene conseguito mai corrisponde a ciò, che il bene desiderato prometteva, ossia definitivo cessare della rabbiosa sete; perché invece il desiderio con l'appagamento non fa che mutar di forma, e in forma nuova torturare ancora; anzi da ultimo, quando tutte le forme sono esaurite, la sete della volontà pur senza aspirazione consapevole permane, manifestandosi come insanabile martirio, qual sentimento della più atroce desolazione e del vuoto universale. Tutto questo, che nei gradi ordinari della volontà, sentito solamente in più tenue misura, produce anche solo un grado ordinario di turbamento dell'animo, in colui, che invece è fenomeno della volontà spinto fino all'aperta cattiveria, sviluppa necessariamente un'estrema tortura intima, eterna inquietudine, insanabile dolore. Allora costui cerca in modo indiretto quel sollievo, che non può raggiungere in modo diretto, ossia cerca di lenire il male suo con la vista dell'altrui, che egli in pari tempo vede come una manifestazione della propria forza. Altrui dolore gli diviene scopo in se stesso, è uno spettacolo nel quale egli esulta: e così nasce il fenomeno della vera e propria crudeltà, della sete di sangue, che la storia tanto spesso ci mostra, nei Neroni, nei Domiziani, nei Robespierre, etc.

Alla malvagità è già affine la sete di vendetta, che il male paga col male, non per riguardo al futuro, il che costituisce il carattere della pena, ma solo per il fatto accaduto, passato; quindi senza vantaggio; non come mezzo, ma come fine, per letiziarsi nel tormento, da noi stessi inflitto l'offensore. Ciò che distingue la vendetta dalla pura malvagità, e in qualche po' la scusa, è un'apparenza di giustizia; in quanto lo stesso atto, che stavolta è vendetta, quando fosse legale, ossia compiuto secondo una regola fissa e notoria, e in seno a una collettività, da cui questa fosse sanzionata, si chiamerebbe pena, cioè diritto. Fuori delle sofferenze descritte, nate con la malvagità da una stessa radice, l'eccessiva volontà, e quindi da quella inseparabili, alla malvagità è ancora associata un'altra sofferenza affatto diversa e particolare, la quale si fa sensibile ad ogni cattiva azione commessa, sia poi questa una semplice ingiustizia per egoismo, o malvagità pura; e secondo il tempo della sua durata si chiama breve rimorso o duratura angoscia della coscienza. Chi abbia presente nella memoria quanto si contiene finora in questo quarto libro, e particolarmente la verità illustrata in principio, che alla volontà di vivere è assicurata ognora la vita stessa, qual semplice immagine e specchio di lei – quegli troverà che, conformemente alle considerazioni fatte, il rimorso non può avere altro significato se non questo che ora seguirà. Ossia, il suo contenuto, astrattamente espresso, è il seguente, nel quale si distinguono due parti, che nondimeno devono da ultimo essere riunite e pensate come affatto congiunte.

Per quanto fitto sia il velo di Maja che avvolge l'animo del malvagio, ossia per quanto chiusa sia la prigionia di lui nel principio individuationis, in virtù del quale egli tiene la propria persona come distinta assolutamente, e da ogni altra separata mediante un ampio abisso, la qual cognizione, perché è la sola conforme al suo egoismo e ne forma il sostegno, egli tien ferma con tutta forza, essendo quasi sempre la cognizione corrotta dalla volontà, si agita tuttavia nell'intimo della sua coscienza l'occulta sensazione, che un siffatto ordine di cose sia nondimeno nient'altro che fenomeno; e che in sé la cosa sia tutt'altra. Dividano pur tempo e spazio lui medesimo da altri individui e dai tormenti inenarrabili ch'essi soffrono, anzi per cagion sua soffrono, e veda egli pur costoro come affatto stranieri a lui medesimo, tuttavia è l'unica volontà di vivere che in sé, prescindendo dalla rappresentazione e dalle sue forme, in essi tutti si palesa; ella è, che se stessa disconoscendo, contro sé volge le proprie armi; e mentre cerca con un dei propri fenomeni un maggiore benessere, perciò appunto infligge a un altro il maggior dolore. E l'uomo malvagio è per l'appunto codesta volontà tutta intera, sì ch'ei viene a essere non solo il tormentatore, ma anche il tormentato, dal cui dolore egli è separato e si crede libero sol mediante un sogno illusorio, che ha per forma il tempo e lo spazio. Ma il sogno svanisce; ed egli, per forza della verità, deve il piacere pagare col dolore; tutta la sofferenza ch'egli conosce solo in quanto possibile, lui colpisce effettivamente, in quanto egli è volontà di vivere; imperocché sol per la conoscenza individuale, solo per virtù del principii individuationis, e non già in sé, sono distinte possibilità e realtà, lontananza e vicinanza di tempo e di spazio. È questa la verità, che miticamente, ossia conformata al principio di ragione e tradotta con ciò nella forma del fenomeno, viene espressa dalla dottrina della migrazione delle anime: ma la sua espressione più pura da ogni mescolanza l'ha per l'appunto in quell'angoscia oscuramente sentita, eppure inconsolabile, che si chiama rimorso. Ma questo procede inoltre da una seconda, immediata conoscenza, con quella prima esattamente congiunta: ossia dalla conoscenza del vigore, con cui nell'individuo malvagio la volontà di vivere si afferma; vigore che va ben oltre l'individuale fenomeno di lui, fino alla completa negazione della medesima volontà rivelantesi in altri individui. Quindi l'interno orrore del malvagio per la sua propria azione, orrore ch'ei cerca di celare a se stesso, contiene, oltre quel vago sentimento della nullità e della pura apparenza sì del principio di ragione sì della distinzione, ch'esso mette tra lui e gli altri, contiene, dico, in pari tempo anche la cognizione della violenza della propria volontà, dell'impeto con cui questa ha ghermito la vita, e l'ha succhiata. Questa vita appunto, di cui egli vede la faccia orrenda nell'angoscia di chi è da lui oppresso; e con la quale è nondimeno così strettamente avvinto, che perciò appunto il più tristo orrore proviene da lui medesimo, qual mezzo per la compiuta affermazione della sua propria volontà. Egli si riconosce come concentrato fenomeno della volontà di vivere, sente fino a qual punto ei sia in potere della vita, e quindi anche degli innumerabili dolori, che a questa sono essenziali, avendo essa infinito tempo e infinito spazio per cancellare il divario tra possibilità e realtà, e tutti i mali da lui per ora sol conosciuti convertire in mali provati. I milioni d'anni delle continue rinascite sussistono in verità soltanto nel concetto, come soltanto nel concetto esistono tutto il passato ed il futuro: il tempo realmente pieno, la forma del fenomeno della volontà è solo il presente, e per l'individuo è il tempo ognora nuovo: egli si ritrova sempre come nato allora. Imperocché dalla volontà di vivere è inseparabile la vita, e sua unica forma è l'adesso. La morte (mi si scusi la ripetizione del paragone) somiglia al tramonto del sole, il quale solo in apparenza viene inghiottito dalla notte, mentre in realtà, esso ch'è sorgente unica d'ogni luce, senza interruzione arde, a nuovi mondi reca nuovi giorni, in ogni attimo si leva e in ogni attimo tramonta. Principio e fine toccano solo all'individuo, per mezzo del tempo, forma del fenomeno individuale per la rappresentazione. Fuori del tempo non è che la volontà, la cosa in sé di Kant, e la sua adeguata oggettità, ossia l'idea di Platone. Perciò non dà il suicidio salvazione di sorta: ciò che ciascuno nel suo più intimo vuole, ciò deve egli essere: e ciò che ciascuno è, ciò appunto egli vuole. Quindi accanto alla cognizione soltanto sentita della pura apparenza e della nullità delle forme della rappresentazione, per cui vengono distinti gli individui, gli è l'autocognizione della propria volontà e del suo grado quella che dà pungolo alla coscienza. Il corso vitale produce l'immagine del carattere empirico, di cui è originale il carattere intelligibile, ed il malvagio ha orrore di questa immagine: sia essa tracciata a grosse linee, sì che il mondo partecipi al suo proprio orrore, o sia tracciata invece in linee così sottili, ch'egli solo le veda: che lui unicamente essa immagine tocca in modo immediato. Il passato sarebbe indifferente, come semplice fenomeno, e non potrebbe angustiare la coscienza, se il carattere non si sentisse sciolto da ogni tempo e, attraverso il tempo, immutabile, finch'esso non abbia rinnegato se medesimo. Perciò azioni commesse anche da gran pezzo pesano pur sempre sulla coscienza. La preghiera: «Non m'indurre in tentazione», significa: «Non lasciarmi vedere che io mi sia». Dalla forza, con cui il malvagio afferma la vita, e che gli si manifesta nei dolori da lui inflitti ad altri, egli misura quanto lontane siano da lui appunto la rinunzia e la negazione di quella volontà, che sono l'unica redenzione possibile dal mondo e dal suo male. Vede, fino a che punto egli al mondo appartiene ed è con esso avvinto: il conosciuto dolore altrui non è giunto a scuoterlo: della vita e del dolore direttamente provato egli è in pieno potere. Tralasciamo per ora di vedere, se questa diretta prova infrangerà e vincerà la violenza del suo volere.

Quest'illustrazione del valore e dell'intima essenza del malvagio, la qual sol come sentimento, ossia non come chiara, astratta conoscenza, è il contenuto del rimorso, acquisterà ancor maggior limpidità e compiutezza mediante l'analisi, condotta nel medesimo modo, del buono, come proprietà dell'umano volere; e poi, da ultimo, della rassegnazione e santità, la quale proviene da quella proprietà, quand'essa ha raggiunto il grado più alto. Imperocché i contrari s'illuminano sempre vicendevolmente, e il giorno rivela insieme se medesimo e la notte, secondo ha detto eccellentemente Spinoza.

§ 66.

Una morale senza fondamento, ossia un semplice moraleggiare, non può aver effetto, perché non fornisce motivi. Ma una morale che dia motivi, può farlo solo con l'agire sull'amore di sé. Ed il frutto di codesto amore non ha alcun valore morale. Ne deriva, che per la via della morale, e della conoscenza astratta in genere, nessuna genuina virtù può essere prodotta; bensì questa deve provenire dalla conoscenza intuitiva, la quale nell'individuo estraneo riconosce l'essenza medesima che è in noi stessi.

La virtù procede invero dalla conoscenza; ma non dall'astratta, comunicabile per mezzo di parole. Se così fosse, la si potrebbe insegnare; e proclamandone qui astrattamente l'essenza, e la cognizione che alla virtù servisse di fondamento, avremmo migliorato ognuno che ciò avesse compreso. Ma non è punto così. Con etiche conferenze o prediche non si fabbrica un virtuoso, più di quanto tutte le estetiche, a cominciar da quella d'Aristotele, abbian mai fabbricato un poeta. Che per la vera e propria essenza intima della virtù il concetto è infruttifero, come per l'arte, e solo in maniera affatto subordinata può render servigio nell'esecuzione e conservazione di quanto s'è per altra via conosciuto e deciso. Velle non discitur. Sulla virtù, ossia sulla bontà dell'animo, non hanno i dogmi astratti in realtà effetto alcuno: non la turbano i falsi, e difficilmente la favoriscono i veri. E sarebbe d'altronde gran male, se la cosa più importante dell'umana vita, il suo valore etico, da valere per l'eternità, dipendesse da elementi, il cui acquisto è tanto soggetto al caso, come sono dogmi, religiosi, filosofemi. I dogmi hanno per la moralità questo semplice valore, che in essi chi è già virtuoso in virtù d'una diversa conoscenza la quale spiegheremo, trova uno schema, un formulario, secondo il quale rende conto, conto il più delle volte immaginario, alla propria ragione degli atti non egoistici da lui compiuti, dei quali la ragione, ossia egli medesimo, non comprende l'essenza. E di tal conto egli ha abituato la ragione a contentarsi.

Forte influenza possono bensì avere i dogmi sulla condotta, sull'agire esterno; così pure l'abitudine e l'esempio (quest'ultimo, perché l'uomo comune non fida nel giudizio proprio, di cui conosce la fiacchezza, bensì segue soltanto la propria o l'altrui esperienza); ma con ciò non è mutato l'animo56. Ogni conoscenza astratta non da che motivi: i motivi tuttavia possono, com'è mostrato più sopra, cambiar solamente l'indirizzo della volontà, e non la volontà medesima. Ma intanto ogni conoscenza mediata può sulla volontà agire sol come motivo; perciò, comunque la guidino i dogmi, nondimeno quel che l'uomo propriamente e genericamente vuole rimane sempre il medesimo: egli ha solo ricevuto altri pensieri intorno alle vie, per cui la sua volontà va attuata, e motivi immaginari lo guidano come i reali. Quindi è per esempio affatto indifferente, rispetto al suo valore morale, se egli faccia grandi donazioni a indigenti, persuaso di riavere in una vita futura, decuplicato, il suo dono, o se impiega quella stessa somma a migliorare una tenuta che gli frutterà interessi bensì tardivi, ma perciò appunto più sicuri e considerevoli: – e un assassino, non meno del bandito, che si guadagna col delitto un compenso, è anche quegli che ortodossamente consegna l'eretico alle fiamme, o addirittura, guardato nel suo intimo, anche colui che scanna i Turchi in Terrasanta, se, come l'altro, ciò propriamente fa perché crede di guadagnarsi così un posto nel cielo. Imperocché solo a se stessi, al proprio egoismo, voglion costoro pensare; proprio come quel bandito, da cui essi si distinguono unicamente per l'assurdità dei mezzi. Dal di fuori, come abbiam detto, si perviene alla volontà solo per mezzo di motivi: nondimeno questi mutano esclusivamente il modo con cui la volontà si manifesta, e non mai la volontà stessa. Velle non discitur.

Nelle buone azioni, il cui autore si fonda su dogmi, bisogna però sempre distinguere, se codesti dogmi sono poi veramente il motivo dell'azione, o se, com'io dicevo poc'anzi, non sono che l'apparente giustificazione, con cui quegli cerca di appagare la propria ragione intorno ad una buona azione originata da tutt'altra sorgente, ch'egli compie perché è buono, ma che non sa sufficientemente spiegarsi, perché non è filosofo, e pur vorrebbe pensar qualcosa in proposito. Ma la differenza è assai difficile a scorgere, perché sta nell'intimo dell'animo. Perciò non possiamo quasi mai rettamente giudicare il valore morale delle azioni altrui, e raramente delle nostre. Gli atti e i modi d'agire del singolo, come d'un popolo, possono da dogmi, esempii e abitudine essere di molto modificati. Ma in sé son tutte le azioni (opera operata) nient'altro che vuote immagini, e soltanto l'animo, che a quelle mena, dà loro il valore morale. E questo può in realtà essere il medesimo, anche sotto ben diversa apparenza esteriore. Pur possedendo lo stesso grado di malvagità, che presso un popolo si esprime in grossi tratti, con l'assassinio e il cannibalismo, e nell'altro invece sottilmente e delicatamente en miniature con intrighi di corte, oppressioni e astute manovre d'ogni maniera: l'essenza rimane la stessa. Si potrebbe immaginare che uno stato perfetto, o addirittura fors'anche un dogma di ricompense e pene nell'al di là, a cui si prestasse fede assolutamente piena, impedisse ogni delitto: ora, politicamente sarebbe questo un gran risultato, ma nullo moralmente; anzi si sarebbe solo interdetto alla vita di riflettere la volontà.

La genuina bontà dell'animo, la disinteressata virtù e la pura generosità non provengono adunque da conoscenza astratta, ma bensì tuttavia da una conoscenza: ossia da una conoscenza immediata ed intuitiva, che non si può cancellare né eccitare con arzigogoli di ragione; da una conoscenza, che appunto perché non è astratta, non si lascia comunicare, ma deve in ognuno nascere spontanea, e che perciò trova la sua vera, adeguata espressione non già in parole, bensì esclusivamente in atti, nella condotta, nel corso vitale dell'uomo. Noi, che qui cerchiamo la teoria della virtù, e quindi dobbiamo anche esprimere astrattamente l'intimo essere della conoscenza, che le serve di base, non potremo tuttavia fornire in tale espressione quella conoscenza in sé, bensì esclusivamente il suo concetto. Sempre dovremo partire dalla condotta, sol nella quale essa diviene visibile, e alla condotta riferirci come alla sua sola espressione adeguata, che noi possiamo appena chiarire e spiegare, ossia formulando astrattamente ciò che propriamente in lei accade.

Ma prima che noi, in contrasto con la trattazione fatta del malvagio, veniamo a trattare di ciò ch'è propriamente buono, ci tocca accennare, come grado intermedio, alla semplice negazione del malvagio: alla giustizia. Che cosa siano giusto e ingiusto, abbiamo sufficientemente spiegato: potremo quindi dire ora in breve, che colui il quale volontariamente riconosce e rispetta quel confine puramente morale, anche dove nessuno stato o altra forza lo difende, e perciò, secondo la nostra spiegazione, non arriva mai nell'affermazione della propria volontà fino a negar quel che si palesa in un altro individuo – colui è giusto. Non infliggerà dunque dolori ad altri, per accrescere il suo proprio benessere: ossia non commetterà nessun crimine, rispetterà i diritti, rispetterà il bene altrui. E noi vediamo, ora, che per un tale uomo giusto, il principium individuationis non è già più, come per il malvagio, un'immobile parete divisoria; vediamo ch'egli non afferma, come il malvagio, solamente il suo proprio fenomeno di volontà, e tutti gli altri nega; che gli altri uomini non sono per lui semplici larve, la cui essenza sia affatto diversa dalla sua. Viceversa con la sua maniera d'agire dimostra ch'egli la sua propria essenza, ossia la volontà di vivere, in quanto cosa in sé, riconosce anche nel fenomeno estraneo, dato a lui esclusivamente come rappresentazione; ritrova in quello se stesso, fino a un certo grado, il grado del non commettere ingiustizia, del non ferire. In questo grado appunto egli penetra di là dal principio individuationis, dal velo di Maja: considera l'essenza, ch'è fuori di lui, pari, fino a questo segno, alla propria: non fa ingiuria.

In codesta giustizia, quando la si guardi nel suo intimo, già si trova il proposito di non andar nell'affermazione della volontà propria tant'oltre, ch'essa neghi gli estranei fenomeni di volontà, obbligandoli a servirci. Si vorrà dunque agli altri tanto concedere, quanto da loro si riceve. Il grado supremo di tale giustizia dell'animo, che sempre nondimeno già s'accoppia con la bontà vera e propria, il cui carattere non è più soltanto negativo, arriva fino a porre in dubbio i propri diritti su di un patrimonio ereditato, a voler mantenere il corpo sol mediante le forze proprie, intellettuali o corporali, ad accogliere ogni altrui prestazione di servigi, ogni lusso come un rimprovero, e ad abbracciare da ultimo la volontaria povertà. Così vediamo Pascal, quando prese l'indirizzo ascetico, non poter più sopportare d'essere servito, sebbene avesse servi a sufficienza; non badando alla permanente cagionevolezza della sua salute, si rifaceva da sé il letto, toglieva egli stesso il suo cibo dalla cucina, e così via (Vie de Pascal par sa soeur, p. 19). In piena corrispondenza con ciò si narra che taluni Hindù, e addirittura dei Rajà, pur possedendo molta ricchezza, questa impiegano solo nel mantenimento della famiglia, della corte dei servi, mentr'essi con rigido scrupolo osservano la massima di nulla mangiare che non abbiano con le lor mani seminato e raccolto. In fondo a questo è nondimeno un certo malinteso: imperocché il singolo uomo può, appunto essendo ricco e potente, al complesso dell'umana società rendere servigi sì considerevoli, da corrispondere all'ereditata ricchezza, della cui sicurtà egli va debitore allo Stato. Propriamente quell'eccessiva giustizia di cotali hindù è già più che giustizia: è reale rinunzia, negazione della volontà di vivere, ascesi; del che tratteremo da ultimo. Viceversa può il semplice far niente e il vivere delle forze altrui, con una proprietà ereditata, senza nulla operare, esser già considerato come moralmente ingiusto, anche se deve rimaner giusto secondo le leggi positive.

Abbiamo trovato, che la giustizia volontaria ha la sua più profonda origine in un certo grado di superamento del principii individuationis, mentre in questo principio riman sempre del tutto prigioniero l'uomo ingiusto. Codesto superamento può aver luogo non soltanto nel grado a ciò richiesto, ma anche in un grado maggiore, che spinge al benvolere e al benfare attivi, all'amor del prossimo: e questo può accadere per quanto forte ed energica sia in sé pur la volontà manifestantesi in tale individuo. Sempre può la conoscenza tenerlo in equilibrio, insegnargli a resistere alla tentazione dell'ingiustizia, fino a produrre tutti i gradi della bontà e addirittura della rassegnazione. Perciò l'uomo buono non va punto considerato come un fenomeno di volontà, il quale sia dall'origine più debole dell'uomo cattivo: bensì è la conoscenza, che in lui governa il cieco impeto della volontà. Vi sono invero individui, che sembrano buoni sol per la debolezza della volontà in essi palesantesi: ma quel ch'essi veramente sono appare presto dal fatto, che sono incapaci d'ogni notevole sforzo su se medesimi per compiere un'azione giusta o buona.

Se poi ora ci capita, come rara eccezione, un uomo, il quale per avventura possegga una considerevole rendita, ma di questa poco prenda per sé, e tutto il rimanente dia ai miseri, mentr'egli medesimo di molti godimenti e comodi si privi; e se noi cerchiamo di spiegarci la condotta di quest'uomo; troveremo, prescindendo affatto dai dogmi ond'egli vuol forse far comprensibile alla propria ragione il suo agire, essere questa la più semplice, generica espressione, e questo il carattere essenziale della sua condotta: che egli minor differenza pone, di quanto solitamente si faccia, tra sé e gli altri. Se per l'appunto codesta differenza, agli occhi di tanti altri, è sì grande, che altrui dolore è al malvagio diretta gioia, all'ingiusto è gradito mezzo per conseguire il benessere proprio; e se quegli ch'è semplicemente giusto si limita a non causar quel dolore; e se in genere la maggior parte degli uomini vede e conosce in sua prossimità innumerabili dolori altrui, ma non si risolve a mitigarli, perché dovrebbe a tal fine patire a sua volta qualche privazione; se adunque a ciascuno di cotali uomini sembra che un forte divario passi tra il proprio io e l'altrui; a quel generoso invece, che noi immaginammo, non pare quel divario sì considerevole. Il principium individuationis, la forma del fenomeno, non lo tiene più così stretto; invece il dolore, ch'ei vede in altri, lo tocca quasi come il suo proprio: egli cerca perciò di tener tra questo e quello l'equilibrio, si rifiuta godimenti, si assume privazioni, per attenuare i mali altrui. Si persuade, che la distinzione tra lui e gli altri, la quale è per il malvagio un sì grande abisso, è in realtà prodotta da un effimero, illusorio fenomeno; conosce, direttamente e senza bisogno di sillogismi, che l'in-sé del suo proprio fenomeno è pur quel dell'altrui, ossia è quella volontà di vivere, che costituisce l'essenza d'ogni cosa e in tutto vive; conosce, anzi, che quest'essenza si estende fino agli animali e alla natura intera: perciò non tormenterà mai un animale57. Egli è oramai così poco in grado di lasciar che altri stenti la vita, mentr'egli possiede financo il superfluo, come a nessuno verrebbe in mente di soffrire una giornata di fame, per avere il dì seguente più di quanto possa mangiare. Imperocché a quegli, che pratica le opere dell'amore, il velo di Maja si è fatto trasparente; da lui è svanita l'illusione del principii individuationis. Se stesso, il suo io, la sua volontà egli conosce in ogni essere, e quindi anche in chi soffre. Da lui è fuggita la stoltezza, con la quale la volontà di vivere, se medesima disconoscendo, qui gode in un individuo fuggitivi, finti piaceri, mentre in cambio là soffre e stenta; e così affanno cagiona ed affanno patisce; senza conoscere che, come Tieste, la propria carne avido divora, e poi qui geme sopra un immeritato dolore, là folleggia senza timpr della Nemesi, sempre e sempre sol perché se stesso disconosce nell'altrui fenomeno, e quindi non percepisce l'eterna giustizia, essendo prigioniero del principii individuationis, ossia ognora di quel modo di conoscenza, che il principio di ragione governa. Esser guarito da questo errore illusorio del velo di Maja, e praticar le opere dell'amore, è tutt'uno. Questa pratica è l'immancabile sintomo di quella guarigione.

Il contrario del rimorso, del quale furon chiariti più sopra l'origine e il valore, è la buona coscienza, la soddisfazione che noi proviamo dopo ogni azione, quale viene generata dal diretto riconoscer la nostra propria essenza in sé anche nell'altrui fenomeno, dà di rimando a noi la conferma di codesta conoscenza: la conoscenza, cioè, che il nostro vero io non risiede soltanto nella persona nostra, la quale è un fenomeno isolato, ma bensì in tutto quanto ha vita. Da ciò si sente il cuore fatto più ampio, come viceversa per l'egoismo si sente più stretto. Imperocché, come l'egoismo concentra la nostra partecipazione nel singolo fenomeno del nostro individuo, nel quale stato la conoscenza ci tiene ognora presenti i pericoli innumerevoli, onde questo fenomeno è minacciato, sì che ansia e preoccupazione divengono il fondo dell'animo nostro, la conoscenza invece che ogni cosa vivente è per l'appunto la nostra stessa essenza in sé com'è nostra la nostra persona, estende viceversa la nostra partecipazione a tutto quanto vive; ed il cuore ne è allargato. Mediante questo diminuito interesse al nostro io, l'angosciosa ansia a suo riguardo viene intaccata e limitata nella radice: di là proviene la tranquilla, fiduciosa letizia, che animo virtuoso e buona coscienza ci danno; di là viene il loro sempre più chiaro manifestarsi ad ogni azione buona, perché l'azione buona ci conferma la verità di quella disposizione. L'egoista si sente circondato da fenomeni estranei ed ostili, ed ogni sua speranza poggia sul bene proprio. Il buono vive in un mondo di fenomeni amici: il bene d'ognuno di questi è il suo bene. Quindi, se pur la cognizione dell'umano destino universale non può far lieto il suo animo, nondimeno il saldo riconoscer l'essenza propria in tutto ciò che vive gli dà un certo equilibrio, e perfino serenità d'animo. Perché l'interesse diffuso su innumerevoli fenomeni non può angustiare come l'interesse concentrato sopra uno solo. I casi accidentali ond'è colta l'universalità degli individui si compensano, mentre quelli occorrenti a un individuo isolato apportano felicità o sventura.

Se altri, adunque, potè stabilire principi morali, gabellandoli come regole di virtù, e leggi da seguirsi per obbligo, non posso invece io, come ho detto, fornirne di altrettali: perché all'eternamente libera volontà non ho da prescrivere dovere né legge. Invece, nell'organismo del mio sistema ciò che in certo modo corrisponde analogicamente a quel proposito è la verità, puramente teoretica, di cui è semplice sviluppo il complesso di questa mia esposizione. Ossia, che la volontà è l'in-sé d'ogni fenomeno, e quindi, come tale, sciolta dalle forme fenomeniche e dalla pluralità; la qual verità io, riguardo alla condotta, non so esprimere più degnamente che con la citata formula del Veda: «Tat tvam asi!» («questo sei tu!»). Chi sa ripeterla a se stesso con limpida cognizione e ferma, intima persuasione innanzi a ciascun essere con cui venga in contatto, è certo con essa di conseguire ogni virtù e beatitudine, e si trova sulla via diritta che conduce alla redenzione.

Ma, prima che io proceda oltre e mostri, come termine della mia trattazione, in qual modo l'amore, di cui già conosciamo essere origine ed essenza il poter guardare di là dal principio individuationis, conduca alla redenzione, ossia alla cessazione completa della volontà di vivere, cioè d'ogni volere; ed in qual modo vi conduca pure un'altra via, meno dolce, eppur più frequente; deve ancora venir formulato e chiarito un paradosso: non perché sia tale, ma perché è vero, ed entra nella compiutezza del pensiero ch'io voglio esporre. Esso è il seguente: «Ogni amore τελος, caritas) è compassione».

§ 67.

Abbiamo veduto come dall'oltrepassamento del principii individuationis venisse, nel grado minore, la giustizia, e nel maggiore la bontà vera e propria dell'animo, la quale ci si mostrò come puro, ossia disinteressato amore per gli altri. Dove quest'amore si fa perfetto, rende l'individuo estraneo e il suo destino affatto pari al nostro: più in là non si può andare, non essendovi ragione di preferire l'altrui individuo al nostro. Può nondimeno la massa degli individui estranei, il cui benessere o la cui vita siano in pericolo, prevalere sui riguardi del bene individuale. In tal caso il carattere asceso all'altissima bontà e alla perfetta generosità sacrifica in tutto il suo bene al bene dei più: così periva Codro, così Leonida, così Regolo, così Decio Mure, così Arnoldo di Winkelried, così ciascuno, che volontariamente e consapevolmente per i suoi, per la patria va a morte sicura. Alla medesima altezza sta chiunque di buon animo affronti dolore e morte per l'affermazione di ciò che all'umanità intera giova ed a buon diritto spetta, ossia per verità generali e importanti, e per l'estirpazione di grossi errori. Così periva Socrate, così Giordano Bruno, così trovarono tanti eroi della verità la morte sul rogo, tra le mani dei preti.

Ma riguardo al paradosso più sopra formulato ho da rammentare, che noi già per l'addietro trovammo essere inerente alla vita, nel suo complesso, il dolore, e dalla vita inseparabile. Vedemmo pure, come ogni desiderio nasca da un bisogno, da una mancanza, da una sofferenza; che quindi ogni appagamento è appena un dolore tolto di mezzo, e non già un piacere positivo; che le gioie appariscono menzogneramente al desiderio come un bene positivo, mentre in verità non sono che negative, quali cessazioni d'un male. Quel che adunque bontà, amore e nobiltà posson fare per altri, è sempre nient'altro che lenimento dei loro mali; e quel che per conseguenza può muoverle alle buone azioni e opere dell'amore, è sempre soltanto la conoscenza dell'altrui dolore, fatto comprensibile attraverso il dolore proprio, e messo a pari di questo. Ma da ciò risulta che il puro amore (αγαπη, caritas) è, per sua natura, compassione, sia pur grande o piccolo (è tra questi ogni desiderio inappagato) il dolore ch'esso lenisce. In diretto contrasto con Kant, il quale ogni vera bontà e ogni virtù ammette come tali sol quando siano originate dalla riflessione astratta, e precisamente dal concetto del dovere e dell'imprativo categorico, mentre dichiara debolezza, e non virtù, la compassione provata, non esiteremo a dire: il puro concetto è per la virtù genuina tanto infecondo, quanto per la genuina arte: ogni vero e puro amore è compassione, e ogni amore che non sia compassione è egoismo. Egoismo è l'ερως; compassione è l'αγαπη). I due si trovano spesso frammisti. Perfino la vera amicizia è sempre mescolanza di egoismo e compassione: quello sta nel compiacersi della presenza dell'amico, la cui individualità corrisponde con la nostra, e costituisce dell'amicizia quasi sempre la massima parte; questa invece, la compassione, si manifesta nel partecipar sinceramente al suo bene e al suo male, e nei sacrifizi disinteressati che per lui si fanno. Perfino Spinoza dice: benevolentia nihil aliud est, quam cupiditas ex commiseratione orta. (Eth., II, pr. 27, cor. 3, schol.). A conferma del nostro paradosso si può osservare, che accento e parole della lingua, e carezze del puro amore coincidono in tutto col tono della compassione: e inoltre, di passata, che in italiano compassione e puro amore vengono indicati con la stessa parola: pietà.

Qui è pure il luogo di spiegare un'altra delle più sorprendenti proprietà dell'umana natura, il pianto, il quale, come il riso, appartiene alle manifestazioni ond'è l'uomo distinto dall'animale. Il piangere non è punto, senz'altro, espressione del dolore: imperocché i dolori pei quali si piange sono i meno. Anzi, secondo me, non si piange mai direttamente per un dolore provato, ma bensì sempre per il riprodursi di esso nella riflessione. Cioè, dal dolore provato, pur quand'è corporale, si passa a una pura rappresentazione di esso, e si trova allora sì compassionevole il proprio stato, che, se altri fosse a soffrire, siamo fermamente e sinceramente persuasi che l'aiuteremmo con tutta pietà e amore. Ma intanto siamo noi stessi l'oggetto di quella nostra sincera pietà: col più soccorrevole animo sentiamo d'essere proprio noi i bisognosi d'aiuto; si sente di patir più di quanto potremmo resistere a veder patire un altro; e in tal situazione singolarmente complessa, in cui il dolore direttamente sentito ritorna alla percezione sol con un doppio rigiro, rappresentandocisi come estraneo, come tale compassionato, e quindi immediatamente ripercepito come nostro, la natura si da sollievo mediante quella strana convulsione corporea. Il pianto è adunque pietà di se stesso, ossia pietà che torna indietro al suo punto di partenza. Perciò esso ha per condizione la capacità dell'amore e della compassione, e la fantasia; quindi né uomini duri di cuore né uomini privi di fantasia piangono facilmente, ed il pianto vien'anzi ognora considerato come segno d'un certo grado di bontà del carattere, e disarma l'ira, perché si sente, che chi può ancora piangere, deve per necessità essere anche capace d'amore, ossia di pietà verso altri; questo essendo che ci mette, nella maniera descritta, in quella disposizione la quale al pianto conduce. Affatto conforme a questa spiegazione, è il modo come Petrarca, esprimendo spontaneo e vero il proprio sentimento, descrive l'origine delle sue lagrime:

I' vo pensando: e nel pensar m'assale
Una pietà sì forte di me stesso,
Che mi conduce spesso
Ad alto lagrimar, ch'i' non soleva.

Quanto abbiam detto trova conferma nel fatto che bambini, i quali abbian patito un dolore, si mettono di solito a piangere solo quando li si compassiona; ossia non per il dolore, ma per la rappresentazione di esso. Quando noi non siam mossi al pianto da nostri, bensì da altrui dolori, ciò accade perché vivacemente ci mettiamo con la fantasia al posto di chi soffre, oppure nel suo destino scorgiamo la sorte dell'umanità intera e quindi principalmente di noi stessi; e così per un ampio giro pur sempre veniamo a piangere su di noi, di noi abbiam pietà. Questo sembra anche essere il motivo principale del comune, e quindi naturale, pianto nei casi di morte. Chi piange un morto non piange ciò che ha perduto; che si vergognerebbe di lagrime sì egoiste; mentre invece a volte si vergogna di non piangere. Piange in primo luogo invero la sorte del defunto: nondimeno piange anche quando in seguito a lunghe, gravi e insanabili sofferenze la morte è per quegli una desiderabile liberazione. Principalmente lo stringe adunque compassione per il destino dell'umanità intera, la quale è in potere d'un fato di morte, in cui ogni vita per quanto attiva e spesso ricca d'azioni dovrà spegnersi e ridursi al nulla. E in questo fato dell'umanità egli vede soprattutto il fato proprio: tanto più, quanto più vicino era a lui il morto: più che mai, quanto il morto era suo padre. Fosse pure a quest'ultimo per età e malattia divenuta un tormento la vita, fosse pure il padre nel suo stato d'impotenza ridotto un carico grave per il figlio, questi piange pur sempre vivamente la sua morte: per il motivo che s'è detto58.

§ 68.

Dopo questa digressione sull'identità del puro amore e della pietà, la quale ultima facendo ritorno a noi medesimi ha per sintomo il fenomeno del pianto, riprendo il filo della nostra esposizione riguardante il valore etico della condotta; per venire a mostrare come dalla sorgente medesima, da cui proviene ogni bontà, amore, virtù e nobiltà, si origini infine anche quella, ch'io chiamo negazione della volontà di vivere.

Come vedemmo odio e malvagità aver per condizione l'egoismo, e questo poggiar sulla conoscenza circoscritta nel principio individuationis; così trovammo essere origine ed essenza della giustizia, nonché, salendo più in su, dell'amore e della nobiltà fino ai gradi più alti, l'oltrepassamento di quel principii individuationis. Che solo il guardar di là da questo sopprime la distinzione tra l'individuo nostro e gli altri, e rende possibile e spiega la perfetta bontà dell'animo, fino al più disinteressato amore e al più generoso sacrificio di sé.

Ma, dato in alto grado di chiarezza questo superamento del principii individuationis, data questa diretta cognizione della volontà identica in tutti i suoi fenomeni, essa eserciterà immediatamente sulla volontà un influsso procedente ancor più lontano. Se invero davanti agli occhi d'un uomo quel velo di Maja, che è il principium individuationis, s'è tanto sollevato, che quest'uomo non ponga più l'egoistico divario tra la sua persona e l'altrui, bensì agli altrui dolori tanta parte prenda, quanta ai propri, e quindi non soltanto sia in altissima misura soccorrevole, ma pronto addirittura a sacrificar se stesso non appena più individui estranei sian da salvare col sacrificio suo; allora ne consegue spontaneamente che un tale uomo, il quale in tutti gli esseri il suo più intimo e più vero io riconosce, anche gl'infiniti mali d'ogni vivente tiene come suoi, e così fa suo il dolore del mondo intero. Nessun dolore gli è più straniero. Tutti gli affanni altrui, ch'egli vede e può sì raramente lenire; tutti gli affanni, di cui ha notizia indiretta, o che semplicemente conosce come possibili, agiscono sullo spirito di lui come i suoi propri. Non è più l'alterno bene e male della sua persona, quel ch'egli ha in vista, com'è il caso degli uomini ancor prigionieri dell'egoismo; invece, scorgendo egli di là dal principio individuationis, tutto gli è ugualmente vicino. Conosce il tutto, ne comprende l'essenza, e la trova sempre involta in un continuo perire, in un vano aspirare, in intimo contrasto e in perenne dolore; vede, dovunque guardi, la sofferente umanità e la sofferente animalità, e un mondo evanescente. E tutto è a lui così vicino, com'è vicina all'egoista la sua propria persona. Ora, come potrebb'egli mai, con tal conoscenza del mondo, questa vita affermare con continui atti di volontà, e in siffatto modo sé ognora più strettamente alla vita avvincere, sempre più forte a sé stringerla? Se adunque colui il quale ancor prigioniero nel principio individuationis, nell'egoismo, soltanto singole cose conosce, e il rapporto di esse con la sua persona; e quelle diventan poi motivi sempre rinnovati del suo volere; viceversa quella cognizione del tutto, dell'essenza delle cose in sé, diventa un quietivo della volontà in genere e in particolare. La volontà si distoglie oramai dalla vita: ha orrore dei suoi piaceri, nei quali riconosce l'affermazione di quella. L'uomo perviene allo stato della volontaria rinunzia, della rassegnazione, della vera calma e della completa soppressione del volere. A noi, che ancora avvolge il velo di Maja, traluce a momenti, in mezzo a dolori nostri pesantemente sofferti o a dolori altrui vivacemente percepiti, la conoscenza della vanità e amarezza della vita, e allora con piena, definitivamente risoluta rinuncia vorremmo strappare al desiderio il suo pungolo, a ogni dolore sbarrare il cammino, purificarci e santificarci; ma tosto ci riafferra nelle sue maglie l'illusione del fenomeno, e di nuovo i suoi motivi mettono in moto la volontà: né perveniamo a districarcene. Gli adescamenti della speranza, la lusinga del presente, la dolcezza dei piaceri, il benessere, ond'è partecipe la nostra persona in mezzo al travaglio d'un mondo doloroso, in balìa del caso e dell'errore, ci traggono novellamente a sé e stringono di nuovo i legami. Perciò dice Gesù: «È più facile a una gomena passare attraverso una cruna d'ago, che a un ricco venire nel regno di Dio». Paragoniamo la vita a un'orbita fatta di carboni ardenti, con pochi spazi freddi, orbita che noi dobbiamo senza posa percorrere: a chi in quell'orbita è preso da conforto il piccolo spazio freddo, sul quale per il momento egli si trova, o che vicino innanzi a sé vede, e continua a percorrere l'orbita. Ma quegli che, guardando oltre il principium individuationis, conosce l'essenza delle cose in sé, e quindi il tutto, non è più sensibile a quel conforto: vede se stesso contemporaneamente su tutta l'orbita, e ne viene fuori. La sua volontà muta indirizzo, non afferma più la sua propria essenza, rispecchiantesi nel fenomeno, bensì la rinnega. Il processo, con cui ciò si manifesta, è il passaggio dalla virtù all'ascesi. Non basta più a quell'uomo amare altri come se stesso, e far per essi quanto fa per sé; ma sorge in lui un orrore per l'essere, di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la volontà di vivere, per il nocciolo e l'essenza di quel mondo riconosciuto pieno di dolore. Quest'essenza appunto, in lui medesimo palesantesi e già espressa mediante il suo corpo, egli rinnega; il suo agire sbugiarda ora il suo fenomeno, entra con esso in aperto contrasto. Egli, che non altro è, se non fenomeno della volontà, cessa di volere, si guarda dall'attaccar la sua volontà a una cosa qualsiasi, cerca di rinsaldare in se stesso la massima indifferenza per ogni cosa. Il suo corpo, sano e forte, esprime per mezzo dei genitali l'istinto sessuale, ma egli rinnega la volontà e sbugiarda il corpo: non vuole la soddisfazione del sesso, a nessun patto. Volontaria, perfetta castità è il primo passo nell'ascesi, ovvero nella negazione della volontà di vivere. Essa rinnega così l'affermazione della volontà, che va oltre la vita individuale; e con ciò dà segno che con la vita di questo corpo la volontà, di cui esso è fenomeno, è soppressa. La natura, sempre vera e ingenua, dice che, se questa massima diventasse universale, perirebbe il genere umano: e dopo quanto fu detto nel secondo libro intorno alla connessione di tutti i fenomeni della volontà, credo di poter ammettere, che col fenomeno di volontà più alto svanirebbe anche quel più debole riflesso che è il mondo animale: come in piena luce svaniscono anche le penombre. Con la piena soppressione della conoscenza, si perderebbe da sé nel nulla anche il rimanente mondo: che non v'ha oggetto senza soggetto. A ciò potrei perfino riferire un passo del Veda, che dice: «Come in questo mondo bambini affamati si stringono intorno alla madre, così attendono tutti gli esseri il santo sacrificio» «Asiatic researches», vol. 8: Colebrooke, On the Vedas, nell'estratto del Sama-veda: si trova anche in Colebrooke, Miscellaneous Essays, vol. I, p. 88). Sacrificio significa genericamente rassegnazione, e la residua natura deve attendere la sua redenzione dall'uomo, ch'è nel medesimo tempo sacerdote e vittima. E merita d'esser notato come cosa singolarissima, che questo pensiero fu espresso anche dall'ammirabile e incommensurabilmente profondo Angelus Silesius, nel versetto intitolato l'uomo porta tutto a Dio, che suona così:

Uomo! tutto ti ama; a te intorno è gran ressa:
Tutto verso te corre, per così giungere a Dio59.

Ma un mistico ancor più grande, Meister Eckhard, le cui mirabili opere sono or finalmente rese accessibili dall'edizione di Franz Pfeiffer (1857), scrive (ibid., p. 459), proprio nel senso qui illustrato: «Io confermo ciò con Cristo, che dice: quando vengo sollevato dalla terra, voglio tutte le cose trarre dietro a me (Giov., 12, 32). Similmente deve l'uomo buono tutte le cose elevare a Dio, alla loro origine prima. Questo ci confermano i Maestri, che tutte le creature sono fatte per la volontà dell'uomo. Questo verificate in tutte le creature, che una creatura all'altra giova: al giovenco l'erba, al pesce l'acqua, all'uccello l'aria, alla bestia selvatica il bosco. E così tutte le creature portano giovamento all'uomo buono: e l'una creatura nell'altra è portata dall'uomo buono a Dio». Vuol dire: l'uomo mette a profitto gli animali in questa vita, per il fine di redimerli in sé e con sé. Mi sembra che perfino il difficile passo della Bibbia in Romani, 8, 21-24 sia da interpretarsi a questo modo.

Anche nel Buddhismo non mancano espressioni di ciò: per esempio, quando Buddha, ancora in forma di Bodhisattva, fa sellare un'ultima volta il suo cavallo, per la fuga dalla paterna residenza verso il deserto, dice ad esso queste parole: Già lungo tempo tu fosti nella vita e nella morte: ma ora devi cessar di portare e di trascinare. Sol questa volta ancora, o Kantakana, portami via di qua, e quando io avrò conseguita la legge (diventato Buddha), non mi dimenticherò di te (Foe Koue Ki, traduz. di Abel Rémusat, p. 233).

L'ascesi si rivela inoltre nella volontaria, meditata povertà, che non sopravviene per accidens, in quanto il patrimonio venga donato per lenir mali altrui, ma è già scopo a se stessa, serve di permanente mortificazione della volontà, affinchè l'appagamento dei desideri e la mollezza della vita non tornino ad eccitar la volontà, della quale ha concepito orrore la vera conoscenza. Chi è pervenuto a tal segno, sente ancor sempre, come corpo animato, come concreto fenomeno di volontà, la disposizione al volere in tutte le sue forme: ma meditatamente la soffoca, costringendosi a nulla fare di quanto vorrebbe, e viceversa a tutto fare quanto non vorrebbe, anche se non abbia altro fine, che quello di servire alla mortificazione della carne. Poiché egli medesimo rinnega la volontà palesantesi nella sua persona, non resisterà se altri fa lo stesso, ossia se gli fa un torto: ogni sofferenza, che a lui venga dall'esterno, sia per caso, sia per altrui malvagità, è la benvenuta; e così ogni danno, ogni smacco, ogni offesa. Tutto accoglie gioiosamente, come occasione di dare a se medesimo la certezza, ch'egli la volontà più non afferma, bensì lieto prende le parti di ciascun nemico sorto contro quel fenomeno di volontà, ch'è la sua propria persona. Tale onta e dolore sopporta quindi con inesauribile pazienza e dolcezza, paga senza ostentazione il male col bene, e non tollera che il fuoco dell'ira si risvegli in lui, più che non tolleri il fuoco della brama. Come mortifica la volontà, così mortifica la sua forma visibile, l'oggettità di lei: il corpo. Scarsamente lo nutre, affinchè il suo rigoglioso fiorire e prosperare non torni a far più viva e forte la volontà, di cui esso è semplice espressione e specchio. Similmente pratica il digiuno, anzi la macerazione, l'autoflagellazione, per sempre più uccidere mediante perenne privazione e sofferenza la volontà, ch'egli conosce ed aborrisce qual sorgente del proprio doloroso essere come di quello del mondo. Viene finalmente la morte, a disciogliere questo fenomeno di quella volontà, la cui essenza qui, già da gran tempo, per libera negazione di se medesima, fuori del fioco resto che ne appariva in mantener vita al corpo, era spenta. E la morte, come invocata redenzione, è altamente ben venuta, e lietamente viene accolta. Con lei non termina in questo caso, com'è per gli altri, il solo fenomeno; bensì l'essenza medesima è soppressa, la quale qui ancor soltanto nel fenomeno, e per suo mezzo, aveva una pallida vita60: ultimo fragile vincolo, ora anch'esso spezzato. Per quegli, che così finisce, è il mondo insieme finito.

E ciò, ch'io qui con debole lingua e solo in termini generali ho descritto, non è per avventura una fiaba filosofica di mia invenzione, e che solo da oggi duri: no, era invece l'invidiabile vita di numerosi santi e di belle anime tra i Cristiani, e ancor più tra gli hindù e i Buddhisti, e pure in altre confessioni. Per quanto fossero diversi i dogmi impressi nella loro ragione, nell'identica guisa venne tuttavia ad attuarsi, mediante il modo di vivere, l'intima, diretta, immediata conoscenza, da cui esclusivamente può procedere ogni virtù e santità. Imperocché anche qui si mostra il grande divario tra la conoscenza intuitiva e l'astratta, finora troppo poco osservato, ma in tutto il nostro sistema così importante e penetrante in ogni dove. Tra le due conoscenze è un ampio abisso, attraverso il quale, riguardo alla cognizione dell'essenza del mondo, la sola filosofia può condurre. Intuitivamente invero, ossia in concreto, ogni uomo è consapevole di tutte le verità filosofiche: ma portarle nel suo sapere astratto, nella riflessione, è affare del filosofo: il quale, oltre a questo, nulla deve, nulla può.

Forse qui adunque per la prima volta, in forma astratta e pura d'ogni mito, l'intima essenza della santità, negazione di sé, morte della volontà, ascesi, è formulata come negazione della volontà di vivere; la quale subentra dopo che la compiuta conoscenza del proprio essere è divenuta quietivo d'ogni volere. Viceversa l'hanno direttamente conosciuta ed espressa nella realtà tutti quei santi e asceti che, pur avendo la stessa intima cognizione, parlavano una lingua assai diversa, secondo i dogmi che avevano accolti nella loro ragione, e in virtù dei quali un santo indiano, cristiano, lamaico devono render diversissimo conto della propria azione; il che è, per la sostanza, del tutto indifferente. Un santo può esser pieno della più assurda superstizione, o esser viceversa un filosofo: i due si equivalgono. Soltanto il suo modo d'agire prova ch'egli è santo: perché esso, sotto il riguardo morale, non proviene dalla conoscenza astratta, bensì dall'intuitiva, immediata conoscenza del mondo e della sua essenza; e da quegli sol per appagamento della sua ragione viene spiegato con un dogma purchessia. Che il santo sia un filosofo, è tanto poco necessario, quanto poco necessario che il filosofo sia un santo: come necessario non è che un uomo bellissimo sia un grande scultore, o che un grande scultore sia pure un bell'uomo. Sarebbe d'altronde singolare il pretendere da un moralista, ch'egli non deva raccomandare se non le virtù da lui stesso possedute. Rispecchiare astrattamente, universalmente e limpidamente in concetti l'intera essenza del mondo; e così, quale immagine riflessa, deporla nei permanenti e ognora disposti concetti della ragione: questo e non altro è filosofia. Richiamo alla memoria il passo, citato nel primo libro, di Bacone da Verulamio.

Ma appunto, esclusivamente astratto e generico e quindi freddo è il modo, ond'io ho più sopra descritta la negazione della volontà di vivere, ossia la condotta di una bell'anima, di un santo rassegnato, che faccia volontaria penitenza. Essendo intuitiva e non astratta la conoscenza, da cui nasce la negazione della volontà, non può trovar la sua espressione compiuta in concetti astratti, bensì esclusivamente nell'azione e nella condotta. Quindi, per meglio comprendere ciò che noi esprimiamo filosoficamente col concetto di negazione della volontà di vivere, si devono conoscere esempi tolti all'esperienza e alla realtà. Non li incontreremo di certo nell'esperienza di tutti i giorni: nam omnia praeclara tam difficilia quam rara sunt, dice benissimo Spinoza. Se adunque non si è stati testimoni oculari per una sorte particolarmente benigna, bisognerà contentarsi di legger le biografie di quegli uomini. La letteratura indiana, come già possiam vedere dal poco che finora ne conosciamo in traduzioni, è assai ricca di biografie dei santi, dei penitenti, detti Samani, Saniassi, e così via. Anche la nota, sebben tutt'altro che in tutto lodevole, Mythologie des Indous di Mad. de Polier contiene molti eccellenti esempi di tal genere (specialmente nel 13° cap. del 2° volume). Né mancano esempi tra i cristiani. Si leggano le biografie, di solito scritte male, di coloro che or vengono chiamati anime sante, ora pietisti, quietisti, pii visionarii, etc. Raccolte di tali biografie si fecero in diverse epoche, per esempio dal Tersteegen, Vite di anime sante, dal Reiz, Storia dei Rigenerati; a' nostri giorni si ha una raccolta del Kanne, che tra molta roba cattiva ne contiene pure alcuna buona, e specialmente, secondo me, la Vita della beata Sturmin. In modo particolarissimo va qui ricordata la vita di san Francesco d'Assisi, vera personificazione dell'ascesi, e modello di tutti i monaci mendicanti. La vita di lui, descritta dal suo contemporaneo, alquanto più giovane, e celebre anche come filosofo scolastico, san Bonaventura, è comparsa recentemente in nuova edizione (Soest, 1847): Vita S. Francisci a S. Bonaventura concinnata, poco dopo ch'era uscita in Francia una biografia di san Francesco accurata, ampia, e condotta su tutte le fonti: Histoire de S. Francois d'Assise, di Chavin de Mallan (1845). Come paralleli orientali di codesti scritti claustrali abbiamo il libro interessantissimo di Spence Hardy: Eastern Monachism, an Account of the Order of Mendicants founded by Gotama Budha (1850). Ci mostra la stessa cosa in altra veste. E vi si vede, come sia alla cosa indifferente il prender le mosse da una religione teista o atea. Ma soprattutto posso raccomandare, come speciale, amplissimo esempio e illustrazione effettiva dei concetti da me formulati, l'autobiografia di Madame de Guyon. Conoscere quella bella e grande anima, il cui ricordo mi riempie ognora d'ammirazione, e render giustizia all'eccellenza delle sue disposizioni spirituali, pur facendo riserve sulla superstizione della sua mente, dev'essere per ogni uomo bennato una gioia, come invece quel libro starà sempre in cattiva luce presso il comune volgare, ch'è costituito dai più; perché sempre e dovunque ciascuno può ammirar solo quel ch'è a lui in certa maniera analogo, e per cui ha una sia pur debole tendenza. Questo vale sì pel dominio intellettuale e sì nel morale. In un certo senso, si potrebbe ravvicinare a questi esempi anche la nota biografia francese di Spinoza, se si adopra come chiave per penetrarvi la magnifica introduzione a quella molto scadente opera di lui ch'è il De emendatione intellectus: introduzione, che posso consigliare come il più efficace mezzo ch'io mi conosca per placare la tempesta delle passioni. Finalmente, anche il gran Goethe, per quanto greco egli sia, non ha stimato indegno di sé mostrar questo bellissimo aspetto dell'umanità nel chiarificante specchio della poesia, col rappresentarci idealizzata nelle Confessioni di una bell'anima la vita della signorina Klettenberg; e più tardi, nella propria autobiografia, diede anche notizia storica di lei; come pure ci ha raccontato ben due volte la vita di san Filippo Neri. La storia del mondo tacerà invero sempre, e deve tacere, degli uomini la cui condotta è la migliore, l'unica soddisfacente illustrazione di questo punto essenziale della nostra indagine. Perché la materia della storia del mondo è tutt'altra, anzi è l'opposto: non è il negare, il rinunciare della volontà di vivere, ma è per l'appunto l'affermarla, il rilevarsi di lei in individui innumerabili. E quivi, in codesto affermarsi, apparisce con tutta chiarezza, al vertice supremo della sua oggettivazione, il suo dissidio interiore; ponendoci davanti agli occhi ora la prevalenza del singolo mediante l'intelligenza, ora la violenza della folla mediante la massa, ora il potere del caso personificato nel destino, ma sempre la caducità e nullità di tutti i desideri. Ma noi, che non dobbiamo qui seguire nel tempo il filo dei fenomeni, bensì come filosofi abbiam da investigare il valore etico delle azioni, e di questo il criterio unico per misurare quanto è per noi significativo e importante, noi non tratterrà nessun timore della volgarità e della scipitaggine raccolte in perpetua maggioranza, dal proclamare che il più alto, il più importante, il più significativo fenomeno, che il mondo possa mostrare, non è chi il mondo conquista, ma chi il mondo supera. Ossia è in verità la silenziosa, inosservata condotta di un uomo, al quale sia venuta tal conoscenza, che per effetto di lei egli getti via da sé e rinneghi quell'avida volontà di vivere, che tutto riempie e in tutto si agita. Solo in lui la volontà apparisce allora libera: ma la sua condotta diviene opposta alla condotta comune. Per il filosofo sono adunque sotto questo riguardo incomparabilmente più istruttive e importanti, quanto riguardo alla significazione del contenuto, le biografie di santi uomini, per male che sian scritte di solito, e presentate con un misto di superstizione e di stoltezza, che non siano Plutarco e Livio.

Alla migliore e più compiuta conoscenza di quel che noi, nell'astrazione e nell'universalità del nostro modo d'esporre, chiamiamo negazione della volontà di vivere, molto contribuirà, inoltre, lo studio delle massime etiche le quali in questo senso furon date da uomini pieni di cotale spirito. Esse ci mostreranno insieme, come antica sia la nostra concezione, per quanto nuova possa essere la sua formula filosofica. Più dappresso a noi sta il cristianesimo, la cui etica è tutta animata da quello spirito, e non solo conduce al più alto grado dell'amore verso il prossimo, ma anche alla rinunzia. Quest'ultima è già ben visibile in germe negli scritti degli Apostoli, ma tuttavia solo più tardi si sviluppa appieno e viene explicite enunciata. Troviamo che gli Apostoli prescrivono: amor del prossimo eguale all'amor di sé; carità, amore e benevolenza in cambio di odio; pazienza, mitezza, sopportazione d'ogni possibile offesa senza opporvisi: sobrietà nel cibo per mortificare il piacere; resistenza all'istinto sessuale, ove sia possibile, completa. Vediamo qui già i primi gradi dell'ascesi, o propriamente negazione della volontà. E questa nostra espressione indica proprio ciò che negli Evangeli si chiama rinnegar se medesimo e prender su di sé la croce (Math. 16, 24.25; Mare. 8, 34.35; Lue. 9, 23.24; 14, 26.27.33). Quest'indirizzo si sviluppò presto sempre più, e diede origine ai penitenti, agli anacoreti, al monachismo; il quale era in sé puro e santo, ma appunto perciò in nulla adatto alla maggioranza degli uomini, per modo che soltanto finzione e turpitudine potè venirne: imperocché abusus optimi pessimus. Col Cristianesimo meglio sviluppato possiam poi vedere quel germe ascetico aprirsi nel suo pieno fiore, negli scritti dei santi e mistici cristiani. Costoro predicano, oltre il puro amore, anche rassegnazione intera, volontaria, assoluta povertà, verace calma, completa indifferenza riguardo a ogni cosa terrena, morte della volontà individuale e rinascita in Dio, perfetto oblio della propria persona e assorbimento nella contemplazione divina. Di ciò si ha una compiuta esposizione in Fénelon, Explication des maximes des Saints sur la vie intérieure. Ma forse mai lo spirito del Cristianesimo in questo suo sviluppo fu espresso con tanta perfezione e vigore come negli scritti dei mistici tedeschi, e quindi di Meister Eckhard e nel libro a ragione celebrato Die deutsche Theologie (la teologia tedesca), di cui Lutero, nella prefazione che vi fece, disse di non aver da nessun altro libro, eccettuati la Bibbia e sant'Agostino, imparato meglio che da questo, che cosa siano Dio, Cristo e l'uomo. Ma il suo testo genuino l'abbiamo avuto solo il 1851, nell'edizione di Stuttgart curata da Pfeiffer. I precetti e ammaestramenti quivi impartiti sono la più completa illustrazione, inspirata dalla più intima e profonda certezza, di ciò ch'io ho presentato come negazione della volontà di vivere. Colà bisogna quindi imparare a meglio conoscerla, prima di sdottrineggiarvi su con ebraico-protestante saccenteria. Scritta nel medesimo, altissimo spirito, sebbene non tale da mettersi proprio a paro di quell'opera, è l'Imitazione della povera vita di Cristo (Nachfolgung des armen Leben Christi) di Tauler, e anche, dello stesso autore, la Medulla animae. Secondo me gl'insegnamenti di questi genuini spiriti cristiani sono rispetto a quelli del Nuovo Testamento ciò che l'alcool è rispetto al vino. Ossia: ciò che nel Nuovo Testamento ci appare come attraverso velo e nebbia, ci si fa incontro nelle opere dei Mistici scopertamente, in piena chiarità ed evidenza. E si potrebbe, per concludere, considerare il Nuovo Testamento come la prima consacrazione, i Mistici come la seconda σμικρα και μεγαλα μυοτηρια.

Ma ancor più sviluppato, sotto più aspetti formulato, e più vivacemente rappresentato che non fosse possibile nella Chiesa cristiana e nel mondo occidentale, troviamo ciò che noi chiamammo negazione della volontà di vivere nelle antichissime opere della lingua sanscrita. Che quella grave considerazione etica della vita potesse colà raggiungere uno sviluppo ancora più ampio, e più risoluta espressione, è forse principalmente da attribuire al fatto, che quivi essa non fu limitata da un elemento a lei del tutto estraneo, com'è nel Cristianesimo la religione ebraica, alla quale l'alto fondatore di quello dovè per necessità, parte consapevolmente e parte forse inconsapevolmente, conformarsi e adattarsi: per modo che il Cristianesimo risulta di due elementi molto eterogenei, dei quali io l'elemento ch'è soltanto etico amerei di preferenza, anzi in modo esclusivo, chiamar cristiano; e vorrei distinguerlo dal dogmatismo ebraico ch'esso trovò innanzi a sé. Se, come già spesso, e in particolar modo nell'età presente si è temuto, quell'alta e redentrice religione dovesse un giorno decadere del tutto, io troverei di ciò la ragione nel fatto, ch'ella consta non già di un elemento semplice, bensì di due elementi in origine eterogenei, e venuti a collegarsi sol per il corso degli eventi. La loro scomposizione, causata dalla naturale disuguaglianza e dal contrasto col progredito spirito di quest'età, non mancherebbe di produrne lo scioglimento; ma in seguito rimarrebbe tuttavia integra la parte puramente morale, perché questa è indistruttibile. Venendo all'etica degli hindù, quale noi già ora, per incompiuta che sia la nostra cognizione di quella letteratura, la troviamo espressa nel modo più vario e più vivace nei Vedas, nei Puranas, nelle opere poetiche, nei miti, nelle leggende dei santi indiani, nelle massime e regole di vita61, vediamo che vi si prescrive: amore del prossimo con piena rinunzia ad ogni egoismo; amore non limitato al genere umano, ma estendentesi a ogni cosa viva; carità spinta fino a dare lo stentato guadagno quotidiano; illimitata pazienza verso tutti gli offensori; bontà e amore in cambio d'ogni male, per duro che sia; volontaria e gioiosa tolleranza d'ogni umiliazione; astinenza da ogni nutrizione animale; completa castità e rinunzia a tutti i piaceri da parte di chi aspira alla vera santità; donazione d'ogni patrimonio, abbandono d'ogni domicilio, e di tutti i parenti; profonda, assoluta solitudine, trascorsa in silenziosa contemplazione, con volontaria penitenza e terribile, lenta macerazione, per venire alla compiuta mortificazione della volontà, mortificazione che giunge fino alla morte volontaria per fame, o con l'esporsi ai coccodrilli, o col precipitarsi da una sacra vetta dell'Himalaja, o col farsi seppellire vivi, o col gettarsi sotto le ruote dell'immane carro recante attorno in processione le immagini degli Dei tra canto, giubilo e danza delle bajadere. E a codeste regole, la cui origine risale indietro di quattro millenni, s'informa oggi ancora la vita di quel popolo, per quanto in molte cose degenerato; taluni le seguono addirittura fino agli ultimi eccessi62. Ora, quel che sì a lungo, in un popolo comprendente tanti milioni d'uomini, è stato praticato, sebbene imponga i più gravi sacrifici, non può essere un'ubbia inventata a capriccio, ma deve avere il suo fondamento nell'essenza dell'umanità. A ciò si aggiunga, che non ci si meraviglierà mai abbastanza della somiglianza uniforme, che si trova quando si legge la vita di un penitente o santo cristiano, e quella di un indiano. Con dogmi, costumi e luoghi sì fondamentalmente diversi, affatto identica è l'aspirazione e l'interna vita di entrambi. Lo stesso si dica per le loro prescrizioni. Per esempio, Tauler parla dell'assoluta povertà, che bisogna ricercare, e che consiste nel disfarsi appieno di tutto ciò da cui potrebbe trarsi un conforto o una soddisfazione terrena: evidentemente, perché tutto ciò da sempre nuovo alimento alla volontà, che si mira invece a spegnere del tutto. Ora, come analogia indiana troviamo nelle regole del Fo raccomandato al Saniassi, il quale non deve aver domicilio né proprietà alcuna, di non adagiarsi, per di più, troppo sovente sotto lo stesso albero, affinchè non abbia a concepire per quest'albero qualche preferenza o inclinazione. I mistici cristiani e i maestri della filosofia Vedanta s'incontrano anche nel considerar superflue tutte le opere esteriori e pratiche religiose, per colui che abbia raggiunto lo stato perfetto. Tanta concordanza, in tempi e popoli sì diversi, è una prova di fatto che quivi non si esprime, come volentieri afferma l'ottimistica insulsaggine, una stramberia e stoltezza dell'animo, bensì un lato essenziale dell'umana natura, il quale sol per la sua eccellenza di rado si manifesta. Oramai ho indicata la fonte, dalla quale si posson direttamente conoscere, attingendo alla vita stessa, i procedimenti in cui si palesa la negazione della volontà di vivere. In un certo modo è questo il punto più importante di tutto il nostro studio: nondimeno io l'ho esposto tenendomi sempre sulle generali, meglio essendo rimandare a quelli, i quali ne parlano per diretta esperienza, che non ingrossare senza bisogno questo libro con l'affievolita ripetizione di ciò ch'essi hanno detto.

Ma poco altro voglio aggiungere per definire genericamente il loro stato. Vedemmo più indietro il malvagio, per vivacità del suo volere, soffrire perenne, divorante intimo affanno, e da ultimo, quando tutti gli oggetti del volere sono esauriti, placar la rabbiosa sete dell'egoismo con la vista della pena altrui; quegli viceversa, in cui s'è affermata la negazione della volontà di vivere, per quanto povero, scevro di gioia, di privazioni pieno sia il suo stato visto dal di fuori, è pieno d'intima gioia e di vera calma celeste. Non sono più l'irrequieto impulso vitale, l'esuberante gioia, che ha per condizione precedente o successiva un vivo dolore, quali costituiscono la vita di un uomo amante dell'esistenza; ma è invece un'incrollabile pace, una profonda quiete ed intima letizia, uno stato che noi, se ci vien posto davanti agli occhi o alla fantasia, non possiamo guardare senza altissimo desiderio, perché tosto lo riconosciamo come l'unico a noi conveniente, di gran lunga superiore a ogni altra cosa, e verso di esso il nostro spirito migliore ci spinge col grande sapere aude. Sentiamo allora come ogni appagamento dei nostri desideri strappato al mondo è appena simile all'elemosina, che oggi tiene in vita il mendico perché domani ancor soffra la fame. La rassegnazione somiglia invece alla proprietà ereditaria, che libera per sempre il possessore da tutte le angustie.

Ci sovviene il terzo libro, che la gioia estetica del bello consiste per gran parte nel fatto che noi, entrando nello stato della pura contemplazione, siamo pel momento liberati da ogni volere, ossia da tutti i desideri e gli affanni, quasi fossimo sciolti da noi medesimi; non più individuo dotato d'una conoscenza in servizio del suo perenne volere, non più correlato dell'oggetto singolo, a cui le cose divengono motivi; bensì eterno soggetto del conoscere, liberato dalla volontà, correlato dell'idea. E sappiamo come gl'istanti, in cui sciolti dal feroce impulso della volontà veniamo quasi a tenerci sollevati sulla greve aria terrestre, siano i più beati che noi conosciamo. Da ciò possiam ricavare, come felice debba esser la vita di un uomo, la cui volontà sia non per fugaci istanti domata, come accade nel godimento del bello, ma per sempre, e sia anzi spenta del tutto, eccettuata solamente l'ultima estinguentesi scintilla, che regge il corpo e con questo si estinguerà. Un siffatto uomo, che dopo molte amare lotte contro la propria natura, riporta finalmente piena vittoria, non sopravvive più se non come semplice essenza conoscente, come limpido specchio del mondo. Nulla più perviene ad angustiarlo, nulla a scuoterlo: perché tutte le mille fila del volere, che ci tengono legati al mondo, e di qua e di là in forma di sete, paura, invidia, ira ci trascinano dilaniandoci, con assiduo dolore, egli le ha tagliate. Sereno e sorridente egli si volge ora a guardare le finte immagini del mondo, che un tempo sapevano scuotere e affliggere anche l'animo suo, ma ora gli stanno innanzi indifferenti come i pezzi d'una scacchiera a giuoco finito, o come al mattino i vestiti da maschera smessi e dispersi, le cui parvenze ci avevano stuzzicati ed eccitati nella notte di carnevale. La vita e le sue forme ondeggiano oramai davanti a lui come una fuggitiva visione, o come appare nel dormiveglia un lieve sogno mattutino, attraverso il quale già traluce la realtà, e che più non perviene ad illuderci: e appunto come questo sogno svaniscono, senza un brusco passaggio. Da queste considerazioni possiamo intendere in qual senso si esprima spesso così M.me de Guyon, verso la fine della sua autobiografia: «Tutto m'è indifferente; io non posso più nulla volere: spesso non so, se esisto o non esisto». Mi sia anche concesso, per esprimere come, dopo la morte della volontà, pur la morte del corpo (il quale non è che il fenomeno della volontà, soppressa la quale perde anch'esso ogni significato) non abbia più nulla d'amaro, e sia anzi la benvenuta –, di trasportar qui le parole stesse di quella santa penitente, sebbene non siano formulate con eleganza: «Midi de la gloire; jour où il n'y a plus de nuit; vie qui ne craint plus la mort, dans la mort même: parce que la mort a vaincu la mort, et que celui qui a souffert la première mort, ne goûtera plus la seconde mort» (Vie de M.me de Guyon, vol. Il, p. 13).

Non dobbiamo tuttavia ritenere che, una volta subentrata, attraverso la conoscenza ridotta a quietivo, la negazione della volontà di vivere, questa non tentenni mai più, e si possa su lei posare come su d'una proprietà guadagnata. Invece dev'essere con diuturna battaglia sempre di nuovo riconquistata. Perché il corpo è la volontà medesima, ma sol nella forma dell'oggettità, ossia fenomeno nel mondo quale rappresentazione; quindi, finché il corpo vive, sussiste ancora nella propria possibilità tutta intera la volontà di vivere, e tende perennemente a entrar nella realtà, ad ardere di nuovo in tutto il proprio ardore. Quindi troviamo, che nella vita dei santi quella descritta calma e beatitudine è come il fiore, che sorge dalla continua vittoria sulla volontà; il suolo, da cui essa germoglia, è la permanente battaglia con la volontà di vivere: imperocché durevole calma non può aver nessuno sulla terra. Perciò vediamo le narrazioni della vita interna dei santi esser piene di lotte spirituali, tentazioni, e abbandoni della grazia: ossia offuscamenti di quel modo di conoscenza, che facendo inefficaci tutti i motivi doma come universal quietivo tutti i voleri, dà la pace più profonda e apre la porta della libertà. E vediamo quindi anche coloro, i quali son giunti alla negazione della volontà, tenersi con tutti gli sforzi su questo cammino, costringendosi a rinunzie d'ogni maniera, con una espiante dura regola di vita e con la ricerca di ciò che loro spiace: tutto per soffocare la volontà sempre divampante. Da qui vengono infine, poiché essi già conoscono il pregio della redenzione, la loro cura angosciosa per la osservazione del bene raggiunto, i loro scrupoli di coscienza per ogni innocente piacere, e per ogni piccol moto della vanità, che anche in essi è l'ultima a morire, essendo di tutte le inclinazioni umane la più tenace, la più attiva e la più stolta. Con la parola ascesi, già spesso da me usata, io intendo, nel senso più stretto, il deliberato infrangimento della volontà, mediante l'astensione dal piacevole e la ricerca dello spiacevole, l'espiazione e la macerazione spontaneamente scelta, per la continuata mortificazione della volontà.

Ora, se noi vediamo questa mortificazione praticata da chi già è giunto alla negazione della volontà, per mantenervisi, è poi il dolore in genere, quale ci viene inflitto dal destino, una seconda via (δευτερος πλους) per arrivare a quella negazione. Possiamo anzi ritenere, che i più solo da questa vi arrivano, e che è il dolore direttamente provato, non quello semplicemente conosciuto, a produrre la piena rassegnazione, spesso solamente in prossimità della morte. Che solo in pochi basta a ciò la semplice conoscenza, la quale, penetrando oltre il principium individuationis, produce dapprima la perfetta bontà dell'animo, e finalmente fa riconoscer come proprii tutti i mali del mondo, per dar luogo alla negazione della volontà. Anche in colui che a tale stato si avvicina, quasi sempre le condizioni tollerabili della sua persona, la lusinga dell'attimo, l'ingannevole richiamo della speranza e l'ognora offrentesi appagamento della volontà, ossia del piacere, sono un continuo ostacolo alla negazione della volontà stessa, e una continua tentazione di riaffermarla: perciò sotto tale riguardo tutte codeste tentazioni vennero personificate in diavoli. Il più delle volte deve quindi la volontà venire spezzata da un fortissimo dolore personale, prima che pervenga a negarsi. Vediamo allora l'uomo, quando per tutti i gradi della crescente angoscia è giunto, resistendo con violenza, all'orlo della disperazione, improvvisamente tornare in sé, sé e il mondo conoscere, mutare tutto il proprio essere, elevarsi sopra sé stesso e sopra il dolore, e, come fosse da questo dolore purificato e santificato, in non attaccabile calma, in beatitudine e sublimità di spirito rinunziare a tutto quanto prima egli bramava con la massima violenza, e gioioso accogliere la morte. Questo è il corrusco metallo della negazione della volontà di vivere, ossia della redenzione, che all'improvviso balza fuori dalla fiamma purificatrice del dolore. Perfino coloro, che furono molto malvagi, vediamo talora purificati fino a questo grado dai più profondi dolori: sono diventati altre persone da quel che furono, e completamente trasformati. I misfatti prima commessi non angosciano quindi nemmen più la loro coscienza; tuttavia li espiano volentieri con la morte, e di buon animo vedono volgersi al termine il fenomeno di quella volontà, che ora è ad essi straniera ed oggetto d'orrore. Di questa negazione della volontà prodotta da grande sventura e nessuna speranza di salvezza, ci ha dato una limpida e intuitiva rappresentazione, tale ch'io non ne conosco pari nella poesia, il gran Goethe, nel suo immortale capolavoro, il Faust, nella storia del dolore di Margherita. Essa è un esempio perfetto della seconda via, la qual conduce alla negazione della volontà mediante un personale, terribile dolore da noi stessi provato; e non, come la prima, mediante la semplice cognizione del dolore di un mondo intero, che volontariamente si fa dolore proprio. È vero, che molte tragedie conducono da ultimo il loro eroe pieno d'impetuosa volontà a questo punto di completa rassegnazione, in cui di solito si spengono insieme la volontà di vivere ed il suo fenomeno: ma nessuna rappresentazione, ch'io conosca, mi mette innanzi agli occhi ciò ch'è essenziale in quel rivolgimento con tanta limpidità e così puro d'ogni accessorio, come la storia citata del Faust.

Nella vita reale vediamo quegl'infelici, i quali han da vuotare la più gran misura di dolore, allorché è tolta loro del tutto ogni speranza, e in piena lucidità di spirito vanno incontro a una vergognosa, violenta, spesso tormentosa morte sul patibolo, molto spesso trasmutarsi nel modo suddetto. Non penseremo davvero, che tra il carattere loro e quello della maggior parte degli uomini sia tanta differenza, come dà a credere il loro destino, e invece attribuiremo quest'ultimo, il più delle volte, alle circostanze: ma pur tuttavia sono colpevoli, e malvagi in grado considerevole. E intanto vediamo molti di loro, una volta perduta affatto la speranza, convertiti come dicemmo. Dimostrano allora una reale bontà e purezza d'animo, hanno orrore d'ogni atto minimamente malvagio o privo d'amore; ai loro nemici perdonano, fossero pur questi gli autori d'una pena che innocentemente essi soffrono, non solo a parole e forse per ipocrita paura dei giudici dell'al di là, bensì effettivamente, e con intima gravità; né voglion vendetta alcuna. Anzi, il soffrire e morire finisce col diventar loro gradito, imperocché è subentrata la negazione della volontà di vivere; respingono spesso l'offerta salvezza, volentieri muoiono, tranquilli, beati. Nell'eccesso del dolore si è loro palesato il segreto ultimo della vita, che cioè il dolore e la malvagità, la sofferenza e l'odio, il tormentato e il tormentatore, per quanto diversi appariscano alla conoscenza, che segue il principio di ragione, sono in sé tutt'uno, fenomeno di quell'unica volontà di vivere, che il proprio dissidio con se medesima oggettiva mediante il principium individuationis: essi hanno appreso a conoscerne in piena misura le due facce, la malvagità e il dolore, e scorgendone da ultimo l'identità, entrambe le rigettano da sé, rinnegano la volontà di vivere. In quali miti e dogmi diano poi conto alla loro ragione di questa intuitiva e diretta conoscenza, e del proprio mutamento, è cosa, come osservammo, affatto indifferente.

Testimone di una simile trasformazione morale fu, senza dubbio, Matthias Claudius, quando scrisse quel singolare saggio che nel Wandsbecker Boten (parte I, p. 115) si trova sotto il titolo Storia della conversione di ***, e si chiude così: «Il modo di pensare dell'uomo può passar da un punto della periferia al punto opposto, e tornar poi al punto precedente, se le circostanze ve lo spingano. E tali mutamenti non sono nell'uomo nulla di grande e d'interessante. Ma quella strana, cattolica, trascendentale trasformazione, per cui tutto il circolo viene irrevocabilmente lacerato, e tutte le leggi della psicologia diventan vane e vuote; dove il vestimento è tolto alla pelle, o almeno rovesciato, e all'uomo sembrano cadere squame dagli occhi, quella trasformazione è tal cosa che ciascuno, il quale abbia in qualche modo coscienza del fiato nel suo naso, abbandona padre e madre, se ha occasion di udire e apprendere alcunché di sicuro intorno a quest'argomento».

Prossimità della morte e perdita della speranza non sono d'altronde punto necessarie per codesta purificazione prodotta dal dolore. Anche senza di quelle può, mediante grande sventura e grande dolore, la cognizione del contrasto della volontà di vivere con se medesima prodursi vigorosamente, e fare scorgere il nulla d'ogni aspirazione. Per questo si videro sovente uomini, i quali avevano menato una vita assai travagliata nel tumulto delle passioni, re, eroi, cavalieri di ventura, improvvisamente mutare, darsi alla rassegnazione e alla penitenza, farsi eremiti e monaci. Quivi vanno comprese tutte le storie genuine di conversione, ad esempio, anche quella di Raimondo Lullo, il quale da una bella, a cui aveva lungamente fatto la corte, invitato finalmente a raggiungerla in camera sua, si vedeva presso al compimento di tutti i desideri, quand'ella, slacciandosi il corpetto, gli mostrò il seno orribilmente divorato da un cancro. Da quest'istante, com'avesse spinto l'occhio nell'inferno, si convertì; abbandonò la corte del re di Majorca e andò nel deserto, a far penitenza63.

A questa conversione somiglia molto quella dell'abate Rancé, che io ho brevemente narrata nel cap. 48 del secondo volume. Se consideriamo come in entrambi il passaggio avvenisse dal piacere agli orrori della vita, abbiamo in ciò una spiegazione del fatto sorprendente, che la nazione più mondana, più allegra, più sensuale e più leggiera d'Europa, ossia la francese, sia pur quella in cui è sorto l'ordine monastico di gran lunga più rigido, la Trappa, poi restaurato dopo la sua decadenza da Rancé, e malgrado rivoluzioni, evoluzioni ecclesiastiche e propagata incredulità, fino al dì d'oggi sopravvivente nella sua purezza e terribile severità.

Ma una cognizione della natura del mondo, quale quella più sopra ricordata, può nondimeno allontanarsi nuovamente dall'uomo, quando cessi l'occasione che l'ha prodotta; ritorna allora la volontà di vivere, e con lei il carattere antecedente. Così vediamo l'impetuoso Benvenuto Cellini, una volta in prigione e altra volta ammalato di grave malattia, trasmutarsi nel modo suddetto; ma, scomparsi i mali, tornar nell'antico stato. In genere, poi, la negazione della volontà non è prodotta dal dolore con la stessa necessità con cui un effetto è prodotto dalla sua causa; la volontà resta libera. Anzi è proprio questo l'unico punto, in cui la sua libertà entri direttamente nel fenomeno; di qui la sorpresa così vivamente espressa dall'Asmus sulla «conversione trascendentale». Accanto a ogni dolore si può immaginare una volontà ad esso superiore in forza, e quindi incoercibile. Così Platone racconta nel Fedone di cotali, che fino all'istante del loro supplizio banchettano, bevono, godono Afrodite, fino alla morte affermando la vita, Shakespeare ci pone innanzi nel cardinale Beaufort64 la terribile fine di uno scellerato, che muore al colmo della disperazione, non potendo dolore alcuno né morte infrangere la sua volontà spinta fino alla malvagità più estrema.

Quanto più vivace la volontà, quanto più stridente il fenomeno del suo contrasto, tanto è più forte il dolore. Un mondo, il quale fosse fenomeno di una volontà di vivere molto più vivace della presente, ci mostrerebbe dolore d'altrettanto più grande: sarebbe adunque un inferno.

Poiché ogni sofferenza, essendo una mortificazione e un richiamo alla rassegnazione, ha la possibilità d'essere una forza purificatrice, si spiega con questo che una grande sventura e profondi dolori già di per sé ispirino un certo rispetto. Ma del tutto degno di venerazione ci appare colui che soffre, sol quand'egli, guardando al corso della sua vita come a una catena di mali, o soffrendo per un grande, insanabile dolore, non s'indugi a mirar precisamente la concatenazione di circostanze, onde fu precipitata in doglia la sua vita, e non s'arresti a quel singolo grande dolore che l'ha colpito: che entro questi limiti la sua conoscenza seguirebbe ancora il suo principio di ragione e rimarrebbe attaccata al singolo fenomeno, egli vorrebbe ancor sempre la vita, purché in condizioni diverse dalle sue; ma invece, dico, degno di venerazione egli appare veracemente sol quando il suo sguardo s'è elevato dal particolare all'universale, quando egli il suo dolore personale considera come esempio del Tutto, e per lui, diventato ormai geniale sotto il rispetto etico, un caso val quanto mille; sì che il complesso della vita, visto come essenziale dolore, lo conduce alla rassegnazione. In questo senso è degna di venerazione nel Torquato Tasso di Goethe la Principessa, quando si effonde a narrar come sempre mesta e senza gioia fosse la vita sua e quella dei suoi, e ciò facendo guarda al dolore universale.

Un carattere molto nobile ce lo immaginiamo sempre con una certa apparenza di muta tristezza; la quale è tutt'altro che un permanente cattivo umore per le contrarietà quotidiane (che questo non sarebbe un tratto nobile, e darebbe a temere malvagità d'animo); bensì è conscienza, nata da cognizione, della vanità di tutti i beni e del dolore d'ogni vita, non della propria soltanto. Nondimeno questa cognizione può esser dapprima destata da mali personalmente sofferti, soprattutto da un unico grande dolore. Così un'unica, inappagabile brama ha condotto Petrarca a quella rassegnata mestizia nel considerar la vita intera, che tanto ci commuove nelle sue opere: imperocché la Dafne ch'egli inseguiva doveva sfuggire dalle sue mani, per lasciare a lui, in luogo di se stessa, l'alloro immortale. Quando la volontà, per un tal grande e irreparabile diniego del destino, è rotta ad un certo grado, non viene quasi più null'altro desiderato, e il carattere si mostra dolce, triste, nobile, rassegnato. Quando infine il dolore non ha più una casa determinata, ma si estende sul complesso della vita, allora esso è in certo modo un rientrare in sé, un ritirarsi, un graduale svanire della volontà. E la visibilità di questa, il corpo, finisce con l'essere a poco a poco, ma nel più profondo, minata dal dolore; in ciò l'uomo sente una certa liberazione dai suoi ceppi, un dolce presentimento della morte annunziantesi insieme col dissolvimento del corpo e della volontà. Perciò tale dolore s'accompagna con una segreta gioia, quella, secondo me, che il più malinconico di tutti i popoli ha chiamato the joy of grief. Tuttavia si trova proprio qui lo scoglio della sensibilità, sia nella vita, sia nella rappresentazione poetica di questa: se cioè si soffre sempre, e sempre ci si lamenta, senza elevarsi alla rassegnazione e fortificarsi, ci si trova ad aver perduto insieme terra e cielo, conservando solo una lagrimosa sensibilità. Il soffrire è via di redenzione, e degno quindi d'alto rispetto solo in quanto prende la forma della semplice, pura conoscenza; e questa allora, fattasi quietivo della volontà, produce vera rassegnazione. Sotto tale riguardo proviamo alla vista di ciascun grande infelice un certo rispetto, affine a quello che virtù e nobiltà ci inspirano; innanzi a lui ci sembra un rimprovero la nostra condizione felice. Non possiamo trattenerci dal considerare ogni dolore, sia nostro che altrui, come un ravvicinamento, per lo meno possibile, alla virtù e santità; e considerare invece i piaceri e le soddisfazioni terrene come un allontanamento da quelle. Ciò arriva al punto, che ogni uomo il quale patisca una grande sofferenza corporea, o una grave sofferenza morale; o anche addirittura ogni uomo, che compia col sudore nel volto e con visibile sfinimento un semplice lavoro fisico richiedente il massimo sforzo; e tutto ciò sopporti pazientemente e senza mormorare; quest'uomo, dico, quando lo guardiamo con profonda attenzione, ci appare come un malato: il quale faccia una cura dolorosa, ma sopportando di buon animo e addirittura con piacere il dolore, che da quella gli viene, perché sa che quanto più soffre, tanto più sarà estirpata la causa del male. Il dolore presente è la misura della sua guarigione.

Da quanto s'è detto finora apparisce che la negazione della volontà di vivere, la quale è quel che si chiama rassegnazione completa o santità, proviene sempre dal quietivo della volontà, ossia dalla cognizione dell'intimo dissidio a questa inerente, e della sua essenziale vanità, che si manifestano nei dolori d'ogni essere vivente. La differenza, che noi indicammo con l'immagine delle due vie, è questa: se quella cognizione è generata dal dolore semplicemente conosciuto, con spontanea adozione di esso, mediante il superamento del principii individuationis; oppure dal dolore direttamente, personalmente provato. Vera salvezza, redenzione dalla vita e dal dolore non può essere immaginata senza completa negazione della volontà. Prima di giungere a quel punto, noi non siamo altro che quella volontà stessa, il cui fenomeno è un'esistenza evanescente, è un sempre nullo, vano aspirare, è l'intero doloroso mondo della rappresentazione, al quale tutti in egual modo irrevocabilmente appartengono. Imperocché noi vedemmo più sopra, che alla volontà di vivere è ognor sicura la vita, e sua unica forma reale è il presente: a cui gli esseri, per quanto nascita e morte imperino sul fenomeno, mai si sottraggono. Questo esprime il mito indiano, dicendo: «essi tornano a nascere». Il gran divario etico dei caratteri ha il significato seguente. Il malvagio è infinitamente lontano dal raggiungere la conoscenza, da cui si genera la negazione della volontà, e quindi è effettivamente in balìa di tutti gli affanni che nella vita appaiono come possibili: essendo anche la casuale sua presente condizione felice null'altro se non un fenomeno mediato dal principio individuationis, ossia un'illusione della Maja, il sogno felice del mendicante. I dolori, ch'egli nella violenza e nella rabbia della sua sete infligge altrui, sono la misura dei dolori da lui personalmente provati, che non pervengono a infrangere la sua volontà e a guidarlo verso la finale negazione. Ogni vero e puro amore, invece, ed anche ogni libero senso di giustizia, provengono già dal superamento del principii individuationis; il qual superamento, quando avvenga con pieno vigore, ha per effetto la completa santità e redenzione. Il processo di questa è lo stato di rassegnazione sopra descritto, l'incrollabile amore, che tale rassegnazione accompagna, e la suprema letizia nella morte65.

§ 69.

Da questa negazione della volontà di vivere, oramai sufficientemente esposta nei limiti del nostro studio; negazione, che è l'unico atto di libertà possibile al fenomeno, e costituisce quindi, come Asmus la chiama, la metamorfosi trascendentale, nulla si discosta tanto come l'effettiva soppressione del proprio singolo fenomeno: il suicidio. Lungi dall'esser negazione della volontà, esso è invece un atto di forte affermazione della volontà stessa. Imperocché la negazione ha la sua essenza nell'aborrire non già i mali, bensì i beni della vita. Il suicida vuole la vita, ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate. Egli non rigetta perciò in nulla la volontà di vivere, ma soltanto la vita, distruggendone il singolo fenomeno. Vuole la vita, vuole la libera esistenza ed affermazione del corpo; ma ciò non gli è consentito dall'intreccio delle circostanze, e gliene viene un grande dolore. La volontà di vivere viene a trovarsi in questo singolo fenomeno tanto compromessa, da non poter più svolgere la propria tendenza. Allora essa prende una risoluzione conforme alla propria essenza in sé; la quale sta fuor delle forme del principio di ragione, e tiene quindi per indifferente ogni isolato fenomeno, essendo ella medesima intangibile da nascita e da morte, e costituendo l'intimo della vita di tutte le cose. Quella medesima salda, profonda certezza, la quale fa sì che noi tutti viviamo senza il continuo terror della morte, ossia la certezza che alla volontà non verrà mai meno il suo fenomeno, sorregge anche il gesto del suicida. La volontà di vivere si palesa dunque altrettanto nel suicidio (Shiva), quanto nel benessere della propria conservazione (Visnù) e nella voluttà della generazione (Brahma). Questo è il significato profondo dell'unità della Trimurti, la quale è tutta in ciascun uomo sebbene ella nel tempo alzi ora l'una, ora l'altra delle sue tre teste. Come l'oggetto singolo sta all'idea, così sta il suicidio alla negazione della volontà: il suicida nega soltanto l'individuo, non la specie. Già vedemmo che, essendo alla volontà di vivere sicura sempre la vita, ed essenziale alla vita il dolore, il suicidio o arbitraria distruzione di un fenomeno isolato è azione in tutto vana e stolta: che sopprimendo il fenomeno rimane intatta la cosa in sé, come sussiste l'arcobaleno, per veloci che si succedano le gocce le quali nell'attimo lo sostengono. Quell'azione è inoltre il capolavoro della Maja, essendo la più clamorosa espressione del contrasto della volontà di vivere con se stessa. Come già osservammo, tale contrasto nei fenomeni più bassi della volontà, nella lotta permanente combattuta da tutte le manifestazioni delle forze naturali e da tutti gl'individui organici per la materia, per il tempo e per lo spazio; e come quel contrasto vedemmo sempre più visibile apparire, con tremenda evidenza, nei gradi dell'oggettivazione della volontà man mano più alti; così finalmente raggiunge nel grado supremo, ch'è l'idea dell'uomo, questo vertice, in cui non soltanto gl'individui rappresentanti della stessa idea si distruggono l'un l'altro, ma addirittura l'individuo dichiara guerra a se medesimo. E allora quella stessa vivacità con cui l'individuo vuole la vita e fa impeto contro l'oppressore di essa, il dolore, lo riduce a distruggere se medesimo: sì che la volontà individuale sopprime con un atto volontario il corpo, il quale è appunto la propria manifestazione visibile, prima che il dolore infranga la volontà. Appunto perché il suicida non può cessar di volere, cessa di vivere; e la volontà s'afferma qui proprio con la soppressione del proprio fenomeno, non potendosi più altrimenti affermare. Ma poiché precisamente il dolore a cui il suicida in tal modo si sottrae era quello che avrebbe potuto, qual mortificazione della volontà, condurlo alla negazione di se stesso ed alla redenzione, somiglia sotto questo riguardo il suicida ad un malato, il quale non lasci condurre a termine una dolorosa operazione che lo guarirebbe radicalmente, e preferisce tenersi la malattia. Il dolore gli s'accosta, e gli apre la possibilità di venire alla negazione del volere: ma egli lo respinge da sé, distruggendo il fenomeno della volontà, il corpo, affinchè la volontà rimanga intatta. Questa è la ragione, per cui quasi tutte le etiche, sia filosofiche, sia morali, condannano il suicidio; sebbene non possano giustificar la condanna se non con strani sofismi. Ma se mai un uomo potesse venir trattenuto dal suicidio con una semplice incitazione morale, il senso intimo di codesta vittoria su se stesso (quali che fossero poi i concetti di cui la sua ragione rivestisse quel senso) sarebbe il seguente: «Io non voglio sottrarmi al dolore, affinchè esso possa contribuire a spegnere la volontà di vivere, il cui fenomeno è sì pieno d'affanno, rafforzando in me la già balenantemi cognizione dell'essenza del mondo fino a tal segno, ch'essa diventi un finale quietivo della mia volontà e mi redima per sempre». È noto che di tanto in tanto si danno casi in cui il suicidio si estende ai propri figli: il padre uccide i figli, che egli ama, e poi se medesimo. Riflettiamo che coscienza, religione e tutti i concetti appresi gli fanno scorgere nel delitto il più grave misfatto, e nondimeno ei lo commette nell'ora della sua propria morte, senza poter avere in ciò il minimo motivo egoistico. Il suo atto si spiega solo pensando, che qui la volontà dell'individuo si riconosce direttamente nei figli, ma prigioniera tuttavia dell'errore che scambia il fenomeno con la cosa in sé; e così, profondamente scossa dalla cognizione del dolore inerente a ogni vita, ritiene allora di sopprimere col fenomeno l'essenza. Quindi se stessa ed i figli, nei quali si vede direttamente rivivere, vuol salvare dall'esistenza e dal suo tormento. Un errore del tutto analogo a questo sarebbe il pensare che la stessa mèta, a cui si perviene mediante volontaria castità, possa venir raggiunta con l'impedire i fini della natura nell'atto del generare, o addirittura col procurar la morte del neonato, in considerazione dell'inevitabile dolore della vita, invece di far viceversa il possibile, perché la vita sia assicurata a ognuno che nella vita vuole entrare. Imperocché quando esiste volontà di vivere, nessuna forza può distruggerla, essa che è la sola realtà metafisica, la cosa in sé; ma unicamente può distruggere il suo fenomeno nello spazio e nel tempo. La volontà non può venir soppressa che dalla conoscenza. Perciò unica via di salvazione è che la volontà si palesi liberamente, per poter conoscere, in questo suo palesarsi, la propria essenza. Solo quando tale cognizione è raggiunta può la volontà sopprimere se stessa e quindi anche dar termine al dolore, che dal fenomeno di lei è inseparabile: ma non vi si perviene invece con violenza fisica, come sarebbe distruzione del germe, uccisione del neonato, o suicidio. La natura mette appunto alla luce la volontà, perché questa nella luce soltanto può trovare la sua redenzione. Quindi tutti i fini della natura vanno aiutati in ogni modo, non appena si è decisa ad agire la volontà di vivere, che della natura è l'intima essenza.

Affatto diversa dal suicidio comune sembra essere una particolar forma di esso, la quale tuttavia non venne fino ad ora abbastanza constatata. È la morte per fame, volontariamente scelta dal grado più alto dell'ascesi. Ma essa fu sempre accompagnata da molta esaltazione religiosa e addirittura da superstizione, che l'han fatta poco chiara. Sembra nondimeno, che la completa negazione della volontà possa raggiungere il punto, in cui vien meno perfino la volontà occorrente a mantener mediante il cibo la vegetazione del corpo. Tal maniera di suicidio proviene da tutt'altro che dalla volontà di vivere: quell'asceta rassegnato appieno cessa di vivere sol perché ha cessato affatto di volere. Altra forma di morte che per fame non sarebbe, in questo caso, immaginabile (a meno che non fosse determinata da una particolare superstizione); perché l'intendimento di abbreviare la sofferenza sarebbe già in effetti un grado d'affermazione della volontà. I dogmi, che empiono a quel penitente la ragione, gli prospettano l'errore, che un essere di natura superiore gli abbia imposto il digiuno, a cui lo spinge invece l'intimo impulso. Non recenti esempi di queste morti si posson trovare nella Breslauer Sammlung von Naturund Medicin Geschichten, settembre 1719, p. 363; presso Bayle, Nouvelles de la république des lettres, febbraio 1685, pp. 189 sg.; presso Zimmermann, Ueber die Einsamkeit, vol. I, p. 182; nella Histoire de l'Académie des Sciences del 1764 si trova una relazione di Houttuyn; questa è riprodotta nella Sammlung für praktische Aente, vol. I, p. 69. Relazioni posteriori si trovano nel Journal für praktische Hilkunde di Hufeland, vol. x, p. 181, e vol. 48, p. 95; anche nella «Zeitschrift für psychische Aerzte» di Nasse, 1819, fasc. 3, p. 460; nell'«Edinburgh medicai and surgical Journal», 1809, vol. 5, p. 319. Nell'anno 1833 tutti i giornali riferirono, che lo storico inglese dr. Lingard, di gennaio, a Dover, era volontariamente morto di fame; secondo notizie successive non si trattava di lui, ma di un suo parente. Nondimeno in queste relazioni cotali individui vengono generalmente dati come pazzi, e non c'è più modo di stabilire fino a che punto pazzi fossero veramente. Ma una notizia nuova dello stesso genere voglio riferire anch'io, dovesse pur servire soltanto a conservare il ricordo d'un de' più rari esempi di codesta straordinaria singolarità dell'umana natura. La notizia sembra appartener proprio ai fatti, tra i quali io vorrei annoverarla, e sarebbe altrimenti difficile a spiegare. La si trova nel Nurnberger Korrespondenten del 29 luglio 1813, come segue:

«Si annunzia da Berna, che presso Thurnen in un folto bosco fu scoperta una capannuccia, e dentro di questa un cadavere maschile giacente in putrefazione da circa un mese, con abiti che poco danno a comprendere sulla condizione del loro proprietario. Due camicie assai fini gli stavano da presso. L'oggetto più importante era una Bibbia, con fogli bianchi intercalati, i quali in parte erano scritti di mano del morto. Questi vi segna il giorno della sua partenza da casa (ma il luogo d'origine non è nominato), poi dice ch'egli è sospinto dallo spirito di Dio in un deserto, per pregare e digiunare. Ha già digiunato in viaggio sette giorni, poi ha di nuovo mangiato. Ma nel suo romitaggio ha ripreso a digiunare, ed indica i giorni. Ogni giorno è indicato con un trattolino, e ve ne son cinque; trascorsi i quali, il pellegrino verisimilmente sarà morto. Si trovò inoltre una lettera a un sacerdote, intorno a una predica che il morto aveva udita da lui; ma quivi pur mancava l'indirizzo». Fra questa morte provocata da un estremo dell'ascesi e il comune suicidio mosso dalla disperazione, potranno essere più gradi intermedi e forme miste, la qual cosa è difficile a chiarire; ma l'animo umano ha abissi, tenebre e avvolgimenti, che sono di estrema difficoltà ad illuminare e dispiegare.

§ 70.

Tutta questa nostra esposizione, oramai compiuta, di ciò ch'io chiamo negazione della volontà, si potrebbe ritenere inconciliabile con l'esame, fatto più indietro, della necessità, la quale appartiene alla motivazione come ad ogni altra forma del principio di ragione. In virtù di quella necessità i motivi, come tutte le cause, sono semplicemente cause occasionali, per cui mezzo il carattere dispiega la propria essenza e la manifesta con la necessità d'una legge di natura: sì che noi negammo allora senz'altro la libertà come liberum arbitrium indifferentiae. Ben lungi dal cancellar qui tutto codesto, vi richiamo la memoria. Invero la libertà propriamente detta, ossia indipendenza dal principio di ragione, appartiene soltanto alla volontà come cosa in sé, e non al suo fenomeno, la cui forma essenziale è sempre il principio di ragione, l'elemento della necessità. Ma l'unico caso, in cui quella libertà può direttamente apparire anche nel fenomeno, è quello, in cui essa al fenomeno mette fine; e poiché nondimeno allora il semplice fenomeno, in quanto esso è un anello nella catena delle cause, ossia il corpo animato, continua a sussistere nel tempo, il quale non contiene che fenomeni, sta allora la volontà, in codesto fenomeno manifestantesi, in contrasto con lui: poiché ella nega ciò che esso esprime. Esistono, per esempio, in questo caso, reali e sani, i genitali; come manifestazione visibile dell'istinto sessuale; ma tuttavia la volontà non vuol più, anche nel suo più intimo, nessuna soddisfazione di sensi: ed il corpo tutto non è se non espressione visibile della volontà di vivere, e tuttavia non agiscono più i motivi corrispondenti a questa volontà. Anzi, il dissolvimento del corpo, la fine dell'individuo, e con essa l'ostacolo maggiore opposto alla volontà naturale, è benvenuta e invocata. Questa reale contraddizione, proveniente dal diretto attacco, che la libertà del volere in sé, la quale non conosce necessità di sorta, muove contro la necessità inerente ai fenomeni del volere, viene riflessa filosoficamente dalla contraddizione fra quanto affermammo, per un lato, intorno alla necessaria determinazione della volontà mediante i motivi, nella misura imposta dal carattere; e, per l'altro, intorno alla possibile soppressione completa della volontà, soppressione che toglie forza ai motivi. La chiave per accordare queste contraddizioni è la seguente: lo stato, in cui il carattere si trova ad esser sottratto all'impero dei motivi, non viene direttamente dalla volontà, ma da un mutato modo di conoscere. Finché non si possiede altra conoscenza, che quella irretita nel principio individuationis e asservita tutta al principio di ragione, l'impero dei motivi è irresistibile; ma quando il principium individuations è superato, e le idee, o anzi l'essenza delle cose in sé, come volontà unica ovunque, vengon direttamente conosciute, e da tal conoscenza proviene un general quietivo del volere, allora perdono ogni possa i singoli motivi, perché il modo di conoscenza, che ad essi corrisponde, è venuto a offuscarsi, a scomparire davanti a un modo affatto nuovo. È vero adunque, che un carattere non può mai mutarsi parzialmente, e deve, con la conseguenza di una legge di natura, obbedire di volta in volta alla volontà, di cui è in complesso il fenomeno: ma appunto questo complesso, il carattere medesimo, può esser tolto via del tutto dalla sopraddetta trasformazione della conoscenza. Tale soppressione indica Asmus, come dicemmo, come «cattolica, trascendentale metamorfosi», e ne stupisce: essa è quel che nella Chiesa cristiana vien chiamato molto opportunamente la rigenerazione; e la conoscenza che ne deriva è detta azione della grazia. Appunto perché non si tratta di un mutamento, ma di una completa soppressione del carattere, ne viene che, per diversi che fossero prima della soppressione i caratteri, a cui questa è toccata, essi mostrano in seguito una grande somiglianza, sebbene ciascuno parli ancora molto diversamente, secondo i propri concetti e i propri dogmi.

In questo senso non è adunque infondato il vecchio, sempre discusso e sempre affermato filosofema della libertà del volere; e non è neppure privo di senso e di valore anche il dogma ecclesiastico della grazia operante e della rigenerazione. Li vediamo fusi in unità, il filosofema e il dogma, e possiamo adesso comprendere qual significato intendesse l'eccelso Malebranche con le parole: La liberté est un mystère. Aveva ragione. Quel che i mistici cristiani chiamano azione della grazia e rigenerazione, è per noi l'unica diretta manifestazione della libertà del volere. Questa si ha quando la volontà, pervenuta alla cognizione della propria essenza in sé, riceve da questa un quietivo e appunto perciò è sottratta all'impero dei motivi, il quale sta nel dominio d'un altro modo di conoscenza, i cui oggetti sono esclusivamente fenomeni. L'esser possibile la libertà, manifestantesi in questo modo, è il più alto privilegio dell'uomo, privilegio che all'animale non sarà mai conceduto, avendo per condizione la capacità riflessiva della ragione, la quale fa vedere il complesso della vita, indipendentemente dall'impressione dell'attimo. L'animale non ha libertà possibile, com'è del resto addirittura privo della possibilità d'una scelta vera e propria, ossia riflessa, che ponga termine a un precedente conflitto di motivi: perché a ciò occorrerebbe che i motivi fossero rappresentazioni astratte. Quindi con la stessa necessità, con cui la pietra cade a terra, pianta il famelico lupo i denti nella carne della selvatica preda, senza possibilità di conoscere ch'egli è tanto il divorato quanto il divoratore. Necessità è il regno della natura; libertà è il regno della grazia.

Ora, poiché, come vedemmo, quella autosoppressione della volontà procede dalla conoscenza, ed ogni conoscenza, in quanto tale, è indipendente dall'arbitrio; così anche quella negazione del volere, quell'entrar nella libertà non si può ottenere con deliberato proposito, bensì viene dal più intimo rapporto del conoscere col volere nell'uomo. Viene perciò d'un tratto, quasi arrivasse volando. E questa è la causa per cui fu chiamata dalla Chiesa azione della grazia: ma come la Chiesa fa inoltre dipender l'azione della grazia dall'accoglimento della grazia, così anche l'azione del quietivo è infine un atto di libertà del volere. E poiché in conseguenza di codesta azione della grazia l'intero essere dell'uomo viene dalle fondamenta trasformato e convertito, sì ch'egli più nulla vuole di quanto finora con tanta forza voleva, e quindi è in lui veramente quasi un uomo nuovo sorto al posto dell'antico, la Chiesa chiamò rigenerazione quest'effetto della grazia operante. Quel ch'essa chiama l'uomo naturale, a cui nega ogni capacità di bene, è appunto la volontà di vivere; la quale va negata, se si vuole aver redenzione da una esistenza com'è la nostra. Dietro la nostra esistenza si cela invero qualche altra cosa, che si fa a noi accessibile sol quando abbiamo rimosso il mondo da noi stessi.

Guardando non agli individui, in conformità del principio di ragione, bensì all'idea dell'uomo nella sua unità, la religione cristiana simboleggia la natura, l'affermazione della volontà di vivere, in Adamo: il peccato di lui, disceso ereditariamente fino a noi, ossia l'unità nostra con lui nell'idea, unità che si manifesta nel tempo col vincolo della generazione, ci fa tutti partecipi del dolore e della morte eterna. E simboleggia invece la grazia, la negazione della volontà, la redenzione, nel Dio incarnato: il quale, libero da ogni peccato, ossia da ogni volontà di vivere, non può come noi provenire dalla più risoluta affermazione della volontà, né avere come noi un corpo, che in tutto e per tutto è esclusivamente volontà concreta, fenomeno della volontà; ma invece, generato dalla pura Vergine, ha solo un corpo apparente. Così almeno pretendono i doceti, ch'erano certi padri della chiesa molto conseguenti nel loro pensare. L'insegnò soprattutto Apelle, contro il quale, e contro i successori suoi, si levò Tertulliano. Ma lo stesso Agostino commenta quel passo (Rom., 8, 3): «Deus filium suum misit in similitudinem carnis peccati»; quindi «non enim caro peccati erat, quae non de carnali delectatione nata erat: sed tamen inerat ei similitudo carnis peccati, quia mortalis caro erat» (Liber 83 quaestion., qu. 66). Lo stesso Agostino insegna nell'opera, che ha per titolo Opus imperfectum, I, 47, che nel peccato originale si trova a un tempo peccato e punizione. Si trova già nei neonati, ma apparisce solo col loro crescere. Quindi l'origine di questo peccato sta, secondo lui, nella volontà del peccatore. E il peccatore, dice, fu Adamo, ma in lui siamo tutti esistiti: Adamo divenne infelice, e tutti divenimmo infelici con lui. Sicuramente la dottrina del peccato originale (affermazione della volontà), con quella della redenzione (negazione della volontà), è la gran verità che forma il nocciolo del cristianesimo; mentre il rimanente è il più delle volte una veste e un velo, o un accessorio. Quindi Gesù Cristo va sempre preso in generale come simbolo, o personificazione, della negazione della volontà di vivere; e non già individualmente, sia nella sua storia mitica, com'è negli Evangeli, sia nella storia presumibilmente vera, che serve a quella di base. Né l'una né l'altra appagherebbe facilmente appieno. Questo non è che il tramite per salire a quella concezione: tramite ad uso del popolo, che domanda sempre qualcosa di materiale. Che poi il Cristianesimo nell'età moderna abbia dimenticato il suo vero senso, degenerando in uno scipito ottimismo, è cosa che qui non ci riguarda.

C'è poi un'altra dottrina dell'originario ed evangelico Cristianesimo, che Agostino, col consenso dei capi della Chiesa, sostenne contro le stoltezze dei pelagiani; purificarla da errori e metterla in vigore fu il principale scopo dell'attività di Lutero, com'egli espressamente dichiara nel suo libro De servo arbitrio. È la dottrina, che la volontà non sia libera, ma dall'origine soggetta all'inclinazione del male; che perciò son le sue opere sempre peccaminose, e non posson mai soddisfare la giustizia; che finalmente non già le opere, ma la fede sola salva; e codesta fede non nasce da proposito e da libera volontà; bensì per l'azione della grazia, senza il nostro concorso, viene a noi quasi giungesse dal di fuori. Non soltanto i dogmi più sopra riferiti, ma anche quest'ultimo, genuinamente evangelico, appartengono a quelli, che oggi una rozza e insulsa concezione rigetta come assurdi, o nasconde. Soggetta a quel borghesismo intellettuale pelagiano, che è appunto il razionalismo odierno, codesta concezione, malgrado Agostino e Lutero, mette fra le anticaglie proprio i dogmi più intimamente ed essenzialmente cristiani, e invece tien fermo soltanto e pone in primo luogo il dogma originato e conservato dal giudaismo, collegato col cristianesimo esclusivamente per la via della storia.66

Noi viceversa riconosciamo nella dottrina citata la verità corrispondente appieno al risultato delle nostre osservazioni. Vediamo cioè, che la genuina virtù e santità dell'animo ha la sua prima origine non già nel meditato arbitrio (nelle opere), bensì nella conoscenza (nella fede): proprio secondo noi pure concludemmo, muovendo dal nostro pensiero centrale. Se conducessero alla beatitudine le opere, le quali emanano da motivi e da meditato proposito, sarebbe ognora la virtù null'altro che un sottile, metodico, lungimirante egoismo: si giri pur la cosa come si vuole. La fede invece, a cui la Chiesa cristiana promette la beatitudine, è questa: che, come per il peccato originale del primo uomo siamo del peccato tutti partecipi, e destinati alla morte e alla perdizione, tutti saremo egualmente salvati sol per la grazia e perché il divino propiziatore ha assunto su di sé il nostro immane peccato. Saremo salvati senz'alcun nostro merito personale; perché ciò che può venir dall'agire intenzionale (determinato da motivi) dell'individuo, ossia le opere, non potrebbe esserci di giustificazione mai in nessun modo e per propria natura, appunto essendo agire intenzionale, determinato da motivi, opus operatum. In questa fede è primo principio, che il nostro sia originalmente ed essenzialmente uno stato di perdizione, dal quale dobbiamo essere redenti. Vien poi l'altro principio, che noi apparteniamo per essenza al male, e siamo ad esso così strettamente legati, che le nostre opere, fatte secondo legge e secondo prescrizione, ossia secondo motivi, né possono soddisfare la giustizia, né salvarci. La redenzione s'acquista soltanto con la fede, ossia mediante un mutato modo di conoscenza; e questa fede non può venire che dalla grazia, cioè dal di fuori: ciò vuol dire che la salvazione è alcunché d'affatto estraneo alla nostra persona, e indica come necessario per quella salvazione appunto il negare, il sopprimere la persona stessa. Le opere, adempimento della legge in quanto tale, non posson mai giustificare, perché sono sempre un agire per effetto di motivi. Lutero vuole (nel libro De libertate christiana) che, una volta penetrata la fede, le buone opere ne emanino spontanee, come sintomi, come frutti di lei: non già pretendendo d'avere in sé diritto a merito, giustificazione, o ricompensa, ma producentisi invece affatto spontaneamente e disinteressatamente. Così anche noi facemmo sorgere, dalla penetrazione sempre più limpida che va oltre il principium individuationis, dapprima la semplice libera giustizia, poi l'amore, fino alla completa soppressione dell'egoismo, e finalmente la rassegnazione, o negazione della volontà.

Questi dogmi della religione cristiana, che sono in sé estranei alla filosofia, li ho qui introdotti per mostrare, che l'etica risultante da tutto il nostro sistema, e accordantesi e connettentesi in tutto con le varie parti di esso, non è punto nuova e inaudita nella sostanza, se pur tale può parere nella sua formulazione. Essa coincide invece appieno coi veri dogmi cristiani, ed ora anzi già in essi, sostanzialmente, contenuta e presente; così come in tutta precisione coincide con le dottrine e le prescrizioni morali, sebbene presentate anch'esse in tutt'altra forma, dei libri sacri indiani. Inoltre il richiamo ai dogmi della Chiesa cristiana servì a illustrare e dirimere il contrasto apparente tra la necessità di tutte le manifestazioni del carattere in seguito a dati motivi (regno della natura) da una parte, e dall'altra la libertà, che possiede la volontà in sé, di negare se medesima e sopprimere il carattere, con tutta la necessità dei motivi che su di esso si fonda (regno della grazia).

§ 71.

Dando qui termine ai fondamenti dell'etica, e con essi all'intero sviluppo di quell'unico pensiero, ch'io mi proponevo di comunicare, non voglio punto tener celato un rimprovero che tocca quest'ultima parte della trattazione; intendo anzi mostrare, ch'esso è inerente alla sostanza della cosa, e sarebbe del tutto impossibile rimuoverlo. Eccolo: giunta la nostra indagine al punto da farci vedere nella perfetta santità la negazione e l'abbandono d'ogni volere, e quindi la redenzione da un mondo, la cui essenza intera ci si presentò come dolore, tale condizione ci appare come un passare al vuoto nulla.

A questo proposito devo in primo luogo osservare, che il concetto del nulla è essenzialmente relativo, e si riferisce sempre ad alcunché di determinato, ch'esso nega. Codesta relatività fu attribuita (specie da Kant) soltanto al nihil privativum, indicato col segno – in opposizione al segno +; il qual segno –, capovolgendo il punto di vista, poteva diventare +; e in contrasto con quel nihil privativum, si stabilì un nihil negativum, che fosse il nulla sotto tutti i rapporti, per esempio, del quale si cita la contraddizione logica, distruggente se stessa. Ma, guardando più da vicino, un nulla assoluto, un vero e proprio nihil negativum non si può neppure immaginare: ogni nihil negativum, guardato più dall'alto o sussunto ad un più ampio concetto, rimane pur sempre un nihil privativum. Ciascun nulla è pensato come tale solo in rapporto a qualche cosa, e presuppone codesto rapporto, ossia quella cosa. Perfino una contraddizione logica è un nulla relativo. Non è un pensiero della ragione: ma non perciò è un nulla assoluto. Imperocché essa è un'accozzaglia di parole, è un esempio del non pensabile, di cui nella logica si ha bisogno per mostrar le leggi del pensare: quindi, allorché si ricorre con quel fine a un esempio siffatto, si bada all'insensato, che è la cosa positiva di cui si va in cerca, trascurando il sensato, come negativo. Così adunque ogni nihil negativum, o nulla assoluto, quando venga subordinato a un concetto più alto, apparirà sempre qual semplice nihil privativum, o nulla relativo, che può sempre scambiare il suo segno con ciò ch'esso nega, sì che questo diventi a sua volta negazione, ed esso viceversa diventi posizione. Con noi s'accorda anche il risultato della difficile indagine dialettica intorno al nulla, che Platone istituisce nel Sofista (pp. 277-287, ed. Bip.): Την του έτερου φυσιν αποδειξαντες ουσαν τε, και κατακεκερματισμεηνη ετι παντα τα οντα προς αλληλα, το προς το ον έκαστου μοριον αυτης αντιτιθεμενον. Ετολμησαμεν ειπειν, ώς αυτο τουτο εστιν αυτως το μη ον (Cum enim ostenderemus, alterius ipsius naturam esse, perque omnia entia divisam atque dispersam invicem; tunc partem ejus oppositam ei, quod cujusque ens est, esse ipsum revera non ens asseruimus).

Ciò ch'è universalmente ammesso come positivo, che noi chiamiamo l'ente, e la cui negazione è espressa dal concetto del nulla nel suo significato più universale, è appunto il mondo della rappresentazione, che io ho indicato come oggettità, specchio della volontà. E questa volontà e questo mondo sono poi anche noi stessi, e al mondo appartiene la rappresentazione in genere, come una delle sue facce: forma di tale rappresentazione sono spazio e tempo, quindi ogni cosa, che sotto questo riguardo esista, dev'esser posta in qualche luogo e in qualche tempo. Negazione, soppressione, rivolgimento della volontà è anche soppressione e dileguamento del mondo, ch'è specchio di quella. Se non vediamo più la volontà in codesto specchio, invano ci domanderemo dove si sia rivolta; e lamentiamo allora ch'ella non abbia più né dove né quando, e sia svanita nel nulla.

Un punto di vista invertito, qualora fosse possibile per noi, scambierebbe i segni, mostrando come il nulla ciò che per noi è l'ente, e quel nulla come l'ente. Ma, finché noi medesimi siamo la volontà di vivere, il nulla può esser conosciuto da noi solo negativamente, perché l'antico principio d'Empedocle, potere il simile esser conosciuto soltanto dal simile, ci toglie qui ogni possibilità di conoscenza; come viceversa poggia su quel principio la possibilità di tutta la nostra conoscenza reale, ossia il mondo come rappresentazione, o l'oggettità della volontà. Imperocché il mondo è l'autocognizione della volontà.

Quando si volesse tuttavia insistere nel pretendere in qualche modo una cognizione positiva di ciò, che la filosofia può esprimere solo negativamente, come negazione della volontà, non potremmo far altro che richiamarci allo stato di cui fecero esperienza tutti coloro, i quali pervennero alla completa negazione della volontà; stato al quale si son dati i nomi di estasi, rapimento, illuminazione, unione con Dio, e così via. Ma tale stato non può chiamarsi cognizione vera e propria, perché non ha più la forma del soggetto e dell'oggetto, e inoltre è accessibile solo all'esperienza diretta, né può essere comunicato altrui.

Noi, che restiamo fermi sul terreno della filosofia, dobbiamo qui contentarci della conoscenza negativa, paghi d'aver raggiunto il limite estremo della positiva. Avendo riconosciuto nella volontà l'essenza in sé del mondo, e in tutti i fenomeni del mondo null'altro che l'oggettità di lei; avendo quest'oggettità perseguito dall'inconsapevole impulso delle oscure forze naturali fino alle più lucide azioni umane, non vogliamo punto sfuggire alla conseguenza: che con la libera negazione, con la soppressione della volontà, vengono anche soppressi tutti quei fenomeni e quel perenne premere e spingere senza mèta e senza posa, per tutti i gradi dell'oggettità, nel quale e mediante il quale il mondo consiste; soppressa la varietà delle forme succedentisi di grado in grado, soppresso, con la volontà, tutto intero il suo fenomeno; poi finalmente anche le forme universali di quello, tempo e spazio; e da ultimo ancora la più semplice forma fondamentale di esso, soggetto e oggetto. Non più volontà: non più rappresentazione, non più mondo.

Davanti a noi non resta invero che il nulla. Ma quel che si ribella contro codesto dissolvimento nel nulla, la nostra natura, è anch'essa nient'altro che la volontà di vivere. Volontà di vivere siamo noi stessi, volontà di vivere è il nostro mondo. L'aver noi tanto orrore del nulla, non è se non un'altra manifestazione del come avidamente vogliamo la vita, e niente siamo se non questa volontà, e niente conosciamo se non lei. Ma rivolgiamo lo sguardo dalla nostra personale miseria e dal chiuso orizzonte verso coloro, che superarono il mondo; coloro, in cui la volontà, giunta alla piena conoscenza di sé, se medesima ritrovò in tutte le cose e quindi liberamente si rinnegò; coloro, che attendono di vedere svanire ancor solamente l'ultima traccia della volontà col corpo, cui ella dà vita. Allora, in luogo dell'incessante, agitato impulso; in luogo del perenne passar dal desiderio al timore e dalla gioia al dolore; in luogo della speranza mai appagata e mai spenta, ond'è formato il sogno di vita d'ogni uomo ancor volente: ci appare quella pace che sta più in alto di tutta la ragione, quell'assoluta quiete dell'animo pari alla calma del mare, quel profondo riposo, incrollabile fiducia e letizia, il cui semplice riflesso nel volto, come l'hanno rappresentato Raffaello e Correggio, è un completo e certo Vangelo. La conoscenza sola è rimasta, la volontà è svanita. E noi guardiamo con profonda e dolorosa nostalgia a quello stato, vicino al quale apparisce in piena luce, per contrasto, la miseria e la perdizione del nostro. Eppur quella vista è la sola, che ci possa durevolmente consolare, quando noi da un lato abbiam riconosciuto essere insanabile dolore ed infinito affanno inerenti al fenomeno della volontà, al mondo; e dall'altro vediamo con la soppressione della volontà dissolversi il mondo, e soltanto il vacuo nulla rimanere innanzi a noi. In tal guisa adunque, considerando la vita e la condotta dei santi, che raramente ci è concesso invero d'incontrar nella nostra personale esperienza, ma che dalle loro biografie e, col suggello dell'interna verità, dall'arte ci son posti sotto gli occhi, dobbiamo discacciare la sinistra impressione di quel nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo a ogni virtù e santità e di cui noi abbiamo paura, come della tenebra i bambini. Discacciarla, quell'impressione, invece d'ammantare il nulla, come fanno gl'Indiani, in miti e in parole prive di senso, come sarebbero l'assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti. Noi vogliamo piuttosto liberamente dichiarare: quel che rimane dopo la soppressione completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è – il nulla.