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Arthur Schopenhauer

I due problemi fondamentali
dell’etica


Indice generale

Prefazione alla prima edizione    
Prefazione alla seconda edizione    
Trattato su
La libertà di volere    
i - Definizione dei concetti    
Cosa è la libertà?    
Cosa è la autocoscienza?    
ii - La volontà di fronte alla autocoscienza    
iii - La volontà di fronte alla coscienza delle altre cose    
iv - Predecessori    
v - Conclusione e visione più elevata    
vi - Appendice a integrazione del primo paragrafo    
Trattato su
Il fondamento della morale    
I - Introduzione    
§ 1 Il problema    
§ 2 Retrospettiva generale    
II - Critica del fondamento dell’etica di Kant    
§ 3 Panoramica    
§ 4 La forma imperativa dell’etica di Kant    
§ 5 Riguardo ai presunti doveri verso noi stessi, in particolare    
§ 6 Il fondamento dell’etica di Kant    
§ 7 Il supremo principio dell’etica di Kant    
§ 8 Forme derivate del supremo principio dell’etica di Kant    
§ 9 La dottrina kantiana della coscienza    
§ 10 La dottrina kantiana del carattere empirico e intelligibile. La teoria della libertà.    
Nota    
§ 11 L’etica di Fichte, come lente di ingrandimento degli errori dell’etica di Kant    
III - Motivazione dell’etica    
§ 12 Requisiti    
§ 13 Punto di vista scettico    
§ 14 Molle di spinta antimorali    
§ 15 Criterio delle azioni con valore morale    
§ 16 Presentazione e dimostrazione dell’unica genuina molla di spinta morale    
§ 17 La virtù della giustizia    
§ 18 La virtù dell’amore verso il prossimo    
§ 19 Conferme del fondamento della morale presentato    
§ 20 Differenza morale dei caratteri    
IV - Interpretazione metafisica del fenomeno originario dell’etica    
§ 21 Chiarimento riguardo a questa appendice    
§ 22 Fondamento metafisico    
Giudizio della Società Reale Danese delle Scienze    
Cronologia
 della vita e
 delle opere di
 Arthur Schopenhauer   

I due problemi
fondamentali dell’etica dibattuti in due trattati accademici dal Dottor
Arthur Schopenhauer
Membro della Regia Società Norvegese delle Scienze
I. La libertà di volere
premiato dalla Regia Società Norvegese delle Scienze,
Drontheim, 26 Gennaio 1839
II. Il fondamento della morale
non premiato dalla Regia Società Danese delle Scienze,
Copenhagen, 30 Gennaio 1840

Prefazione alla prima edizione

Questi due trattati, sorti indipendentemente uno dall’altro in seguito a circostanze esterne, sono tuttavia complementari nel formare un sistema di verità fondamentali dell’etica, al quale - spero - non si vorrà negare il merito di far compiere un passo avanti a questa scienza, che da mezzo secolo2 si è presa una vacanza.

Tuttavia nessuno dei due trattati ha potuto far riferimento all’altro, né tanto meno ai miei precedenti, poiché entrambi sono stati scritti per due diverse accademie, sotto condizione - come si suole fare in questi casi - di un rigoroso anonimato.

Per questo non è stato possibile evitare che alcuni punti venissero toccati in entrambi: non potendo dare nulla per scontato, bisognava sempre ricominciare ab ovo [dall’inizio]. In realtà questi trattati sono particolari esposizioni di due dottrine riportate - nei loro tratti essenziali - nel quarto libro della mia opera principale Il mondo come volontà e rappresentazione, dove sono state dedotte a partire dalla mia metafisica, sinteticamente a priori.

In questi due trattati, invece, dove per forza di cose non era ammissibile alcuna premessa, quelle due dottrine sono state esposte analiticamente a posteriori3.

Di conseguenza ciò che in quel libro compare per primo, in questi due trattati viene presentato per ultimo. Ma proprio grazie a questa partenza da un punto di vista comune, e grazie anche all’esposizione a posteriori, entrambe le dottrine hanno guadagnato molto in comprensibilità, in forza di persuasione e in significato.

Questi due trattati sono quindi da considerare come una integrazione del quarto libro della mia opera principale, esattamente come il mio scritto La volontà nella natura è da considerare come una integrazione essenziale e importante del secondo libro della stessa opera. Oltretutto, per quanto eterogeneo possa sembrare il tema de La volontà nella natura rispetto a quello dei presenti trattati, tra loro esiste un nesso reale. Quel trattato è addirittura, in una certa misura, la chiave dei presenti, cosicché capire questo nesso contribuisce innanzitutto alla perfetta comprensione di entrambi.

Quando finalmente arriverà il tempo in cui si leggeranno le mie opere, si potrà constatare che la mia filosofia è come Tebe dalle cento porte: si può entrare da una porta qualunque e da questa giungere direttamente al centro. Devo inoltre far notare che il primo di questi due trattati è già stato pubblicato a Drontheim nel più recente volume delle Memorie della Reale Società Norvegese delle Scienze.

In considerazione della grande distanza tra Drontheim e la Germania l’Accademia Norvegese mi ha concesso - dietro mia richiesta - con la massima disponibilità e liberalità il permesso di pubblicare questo trattato in Germania. Per questo voglio qui esprimerle pubblicamente il mio più sentito ringraziamento.

Il secondo trattato - nonostante fosse l’unico in concorso - non è stato premiato dalla Reale Società Danese delle Scienze. Dal momento che questa Società ha già pubblicato il suo giudizio negativo sul mio lavoro, mi sento autorizzato a illustrarlo e a fare una replica.

Il lettore può trovare questo giudizio in coda al corrispondente trattato. Potrà così constatare che la Reale Società non ha trovato assolutamente nulla da lodare nel mio lavoro, bensì solo cose da biasimare. Questo biasimo viene espresso tramite tre diverse note, che ora voglio analizzare singolarmente.

La prima e principale nota di biasimo - tanto che le altre sono solo accessorie - è che io avrei frainteso la domanda, pensando erroneamente che venisse chiesto di stabilire il fondamento dell’etica. Invece l’oggetto della domanda sarebbe stato, propriamente e principalmente, il nesso tra la metafisica e l’etica4.

Io avrei completamente omesso di spiegare questo nesso (omisso enim eo, quod potissimus postulabatur: trascurando l’essenza del problema) si proclama nel giudizio all’inizio. Tuttavia tre righe più avanti ci si dimentica di quanto appena detto e si afferma il contrario (principii ethicae et metaphysicae suae exponit: spiega il nesso tra il principio e la sua metafisica), ossia che io avrei sì spiegato quel nesso, tuttavia lo avrei fatto solo in una appendice, come se fosse qualcosa di superfluo, nella quale - a mio parere - avrei dato più di quanto fosse stato chiesto.

Di questa contraddizione del giudizio con sé stesso non voglio tener conto: la ritengo il frutto dell’imbarazzo con cui il giudizio è stato redatto. Invito invece il lettore, istruito e imparziale, a leggere attentamente nel prologo del trattato, la domanda posta nel bando di concorso dell’Accademia Danese e l’introduzione che la precede, così come sono state stampate in latino, assieme alla mia traduzione.

Decida poi lui stesso cosa effettivamente la domanda chiede: se la ragione ultima, il principio, il fondamento, la vera e propria fonte dell’etica ... oppure il nesso tra etica e metafisica. Per facilitare il compito al lettore voglio ora passare in rassegna e analizzare sia l’introduzione e sia il quesito, mettendo in piena luce il significato di entrambi.

L’introduzione al quesito afferma l’esistenza di un’idea elementare e necessaria di moralità, ovvero di una nozione primordiale della legge morale, che si presenta sotto un duplice aspetto: da un lato nella morale come scienza filosofica [l’etica] e dall’altro nella vita reale. In quest’ultima si manifesta in due ulteriori modi: nel giudizio riguardo alle azioni compiute da noi stessi oppure a quelle compiute dagli altri. A questo concetto originario di moralità si riallacciano poi altri concetti, che su esso poggiano.

Sulla base di questa introduzione la Regia Società pone il quesito: dove vanno ricercati l’origine e il fondamento della morale? Forse in un’idea originaria di moralità che si trova di fatto e direttamente nella consapevolezza di sé stessi o nella propria coscienza?

In tal caso questa fonte (la coscienza di sé e delle cose esterne) dovrebbe essere analizzata, come pure i concetti che da essa derivano. Oppure la morale viene appresa in qualche altro modo? Spogliato da tutto quanto non è essenziale e riformulato in una maniera del tutto chiara, il quesito suona così: «Dove bisogna ricercare l’origine e il fondamento della filosofia morale? Devono essere ricercati in un’idea di moralità immediatamente data nella coscienza oppure in qualche altro principio di conoscenza?».5

Quest’ultima frase mostra nella maniera più chiara che il quesito riguarda il principio di conoscenza della morale. Come se ciò non bastasse, voglio ora aggiungere una interpretazione del quesito con parole più semplici e comprensibili, ma che non ne alterano il contenuto.

L’introduzione parte da due osservazioni empiriche: «Di fatto esiste una scienza morale, come pure è un dato di fatto che nella vita reale si manifestano dei concetti morali. In parte, perché noi stessi giudichiamo moralmente, nella nostra coscienza, le nostre azioni, e in parte perché giudichiamo dal punto di vista morale le azioni degli altri. Sembra, quindi, che esistano parecchi concetti etici - ad esempio quello di dovere, di responsabilità e simili - universalmente validi. Da tutto questo traspare l’esistenza di un’idea originaria della moralità, ossia di un pensiero fondamentale di legge morale.

Sembra anche che questa legge morale sia quello che è per motivi del tutto particolari, non solamente logici. Essa non potrebbe quindi venir fatta valere semplicemente in base al principio di contraddizione, a partire dalle incongruenze insite nelle azioni da giudicare o nelle massime a cui si sono ispirate. Da questo originario concetto di moralità deriverebbero poi gli altri principali concetti morali che da esso dipendono e dal quale non possono venir separati. Su cosa poggia questa legge morale?

Questo sarebbe un importante tema di ricerca, dice la Regia Società. Essa pone quindi le seguente domande: dove andrebbero ricercati (quaerenda sunt) la sorgente, ossia la fonte originale, e il fondamento della morale? Dove si possono trovare? Forse in una idea di moralità innata che portiamo dentro di noi nella nostra coscienza? Se così fosse, questa idea, assieme ai concetti che da essa dipendono, dovrebbe semplicemente venire analizzata (explicandis). Oppure questa idea di

moralità va ricercata altrove? La sorgente della morale sta forse in un principio di conoscenza dei nostri doveri completamente diverso da quello precedentemente menzionato come suggerimento o esempio?».

Questo è - in maniera più dettagliata e chiara, seppur fedele ed esatta - il contenuto dell’introduzione e del quesito. Ora a chi può rimanere anche il minimo dubbio che il quesito posto dalla Reale Società non riguardi la fonte, l’origine, il fondamento, il principio di conoscenza della morale?

La fonte e il fondamento della morale non possono essere che quelli della moralità stessa. Infatti la moralità è nella pratica ciò che la morale è nella teoria. La fonte della moralità deve essere il motivo ultimo di ogni comportamento moralmente valido. Da parte sua, la morale deve stabilire questo suo fondamento, per potersi appoggiare su di esso e per fare appello ad esso in tutto quanto la morale prescrive all’uomo. Altrimenti la morale camperebbe i propri precetti in aria, oppure li motiverebbe in maniera falsa.

La morale deve dimostrare quale è il motivo ultimo di ogni moralità, poiché esso è la prima pietra dell’etica intesa come costruzione scientifica, ed è l’origine della moralità intesa come prassi. È impossibile negare che il quesito non chieda proprio quale sia il fondamentum philosophiae moralis [fondamento della filosofia morale].

È quindi chiaro come il sole che il compito assegnato è proprio quello di ricercare e di stabilire un principio dell’etica (ut principium aliquod ethicae conderetur), non nel senso di una semplice prescrizione suprema o regola di base, ma come motivo reale di ogni moralità, quindi come principio di conoscenza della morale. Eppure il giudizio dell’Accademia nega che questo sia il compito da svolgere, quando sostiene di non poter premiare il mio trattato poiché io così lo avrei inteso.

Ma allora chiunque legga il compito assegnato non potrà fare a meno di fraintenderlo, poiché esso sta scritto nero su bianco con parole chiare e inequivocabili, e non può essere negato, fintanto che i vocaboli latini conservano il loro significato. Su questo punto mi sono dilungato fin troppo; eppure è importante e curioso. Infatti è chiaro e certo che questa Accademia nega di aver chiesto ciò che, invece, ha apertamente ed innegabilmente chiesto.

Essa afferma invece di aver chiesto qualcos’altro e sostiene che il tema principale (soltanto questo possiamo intendere per ipsum thema) del bando di concorso sarebbe il nesso tra metafisica e morale. Prego quindi il lettore di controllare se a questo proposito vien detta una sola parola nel quesito o nell’introduzione: nessuna sillaba e neppure il minimo accenno. In realtà chi chiede quale sia il nesso tra due scienze dovrebbe menzionarle entrambe. Eppure la parola ‘metafisica’ non viene menzionata né nel quesito né nell’introduzione.

Oltretutto, la frase principale del giudizio dell’Accademia diverrebbe più chiara se la si trascrivesse dalla sua forma inversa in quella naturale. Usando esattamente le stesse parole, essa suonerebbe così: «Proprio questo era richiesto dal tema: una discussione in particolare sul rapporto tra metafisica ed etica. Ma lo scrittore, trascurando l’essenza del problema, ha ritenuto che gli venisse chiesto di individuare un fondamento qualsiasi della morale. Di conseguenza, quella sezione del suo scritto, nella quale spiega il nesso tra il principio etico da lui definito e la sua metafisica, è relegata a rango di una appendice quasi superflua rispetto al tema proposto».6

Anche la domanda riguardo al nesso tra metafisica e morale semplicemente non rientra nel punto di vista da cui parte l’introduzione al quesito. L’introduzione infatti comincia con alcune osservazioni empiriche, fa riferimento alle valutazioni morali che avvengono nella vita quotidiana e ad altre cose simili, cosicché la Regia Società si chiede: «Da dove deriva tutto questo?». Essa suggerisce poi, come esempio di una possibile soluzione, un’idea di moralità innata e insita nella coscienza.

In questo esempio - il cui proposito è di fare un tentativo e di sollevare un problema - essa assume come soluzione un semplice dato di fatto psicologico, non un teorema metafisico. Così facendo la Regia Società lascia chiaramente intendere di esigere come fondamento della morale un dato di fatto qualsiasi, nella coscienza o nel mondo, e non di aspettarsi di vederlo dedurre dalle fantasticherie di una metafisica qualunque. Pertanto, a chi avesse risolto il quesito in quest’ultimo senso, l’Accademia avrebbe potuto - a buon diritto - negare il premio. Si tenga ben in considerazione questo fatto.

Oltretutto la presunta domanda (che non si riesce a localizzare da nessuna parte) riguardo al nesso tra la metafisica e la morale, non avrebbe assolutamente potuto trovare alcuna risposta. Quindi, se vogliamo accreditare ai membri della Regia Società un minimo di intelligenza, l’Accademia stessa non avrebbe potuto neppure porla.

Non esiste, infatti, una riposta a questa presunta domanda, per il semplice fatto che non esiste ‘una’ metafisica. Esistono bensì differenti (anzi, estremamente differenti) metafisiche (o meglio, tentativi vari di costruire una metafisica) in un numero considerevole, tante quante sono stati i filosofi, ciascuna delle quali recita un ritornello diverso a seconda del proprio autore, cosicché tutte differiscono e dissentono tra di loro nella maniera più profonda. Si potrebbe domandare il nesso tra l’etica e la metafisica di Aristotele, Epicuro, Spinoza, Leibniz, Locke o di qualsiasi altro filosofo, ma mai e poi mai tra l’etica e la metafisica in genere.

Una simile domanda non avrebbe alcun senso, poiché presupporrebbe un rapporto tra una cosa ben definita (l’etica) e una cosa indeterminata, forse addirittura impossibile (la metafisica). Dal momento che non esiste una metafisica inconfutabilmente riconosciuta come oggettivamente vera - quindi, una metafisica in assoluto - non sapremo mai se essa sia in generale anche solo possibile, né cosa sarebbe o potrebbe essere.

Si potrebbe tuttavia obiettare che in effetti noi possediamo già un concetto del tutto generale - anche se certamente non ben definito - di metafisica cosicché, tenendo conto di questo concetto, ci si potrebbe domandare, quale è il nesso in generale tra questa metafisica in abstracto e l’etica. Giusta obiezione.

Tuttavia la risposta al quesito posto in questo senso è talmente facile e semplice, che sarebbe ridicolo bandire un concorso a questo proposito. La risposta, infatti, non potrebbe essere che questa: una vera e perfetta metafisica deve offrire un solido sostegno e il fondamento primo anche all’etica.

Oltretutto questa considerazione viene espressa proprio nel paragrafo § 1 del mio trattato, dove, parlando delle difficoltà poste dal quesito, indico in particolare questa: il quesito per sua natura esclude la possibilità di fondare l’etica su una qualsiasi metafisica, dalla quale si possa partire e con la quale ci si possa sostenere.

Con quanto precedentemente detto ritengo di avere inconfutabilmente dimostrato che la Reale Società di Danimarca ha veramente chiesto nel quesito iniziale ciò che nel giudizio finale nega di aver chiesto. E viceversa: non ha chiesto all’inizio ciò che in seguito sostiene di aver chiesto (oltretutto, una cosa che non avrebbe potuto neppure chiedere).

Senza dubbio, secondo il principio morale indicato nel mio trattato, questo comportamento della Regia Società di Danimarca non è giusto. Ma essa non riconosce la validità del mio principio morale, quindi deve pur esistere qualche altro principio, secondo il quale il suo comportamento sarebbe giusto.

In realtà io ho risposto esattamente a ciò che l’Accademia di Danimarca aveva chiesto. Innanzitutto, nella parte critica del mio trattato (dove critico il fondamento dell’etica di Kant) ho spiegato che il principio dell’etica non sta là dove - da sessant’anni - si suppone che sia stato dimostrato con certezza. In seguito, nella parte propositiva del trattato, ho gettato una luce sulla fonte genuina di ogni comportamento moralmente valido, e ho realmente dimostrato che questa è la vera fonte e che nessun’altra può esserlo.

Infine ho mostrato il nesso tra questo reale fondamento della morale, non con la mia metafisica (come il giudizio dell’Accademia falsamente sostiene) e neppure con qualche altra determinata metafisica, bensì con un profondo pensiero universale. Un pensiero che è comune a moltissimi, forse alla maggior parte dei sistemi metafisici, senza dubbio i più antichi e - a mio parere - i più veri.

Questa spiegazione metafisica non è stata posta in appendice (come il giudizio dell’Accademia sostiene) bensì nell’ultimo paragrafo del trattato. Essa è la pietra finale dell’intera opera, una considerazione di natura più elevata, nella quale l’opera stessa sfocia.

Che poi - in un passo dell’ultimo capitolo - io abbia affermato di stare prestando più di quanto il compito assegnato avesse effettivamente richiesto, deriva proprio dal fatto che il quesito stesso non dice una parola riguardo a una spiegazione metafisica, né tantomeno (come l’Accademia invece sostiene) mira effettivamente a una tale spiegazione. Dopotutto se questa spiegazione metafisica sia o non sia qualcosa accessorio - ossia, qualcosa in più di quanto richiesto - è una questione secondaria, del tutto indifferente. Quello che importa è che sia stata data.

Che il giudizio dell’Accademia poi voglia far valere quella mia affermazione [di stare prestando più di quanto fosse richiesto] a mio discapito è una dimostrazione del suo imbarazzo, il quale la spinge ad aggrapparsi a ogni pretesto pur di opporre qualcosa al mio lavoro. Oltretutto era del tutto naturale che quelle considerazioni metafisiche venissero fatte alla conclusione del trattato. Infatti, se fossero state fatte all’inizio, il fondamento della morale avrebbe dovuto venir dedotto sinteticamente.

Ma questo sarebbe stato possibile solo se l’Accademia avesse specificato da quale dei moltissimi e diversissimi sistemi metafisici lei desiderava che venisse dedotto il fondamento della morale. In questo caso la validità di un tale fondamento dipenderebbe dalla validità della metafisica assunta in partenza, quindi sarebbe una validità problematica. Per questo la natura del quesito rendeva necessaria una deduzione analitica a posteriori del fondamento ultimo della morale, ossia una deduzione tratta dalla realtà delle cose, senza la premessa di una qualsiasi metafisica.

Proprio perché nell’epoca moderna questo metodo è stato universalmente riconosciuto come il solo e sicuro cammino, Kant - come già i moralisti inglesi prima di lui - si è impegnato a individuare il principio dell’etica secondo il metodo analitico, indipendentemente da qualsiasi premessa metafisica. Abbandonare questo cammino equivarrebbe evidentemente a tornare indietro. In ogni caso, se l’Accademia avesse preteso proprio questo, avrebbe perlomeno dovuto dirlo nella maniera più esplicita. Ma nel suo quesito non si trova neppure il minimo accenno al riguardo.

Dal momento che l’Accademia Danese con grande magnanimità ha voluto tacere riguardo al difetto fondamentale del mio lavoro, mi guarderò bene dal rivelarlo io. Temo però che questa precauzione sarà inutile, poiché prevedo che il buon fiuto del lettore di questo trattato lo porterà sulle tracce della maleodorante macchia. Tuttavia il lettore potrebbe venire ingannato dal fatto che anche il mio trattato norvegese è affetto - per lo meno in ugual misura - dallo stesso difetto fondamentale. Ciò nonostante la Reale Società di Norvegia non si è certamente astenuta dal premiare il mio lavoro.

Essere membro di questa Accademia è un onore di cui ogni giorno mi rendo conto sempre più chiaramente e che apprezzo sempre più compiutamente. Essa infatti, come accademia, non conosce altro interesse che quello della verità, della luce, e di promuovere la comprensione e la conoscenza umana.

Un’accademia non è un tribunale della fede. Ogni accademia, prima di formulare quesiti così elevati, seri e impegnativi - come questi due, per i quali è stato bandito un concorso a premi - dovrebbe innanzitutto far luce su sé stessa per stabilire se realmente si sente pronta a sostenere apertamente la verità comunque questa possa suonare (cosa impossibile da sapere in anticipo). Più tardi, infatti, dopo che a un serio quesito è arrivata un altrettanto seria risposta, non ci sarà più tempo per ritirarlo. E una volta che il convitato di pietra si presenta sulla soglia, perfino Don Giovanni sarebbe troppo gentleman per negare di averlo invitato.7

Questo delicato problema è senza dubbio il motivo per cui le accademie europee di solito si guardano bene dal porre quesiti di questo tipo. I due presenti quesiti sono, in realtà, i primi che io ricordo di aver mai incontrato. Proprio per questo, pour la rareté du fait [per la rarità del fatto], mi sono assunto l’impegno di dar loro una risposta. Da molto tempo mi sono reso perfettamente conto che per me la filosofia è una cosa troppo seria per [permettermi di] diventare un professore di filosofia. Tuttavia non avrei mai pensato di imbattermi in un simile errore di valutazione da parte di una accademia.

La seconda nota di biasimo della Reale Società di Danimarca suona così: scriptor neque ipsa disserendi forma nobis satisfecit [lo scrittore ci risulta insoddisfacente anche sul piano formale]. Su questo non ho nulla da ridire: si tratta del giudizio soggettivo della Reale Società di Danimarca.8

Per chiarire questo aspetto rendo pubblico il mio lavoro e aggiungo il testo del giudizio finale dell’Accademia, affinché esso non vada perso, bensì ci ricordi sempre che:

«Finché l’acqua scorrerà e gli alberi punteranno in alto,
e il sole sorgerà nel cielo e la luna splenderà,
e i fiumi si gonfieranno e il mare si incresperà,
annuncerò ai passanti che Mida qui è sepolto»9.

Faccio semplicemente notare che in questa occasione il trattato viene pubblicato esattamente come era stato spedito all’Accademia di Danimarca. Non ho tolto né aggiunto nulla. Le poche, brevi e non essenziali, integrazioni che ho aggiunto dopo la spedizione vengono, in questa prima edizione, contrassegnate con una crocetta all’inizio e alla fine di ogni aggiunta, al fine di prevenire qualsiasi gratuita polemica.10

Il giudizio della Regia Società aggiunge inoltre: neque reapse, hoc fundamentum sufficere, evicit [l’autore non ha neppure nella sostanza dimostrato che tale fondamento sia sufficiente]. Contro questa affermazione faccio appello al fatto di aver dimostrato il mio fondamento della morale, realmente e seriamente, con un rigore quasi matematico.

Una simile dimostrazione non ha precedenti nel campo dell’etica, ed è stata possibile perché io sono penetrato nella natura della volontà dell’uomo più in profondità di quanto sia stato fatto finora, ho messo in luce e ho mostrato, nude e crude, le tre fondamentali molle di spinta che agiscono sull’animo umano, dalle quali scaturiscono poi tutte le sue azioni.

Nel giudizio si aggiunge addirittura: quin ipse contra esse confiteri coactus est [come egli stesso è costretto a riconoscere]. Se questa frase volesse dire che io stesso avrei riconosciuto l’insufficienza del mio fondamento della morale, allora il lettore potrà constatare che di ciò non si trova alcuna traccia nel mio trattato, né che un simile pensiero mi sia mai passato per la testa. Ma se con questa frase si volesse giocare sul fatto che, in un determinato passo, io ho affermato che il ribrezzo verso i peccati di libidine contro natura non può venir dedotto dallo stesso principio dal quale derivano le virtù della giustizia e dell’amore verso il prossimo, significherebbe che si vuole di proposito gonfiare le affermazioni e sarebbe un’ulteriore dimostrazione che ci si vuol aggrappare a qualsiasi cosa, pur di bocciare il mio lavoro.

In coda al giudizio - come commiato - la Reale Società di Danimarca mi muove un severo rimprovero del quale non capisco il motivo, anche nel caso che il contenuto del rimprovero fosse fondato. A questo proposito li voglio servire. Il rimprovero suona così: plures recentioris aetatis summos philosophos tam indecenter commemorari, ut justam et gravem offensionem habeant [molti sommi filosofi della nostra epoca sono trattati con un disprezzo che si traduce in offesa aperta e grave].

Questi summi philosophi sarebbero in pratica ... Fichte e Hegel! Solo di questi due, infatti, ho parlato con toni tanto forti e aspri, che la frase usata dell’Accademia Danese potrebbe eventualmente essere appropriata. Anzi, il rimprovero - manifestato in quella frase - potrebbe addirittura essere giustificato se questi due signori fossero effettivamente summi philosophi. Ma proprio questo è il punto.

Per quanto riguarda Fichte, nel presente trattato si trova il giudizio, ripetuto e circostanziato, che ho già dato su di lui ventidue anni fa nella mia opera principale. Nel presente trattato ho motivato il mio giudizio con un esauriente paragrafo dedicato esclusivamente a Fichte, dal quale risulta chiaramente quanto egli sia ben lontano dall’essere un summus philosophus. Tuttavia, siccome lo ritengo un uomo di talento, l’ho posto in graduatoria al di sopra di Hegel.

Solo riguardo a Hegel ho proclamato - senza alcun commento - la mia perentoria condanna nei toni più decisi. A mio parere, infatti, Hegel non solo non ha alcun merito nel campo della filosofia, ma ha piuttosto esercitato sulla filosofia stessa, e sulla letteratura tedesca in generale, un influsso putrefacente, o meglio rincretinente, si potrebbe anche dire pestilenziale. Pertanto, chiunque è in grado di pensare e di giudicare con la propria testa, ha il dovere in ogni occasione di opporsi nella maniera più energica a quell’influsso malefico. Altrimenti, se stiamo zitti noi, chi mai dovrebbe parlare?

Dunque, oltre a Fichte, è a Hegel a cui fa riferimento il rimprovero che mi viene mosso in coda al giudizio. Si allude soprattutto a lui - che ne è uscito così malconcio - quando la Reale Società di Danimarca parla di un recentioris aetatis summus philosophus [sommo filosofo della nostra epoca] nei confronti del quale io avrei indecentemente mancato il dovuto rispetto. Così l’Accademia di Danimarca, dall’alto dello stesso scranno del tribunale che ha bocciato il mio lavoro con una nota di biasimo non motivata, proclama pubblicamente che questo Hegel è un summus philosophus.

Quando un bando di scribacchini di riviste, che complottano in segreto per propagandare cose di cattivo gusto, prezzolati professori di hegelianeria e languidi aspiranti alla libera docenza, strillano ai quattro venti, insistentemente e con inaudita spudoratezza, che quel cranio piuttosto mediocre, ma eccezionale ciarlatano, è il più grande filosofo che sia mai apparso al mondo, allora non bisogna prendere la cosa sul serio. Tanto più che il goffo intento di questa miserabile operazione deve balzare all’occhio anche delle persone meno esperte.

Ma quando si arriva al punto che un’accademia straniera prende le difese di quel filosofastro come se fosse un summus philosophus, e addirittura si permette di denigrare una persona che, onestamente e senza paura, si ribella a quella falsa gloria carpita, comprata e raffazzonata con la menzogna, una persona che oppone una resistenza adeguata agli spudorati elogi, alla esaltazione del falso, del cattivo e di tutto ciò che deteriora il cervello, allora la cosa si fa seria. Il giudizio accreditato di una Accademia, infatti, potrebbe indurre delle persone ignare a compiere un grossolano e deleterio errore.

Bisogna quindi neutralizzare quel giudizio ma, siccome io non ho l’autorevolezza di un’Accademia, bisogna farlo in maniera motivata e adducendo delle prove. Ed è proprio questo che voglio ora fare, in modo chiaro e comprensibile, che spero possa servire per indurre l’Accademia Danese a seguire in futuro il consiglio di Orazio:

«Se raccomandi qualcuno, cerca prima di capire che uomo è,
per non dover poi arrossire di colpe non tue»11.

Se, a questo scopo, io dicessi che la cosiddetta filosofia di questo Hegel è una colossale mistificazione che consegnerà nelle mani dei posteri un tema inesauribile di scherno riguardo alla nostra epoca; se dicessi che è una pseudofilosofia che paralizza tutte le forze dello spirito e che soffoca il pensiero reale, per mettere al loro posto, tramite l’abuso più oltraggioso del linguaggio, la più vuota, insensata, inconsistente e - come testimonia il successo ottenuto - rincretinente verbosità; se dicessi che questa pseudofilosofia ha come nucleo un’idea assurda, campata per aria, priva di fondamento e di conseguenze (ossia che non è dimostrata da nulla e che, a sua volta, non dimostra e non chiarisce nulla), la quale, mancando di originalità, è solo una parodia allo stesso tempo del realismo scolastico e dello spinozismo, un mostro «... davanti leone, dietro serpente, nel mezzo capra»12 che dovrebbe rappresentare il cristianesimo visto dal di dietro, allora avrei perfettamente ragione.

Se dicessi, inoltre, che questo summus philosophus dell’Accademia Danese ha scribacchiato cose senza senso, come nessun altro mortale ha fatto mai prima di lui, tanto che chi riuscisse a leggere la sua opera più esaltata, la cosiddetta Fenomenologia dello spirito13 senza aver l’impressione di trovarsi in un manicomio, dovrebbe subito venirvi internato, allora continuerei ad avere non meno ragione.

Ma così facendo lascerei all’Accademia Danese la scappatoia di dire che la somma dottrina di quel saggio non può essere compresa dagli intelletti mediocri come il mio, e che, ciò che a me sembra non aver senso, ha invece un profondissimo significato. Meglio allora cercare un appiglio più sicuro, dal quale sia impossibile perdere la presa, e spingere l’avversario in un vicolo cieco, senza alcuna via d’uscita.

Mi accingo quindi a dimostrare inconfutabilmente che a questo summus philosophus dell’Accademia Danese manca addirittura un minimo di comune buon senso. Che poi si possa essere un summus philosophus anche senza possedere il comune buon senso, è una tesi che l’Accademia Danese non potrà certo sostenere. Darò la prova della sua mancanza di buon senso con tre diversi esempi, tratti dal libro stesso dove Hegel avrebbe dovuto concentrarsi e riflettere al massimo su quanto stava scrivendo. Sto parlando del suo compendio per gli studenti, intitolato Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, il libro che un hegeliano ha definito ‘la Bibbia degli hegeliani’.

In questo libro, nella sezione Fisica (paragrafo § 293, ii Ed., 1827), Hegel tratta del peso specifico - che lui chiama ‘pesantezza specifica’ - e contesta l’affermazione che il peso specifico dipenda dalla diversità di porosità, con le seguenti argomentazioni: «Un esempio di specificazione esistente della pesantezza è fornito dal fenomeno che una sbarra di ferro, in equilibrio sul suo punto d’appoggio, appena viene magnetizzata perde il suo equilibrio e si mostra più pesante in un polo che nell’altro. In questo caso una parte della sbarra viene inficiata in modo tale da diventare più pesante senza modificare il suo volume. La materia, la cui massa non è stata aumentata, è diventata quindi specificamente più pesante».

In questo passo il summus philosophus dell’Accademia Danese fa il seguente ragionamento: «Se una sbarra, in equilibrio sul suo punto d’appoggio, diventa in seguito più pesante ad una estremità, essa si piega da questo lato. Ma una sbarra di ferro, quando viene magnetizzata, si piega da un lato, quindi, in quel lato, la sbarra è diventata più pesante». Un ragionamento analogo, degno di questa logica, è il seguente: «Tutte le oche hanno due gambe; tu hai due gambe, quindi tu sei un’oca».

Trasposto in forma categorica, il sillogismo Hegeliano suona così: «Tutto ciò che diventa pesante da un lato si piega da quel lato; questa sbarra magnetizzata si piega da un lato; quindi questa sbarra è diventata più pesante da quel lato». Questa è la sillogistica di quel summus philosophus riformatore della logica, al quale tuttavia si sono dimenticati di spiegare che in un sillogismo categorico e meris affirmativis in secunda figura nihil sequitur [da semplici affermazioni nella seconda figura non si può dedurre nulla].14

Ma - parlando seriamente - è la logica innata che rende impossibile, per un intelletto sano e retto, trarre conclusioni di questo tipo. Orbene, l’assenza della logica innata è, per definizione, mancanza di intelletto.

A questo punto non è necessario discutere su quanto un libro di testo che contiene argomentazioni di questo tipo, e che parla di aumento del peso senza aumento della massa, sia adatto per piegare e contorcere l’intelletto retto di un giovane studente. E questo era il primo esempio.

Il secondo esempio di mancanza di buon senso del summus philosophus dell’Accademia Danese è documentato nel paragrafo § 269 dello stesso libro di testo, tramite l’affermazione: «La gravitazione contraddice direttamente la legge d’inerzia, poiché mediante la gravitazione una materia tende ad un’altra a partire da sè stessa».

Ma dove sta la contraddizione? Non si riesce assolutamente a capire perché il fatto che un corpo venga attratto - oppure respinto - da un altro debba contraddire la legge d’inerzia. In entrambi i casi, infatti, è il subentrare di una causa esterna ciò che pone fine allo stato di quiete - o che modifica lo stato di moto - che vigeva fino a quel momento. Ed una simile idiozia viene scritta con la sfrontatezza di chi non capisce nulla!

Questo succede in un libro di testo per studenti, i quali vengono così confusi - forse per sempre - riguardo ai primi concetti fondamentali della fisica, che non dovrebbero essere estranei ad alcun docente. Senza dubbio, quanto più immeritata è la fama, tanto maggiore diventa la sfrontatezza!

Per chi sa pensare (ma questo non è il caso del nostro summus philosophus, il quale regolarmente portava il pensiero solo in bocca, come le osterie portano sulla loro insegna l’immagine di un re che non vi ha mai messo piede) il fenomeno di un corpo che respinge, o che attrae, un altro corpo è inspiegabile. In entrambi i casi, infatti, alla base del fenomeno stanno delle inesplicabili forze della natura, le quali - in quanto tali - vengono date come presupposte in ogni spiegazione causale.

Quindi, quando un corpo viene attratto per gravitazione da un altro, se uno dicesse invece che quel corpo ‘di per sè stesso’ tende verso l’altro, dovrebbe anche dire, in occasione di un urto, che il corpo che è stato urtato ‘di per sè stesso’ si allontana dal corpo che lo ha urtato. Dovrebbe pertanto constatare in entrambi i casi che la legge d’inerzia non è più valida.

Ma la legge d’inerzia deriva direttamente dalla legge di causalità, anzi, ne è esattamente la formulazione reciproca. “Ogni cambiamento è l’effetto di una causa”, dice la legge di causalità. “Dove nessuna causa agisce, non subentra alcun cambiamento”, dice la legge d’inerzia. Cosicché, se un evento contraddicesse la legge d’inerzia, contraddirebbe anche la legge di causalità, quindi contraddirebbe addirittura la coscienza a priori, poiché ci mostrerebbe un effetto senza causa. Ammettere la possibilità di un simile evento è la quintessenza della mancanza di intelletto. E questo era il secondo esempio.

Il terzo campione della sua facoltà intellettiva innata viene depositato dal summus philosophus dell’Accademia Danese nel paragrafo § 298 del medesimo capolavoro, dove, polemizzando contro la tesi della elasticità dei corpi tramite la porosità, dice: «Anche se si ammette, in astratto, che la materia è transitoria, non assoluta, nella pratica però si rigetta tale ipotesi ... cosicché la materia in effetti viene ammessa ... come ‘assolutamente indipendente, eterna’. Questo errore viene introdotto mediante l’errore generale dell’intelletto, secondo il quale …”.

Ma quale imbecille ha mai sostenuto che la materia15 è transitoria? E chi definisce errore sostenere il contrario? Che la materia persista - ossia che non sorga e che non sparisca, come invece fa tutto il resto, ma che rimanga perennemente indistruttibile, come pure non è mai stata creata, cosicché il suo quantum [quantità] non può né accrescere né diminuire - è una conoscenza a priori tanto solida e sicura, quanto ogni conoscenza matematica.16

Anche solo immaginare il sorgere o lo scomparire della materia è semplicemente impossibile, poiché una forma del nostro intelletto [la legge di causalità] non lo consente. Negare questo e dichiararlo un errore, significa addirittura rinunciare all’uso dell’intelletto. E questo era il terzo esempio.

Proprio il predicato ‘assoluto’ può a buon diritto essere attribuito alla materia, poiché esso indica che la sua esistenza sta completamente al di fuori dell’ambito della causalità. La materia infatti non rientra nella catena infinita di cause e di effetti, dato che questa riguarda, e connette tra di loro, solo i suoi accidenti, ossia gli stati e le configurazioni della materia stessa.

Per questi, ossia per le modificazioni che la materia subisce, vale la legge di causalità nel loro comparire e scomparire, non per la materia stessa. Addirittura, solo per la materia il predicato ‘assoluto’ trova la propria legittimazione, grazie alla quale esso diventa reale e ammissibile. Altrimenti sarebbe un predicato per il quale sarebbe impossibile trovare alcun soggetto, sarebbe un concetto campato in aria e irrealizzabile in nessun modo, non sarebbe altro che un pallone gonfiato con cui giocano i filosofi burloni.

Per inciso, la precedente affermazione di questo Hegel rivela candidamente a quale filosofia da vecchie pettegole un così sublime, ipertrascendente, acrobatico e profondissimo filosofo sia puerilmente affezionato nel suo cuore, e quali leggi egli non abbia mai tralasciato di porre in discussione.

In conclusione, il summus philosophus dell’Accademia Danese insegna a chiare lettere che un corpo può diventare più pesante senza l’aumento della sua massa e che questo sarebbe proprio il caso di una sbarra di ferro quando viene magnetizzata. Inoltre, che la gravitazione contraddice il principio d’inerzia, e infine che la materia è transitoria.

Questi tre esempi bastano e avanzano per mostrare che cosa fa bellamente capolino appena si apre un piccolo squarcio attraverso la fitta coltre dell’insulsa gallimatia [chiacchiericcio insensato e vano]17 che fa oltraggio alla ragione umana, nella quale il summus philosophus è solito avvolgersi e presentarsi, per destare impressione sul popolino degli intellettuali.

Si suol dire: ex ungue leonem [il leone si riconosce dall’unghia]. Ma io devo dire, decenter o indecenter [con o senza decenza]: ex aure asinum [l’asino si riconosce dalle orecchie].

Tramite questi tre specimina philosophiae Hegelianae [saggi della filosofia hegeliana] ogni persona giusta e imparziale potrà ora stabilire chi indecenter commemoravit [ha commemorato in maniera indecente]: colui che senza riserve ha definito ciarlatano un simile docente di assurdità, oppure coloro che ex cathedra academica [da una cattedra accademica] lo hanno definito summus philosophus?

Debbo inoltre aggiungere che, in un campionario così ricco di assurdità di ogni tipo, come quello che le opere del summus philosophus offrono, ho dato la precedenza a questi tre esempi poiché, da un lato il loro oggetto non costituisce affatto un difficile o insolubile problema filosofico (che proprio per questo potrebbe lasciare adito ad una varietà di opinioni) e dall’altro non si tratta neppure di verità fisiche speciali (tali da presupporre ben precise conoscenze empiriche).

L’ho fatto solo perché in questi tre casi si tratta di conoscenze a priori, ossia casi che chiunque può risolvere semplicemente con un minimo di riflessione. Esprimere un giudizio distorto su cose di questo tipo è un chiaro e inequivocabile segno di una mancanza di intelletto del tutto insolita.

L’inserire spudoratamente dottrine insensate di questo tipo in libri di testo per studenti ci mostra tuttavia quanta insolenza possa impossessarsi di un cranio mediocre quando lo si proclama ‘grande spirito’. Una esaltazione di questo tipo è un mezzo che nessun fine può giustificare.

Assieme ai tre specimina in physicis [saggi di fisica] sopra esposti, si prenda anche in considerazione il passo al paragrafo § 39 del medesimo capolavoro, che comincia con la frase: «Inoltre, mentre alla forza repulsiva...», e si osservi con quale infinita supponenza questo misero peccatore guarda dall’alto la legge di gravitazione universale di Newton e i Principi metafisici della scienza della natura di Kant. Chi ha pazienza legga anche dal paragrafo § 40 al paragrafo § 62, dove il summus philosophus espone in maniera stravolta la filosofia di Kant.

Incapace di apprezzare la grandezza dei meriti di Kant, e posto dalla natura troppo in basso per poter gioire della comparsa indicibilmente rara di uno spirito veramente grande, Hegel, dall’alto della propria infinita supponenza, getta con disprezzo lo sguardo su quel grandissimo uomo come su uno che lui surclassa cento volte, e con freddo disprezzo, alternando ironia e compassione, mette in evidenza - ad edificazione dei propri studenti - gli errori e le inesattezze di alcuni deboli e scolareschi tentativi fatti da Kant. Anche il paragrafo § 254 procede sullo stesso tono.

Questo atteggiamento - di trattare con supponenza chi, invece, possiede veramente dei meriti - è una ben nota tattica di tutti i ciarlatani, a piedi e a cavallo, che difficilmente manca di fare colpo sui deboli di intelletto. Oltre a pastrocchiare cose senza senso anche la supponenza è, infatti, il trucco preferito di questo ciarlatano.

In ogni occasione, manifestando supponenza, fastidio, insolenza e scherno, Hegel guarda dall’alto del suo castello di parole, non solo le sottigliezze filosofiche degli altri, ma anche ogni altra scienza e relativo metodo, ossia tutto quanto lo spirito umano nel corso dei secoli è riuscito a conquistare con acutezza d’ingegno, con fatica e con dedizione.

Con questa tattica egli è davvero riuscito ad infondere un’alta opinione della propria sapienza, racchiusa in un abrakadabra, presso il pubblico tedesco, il quale purtroppo pensa proprio in questi termini: «Penso che siano nobili, giacché hanno l’aria di scontenti e superbi».18

Giudicare con i propri mezzi è privilegio di pochi. La maggior parte della gente si lascia invece guidare dall’esempio e dall’autorità, vede con gli occhi e ascolta con le orecchie degli altri. Per questo è facilissimo pensare ciò che la gente pensa in questo momento. Ma pensare come la gente penserà tra trenta anni non è cosa da tutti.

Chi, abituato alla estime sur parole [stima sulla parola], dopo aver dato incautamente credito all’eccellenza di un determinato scrittore e in seguito volesse far valere questa sua opinione anche ad altri, potrebbe facilmente incappare nella medesima situazione di chi, dopo aver accettato e girato una cattiva cambiale, nell’attesa di vederla onorata, se la vede invece ritornare in protesto. Oltretutto dovrà anche ingoiare la lezione di informarsi meglio, la prossima volta, riguardo alla attività di chi l’ha emessa e al nome di coloro che l’hanno girata.

Sinceramente penso che l’Accademia di Danimarca nel conferire il titolo onorifico di summus philosophus a quell’imbrattatore di carta, perditempo e guastatore di cervelli, sia stata pesantemente influenzata dalle alte grida di elogio su di lui artatamente levate in Germania e dal grande numero dei suoi partigiani. Per questo mi sembra opportuno ricordare alla Regia Società di Danimarca un bel passo tratto dall’opera principale di Locke (questo sì, un vero summus philosophus) al cui onore va ascritto il fatto di essere stato definito da Fichte come il peggiore di tutti i filosofi:

«Nonostante il gran chiasso che vien fatto al mondo riguardo agli errori e alle false opinioni, debbo rendere giustizia all’umanità dicendo che non sono poi così tanti, come si crede comunemente, coloro che sono preda di queste cose. Non perché io pensi che loro conoscano la verità, bensì perché rispetto a quelle dottrine per cui loro stessi, e gli altri, si danno così tanto da fare di fatto non hanno alcuna opinione e non pensano nulla.

Se, infatti, uno cercasse di discutere un po’ con la maggior parte dei partigiani delle numerosissime sette al mondo riguardo al loro credo scoprirebbe che, rispetto alle cose per le quali si battono con tanto fervore, gli stessi partigiani non nutrono alcuna opinione. Tanto meno avrebbe motivo per credere che essi abbiano abbracciato quel credo in seguito a una verifica personale dei motivi o ad una parvenza di verità. Loro, piuttosto, sono decisi a rimaner aggrappati saldamente all’istituzione che li ha reclutati per educazione o per interesse, esattamente come un soldato semplice nell’esercito mostra coraggio ed entusiasmo riguardo alle direttive del suo comandante, senza verificare mai la causa per la quale combatte o, addirittura, senza neppure conoscerla.

Se il modo di vivere di un uomo mostrasse che lui non tiene seriamente conto della religione, perché dovremmo pensare che lui si rompa la testa riguardo ai precetti della sua Chiesa e che si sforzi di verificare il fondamento di questa o di quella dottrina? A lui basta obbedire a chi lo guida e avere la mano e la lingua pronte per sostenere la causa comune. In tal modo darà buona prova di sé a coloro che gli possono dare credito, preferenza e protezione nella società a cui appartiene.

In questo modo gli uomini finiscono con il professare e difendere opinioni di cui non sono mai stati né convinti né proseliti, anzi che a loro mai sarebbero passate per la testa. Quindi, sebbene non si possa dire che il numero delle opinioni inverosimili o errate al mondo sia minore di quanto risulta, è tuttavia certo che il numero di coloro che vi aderiscono realmente, e che erroneamente le ritengono per vere, è minore di quanto comunemente si immagina».19

Locke ha ragione. Chi dà una buona paga trova immediatamente un esercito, anche se la sua causa fosse la peggiore al mondo. Elargendo sussidi adeguati si può sostenere (per un certo tempo) non solo uno scadente candidato ma anche uno scadente filosofo. Tuttavia Locke non ha tenuto conto, a questo proposito, di un’intera classe di seguaci di idee sbagliate e di spacciatori di falsa fama, quella che in realtà costituisce il truppone, il gros de l’armée [grosso dell’esercito].

Mi riferisco alla moltitudine di coloro che non pretendono, ad esempio, di diventare professori di hegelianeria né di godere di particolari benefici ma, da semplici babbei e avvertendo la completa impotenza della propria capacità di giudizio, rifanno il verso di quelli che si sanno imporre su di loro, accorrono ad ogni assembramento per marciare insieme e schiamazzano all’unisono dovunque sentono gridare.

Pertanto, per completare anche sotto questo aspetto la descrizione fatta da Locke di un fenomeno che si ripete in ogni epoca, voglio riportare qui un passo del mio autore spagnolo preferito, che di sicuro piacerà anche al lettore. È un saggio molto divertente, tratto da un libro tanto eccellente quanto sconosciuto in Germania. Questo passo dovrebbe in particolare servire da specchio a molti giovani e vecchi bellimbusti in Germania che tacitamente, ma profondamente, consapevoli della propria inettitudine intellettuale fanno il coro ai furbacchioni nel lodare Hegel fingendo di trovare profonda e meravigliosa saggezza nelle esternazioni vuote o addirittura senza senso di quel filosofo ciarlatano.

Dato che exempla sunt odiosa [gli esempi sono odiosi] dedico a tutti quelli come loro la seguente lezione: nulla scredita dal punto di vista intellettuale tanto, quanto ammirare e lodare le cose cattive. Helvetius, infatti, osserva giustamente che «il livello di spirito che gli altri devono avere per piacere a noi, è la misura esatta del livello di spirito che noi stessi abbiamo».20

Per un certo tempo si può anche tollerare il mancato riconoscimento delle cose buone. Infatti, ciò che vi è di eccellente in ogni disciplina, a causa della sua originalità, ci giunge spesso così nuovo ed estraneo che per essere colto al primo sguardo non basta solo l’intelletto, ma ci vuole anche una grande educazione in quella disciplina. Per questo, di solito, il riconoscimento del buono avviene tanto più tardi quanto più esso è di natura elevata, cosicché i veri fari dell’umanità condividono la stessa sorte delle stelle fisse, la cui luce impiega molti anni prima di arrivare quaggiù ed essere vista dall’occhio umano.

Non si può scusare, invece, l’ammirazione per le cose cattive, false, prive di spirito o addirittura assurde e senza senso, poiché in questo modo uno dimostra inconfutabilmente di essere un imbecille e che tale rimarrà fino alla fine dei suoi giorni. L’intelletto, infatti, non si apprende.

D’altro canto se una volta tanto, rispondendo ad una provocazione, io tratto come si merita la hegelianeria (questa peste della letteratura tedesca) sono sicuro che le persone oneste e intelligenti che ancora si possono incontrare mi saranno grate. Queste persone, infatti, saranno d’accordo con Voltaire e con Goethe quando in sorprendente sintonia affermano che «il favore concesso ai malvagi è tanto contrario al progresso dello spirito, quanto la persecuzione dei buoni»21 e «il vero oscurantismo non consiste nell’ostacolare la divulgazione del vero, del chiaro e dell’utile, bensì nel mettere in circolazione il falso».22

Quale epoca ha mai sperimentato una messa in circolazione di roba cattiva, così programmata e violenta, come negli ultimi vent’anni in Germania? Quale altra potrebbe mostrare un’analoga apoteosi dell’insensato e del folle? A quale epoca i versi di Schiller: «Ho visto il sacro alloro della gloria profanato su una fronte volgare»23 sembrano essere destinati in maniera così profetica?

La rapsodia [raccolta di passi] spagnola, che voglio qui allegare per chiudere serenamente questa prefazione, è in sintonia con la nostra epoca in maniera tanto sorprendente da destare il sospetto che sia stata scritta nel 1840 invece che nel 1640. Devo quindi precisare che è la fedele traduzione di un brano tratto da Il Critico di Baltazar Gracian.

- Il comandante e commentatore dei nostri due viaggiatori24 ritenne che, tra tutti, solo gli scalatori fossero da lodare, poiché sono i soli che vanno nella direzione opposta a quella in cui tutti gli altri vanno.

Erano appena arrivati quando la loro attenzione fu attratta da alcuni suoni. Dopo essersi girati da ogni parte, scorsero su un rozzo palcoscenico fatto di di tavole di legno un esperto caposquadra circondato, come da una ruota da mulino, di gente che stava proprio per essere ben lavorata e macinata. Egli li teneva saldamente in pugno come prigionieri incatenati per le orecchie, ma non con la catena d’oro del Tebano25 bensì con una briglia di ferro.

Questo tizio dalla potentissima lingua lunga (una dote indispensabile in questi casi) prometteva al pubblico cose meravigliose: «Ed ora, signori miei voglio mostrarvi una meraviglia alata, che allo stesso tempo è anche una meraviglia di intelletto. Sono contento di aver a che fare con persone intelligenti e dabbene. Tuttavia debbo far presente che se fra di voi ci fosse per caso qualcuno sprovvisto di un intelletto assolutamente straordinario, costui potrebbe anche andarsene via subito, poiché le cose elevate e raffinate che stanno per succedere qui saranno per lui incomprensibili.

Quindi attenzione, signori miei dotati di intelligenza e di cervello. Sta ora per arrivare l’aquila di Giove, che sa parlare e argomentare come le si addice, che scherza come uno Zoilo e punzecchia come un Aristarco. Dalla sua bocca non uscirà una sola parola che non racchiuda dentro di sè un mistero o un pensiero acuto, con centinaia di riferimenti a centinaia di cose. Tutto quanto lei dirà, saranno sentenze di una sublime profondità26».

«Senza dubbio», disse Critilo «deve essere una persona ricca o potente. Se fosse un povero, tutto ciò’ che direbbe non servirebbe a nulla. Con una voce argentea si canta bene, ma con un becco d’oro si parla ancora meglio». «Orbene!», continuò il ciarlatano «a partire da questo momento le persone che non sono proprio delle aquile di intelligenza possono pure accomiatarsi. Qui, infatti, non c’è più nulla che fa per loro».

Ma ... cosa succede? Nessuno se ne va? Nessuno si muove? Il fatto è che nessuno pensava di essere debole d’intelletto. Tutt’altro. Tutti si ritenevano intelligenti, avevano grande stima del proprio intelletto e nutrivano di sé un’altissima opinione. A quel punto il ciarlatano tirò una rozza briglia e apparve il più stupido degli animali, il cui nome, solo a pronunciarlo, sarebbe un oltraggio. «Ecco», gridò l’imbroglione «ammirate quest’aquila dotata di tutti i più brillanti attributi delle facoltà di pensiero e di parola! Che a nessuno venga in mente di sostenere il contrario altrimenti farebbe un oltraggio alla propria intelligenza».

«Santo cielo», gridò uno, «io vedo le sue ali. Come sono splendide!». «Ed io», disse un altro, «riesco addirittura a contare le sue penne. Come sono raffinate!». «Ma voi, non le vedete?», chiese un terzo ad un suo vicino. «Come no?», esclamò quest’ultimo, «le vedo chiaramente!».

Ma un uomo onesto e intelligente disse al suo vicino: «Onestamente io non vedo né aquila né piume. Vedo piuttosto quattro zampe storte e una coda notevole». «Stai zitto!» replicò il suo amico «Non dirlo! Non ti svilire, altrimenti tutti penseranno che sei un grande eccetera. Non senti cosa gli altri dicono? Non vedi come si comportano? E allora segui la corrente!».

«Giuro su tutti i santi», disse un altro onest’uomo «che quello non solo non è un’aquila, ma è esattamente il suo contrario. Io dico che è un grande eccetera». «Stai zitto!», disse il suo amico dandogli una gomitata. «Vuoi che tutti ridano di te? Devi dire solo che si tratta di un’aquila, anche se pensi il contrario. Così facciamo tutti».

«Ma non avvertite», disse il ciarlatano «le sottigliezze che pronuncia? Chi non le coglie e non le percepisce deve proprio essere sprovvisto di genio».

In quell’istante saltò su un baccalaureato esclamando: «Splendido! Che pensieri profondi! Le cose più perfette al mondo! E che sentenze! Permettetemi di prenderne nota! Sarebbe un peccato imperdonabile perdere una sola sillaba (e dopo la sua morte pubblicherò i miei appunti)».27

Proprio in quel momento il meraviglioso animale lanciò quel suo tipico verso capace di lacerare le orecchie e di far perdere l’intendimento ad un’intera assemblea di consiglieri, e lo accompagnò con una tale discarica di cose indecenti che tutti rimasero sbigottiti e si guardarono l’un l’altro. «Ammirate, ammirate, voi che siete persone gescheut [intelligenti]28», esclamò l’astuto imbroglione. «Ammirate e alzatevi in punta di piedi! Questo è quello che si dice parlare! Esiste forse un altro Apollo come questo? Cosa pensate della delicatezza dei suoi pensieri e dell’eloquenza del suo linguaggio? Esiste forse al mondo un intelletto più grande di questo?».

Gli astanti si guardarono allibiti. Nessuno pero’ osava fiatare né esprimere cosa egli pensava veramente per non essere scambiato per uno stupido. Anzi, tutti scoppiarono all’unisono in un applauso e in un coro di elogi. «Ah, questo becco», esclamò una ridicola pettegola. «Questo becco mi seduce. Starei ad ascoltarlo il giorno intero». «Che il diavolo mi porti via con sé», disse sottovoce una persona intelligente ma impaurita «se questo non è un asino, e asino in ogni caso rimane. Tuttavia mi guarderò bene dal dire apertamente una simile cosa».

«In fede mia», esclamò un altro, «quello non era proprio un discorso, bensì un raglio, ma guai a chi lo volesse affermare! Così va ora il mondo: la talpa viene spacciata per una lince, il rospo per un canarino, la gallina per un leone, e l’asino per un’aquila. Ma cosa m’importa del contrario? I miei pensieri li tengo per me, dico quello che dicono gli altri e lasciatemi vivere! Questo, dopo tutto, è ciò che conta».

Critilo, di fronte a tanta bassezza da un lato e furberia dall’altro, era fuori di sé: «È mai possibile che la pazzia si impadronisca delle teste fino a questo punto?», pensò. Ma il furfante, re degli spacconi, rise sotto l’ombra del suo grosso naso e bisbigliò a lato, come un commediante gioendo dentro sé: «Non li ho forse presi in giro tutti? Potrebbe una ruffiana fare di meglio?». Di nuovo diede loro da ingoiare centinaia di cose disgustose e ogni volta esclamava: «Che nessuno mi venga a dire che non è così, altrimenti si qualificherà come un imbecille». A queste parole quel vile applauso si faceva ancora più forte e anche Andrenio fece come tutti gli altri.

Critilo invece non ce la faceva più e voleva scoppiare. Si rivolse al suo commentatore ammutolito, dicendo: «Per quanto tempo costui dovrà approfittare della nostra pazienza, e fino a quando rimarrai zitto? La sfrontatezza e la volgarità stanno oltrepassando ogni limite». Quello allora rispose: «Abbi pazienza. Fino a quando lo dirà il tempo. Sarà il tempo. come è sempre successo, a ristabilire la verità. Aspetta solo che il mostro volga il lato della coda e vedrai che allora proprio coloro che adesso lo ammirano lo malediranno».

E proprio questo successe quando l’imbroglione ritirò il suo binomio aquila-asino (tanto falso il primo, quanto vero il secondo). In quel medesimo istante, quà e là, si cominciava di nuovo ad alzare la voce: «In fede mia», disse uno, «quello non era affatto un genio, bensì un asino». «Che stupidi siamo stati!», esclamò un altro. E così si rincuoravano a vicenda, fino a quando sbottarono: «Si è mai visto un imbroglio del genere? Quello, in realtà, non ha detto una sola parola che avesse significato e noi lo abbiamo applaudito. Insomma, si trattava di un asino, ma la bardatura dovrebbero metterla a noi».

Subito dopo però riapparve il ciarlatano promettendo una meraviglia ancora più grande: «Ed ora», disse, «vi mostrerò niente di meno che un gigante famoso in tutto il mondo, al cui fianco Encelado e Tifeo29 farebbero meglio a non comparire.

Allo stesso tempo vorrei rammentare che chi gli griderà «gigante!» farà la propria fortuna. Il gigante infatti lo aiuterà ad ottenere grande stima, riverserà su di lui un mucchio di ricchezze, un reddito di migliaia, anzi decine di migliaia di piastre, inoltre onori, potere e un posto di prestigio. Guai invece a chi non riconoscerà in lui un gigante. Costui non solo non riceverà alcun beneficio, ma addirittura cadranno su di lui fulmini e punizioni. Guardate tutti! Ora arriva, ora si mostra: oh, come si staglia in alto!».

Una tendina si alzò e apparve un omuncolo che, anche se fosse stato sollevato con una gru, non sarebbe risultato più visibile. Alto come dal gomito alla mano, un nulla, un pigmeo da ogni punto di vista, nel modo di essere e di fare. «Ed ora cosa fate? Perché non esultate? Perché non applaudite? Levate la vostra voce, oratori! Cantate, poeti! Scrivete, genii! Il vostro coro sia: il famoso, lo straordinario, il grande uomo!».

Tutti rimasero paralizzati e si domandarono vicendevolmente con gli occhi: «Ma cosa ha di gigantesco? Quale tratto eroico vedete in lui?». Tuttavia ben presto il gruppo di adulatori cominciò a gridare sempre più alto: «Si, si! Il gigante! Il primo uomo al mondo! Che grande principe era quello! Che coraggioso maresciallo questo! Che eccellente ministro questo e quello!». Immediatamente piovvero dobloni d’oro su di loro. Gli autori si misero a scrivere, non più poesie, bensì panegirici. I poeti, compreso Pedro Mateo30, si mangiavano le unghie per l’impazienza di arraffare il pane.

E non c’era nessuno che osasse dire il contrario. Tutt’altro! Tutti facevano a gara nel gridare: «Il gigante! Il grande, il più grande gigante!». Ognuno, infatti, sperava di ricevere un posto o una prebenda, e dentro di sè pensava: «Come sono bravo a mentire! Quello non è ancora cresciuto, anzi è proprio un nano. Ma che ci posso fare? Dite voi cosa pensate e vedrete cosa ne ricaverete. Io invece, facendo a mio modo, ho da mangiare, bere e vestire, posso brillare e diventare una persona importante. Quindi sia pure come gli pare! Anche a dispetto del mondo intero quello deve essere un gigante!».

Anche Andrenio seguendo la corrente cominciò a gridare: «Il gigante! Il gigante, il colossale gigante!», e subito piovvero su di lui regali e dobloni. Allora esclamò: «Questa sì che è saggezza di vivere!». Critilo guardava e stava per scoppiare: «Se non dico qualcosa, esplodo», disse. «Non dire nulla», disse il commentatore, «non correre incontro alla tua stessa rovina. Aspetta solo che questo gigante volti le spalle e vedrai come la situazione cambierà».

E così successe. Appena quello terminò la sua commedia nel ruolo di gigante e si ritirò dietro la tenda, tutti alzarono la voce: «Che stupidi siamo stati! Quello non era affatto un gigante, bensì un pigmeo, insignificante e buono a nulla», e si domandavano come sia potuto accadere. Allora Critilo osservò: «Che differenza quando si parla di qualcuno ancora in vita oppure dopo che è morto! Come il discorso cambia quando uno è assente. Quanto grande è la distanza tra lo stare sopra la testa oppure sotto i piedi della gente». Ma gli imbrogli di quel moderno Sinone31 non erano ancora finiti.

A questo punto si mise a fare il contrario: scelse degli uomini eccellenti, dei veri giganti, e li spacciò per nani inetti e buoni a nulla. E di nuovo tutti a dire di si, che quelli dovevano proprio essere dei nani, senza che la gente osasse esprimere un giudizio o una critica. Addirittura mostrò una fenice ed affermò che era uno scarafaggio. E tutti dissero che era esattamente così, che doveva essere proprio uno scarafaggio. Qui termina la citazione di Gracian.

Questo è quanto basta per il summus philosophus, per il quale l’Accademia di Danimarca crede seriamente di poter chiedere rispetto, dandomi così l’opportunità, di fronte alla lezione impartitami, di servirla con una contro lezione.

A questo punto debbo far notare che questi miei due trattati avrebbero potuto essere pubblicati sei mesi in anticipo se non avessi mantenuto il fermo proposito di attendere che la Regia Accademia di Danimarca (come è giusto che sia e come tutte le accademie sono solite fare) rendesse pubblico il suo giudizio finale sullo stesso foglio sul quale è solita bandire all’estero i suoi concorsi a premi (in questo caso, il Giornale letterario di Halle). Ma l’Accademia non lo fa. Anzi bisogna addirittura farsi mandare il giudizio finale da Copenhagen (cosa ancora più difficoltosa, poiché la data della pubblicazione del giudizio finale non è stata indicata nel bando del concorso). Ho quindi deciso di procedere alla pubblicazione dei due trattati con sei mesi di ritardo.32

Francoforte sul Meno, Settembre 1840.

Prefazione alla seconda edizione

In questa seconda edizione entrambi i trattati hanno ricevuto considerevoli aggiunte, di solito brevi ma inserite in numerosi passi, per migliorare la comprensione del contesto. A causa del maggiore formato della presente edizione, la quantità di aggiunte non può essere avvertita tramite il conteggio delle pagine. Le aggiunte avrebbero anche potuto essere più numerose se l’incertezza di non riuscire ad arrivare a vedere questa seconda edizione non mi avesse indotto a inserire progressivamente alcune considerazioni, pertinenti a questi due trattati, là dove mi era possibile, in parte ne Il mondo come volontà e rappresentazione (II, 47) e in parte nei Parerga e Paralipomena (II, § 8).

Qui dunque riappare in seconda edizione, dopo vent’anni, il Trattato sul fondamento della morale che l’Accademia di Danimarca ha rigettato e ricompensato solo con un pubblico rimprovero.

Al giudizio espresso dall’Accademia di Danimarca ho già replicato come si doveva nella prima edizione. Nella sua prefazione ho dimostrato innanzitutto che nel suo giudizio finale l’Accademia nega di aver chiesto ciò che essa stessa aveva chiesto, e afferma invece di aver chiesto ciò che non aveva affatto chiesto. L’ho dimostrato in maniera talmente chiara, esauriente e fondata che nessun sofista al mondo potrebbe obiettare qualcosa al riguardo. Non è necessario sottolineare quanto ciò sia importante. Ora pero’, dopo la più pacata riflessione maturata in vent’anni, riguardo al comportamento dell’Accademia di Danimarca in generale ho ancora da aggiungere quanto segue.

Se lo scopo di un’Accademia fosse quello di nascondere il più possibile la verità, di soffocare con tutte le forze lo spirito e il talento, di sostenere spavaldamente la fama di palloni gonfiati e di ciarlatani, in quell’occasione l’Accademia Danese avrebbe svolto egregiamente il proprio compito. Dato che non posso soddisfare la richiesta che essa mi ha fatto (quella di mostrare rispetto nei confronti di palloni gonfiati e di ciarlatani, elevati al rango di grandi pensatori da prezzolati tessitori di lodi e da babbei infatuati) vorrei piuttosto dare io all’Accademia di Danimarca un utile consiglio.

Quando lor signori desiderano bandire un pubblico concorso a premi, dovrebbero innanzitutto procurarsi una dose di capacità di giudizio, giusto quanto basta per l’ordinaria amministrazione, per essere in grado, all’occasione, di distinguere il frumento dal loglio. Tra l’altro, se già in partenza si dispone piuttosto male in secunda Petri [facoltà di giudizio]33 si rischia poi di fare una brutta figura.

Infatti, al giudizio di Mida segue inesorabilmente il destino di Mida. Nulla può evitarlo, né un muso lungo, né una smorfia altezzosa possono essere d’aiuto. Prima o poi la verità viene sempre a galla. Per quanto folta sia la parrucca che ci si ficca sul capo, non mancano certo barbieri e cespugli di canne indiscreti. Oltretutto, al giorno d’oggi non ci si prende neppure la briga di scavare preventivamente una buca.34

A tutto questo va inoltre aggiunta la fanciullesca sfacciataggine di impartirmi pubblicamente un rimprovero e di farlo stampare su riviste letterarie tedesche. Il rimprovero di non essere stato io tanto stupido da farmi suggestionare dal coro di lodi, intonato da compiacenti creature ministeriali e cantato a lungo da una plebaglia di letterati senza cervello, né da considerare summi philosophi - come li definisce l’Accademia di Danimarca - alcuni semplici ciarlatani che non hanno mai avuto a cuore la verità, bensì solo il proprio interesse.

Ma questi accademici, non hanno mai pensato di porsi innanzitutto la domanda, se mai avessero loro anche solo un’ombra del diritto di impartirmi un pubblico rimprovero riguardo alle mie opinioni? Sono stati forse abbandonati da tutti gli dèi a tal punto da non pensare ad una cosa del genere?

Ma ora arrivano le conseguenze. La Nemesi [la dèa della giustizia compensatrice] è arrivata e il cespuglio di canne sta già mormorando. Nonostante l’opposizione pluriennale e compatta di tutti i professori di filosofia, io finalmente ce l’ho fatta e il pubblico istruito sta aprendo sempre di più gli occhi riguardo ai summi philosophi dell’Accademia di Danimarca. Anche se tenuti ancora un poco in piedi a stento da miserabili professori di filosofia che si sono da lungo tempo compromessi con loro e che hanno ancora bisogno di loro come materia di lezione, i summi philosophi hanno perso molti punti nella pubblica stima.

In particolare, Hegel si sta avviando a grandi passi verso quel disprezzo da parte dei posteri che spetta ai pari suoi. Negli ultimi vent’anni l’opinione su di lui si è già avvicinata, per tre quarti del cammino, a quella conclusione preannunciata nell’allegoria di Gracian (riportata nella Prefazione alla prima edizione). Tra pochi anni vi arriverà definitivamente, in pieno accordo con quel mio giudizio che vent’anni prima aveva procurato all’Accademia di Danimarca tam justam et gravem offensionen [obiettivamente una grave offesa].

In cambio del rimprovero che essa mi ha somministrato, voglio rendere omaggio all’Accademia di Danimarca con una poesia di Goethe, da conservare nel loro album: «Puoi sempre lodare ciò che vi è di cattivo. Addirittura ne riceverai un compenso! Così rimarrai a galla nel tuo pantano e sarai il patrono dei ciarlatani. Vuoi disprezzare ciò che vi è di buono? Ci puoi provare! Funziona, se sei abile e insolente. Tuttavia, quando la gente se ne accorgerà, ti ridurrà in poltiglia, come ti meriti».35

Che i professori di filosofia tedeschi non abbiano ritenuto il contenuto di questi miei due trattati degno di alcuna attenzione, e tantomeno di considerazione, è una cosa del tutto ovvia (come ho già spiegato nella mia dissertazione sul Principio di ragione sufficiente, ii Ed.). Perché mai dei grandi spiriti di questa specie dovrebbero prestare attenzione alle domande che della gentucola come me si pone? Gentucola sulla quale loro gettano nei loro scritti, al massimo di passaggio e dall’alto verso il basso, uno sguardo di disprezzo e di disapprovazione.

Ciò di cui io parlo a loro semplicemente non interessa. Loro continuerebbero ad affermare l’esistenza della libertà di volere e della legge morale anche se le prove contrarie fossero numerose come le more. Queste due tesi rientrano nel loro repertorio d’obbligo. Loro infatti sanno benissimo per quale motivo occupano il posto che occupano, in majorem Dei gloriam [per la somma gloria di Dio]. Meriterebbero proprio di diventare, tutti quanti, membri della Regia Accademia di Danimarca.

Francoforte sul Meno, Agosto 1860.

Trattato su
 La libertà di volere


premiato dalla Regia Società Norvegese delle Scienze

Drontheim, 26 Gennaio 1839

La liberté est un mystère
(la libertà è un mistero)
[Malebranche, La ricerca della verità]

Il quesito posto dalla Regia Società Norvegese delle Scienze dice: «È possibile dimostrare l’esistenza del libero arbitrio a partire dalla coscienza che l’uomo ha di sé stesso?».36

i - Definizione dei concetti

Nell’affrontare un quesito così importante, serio e difficile, che essenzialmente coincide con uno dei principali problemi della filosofia medioevale e moderna, bisogna essere estremamente precisi. È quindi opportuno analizzare innanzitutto i concetti principali che compaiono nel quesito.

Cosa è la libertà?

Il concetto di libertà - se lo si analizza accuratamente - ha un significato passivo. Con esso, infatti, noi pensiamo all’assenza di qualcosa che impedisce o ostacola. Il concetto di impedimento o di ostacolo, invece, ha un significato attivo poiché manifesta la presenza una forza. A seconda della diversa natura di ciò che può essere d’ostacolo, il concetto di libertà si suddivide in tre differenti categorie: libertà fisica, libertà della mente e libertà di volere.

a) La libertà fisica consiste nell’assenza di qualsiasi ostacolo materiale. Pertanto diciamo: cielo libero, vista libera, aria libera, campo libero, posto libero, calore libero (non fissato sulle molecole), elettricità libera [cariche mobili], flusso libero di un ruscello (quando il suo corso non è più ostacolato da monti o da chiuse), ecc. Anche le espressioni: vitto e alloggio liberi, libera stampa e posta libera da affrancatura, indicano l’assenza di quelle condizioni fastidiose che di solito gravano su tali cose e che ne ostacolano il godimento.

Ma il più delle volte, nel nostro pensiero, il concetto di libertà è il predicato degli esseri animali, la cui peculiarità consiste nel fatto che i loro movimenti procedono dalla loro volontà, sono volontari, e vengono definiti liberi quando nessun ostacolo materiale li rende impossibili. Gli ostacoli possono essere di vario tipo, tuttavia ciò che viene ostacolata è sempre la volontà.

Per semplificare le cose, il concetto di libertà viene di preferenza inteso in senso attivo e tramite questo concetto si caratterizza tutto ciò che si muove solo per propria volontà o che agisce solo in base ad essa. In ogni caso, questa inversione del significato del concetto di libertà [da passivo in attivo] non cambia sostanzialmente nulla. In questo senso, gli animali e gli uomini vengono detti liberi quando le loro azioni non sono ostacolate da lacci, sbarre, menomazioni degli arti, ossia da nessun ostacolo materiale fisico in generale, bensì procedono conformemente alla propria volontà.

Questo significato fisico del concetto di libertà - in particolare, come predicato degli esseri animali - è originario, immediato, quindi il più frequente. In questo senso il concetto di libertà non è passibile di alcun dubbio o controversia, anzi può sempre provare la propria realtà tramite l’esperienza.

Appena un animale agisce secondo la propria volontà, esso è per definizione fisicamente libero, senza prestare attenzione a cosa abbia potuto influenzare in qualche modo la sua volontà. Infatti, il concetto di libertà in questo significato originario, immediato e popolare, fa riferimento solo al suo poter agire, alla mancanza di ostacoli fisici all’azione.

Perciò si dice: libero è l’uccello nell’aria, libera è la selvaggina nel bosco, libero è l’uomo per natura, solo chi è libero è felice. Anche un popolo viene detto libero, nel senso che esso è certamente governato da leggi, ma leggi che lui stesso si è dato, cosicché in questo modo il popolo può assecondare esclusivamente la propria volontà. Anche la libertà di una società va dunque annoverata tra le libertà fisiche.

Tuttavia appena ci scostiamo da questa libertà fisica e prendiamo in considerazione gli altri due tipi di libertà, non abbiamo più a che fare con il significato popolare, bensì con il significato filosofico del concetto di libertà. Questo evidentemente apre la strada a molte difficoltà. [Tramite questo ampliamento] il concetto di libertà si scinde in due classi nettamente distinte: la libertà intellettuale e la libertà morale.

b) La libertà mentale - ciò che si vuole o che si rifiuta secondo ragione (tÕ ˜koÚsion kaˆ tÕ ¢koÚsion kat¦ di£noian), secondo Aristotele - verrà qui presa in considerazione solo per completare la classificazione del concetto di libertà. Mi permetto quindi di rinviarne la spiegazione alla fine di questo trattato, quando i concetti necessari per la spiegazione saranno già stati chiariti in precedenza, cosicché il concetto di libertà mentale potrà essere chiarito in breve. Tuttavia, in questa classificazione, il concetto di libertà della mente, essendo strettamente imparentato con quello di libertà del corpo, doveva trovare il suo posto accanto a quello.

c) Prendo quindi subito in considerazione il terzo tipo di concetto di libertà, quello morale, che è proprio il liberum arbitrium [libero arbitrio] di cui si parla nel quesito posto dalla Regia Società.

Sotto un certo aspetto questo concetto si riallaccia a quello di libertà fisica, cosicché da questo punto di vista si può anche comprendere il sorgere - necessariamente molto più tardi - del concetto di libero arbitrio. Infatti, la libertà fisica fa riferimento solo agli ostacoli materiali e sussiste immediatamente quando questi vengono rimossi. Tuttavia in parecchi casi si è osservato che l’uomo, anche quando non è impedito da ostacoli materiali, viene trattenuto dal compiere una determinata azione, che altrimenti sarebbe perfettamente conforme alla sua volontà, da semplici motivi come, ad esempio, una minaccia, una promessa, un pericolo e simili.

Ci si è posti, quindi, la domanda se l’uomo in simili circostanze potesse ancora essere considerato libero, oppure se un forte motivo contrario potesse realmente - analogamente ad un impedimento fisico - ostacolare e rendere impossibile un’azione conforme alla sua volontà.

Per il comune buon senso la risposta a questa domanda è che un motivo non equivale mai ad un ostacolo fisico. Questo, infatti, può facilmente sovrastare le forze del corpo mentre un motivo non ha mai una forza illimitata, quindi non è in generale irresistibile. Un motivo può’ essere superato da un motivo contrario ancora più forte, quando tale contro-motivo si presenta ed è in grado di determinare la volontà.

Spesso, infatti, vediamo che addirittura quello che è comunemente ritenuto il più forte di tutti i motivi, ossia la conservazione della vita, viene sopraffatto da altri motivi (ad esempio, in caso di suicidio oppure del sacrificio personale in favore degli altri, per le proprie idee o per altre ragioni). Viceversa, si è anche constatato che tutti i gradi del più atroce martirio sono stati talvolta superati sul banco di tortura al solo pensiero di perdere la vita [nel caso si decidesse di cedere alla tortura e confessare].

Anche se da queste considerazioni risulta lampante che i motivi non esercitano di per sé una costrizione oggettiva, tuttavia potrebbero esercitarne una soggettiva, valida solo per una determinata persona. Rimane quindi aperta la domanda: «La volontà dell’uomo è libera di decidere di fare una cosa o l’altra?». In questo modo il concetto di libertà, posto finora in relazione al potere, viene posto anche in relazione al volere. Da qui sorge il problema della libertà del volere.

Il concetto di libertà originario, empirico e popolare (la libertà come mancanza di ostacoli), è incapace di cogliere il problema della libertà del volere. Infatti, secondo il concetto popolare “libero” significa semplicemente “conforme alla propria volontà”, cosicché la domanda: «La volontà dell’uomo è libera?», equivarrebbe alla retorica domanda: «La volontà è conforme a sé stessa?».

In conformità al concetto popolare di libertà si suol dire: «Io sono libero se posso fare ciò che voglio» e già con questo “ciò che voglio” viene sancita la libertà. Tuttavia, poiché ci stiamo interrogando riguardo alla libertà del volere, la domanda dovrebbe essere posta adeguatamente in questi termini: «Puoi tu anche volere ciò che vuoi?». Con questa domanda sembra che il volere dipenda da un altro volere a monte. Se la risposta fosse affermativa, subito sorgerebbe una seconda domanda: «Puoi tu anche volere, ciò che vuoi volere?».

La domanda iniziale verrebbe quindi rinviata indefinitamente ad uno stadio successivo, dove ogni volere verrebbe supposto dipendere da un altro volere precedente o più profondo. Per questa strada si tenterebbe invano di raggiungere un volere indipendente ed autonomo. Ma anche se si ammettesse l’esistenza di un simile volere, tanto varrebbe allora assumere il primo come termine ultimo della serie, cosicché la domanda verrebbe ridotta al secco: «Puoi tu volere?».

Se la semplice risposta affermativa a questa domanda sia in grado di sancire l’esistenza della libertà del volere è proprio ciò che vorremmo sapere. Di conseguenza anche in caso di risposta affermativa il problema dell’esistenza della libertà del volere rimarrebbe aperto.

Il concetto empirico di libertà, tratto dallo agire, non è in grado di prendere in considerazione il problema della libertà del volere, poiché identifica “libero” con “conforme alla volontà”.

Per estendere il concetto di libertà anche al volere lo si deve modificare in modo da venir inteso in astratto. Questa operazione è possibile se si intende la libertà come assenza di qualsiasi necessità [ossia, libero è ciò che non deve essere necessariamente in un determinato modo, ma che potrebbe essere anche in un altro modo].

Bisogna innanzitutto chiarire il concetto di necessario. Cosa significa necessario? La spiegazione consueta: «Necessario è ciò, il cui contrario è impossibile, oppure che non può essere altrimenti», è solo un gioco di parole, una riformulazione del concetto di necessario che non contribuisce minimamente al suo chiarimento. La reale spiegazione è invece (a mio parere): «Necessario è ciò che deriva da una ragione sufficiente»37. Questa proposizione, come ogni definizione esatta, può anche essere rovesciata.

A seconda che la ragione sufficiente sia logica, matematica o fisica (quest’ultima è comunemente detta ‘causa’), la necessità associata sarà logica (ad esempio, una conclusione in seguito a determinate premesse), matematica (a. e., l’uguaglianza dei lati di un triangolo quando gli angoli sono uguali) o realmente fisica (a. e., il subentrare dell’effetto non appena si presenta la causa). In ogni caso, una volta che la ragione sufficiente è data, la necessità è sempre associata alla conseguenza con il medesimo rigore.

Solo fintanto che intendiamo qualcosa come conseguenza di una determinata ragione sufficiente, riconosciamo quella cosa come necessaria. E viceversa: appena scopriamo che qualcosa è la conseguenza di una ragione sufficiente, comprendiamo che quella cosa è necessaria, poiché ogni ragione sufficiente è vincolante.

Questa spiegazione reale è talmente adeguata ed esauriente, che ‘necessità’ e ‘conseguenza di una determinata ragione sufficiente’ sono addirittura due concetti intercambiabili. Ognuno dei due, infatti, può essere usato in ogni occasione al posto dell’altro.38

Assenza di necessità equivale quindi ad assenza di una determinante ragione sufficiente. Come contrario di ‘necessario’ si considera giustamente il ‘casuale’ [contingente]. Questa definizione non crea alcuna contraddizione [ogni fenomeno deve pur sempre avere una causa!], poiché ciò che è casuale lo è solo relativamente ad una determinata ragione sufficiente. Infatti, nel mondo reale (dove effettivamente si incontra il casuale) ogni fenomeno [di una determinata classe] è necessario in riferimento alla ragione sufficiente [di quella classe], mentre è casuale in riferimento a tutti gli altri fenomeni [delle altre classi], con i quali condivide solo lo spazio e il tempo.

Ciò che è libero - la cui peculiare caratteristica è l’assenza di ogni necessità - non dovrebbe dipendere assolutamente da alcuna causa e dovrebbe essere quindi definito come ciò che è assolutamente casuale. Questo è un concetto estremamente problematico - che non credo si possa neppure pensare - ma che tuttavia, sorprendentemente, coincide con il concetto di libertà. In ogni caso, libero è ciò che non è necessario rispetto a nulla, che non dipende quindi da alcuna ragione sufficiente.

In definitiva il concetto di libertà, se applicato alla volontà dell’uomo, dovrebbe significare che una volontà individuale nelle sue manifestazioni (atti della volontà) non sarebbe assolutamente determinata da alcuna ragione sufficiente, ossia da nessuna causa. Altrimenti, poiché la conseguenza di una determinata ragione sufficiente (di qualunque tipo essa sia) è in ogni caso necessaria, gli atti della volontà dell’uomo non sarebbero liberi, bensì necessari.

Proprio su questo si basa la definizione data da Kant, secondo la quale la libertà è la facoltà di dare inizio ‘da sé’ ad una serie di cambiamenti. Questo ‘da sé’ - se lo riconduciamo al suo vero significato originario - significa ‘senza una precedente causa’. Ma questa espressione equivale a ‘senza alcuna necessità’. Pertanto, sebbene la definizione data da Kant conferisca al concetto di libertà l’impressione di essere un concetto attivo (positivo), ad un esame più accurato balza fuori la sua natura passiva (negativa).

Una volontà libera sarebbe una volontà che non è determinata da alcuna ragione, ossia una volontà che non è determinata assolutamente da nulla, poiché ogni cosa che determina un’altra cosa deve essere una ragione sufficiente (per le cose reali deve essere una ragione reale, una causa). Ogni singola manifestazione di una simile volontà dovrebbe procedere assolutamente, fin dal primissimo istante, dalla volontà stessa, senza essere la necessaria conseguenza di precedenti condizioni. Quindi, ogni atto di una simile volontà dovrebbe essere determinato da nulla e secondo nessuna regola.

Di fronte ad un simile concetto la nostra lucidità di pensiero si offusca, poiché in questo caso dovremmo rinunciare, in tutte le sue espressioni, al principio di ragione sufficiente, il quale è la forma39 essenziale di tutta la nostra facoltà conoscitiva. Per un simile concetto non manca neppure il terminus technicus [termine tecnico], il cosiddetto: liberum arbitrium indifferentiae [libero arbitrio di indifferenza (nella scelta, a parità di condizioni)].

Questo concetto è il solo chiaramente definito, saldo e deciso, di ciò che comunemente si intende per ‘libertà di volere’. Da questo concetto non ci si può allontanare senza incappare in spiegazioni fumose e capaci solo di confondere, dietro le quali si nasconde una titubante indeterminatezza, come quando si parla di una ragione sufficiente che non comporta necessariamente la relativa conseguenza. Ogni conseguenza di una ragione sufficiente è necessaria, e ogni cosa che avviene necessariamente è la conseguenza di una ragione sufficiente.

Se si ammettesse l’esistenza di un simile liberum arbitrium indifferentiae, la conseguenza immediata - che caratterizza questo concetto e che deve quindi essere vista come la sua peculiarità - sarebbe questa: per un individuo dotato di libero arbitrio, nelle medesime circostanze interne (personali) ed esterne, sono indifferentemente possibili due azioni diametralmente opposte.

Cosa è la autocoscienza?

Risposta: l’autocoscienza è la coscienza di sé stesso, in contrapposizione alla coscienza delle altre cose, la quale è la facoltà di conoscere.

La coscienza delle altre cose, ancora prima che esse vi compaiano, contiene determinate forme della conoscenza, riguardo al tipo e al modo secondo cui le cose stesse vi possono comparire. Queste forme - lo spazio, il tempo e la causalità - sono le condizioni della possibilità dell’esistenza oggettiva delle cose, ossia della loro esistenza come oggetti per noi.

Sebbene le forme della conoscenza si trovino dentro di noi, esse servono solo per permetterci di avere coscienza delle altre cose come tali e di stare in costante rapporto con esse. Queste forme, nonostante stiano dentro di noi, non appartengono all’autocoscienza, bensì alla coscienza delle altre cose, e devono essere intese come ciò che rende possibile la conoscenza oggettiva.

Non mi lascerò sviare dal doppio significato del termine latino conscientia che compare nel quesito, così da includere nell'autocoscienza anche i famosi impulsi morali dell’uomo, meglio noti con il nome di ‘coscienza morale’ o ‘ragione pratica’, insieme al presunto imperativo categorico di Kant.

Innanzitutto perché gli impulsi morali subentrano solo in seguito all’esperienza e alla riflessione, quindi in seguito alla coscienza delle altre cose. In secondo luogo perché non è affatto definita, nettamente e inconfutabilmente, la linea di separazione tra ciò che di proprio e originale della natura umana appartiene agli impulsi morali, e quanto l’educazione morale e religiosa aggiunge loro.

Oltretutto il proposito della Reale Società non è certamente quello di vedersi rinviare la sua domanda [è possibile dimostrare il libero arbitrio a partire dall’autocoscienza?] nel campo della morale, con il tirare la coscienza morale dentro l’autocoscienza, e di vedersi così ripetere la dimostrazione, o meglio, il postulato morale kantiano della libertà a partire dalla legge morale - che secondo Kant sarebbe nota a priori - tramite la conclusione: “Tu puoi, perché tu devi!”.

Da quanto abbiamo detto risulta chiaramente che, di tutta la nostra coscienza, la maggior parte non è costituita dalla coscienza di sé, bensì dalla coscienza delle altre cose, ossia dalla facoltà conoscitiva. Questa è, con tutte le sue forze, rivolta verso l’esterno ed è il teatro - addirittura la condizione, se indaghiamo più a fondo - del mondo esterno reale. Essa, infatti, dapprima si limita ad afferrare intuitivamente il mondo e poi - quasi ruminandoci sopra - elabora ciò che ha così acquisito in concetti, dalla cui infinita combinazione, perfezionata con l’uso della parola, sorge il pensiero.

L’autocoscienza sarebbe ciò che rimane dopo aver sottratto la coscienza delle altre cose - di gran lunga, la componente maggiore - dalla nostra coscienza complessiva. Con questo possiamo già intuire che il patrimonio dell’autocoscienza non può essere ampio.

Pertanto, se gli elementi che cerchiamo, per dimostrare l’esistenza della libertà di volere, dovessero realmente giacere nell’autocoscienza, potremmo confidare che non ci sfuggiranno. Come organo dell’autocoscienza si è anche ipotizzato un senso interno40, il quale comunque deve essere inteso più in senso figurato che in senso proprio, poiché l’autocoscienza è qualcosa di immediato.

In ogni caso la nostra prossima domanda è: “Cosa contiene l’autocoscienza?”. Oppure: “Come l’uomo diventa immediatamente cosciente di sé stesso?”. Risposta: “Come un essere che vuole”.

Ognuno, nell’esaminare la propria autocoscienza, si rende immediatamente conto che il suo oggetto è incessantemente il proprio volere. Con questo termine non si devono intendere solo gli atti della volontà che si traducono immediatamente in movimenti del corpo e le risoluzioni formali a cui seguono le azioni.

Chi è in grado di afferrare in qualche modo l’essenziale, anche in mezzo alle varie modificazioni di grado e di tipo, non avrà alcuna esitazione nell’annoverare tra le manifestazioni del volere ogni bramare, sforzarsi, desiderare, pretendere, sospirare, sperare, amare, felicitarsi, gioire, e simili. E anche, nel senso opposto di non volere, ogni respingere, aborrire, fuggire, temere, sdegnare, odiare, lamentare e soffrire.

In breve, tutti gli affetti e tutte le passioni possono essere considerati come manifestazioni della volontà. Infatti, gli affetti e le passioni sono semplicemente dei moti - più o meno deboli o forti, talvolta violenti e tempestosi, talvolta blandi e tenui - della propria volontà, libera od ostacolata, soddisfatta o insoddisfatta. Essi si riferiscono tutti, in molteplici espressioni, al conseguimento o al mancato conseguimento di ciò che si vuole, e all'oppressione o alla liberazione da ciò che si aborrisce. Essi sono, quindi, marcate affezioni della volontà stessa, la quale diventa attiva nelle decisioni e nelle azioni.41

Ai moti della volontà appartengono anche i cosiddetti sentimenti di piacere o dispiacere. Questi si presentano in una grande varietà di grado e di tipo, ma possono in ogni caso essere ricondotti a sentimenti di desiderio o di avversione, ossia alla volontà soddisfatta o insoddisfatta, ostacolata o libera di procedere, la quale diventa cosciente di sé stessa. I moti della volontà si estendono fino alle sensazioni corporee, piacevoli o dolorose, e alle innumerevoli sensazioni che cadono entro questi due estremi. L’essenza di tutti questi sentimenti, infatti, consiste nell’entrare immediatamente nell’autocoscienza come qualcosa di conforme o di contrario alla volontà. Addirittura noi siamo immediatamente coscienti del nostro corpo - se lo consideriamo con attenzione - solo come di un organo della volontà che agisce verso l’esterno e come sede della facoltà di provare sensazioni, piacevoli o dolorose, le quali tuttavia fanno riferimento ad affezioni immediate della volontà, ad essa favorevoli o contrarie.

Anche tenendo più o meno conto di queste semplici sensazioni di piacere o di dolore, vediamo in ogni caso che tutti quei moti della volontà - quell’alternanza di volere e non volere, la quale nel suo continuo fluire e rifluire costituisce il solo oggetto dell’autocoscienza (o se si preferisce, del senso interno) - stanno in un rapporto continuo e universalmente riconosciuto con tutto quanto viene percepito e conosciuto nel mondo esterno.

Il mondo esterno, invece, non rientra nell’ambito dell’autocoscienza immediata, ai cui confini, dove essa si imbatte nel campo della coscienza delle altre cose, si arriva non appena si tocca il mondo esterno. Tuttavia, gli oggetti percepiti nel mondo esterno sono la materia e lo spunto di tutti i moti e di tutti gli atti della volontà. Questa affermazione non è affatto una petitio principii [petizione di principio (pretendere di dimostrare qualcosa che, invece, si dà già per scontato in partenza)].

Infatti, nessuno può mettere in dubbio che l’oggetto del nostro volere siano sempre le cose esterne, verso le quali esso è indirizzato, attorno alle quali esso gravita, e che, come motivi, perlomeno lo sollecitano. Altrimenti rimarrebbe solo una volontà completamente separata dal mondo esterno e imprigionata nell’oscuro intimo dell’autocoscienza. L’unica cosa che ci risulta per il momento problematica è la necessità con cui le cose che si trovano nel mondo esterno determinano gli atti della volontà.

Vediamo dunque che l’autocoscienza è fortemente, anzi quasi esclusivamente, indaffarata con la volontà. Ma in questa sua unica attività l’autocoscienza è davvero in grado di trovare i data [gli elementi], dai quali derivi la libertà di volere nel senso di libero arbitrio (l’unico senso chiaro e ben definito)? Questo è problema sul quale vogliamo ora concentrare la nostra attenzione e verso il quale ci vogliamo subito dirigere, dopo averci finora solo girato attorno, seppure avvicinandoci notevolmente.

ii - La volontà di fronte alla autocoscienza

Quando un uomo vuole, vuole qualcosa. Ogni atto della sua volontà è sempre indirizzato verso un oggetto e può essere pensato solo in relazione ad un oggetto. Ma cosa significa ‘volere qualcosa’? Significa che un atto della volontà - il quale, innanzitutto, è qualcosa che appartiene solo all’autocoscienza - sorge in occasione di qualcosa che appartiene alla coscienza delle altre cose, ossia, di un oggetto della facoltà conoscitiva.

In questo rapporto con la volontà, questo oggetto della facoltà conoscitiva viene denominato ‘motivo’ e costituisce, allo stesso tempo, la materia dell’atto della volontà. A esso, infatti, l’atto della volontà tende, si propone di mutare qualcosa al riguardo e nei suoi confronti reagisce. In questa reazione consiste tutta l’essenza dell’atto della volontà. Già da questo risulta chiaramente che un atto della volontà non potrebbe subentrare senza alcun motivo, altrimenti gli verrebbero a mancare la materia e l’occasione. A questo punto sorgono le seguenti domande:

“Quando il motivo si presenta alla facoltà conoscitiva, l’atto della volontà deve necessariamente subentrare oppure no? Potrebbe l’atto della volontà non subentrare affatto, o essere completamente diverso, oppure addirittura l’esatto contrario? Potrebbe quella reazione non aver luogo, oppure, nelle medesime circostanze, essere diversa, addirittura di segno opposto?”

In breve:

“L’atto della volontà viene necessariamente provocato dal motivo, oppure, anche quando il motivo è entrato nella coscienza, la volontà dispone della piena libertà di volere o di non volere [quell'atto]?”

In quest’ultima domanda il concetto di libertà viene inteso in quel senso astratto precedentemente illustrato, il solo utilizzabile nel caso si volesse applicare alla volontà il concetto di libertà come semplice negazione della necessità.

Detto questo, il nostro problema risulta perfettamente definito. È nell’immediata autocoscienza che dobbiamo cercare i data [gli elementi] per risolvere questo problema; a questo scopo verificheremo accuratamente fino in fondo la loro esposizione da parte dell’autocoscienza. Non lo faremo certo con una sommaria decisione, tagliando il nodo, come fa Cartesio quando afferma perentoriamente:

“Noi siamo talmente consapevoli della libertà e dell’indifferenza nella scelta, a parità di condizioni, che sta dentro di noi, che non esiste nulla che riusciamo a comprendere con maggior evidenza e perfezione”.42

L’inammissibilità di questa affermazione è già stata evidenziata da Leibniz43, il quale tuttavia, su questo preciso argomento, è come una canna al vento. Infatti, dopo una serie di affermazioni molto contraddittorie, Leibniz giunge alla conclusione che la volontà viene sì inclinata dai motivi, ma non necessariamente:

“Ogni azione è determinata e mai indifferente, poiché sempre è data una ragione che induce - pur non obbligando necessariamente - ad agire preferibilmente in un certo modo, piuttosto che in un altro”.44

Questo mi offre l’opportunità di mettere in evidenza che una simile via di mezzo, tra le alternative sopra citate, non è sostenibile. Non si può - per una specie di amore della indeterminatezza - sostenere che i motivi determinano la volontà solo fino a un certo punto e che la volontà risente sì della loro influenza, ma solo fino a un certo grado, oltre il quale la volontà potrebbe sottrarsi al motivo.

Infatti, non appena si riconosce la causalità di una determinata forza, ossia che essa è efficace nei confronti di una determinata resistenza, quella forza ha bisogno solo di aumentare opportunamente la propria intensità - a seconda della resistenza incontrata - per portare a compimento il proprio effetto. Chi non si lascia corrompere con dieci ducati, ma esita, si lascerà corrompere con cento, e così via.

Rivolgiamoci ora all’autocoscienza immediata con il nostro problema, nel senso che abbiamo precedentemente stabilito. Quale risposta fornisce l’autocoscienza a quella domanda astratta, circa l’applicabilità - o meno - del concetto di necessità al subentrare di un atto della volontà in seguito a un determinato motivo, ossia dopo che un motivo è stato presentato dalla ragione alla volontà? Oppure, quale chiarimento ci fornisce riguardo alla possibilità - o meno - che un atto della volontà avvenga anche senza un determinato motivo?

Andremmo incontro a una grossa delusione se ci aspettassimo di ricevere da parte dell’autocoscienza spiegazioni fondamentali e profonde sulla causalità in generale, e sulla motivazione in particolare, come pure sull’eventuale necessità che entrambe comportano. L’autocoscienza infatti, così come è radicata in ogni uomo, è troppo semplice e limitata per poter affermare qualcosa al riguardo. I concetti di causalità e di necessità derivano piuttosto dal puro intelletto, il quale è indirizzato verso l’esterno, e possono essere dibattuti esclusivamente di fronte al tribunale della ragione. L’autocoscienza naturale, semplice e addirittura ingenua, non è neppure in grado di intendere la domanda, tantomeno di dare una risposta.

La sua affermazione riguardo agli atti della volontà, che ognuno può origliare nel proprio intimo, se la si spoglia di tutto quanto c’è di estraneo e di non essenziale e la si riduce al suo nudo contenuto, potrebbe essere sintetizzata in questo modo:

“Io posso volere e, quando vorrò compiere un’azione, le membra mobili del mio corpo subito la compiranno, non appena io lo voglio, in modo del tutto inevitabile”.

Questo, in breve, significa:

“Io posso fare ciò che voglio”.

La risposta dell’autocoscienza immediata non va oltre, qualunque sia il modo in cui la domanda viene posta e rigirata. La sua affermazione, dunque, si riferisce sempre al poter fare conformemente alla volontà. Ma questo è il concetto di libertà empirico, originario e popolare (presentato nel paragrafo I), secondo il quale ‘libero’ significa ‘conforme alla volontà’. Questa è la libertà che l’autocoscienza afferma incondizionatamente di possedere.

Ma non è questa la libertà di cui vogliamo sapere. L’autocoscienza afferma la libertà di agire, dando per scontato che esista già la volontà di farlo. Ma la libertà di cui vogliamo sapere è la libertà di volere. Noi ora stiamo indagando sul rapporto che intercorre tra il volere stesso e il motivo. Riguardo a questo rapporto l’affermazione: “Io posso fare ciò che voglio” non dice nulla.

La dipendenza delle nostre azioni, ossia dei movimenti del nostro corpo, dalla nostra volontà, che l’autocoscienza afferma assolutamente, è qualcosa di completamente diverso dall’indipendenza degli atti della nostra volontà dalle circostanze esterne. Solo questa indipendenza sarebbe effettivamente la libertà di volere. Ma sull’esistenza di questa libertà di volere l’autocoscienza non può affermare nulla, poiché essa cade al di fuori della sua sfera. La libertà di volere, infatti, riguarda il rapporto causale tra il mondo esterno - che ci è dato come coscienza delle cose esterne - e le nostre decisioni.

L’autocoscienza non può esprimere alcun giudizio sulla relazione tra ciò che sta completamente fuori e ciò che sta dentro il proprio campo di competenza. Nessuna facoltà conoscitiva, infatti, può stabilire alcun nesso tra due termini, quando uno dei due le sfugge completamente. È evidente che gli oggetti del volere - i quali determinano l’atto della volontà - stanno oltre i confini dell’autocoscienza, e precisamente dentro la coscienza delle altre cose.

L’atto della volontà sta all’interno di questo secondo campo, e noi vogliamo sapere della [eventuale] esistenza di un rapporto causale tra l’atto della volontà e gli oggetti del volere. L’autocoscienza, invece, si occupa solo dell’atto della volontà e della sua assoluta padronanza sulle membra del corpo. Quello: ‘Ciò che voglio’ sta a significare proprio questa padronanza, ed è solo l’esercizio di questa padronanza - ossia l’azione - che lo etichetta agli occhi dell’autocoscienza come ‘atto della volontà’.

Infatti, fintanto che l’atto della volontà viene inteso nella sua fase di maturazione, si chiama ‘desiderio’ e una volta completata questa fase ‘decisione’. Ma che sia un vero e proprio [deliberato] atto della volontà lo dimostra all’autocoscienza stessa solo l’azione, poiché fino al momento della decisione esso rimane qualcosa di mutevole.

Esattamente in questo punto ci troviamo di fronte alla sorgente principale di quell’illusione - impossibile da negare - a causa della quale l’uomo comune, ma filosoficamente rozzo, crede che a lui, in una determinata circostanza, siano possibili atti della volontà addirittura contrapposti, e si vanta della propria autocoscienza, la quale - secondo lui - lo affermerebbe. Lo sprovveduto infatti confonde il desiderare con il volere. Lui può certo desiderare due cose opposte; ma volere, può solo una delle due.45 E quale delle due sia la cosa voluta lo dimostra anche all’autocoscienza solo e soprattutto l’azione.

Ma riguardo alla ferrea necessità associata alla legge di causalità - in virtù della quale di due desideri contrapposti solo uno, e non l’altro, diventa atto della volontà e viene tradotto in azione - l’autocoscienza non può chiarire nulla, poiché essa viene a conoscenza del risultato solo a posteriori: a priori l’autocoscienza non lo sa. Davanti a lei, infatti, i desideri di segno opposto, assieme ai loro motivi, ondeggiano su e giù, in alternanza e ripetizione. Di ciascuno dei desideri l’autocoscienza afferma che esso si tradurrà in azione non appena diventerà un atto della volontà. L’affermazione ‘Io posso fare ciò che voglio’ sta proprio a significare questa possibilità puramente soggettiva, che ognuno ha ben presente.

Tuttavia questa possibilità soggettiva è solo ipotetica. Essa dice solo: “Se io voglio questo, allora lo posso fare”. Ma la determinazione necessaria per il volere non risiede nell’autocoscienza, poiché essa contiene solo il volere, non i motivi per determinare il volere stesso. I motivi risiedono invece nella coscienza delle altre cose, nella facoltà conoscitiva.

È la possibilità oggettiva che dà il colpo decisivo. Ma questa sta al di fuori dell’autocoscienza, nel mondo degli oggetti, al quale appartengono sia il motivo e sia l’uomo stesso in quanto oggetto. Essa è quindi estranea all’autocoscienza e appartiene alla coscienza delle altre cose. Quella possibilità soggettiva è simile alla possibilità di una pietra di emettere scintille quando viene colpita da una lama di acciaio. Essa è tuttavia condizionata dall’acciaio, al quale spetta la possibilità oggettiva.

Arriveremo di nuovo a questa medesima conclusione lungo un altro cammino nel prossimo paragrafo, dove prenderemo in considerazione la volontà, non più dall’interno, bensì dall’esterno, e dove indagheremo la possibilità oggettiva degli atti della volontà. [Con quel supplemento di indagine] questo punto, illuminato da due diversi lati, potrà essere chiarito perfettamente e illustrato con esempi.

Il sentimento ‘Io posso fare ciò che voglio’, che sorge nell’autocoscienza e che ci accompagna costantemente, afferma semplicemente che le decisioni - ossia, gli atti deliberati della nostra volontà - sebbene scaturiscano dall’oscura profondità del nostro intimo, emergono sempre e immediatamente nel mondo reale, poiché ad esso il nostro corpo, come tutte le altre cose, appartiene.

Questa consapevolezza costituisce quindi il ponte tra il nostro mondo interno e quello esterno, i quali, altrimenti, rimarrebbero separati da un abisso incolmabile. Nel mondo esterno, infatti, rimarrebbero, come oggetti, semplici intuizioni che non dipendono in alcun modo da noi, mentre nel mondo interno rimarrebbero solo moti della volontà del tutto sterili e semplicemente sentiti.

Se chiedessimo a un uomo comune delucidazioni riguardo a questa consapevolezza immediata - che così spesso viene confusa con la consapevolezza di una presunta libertà di volere - questa sarebbe la sua risposta:

“Io posso fare ciò che voglio. Se voglio andare a sinistra, vado a sinistra. Se voglio andare a destra, vado a destra. Questo dipende esclusivamente dalla mia volontà, quindi io sono libero”.

Questa affermazione è assolutamente vera e giusta. Tuttavia essa dà per scontato che esista già la volontà di fare una determinata cosa. Essa presuppone, infatti, che il soggetto abbia già deciso. Pertanto, da questa affermazione non si può concludere nulla riguardo al vero e proprio essere liberi di volere. Questa affermazione, infatti, non dice assolutamente nulla riguardo alla dipendenza, o alla indipendenza, del sorgere di un atto della volontà. Essa dice solo qualcosa riguardo alle conseguenze di un atto della volontà non appena esso è sorto, o meglio, della sua ineluttabile manifestazione come azione del corpo.

La consapevolezza, che sta alla base di quella affermazione, è proprio ed esclusivamente ciò che spinge un uomo non prevenuto [senza preconcetti], ma filosoficamente rozzo - il quale tuttavia potrebbe essere anche un grande esperto in altri campi - a ritenere che la libertà di volere sia qualcosa di così immediatamente certo, da poterla proclamare come una verità al di sopra di ogni sospetto. Un simile uomo non può assolutamente credere che i filosofi abbiano avanzato seri dubbi riguardo all’esistenza della libertà di volere. Dentro di sé è convinto che tutte le discussioni al riguardo siano solo una schermaglia verbale della dialettica accademica, ma che in fondo si tratti solo di una burla.

È difficile far comprendere a una persona filosoficamente rozza il vero senso del nostro problema e farle capire che la domanda non concerne la conseguenza, bensì il presupposto di ogni suo volere. Lui, infatti, ha sempre a portata di mano quell’importantissima certezza che l’autocoscienza gli fornisce. Inoltre lui - che è innanzitutto ed essenzialmente un essere pratico, non teorico - è chiaramente consapevole dell’aspetto attivo degli atti della sua volontà, della loro efficacia, molto più che dell’aspetto passivo, ossia della loro dipendenza dai motivi.

È vero che il suo agire dipende esclusivamente dal suo volere, tuttavia noi ora vogliamo sapere da cosa dipende il suo volere: non dipende assolutamente da nulla oppure dipende da qualcosa? Lui può senza dubbio fare una determinata cosa, se la vuole, oppure fare indifferentemente un’altra cosa, se è quest’altra che lui vuole. Ora dovrebbe meditare sulla possibilità di volere contemporaneamente tanto la prima quanto la seconda cosa.

A questo proposito, poniamogli la domanda in questo modo:

“Quando dentro di te sorgono due opposti desideri, puoi tu realmente dar seguito indifferentemente tanto a uno quanto all’altro? Ad esempio, dovendo scegliere tra il possesso di due oggetti incompatibili l’uno con l’altro, puoi tu indifferentemente preferire tanto l’uno quanto l’altro?”.

Lui risponderà:

“Forse sarebbe difficile fare una scelta. Tuttavia, se io volessi scegliere l’una o l’altra cosa dipenderebbe esclusivamente da me, e da nessun’altra forza. Io ho piena libertà di scegliere ciò che voglio, e a questo proposito asseconderò sempre ed esclusivamente la mia volontà”.

Se a questo punto gli domandassimo:

“Ma, riguardo al tuo stesso volere, da cosa esso dipende?”,

egli, facendo riferimento alla propria autocoscienza, risponderà:

“Da nient’altro che da me! Io posso volere ciò che voglio: ciò che voglio, lo voglio io”.

Lui pronuncia quest’ultima frase non con il proposito di dire una tautologia [proposizione nella quale il predicato non aggiunge nulla a quanto già contenuto nel soggetto] e neppure poggiandosi nell’intimo della propria coscienza sul principio logico di identità, solo grazie al quale questa frase [ciò che voglio, lo voglio io] è vera.

Tuttavia, messo alle corde su questo punto, egli parla del suo volere il proprio volere, come se parlasse di un Io del suo Io. Lo abbiamo così sospinto fin dentro al nucleo della sua autocoscienza, dove lui trova il suo Io inscindibilmente connesso con la sua volontà, ma dove non ha a disposizione nulla per esprimere un giudizio su entrambi.

Ma in quella scelta - date la persona che sceglie e le due cose da scegliere - potrebbe il suo stesso volere una cosa, e non l’altra, eventualmente risultare diverso da come poi alla fine risulta? Oppure, date quelle determinate premesse [stessa persona e stesse cose], il suo volere si pronuncerebbe necessariamente a favore di una delle due cose con la stessa necessità con la quale in un triangolo il lato maggiore è opposto all’angolo maggiore?

Questa è una domanda talmente estranea alla naturale autocoscienza, che non si può neppure pretendere che essa la intenda e tantomeno che abbia una risposta pronta - anche solo come un germoglio ancora da sviluppare - e possa darla spontaneamente, seppur ingenuamente.

Probabilmente l’uomo non prevenuto, ma filosoficamente rozzo, di fronte alla perplessità che quella domanda comporterebbe qualora venisse realmente intesa, cercherà di nascondersi ancora dietro quella certezza immediata:

“Io posso fare ciò che voglio, e io voglio ciò che voglio io”,

di cui abbiamo precedentemente detto. Egli cercherà di farlo continuamente, innumerevoli volte, tanto che sarà difficile inchiodarlo di fronte alla vera domanda, alla quale lui cerca sempre di sottrarsi. E non possiamo neppure prendercela con lui, poiché la domanda è davvero imbarazzante.

Questa domanda, infatti, fruga con la mano nella più intima essenza dell’uomo. Essa vuol sapere se l’uomo costituisce una eccezione al mondo, oppure se è un essere come tutti gli altri, determinato una volta per tutte dalla propria natura, il quale ha determinate e persistenti proprietà, dalle quali procedono poi necessariamente le sue reazioni al presentarsi delle occasioni esterne. Da parte della natura personale le reazioni di un determinato uomo hanno un carattere immutabile. Di conseguenza le sue reazioni, per quanto riguarda ciò che in esse ci può essere di modificabile, rimangono completamente in balia della determinazione provocata delle occasioni esterne.

Anche se alla fine si riuscisse ad inchiodarlo di fronte a questa domanda così difficile e a fargli capire che qui si vuol indagare sull’origine stessa degli atti della sua volontà, sull’esistenza di una qualsiasi regola oppure sulla totale mancanza di regole nel loro sorgere, si scoprirebbe che l’autocoscienza immediata non contiene alcuna informazione riguardo all’oggetto della domanda.

L’uomo comune, infatti, si sottrae a questa indagine e dimostra di non sapere cosa rispondere tramite ripensamenti e tentativi di spiegazione di ogni tipo, le cui ragioni egli cerca di prelevare sia dall’esperienza personale e degli altri, sia dalle comuni regole del buon senso. Ma in questo modo, l’incertezza e la titubanza delle sue spiegazioni mostrano a sufficienza che l’autocoscienza immediata, di fronte a quella domanda ora chiaramente intesa, non gli fornisce una risposta altrettanto pronta quanto prima, di fronte alla stessa domanda malamente intesa.

Questo è dovuto, in ultima analisi, al fatto che la volontà dell’uomo è il suo vero e proprio Io, il vero nucleo della sua essenza. La volontà costituisce il fondamento della sua coscienza come qualcosa di semplicemente dato e presente, oltre il quale l’uomo non può andare. L’uomo infatti è come lui vuole, e vuole come lui è. Chiedere a un uomo: “Potresti volere altrimenti da come vuoi?”, è come chiedergli: “Potresti essere un altro, diverso da quello che sei?”. E questo lui non lo sa.

Quindi anche il filosofo - che si distingue dall’uomo comune solo grazie all’esercizio [della filosofia] - se vuole fare chiarezza su questo difficile problema deve rivolgersi, come ultima e unica istanza competente, innanzitutto al proprio intelletto che gli fornisce conoscenze a priori, poi alla ragione che sopraintende a queste conoscenze, e infine all’esperienza che gli mostra il proprio e l’altrui comportamento per spiegare e verificare queste conoscenze.

Una decisione tramite queste facoltà non è cosa facile, immediata e semplice come tramite l’autocoscienza, tuttavia essa sarà sufficiente per dare una risposta alla nostra domanda. È stata la testa a formularla ed è la stessa testa che deve darle una risposta.

D’altro canto non desta sorpresa che l’autocoscienza immediata non sia in grado di rispondere a una domanda così astrusa, speculativa, difficile e profonda. L’autocoscienza è infatti solo una parte limitata della nostra intera coscienza, la quale, oscurata nella direzione del proprio intimo, è orientata verso l’esterno con tutte le sue forze oggettive di conoscenza.

Tutte le conoscenze perfettamente sicure, quindi a priori, riguardano esclusivamente il mondo esterno, dove essa può decidere con sicurezza - secondo leggi certe e universali, che affondano le loro radici dentro la coscienza stessa - cosa è possibile, o impossibile, e necessario. Attraverso questa via essa porta alla luce a priori la matematica pura, la logica pura, e addirittura i fondamenti della fisica pura.

L’applicazione delle forme spazio, tempo e causalità (di cui l’intelletto è consapevole a priori) ai dati forniti dalla percezione sensoriale dà origine all’intuizione del mondo reale, quindi all’esperienza. In seguito, l’applicazione della logica e della facoltà di pensare (che sta alla base della logica stessa) a quel mondo esterno produce i concetti e il mondo dei pensieri, tramite i quali sorgono - a loro volta - le scienze, le loro applicazioni, ecc.

Là fuori, dunque, di fronte allo sguardo della coscienza c’è molta luce e chiarezza. Dentro, invece, regna il buio, come in un cannocchiale tappato. Nessuna legge a priori illumina la notte del proprio intimo, poiché i fari illuminanti della coscienza sono orientati solo verso l’esterno. Davanti al cosiddetto senso interiore non si trova altro che la propria volontà, ai moti della quale vanno attribuiti anche tutti i cosiddetti sentimenti interiori.

Tutto ciò che questa percezione intima della volontà produce si riduce al volere o al non volere, oltre alla tanto celebrata certezza:

“Io posso fare ciò che io voglio”.

Questa in realtà dice solo:

“Io vedo ogni atto della mia volontà tradursi subito - in un modo per me del tutto inspiegabile - in un movimento del mio corpo”.

Per il soggetto che conosce questa affermazione è - a rigore - solo una legge empirica. Oltre a questa, nell’autocoscienza non troviamo più nulla. Pertanto, riguardo alla domanda che è stata posta, il tribunale al quale ci siamo rivolti è incompetente. Anzi, questa domanda, nel suo vero significato, non può neppure essere posta all’autocoscienza, poiché questa non è in grado di intenderla.

Riassumiamo brevemente e semplicemente il risultato della ricerca che abbiamo condotto sull’autocoscienza.

L’autocoscienza afferma chiarissimamente che l’uomo può fare ciò che vuole. Siccome l’uomo può supporre di volere anche due azioni diametralmente opposte, ne deduce che lui potrebbe anche compierle, se lo volesse. Così un intelletto filosoficamente rozzo confonde questa supposizione con la possibilità di volere in una determinata circostanza anche due cose opposte, e la chiama ‘libertà di volere’.

Tuttavia l’affermazione “Io posso fare ciò che voglio” non implica necessariamente che io, in una determinata circostanza, possa volere contemporaneamente due cose opposte. Essa dice soltanto che, tra due azioni diametralmente opposte, se volessi la prima, potrei compiere la prima, mentre se volessi la seconda, potrei compiere la seconda. Quindi il problema che in una determinata circostanza io possa volere una cosa oppure un’altra, rimane completamente aperto e necessita di una ricerca più approfondita, poiché la semplice autocoscienza non è in grado di risolverlo.

Il modo più conciso - seppure scolastico - di esprimere questo risultato è il seguente: le affermazioni dell’autocoscienza riguardano la volontà semplicemente a parte post [a posteriori], mentre l’interrogativo sulla libertà di volere riguarda la volontà a parte ante [a priori].

La inconfutabile affermazione dell’autocoscienza: “Io posso fare ciò che voglio”, non contiene e non afferma nulla riguardo alla libertà di volere . Questa, infatti, consisterebbe nel fatto che ogni atto della volontà in ogni singolo caso - quindi per il particolare carattere di un uomo - non viene determinato necessariamente dalle circostanze esterne in cui quell’uomo si trova. Essa afferma soltanto che l’uomo potrebbe compiere un’azione oppure un’altra. Ma riguardo alla decisione [di compiere l’una o l’altra] l’autocoscienza rimane completamente muta, poiché la questione cade completamente al di fuori della sua competenza, andando a toccare il rapporto causale tra il mondo esterno e l’uomo.

Se domandassimo a un uomo dotato di buon senso, ma senza alcuna educazione filosofica, in cosa consiste la libertà di volere (così risolutamente sostenuta da quella affermazione della sua autocoscienza), questa sarebbe la sua risposta:

“Nel fatto che io potrei fare ciò che voglio, se nessun ostacolo me lo impedisse fisicamente”.

Egli continuerebbe, quindi, a parlare del nesso tra le sue azioni e la sua volontà. Ma questa (come abbiamo detto nel paragrafo I) è semplicemente la libertà fisica.

Se gli chiedessimo poi se lui, in un determinato caso, potrebbe volere contemporaneamente una cosa e l’opposto di quella stessa cosa, di primo acchito risponderebbe affermativamente. Tuttavia appena lui comincia ad afferrare il senso della domanda, ecco che diventa pensieroso, per poi mostrare insicurezza e confusione, delle quali riesce a sbarazzarsi ritornando al solito ritornello “Io posso fare ciò che voglio” e trincerandosi dietro questo, nonostante ogni argomento e ragionamento contrario.

Invece, la risposta corretta (come spero di dimostrare oltre ogni dubbio nel prossimo paragrafo) è:

“Tu puoi fare ciò che vuoi, ma in ogni determinata circostanza della tua vita tu puoi volere solo una determinata cosa e nessun’altra che quella”.

In base alle considerazioni fatte in questo paragrafo, possiamo già rispondere alla domanda posta dalla Regia Società (“È possibile dimostrare il libero arbitrio a partire dalla coscienza che l’uomo ha di sé stesso?”). Si tratta di una risposta negativa, anche se solo nella sostanza. Nel paragrafo seguente l’illustrazione dello stato di fatto all’interno dell’autocoscienza verrà ulteriormente perfezionata.

Di questa nostra risposta negativa - seppure temporanea - si potrebbe anche avere un’ulteriore verifica. Infatti, se girassimo questa domanda alle uniche autorità competenti, alle quali siamo stati precedentemente rinviati - innanzitutto all’intelletto, poi alla ragione che riflette sui dati forniti dall’intelletto, e infine all’esperienza che deriva dall’opera di entrambi - e se questi ci rispondessero che non esiste assolutamente alcun libero arbitrio, bensì che l’agire umano, come ogni cosa in natura, in ogni determinato caso è un effetto che avviene necessariamente, avremmo la certezza che l’autocoscienza immediata non contiene alcun dato tramite il quale si possa dimostrare l’esistenza del libero arbitrio.

Quindi, in base al principio a non posse ad non esse [se una cosa non è possibile, non può neppure esistere] - il solo valido per negare a priori l'esistenza di qualcosa - la risposta negativa che abbiamo dato guadagnerebbe anche un fondamento razionale, oltre a quello empirico precedentemente illustrato, e diverrebbe così doppiamente sicura. Infatti, una così netta contraddizione tra le affermazioni immediate dell’autocoscienza ed i risultati che derivano dai principi del puro intelletto e dalla loro applicazione all’esperienza, non è ammissibile. Così ingannatrice non può essere la nostra autocoscienza.

A questo proposito bisogna notare che la presunta antinomia kantiana riguardo alla libertà, anche secondo lo stesso Kant non dovrebbe scaturire dal fatto che tesi e antitesi procedono da due diverse fonti di conoscenza, come se, ad esempio, la tesi procedesse dalle affermazioni dell’autocoscienza, mentre l’antitesi dalle affermazioni della ragione e dell’esperienza. Tesi e antitesi, invece, vengono entrambe dedotte con sottili ragionamenti da due presunte ragioni oggettive. Solo che la tesi pioggia sulla pigrizia della ragione - ossia sulla necessità di porre fine in qualche modo ad una regressione infinita - mentre l’antitesi ha dalla sua parte ragioni realmente oggettive.46

La ricerca indiretta che dobbiamo quindi svolgere nel campo della facoltà conoscitiva e del mondo esterno che le sta di fronte, getterà allo stesso tempo molta luce sulla ricerca diretta che abbiamo finora condotto [sull’autocoscienza] e la completerà. Essa, infatti, ci consentirà di scoprire le numerose illusioni che sorgono dall’errata interpretazione di quell’affermazione estremamente riduttiva dell’autocoscienza (“Io posso fare ciò che voglio”), quando essa entra in conflitto con la coscienza delle altre cose, ossia con la facoltà conoscitiva, la quale affonda le sue radici nel medesimo soggetto dotato di autocoscienza.

Solo alla conclusione di questa ricerca indiretta si farà luce sul vero senso e sul vero contenuto di quello “Io voglio” che accompagna ogni nostra azione, e sulla consapevolezza dell’originalità e dell’autonomia, grazie alle quali siamo noi i responsabili delle azioni che compiamo. Così la ricerca diretta fin qui condotta sarà finalmente completata.

iii - La volontà di fronte alla coscienza delle altre cose

Se ora, con il nostro problema, ci rivolgiamo alla facoltà conoscitiva, sappiamo già in partenza che, essendo questa facoltà essenzialmente indirizzata verso l’esterno, per essa la volontà non può essere oggetto di immediata percezione come lo era per l’autocoscienza (la quale tuttavia si è dimostrata incompetente riguardo al nostro problema).

Sappiamo anche che - per quanto concerne il nostro problema - la facoltà conoscitiva può prendere in considerazione solo gli esseri dotati di volontà come oggettivi fenomeni esterni, ossia come oggetti dell’esperienza. Come tali, essi vanno esaminati e giudicati, in parte secondo le regole universali [le forme della conoscenza, in particolare la causalità], certe a priori, che rendono possibile l’esperienza in generale, e in parte secondo i dati di fatto che l’esperienza, compiuta e reale, fornisce.

Ora abbiamo a che fare non più - come prima - con la volontà stessa, così come essa si manifesta solo al senso interno, bensì con gli esseri che vogliono, i quali sono mossi dalla volontà e sono oggetto dei nostri sensi rivolti verso l’esterno.

Anche se ora abbiamo lo svantaggio di dover esaminare l’oggetto della nostra ricerca solo indirettamente e da una maggiore distanza, tuttavia esso verrà ampiamente compensato dal vantaggio di disporre, per la nostra ricerca, di un organo ben più perfetto dell’oscura, cupa, unilaterale e immediata autocoscienza (il cosiddetto senso interno).

Ora, infatti, disponiamo dell’intelletto armato di tutti i sensi esterni e di tutte le forze per la conoscenza oggettiva. Come forma generale e fondamentale dell’intelletto troviamo la legge di causalità, poiché solo tramite essa sorge l’intuizione del mondo reale esterno

In virtù di questa legge noi possiamo subito e direttamente avvertire come ‘effetti’ le affezioni e i mutamenti percepiti dai nostri organi di senso e passare istantaneamente - senza istruzione, apprendimento ed esperienza - alle loro ‘cause’, le quali, a partire da questo momento e proprio grazie a questo processo intellettivo, si configurano come oggetti nello spazio.47

Questo [procedimento ad opera dell’intelletto] dimostra chiaramente e inconfutabilmente che la legge di causalità deve necessariamente essere nota a priori, affinché sia possibile in generale l’esperienza. Non abbiamo quindi bisogno della dimostrazione indiretta - difficile e addirittura insufficiente - che Kant ha dato di questa importante verità. La legge di causalità vige a priori, come regola generale alla quale tutti gli oggetti reali del mondo esterno sono sottoposti, senza eccezione alcuna. La inammissibilità di eccezioni è dovuta proprio alla sua apriorità.

Questa legge si riferisce essenzialmente ed esclusivamente ai mutamenti, e afferma che, laddove e quando, nel mondo oggettivo reale e materiale, qualche cosa - grande o piccola, molto o poco - muta il proprio stato, immediatamente prima di questo cambiamento un’altra cosa deve aver necessariamente mutato il proprio stato.

Analogamente, prima del mutamento di questa seconda cosa, una terza deve aver necessariamente mutato il proprio stato, e così via all’infinito, senza poter mai scorgere o anche solo pensare come possibile, né tantomeno presupporre, un punto d’inizio qualsiasi di questa sequenza regressiva di mutamenti, la quale riempie il tempo come la materia riempie lo spazio.

Instancabilmente, infatti, si pone di nuovo la domanda: “Cosa ha prodotto a sua volta questo mutamento?”, la quale non concede mai più alcuna tregua all’intelletto, per quanto stanco esso possa essere in questa corsa a ritroso. L’esistenza di una causa prima è quindi altrettanto impensabile quanto l’esistenza di un inizio del tempo o di un limite dello spazio.

La legge di causalità, inoltre, afferma che quando il precedente cambiamento (la causa) è subentrato, il mutamento successivamente provocato (l’effetto) deve avvenire inevitabilmente, ossia deve succedere necessariamente.

Tramite questo carattere di necessità la legge di causalità dimostra di essere un’espressione del principio di ragione sufficiente, il quale è la forma più generale di tutta la nostra facoltà conoscitiva

Il principio di ragione sufficiente si manifesta nel mondo reale come legge di causalità (ragione del divenire), e nel mondo del pensiero come legge logica (ragione del conoscere). Nello spazio vuoto, intuito a priori, il principio di ragione sufficiente si manifesta come legge della necessaria interdipendenza di tutte le parti dello spazio (ragione dell'essere). Compito esclusivo della geometria è - appunto - dimostrare dettagliatamente ed esaurientemente questa necessaria interdipendenza.

In virtù del principio di ragione sufficiente ‘essere necessario’ ed ‘essere conseguenza di una determinata ragione sufficiente’ sono due concetti equivalenti.

Tutti i mutamenti che avvengono negli oggetti del reale mondo esterno sono quindi sottoposti alla legge di causalità. Laddove e quando i mutamenti avvengono, avvengono ogni volta necessariamente e inevitabilmente. In questo campo non ci può essere alcuna eccezione, poiché la regola deve valere a priori, affinché l’esperienza stessa sia possibile.

Dal punto di vista della sua applicazione in un determinato caso, ci si può solo domandare se si tratta del mutamento di un oggetto reale dato nell’esperienza esterna. Se così è, ogni suo cambiamento è sottoposto alla legge di causalità, deve essere stato provocato da una causa, e deve essere avvenuto necessariamente.

A questo punto, armati della nostra regola universale (la legge di causalità), certa a priori e valida per ogni possibile esperienza senza eccezione alcuna, esaminiamo più da vicino l’esperienza stessa e osserviamo gli oggetti reali, ai mutamenti dei quali la nostra regola si riferisce. Tra questi oggetti possiamo subito notare una profonda differenza, che da sempre è stata utilizzata per la loro classificazione. Essi infatti possono essere inorganici (privi di vita) oppure organici (dotati di vita), suddivisi a loro volta in piante e animali.

Gli animali, nonostante siano essenzialmente e concettualmente simili tra loro, presentano una scala di perfezione molto differenziata e finemente sfumata, che va dagli animali quasi imparentati con le piante - tanto da essere difficilmente distinguibili dai vegetali - fino ai più perfezionati, che corrispondono perfettamente al concetto di animale. Sulla cima di questa scala troviamo l’uomo (noi stessi).

Ora, senza lasciarci confondere da quella molteplicità, prendiamo in considerazione tutti questi esseri, nel loro complesso, come oggetti reali e obiettivi dell’esperienza, e procediamo all’applicazione della legge di causalità (che è valida a priori e, come tale, rende possibile l’esperienza) agli eventuali mutamenti che avvengono in simili esseri.

Potremo allora constatare che effettivamente l’esperienza si realizza ovunque in conformità a questa legge, certa a priori. Tuttavia, alla suddetta grande diversità nella natura di tutti quegli oggetti dell’esperienza corrisponde anche una adeguata differenza nel modo in cui, su di essi, la causalità fa valere la sua legge. In particolare si osserva che alla triplice diversità tra corpi inorganici, piante e animali, corrispondono tre diversi modi con cui la causalità sovrintende a tutti i loro cambiamenti: come causalità nel senso stretto della parola, come stimolo e come motivazione. Ma in ognuna di queste tre varianti, la validità a priori della legge e la necessità dell’effetto che essa impone non vengono minimamente compromesse.

La causalità nel senso stretto della parola, è quella che sovrintende a tutti i cambiamenti meccanici, fisici e chimici, degli oggetti dell’esperienza. Essa si contraddistingue sempre per due particolari caratteristiche. Innanzitutto, in essa trova piena applicazione la terza legge di Newton:

“Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria”.

Questo significa che lo stato che precede (causa) subisce una modificazione analoga, ma di segno opposto, a quella subita dallo stato che segue (effetto). Inoltre, in conformità alla seconda legge di Newton [forza = massa per accelerazione], l’intensità dell’effetto corrisponde adeguatamente all’intensità della causa, cosicché una maggiore intensità della causa provoca, in maniera proporzionale, una maggiore intensità dell’effetto. Quindi, una volta che è stato identificato il tipo di interazione, tramite l’intensità della causa è possibile conoscere, misurare e calcolare anche l’intensità dell’effetto, e vice versa.

Tuttavia, nell’applicazione sperimentale di questi due aspetti caratteristici, non bisogna confondere l’effetto vero e proprio con la sua parvenza esteriore. Ad esempio, non ci si deve aspettare che nel comprimere un corpo, l’ampiezza della contrazione, che questo subisce, sia sempre proporzionale all’intensità della forza che lo comprime. Infatti, il volume in cui il corpo viene compresso si fa sempre più ristretto e, di conseguenza, la resistenza che il corpo oppone si fa sempre più grande. Pertanto, anche se il vero e proprio effetto (l’addensamento interno) aumenta realmente in proporzione alla causa (secondo la legge di Mariotte), questo effetto non corrisponde alla parvenza esteriore.48

In molti casi poi, ad un ben determinato grado di interazione, il tipo di effetto può mutare di colpo poiché il tipo di reazione si è modificato, essendo venuto a cessare, in un corpo di determinate dimensioni, il tipo di reazione iniziale. Ad esempio, il calore ceduto a una determinata quantità di acqua, ne aumenta la temperatura fino a un certo punto, oltre il quale subentra rapidamente l’evaporazione. Tuttavia anche in questo secondo stadio viene mantenuto il rapporto tra intensità della causa e intensità dell’effetto. E così via, in molti altri casi.

Sono proprio queste cause nel senso stretto della parola che provocano i cambiamenti nei corpi inorganici. La conoscenza e la supposizione di simili cause permettono di descrivere tutti quei cambiamenti di stato che sono oggetto della meccanica, della idrodinamica, della fisica e della chimica. L’essere determinato esclusivamente da cause di questo tipo è la caratteristica peculiare ed essenziale di un corpo inorganico.

Il secondo tipo di cause è lo stimolo, un particolare tipo di causa che, innanzitutto, non provoca una reazione [qualitativamente] paragonabile all’azione, inoltre non vi è proporzionalità tra l’intensità della causa e l’intensità dell’effetto. In questo caso, quindi, l’ammontare dell’effetto non può essere determinato né calcolato in base all’intensità della causa. Tutt’altro. Un lieve incremento dello stimolo può dar luogo a un enorme incremento dell’effetto oppure addirittura al contrario, ossia sospendere l’effetto iniziale e provocare l’effetto opposto.

Ad esempio, è risaputo che, tramite il calore e mischiando la calce [spenta, ricca di calcare] con il terreno [argilloso], in una pianta [non acidofila] si può indurre uno sviluppo straordinariamente rapido, poiché queste due cause [calore e composto] stimolano le sue forze vitali. Tuttavia, se il giusto ammontare dello stimolo viene anche di poco oltrepassato, invece della crescita accelerata, l’esito sarà la morte della pianta. Analogamente, con il vino oppure con l’oppio possiamo stimolare e incrementare notevolmente le nostre forze psichiche. Tuttavia, se la giusta misura dello stimolo viene oltrepassata, il risultato è esattamente l’opposto.

Questo tipo di cause (gli stimoli) sono ciò che determina tutti i cambiamenti negli organismi [viventi] in quanto tali. La crescita e tutti i mutamenti delle piante, ogni sviluppo e le funzioni semplicemente organici e vegetativi dei corpi animali, procedono tramite stimoli. In questo modo su di essi agiscono la luce, il calore, l’aria, il cibo, ogni farmaco, ogni contatto, la fecondazione, ecc. Mentre nell’ambito della causalità la vita animale possiede una ulteriore sfera di tutt’altro tipo, di cui parleremo tra poco, la vita intera delle piante procede esclusivamente in base agli stimoli.

Ogni loro assimilare, crescere, tendere la corona verso la luce e le radici verso un terreno più ricco, la loro impollinazione, germogliazione, ecc. è una mutazione in seguito a uno stimolo. Alcune particolari specie, inoltre, manifestano una peculiare e rapida reazione, la quale avviene comunque solo in seguito a uno stimolo, e sono quindi denominate ‘piante sensitive’. Esse sono principalmente - come è noto - la mimosa pudica, lo hedysarum girans e la dionacea muscipula.

La caratteristica di un vegetale è l’essere determinato esclusivamente e senza alcuna eccezione da stimoli. Pertanto, vegetale è ogni corpo i cui cambiamenti e movimenti, peculiari e conformi alla propria natura, avvengono sempre ed esclusivamente in seguito a stimoli.

Il terzo tipo di cause, che agiscono esclusivamente sugli animali e li mettono in movimento, è la motivazione: la causalità mediata dalla conoscenza. Nella scala evolutiva degli esseri naturali questo tipo di causalità è subentrato nel momento in cui l’animale, diventato strutturalmente più complesso e quindi con esigenze più differenziate, non poteva più soddisfare le proprie esigenze semplicemente stando ad aspettare il sopraggiungere di uno stimolo adeguato, bensì doveva essere in grado di scegliere, cogliere e addirittura ricercare i mezzi adatti per soddisfarle.

Così, al posto della semplice suscettibilità agli stimoli e del movimento in seguito ad essi , negli esseri più evoluti è subentrata la suscettibilità ai motivi, che si traduce nella facoltà di rappresentare il mondo esterno tramite un intelletto, in una innumerevole scala di livelli di perfezione, la quale materialmente si configura in sistema nervoso e cervello. E con questo è subentrata la coscienza.

È chiaro che alla base della vita animale c’è una vita simile a quella vegetale, la quale, in quanto tale, procede solo in seguito a stimoli. Tuttavia tutti i movimenti che un animale - come tale- compie (i quali dipendono da funzioni che la fisiologia chiama ‘funzioni animali’) avvengono in seguito alla conoscenza di un oggetto, ossia per un motivo. Quindi, un animale è ogni essere dotato di coscienza, i cui movimenti e mutamenti esterni, peculiari e commisurati alla propria natura, avvengono ogni volta in seguito a motivi, ossia a rappresentazioni del mondo esterno che si presentano alla sua coscienza.

Sebbene nell’innumerevole serie degli animali la capacità di rappresentare il mondo esterno (la coscienza) abbia una infinità di gradi, ogni animale ne possiede quanto basta affinché il motivo si presenti a lui e lo induca ad agire. In questo modo la forza motrice interna, le cui manifestazioni sono tutte provocate da motivi, si annuncia alla coscienza di sé stesso (presente in ogni animale) come ciò che noi chiamiamo ‘volontà’.

Anche per un osservatore esterno (il nostro punto di vista) non può sussistere alcun dubbio riguardo al fatto che un determinato corpo si stia muovendo in seguito a uno stimolo oppure a un motivo, tanto diversi ed evidenti sono gli effetti causati dai due. Lo stimolo, infatti, agisce sempre per contatto diretto o addirittura per intususcezione [assimilazione].

Quando lo stimolo non è visibile - come nel caso dell’aria, della luce e del calore - esso si rivela comunque nell’evidente rapporto tra l’effetto da una parte, e la durata e intensità dello stimolo dall’altra, anche se questo rapporto varia al variare dell’intensità dello stimolo. Quando invece il movimento è causato da un motivo, tutte queste differenze scompaiono. In questo caso infatti il medium peculiare e immediato dell’influsso non è la ‘atmosfera’, bensì esclusivamente la conoscenza.

L’oggetto che funge da motivo ha bisogno solo di essere percepito e conosciuto. Non è affatto importante quanto a lungo, quanto lontano o vicino, e quanto chiaramente esso sia giunto alla percezione. Tutte queste differenze non modificano per nulla il grado dell’effetto. Infatti, appena l’oggetto che funge da motivo è stato appreso, esso diventa parimenti efficace, ammesso che si tratti di un motivo assolutamente determinante per la volontà da eccitare in quel determinato soggetto.

Dopotutto anche le cause fisiche e chimiche, come pure gli stimoli, hanno effetto fintanto che il corpo su cui agiscono è suscettibile nei loro confronti. Proprio per questo ho specificato: ‘per la volontà da eccitare in quel determinato soggetto’. Infatti, ciò che la parola ‘volontà’ significa, si manifesta al soggetto stesso internamente e immediatamente come ciò che in effetti conferisce al motivo la forza di agire, ossia come la segreta molla di spinta per compiere il movimento sollecitato dal motivo stesso.

Questa tenace condizione interiore per i corpi che si muovono esclusivamente in seguito a stimoli (le piante) è detta ‘forza vitale’, mentre per i corpi mossi solo da cause - nel senso stretto della parola - è detta ‘forza naturale’ o ‘qualità’. Nelle spiegazioni (delle scienze naturali) ogni forza vitale o naturale è data come un presupposto inesplicabile, poiché dentro questi corpi non vi è alcuna autocoscienza in grado di percepirla immediatamente.

Se ora, a partire dal fenomeno49 in generale, volessimo indagare su ciò che Kant chiama la ‘cosa in sé’, e ci domandassimo se, nei corpi privi di conoscenza e persino in quelli privi di vita, questa condizione interiore della loro reazione a cause esterne sia identica (conformemente alla natura di quei corpi) a ciò che noi nel nostro intimo chiamiamo ‘volontà’ (come un filosofo contemporaneo ci vuole realmente dimostrare) è una domanda che lascio aperta, senza tuttavia volermi esprimere contro.50

Non mi asterrò, invece, dall’illustrare la differenza che, nel processo di motivazione, contraddistingue la coscienza dell’uomo da quella di ogni animale. Ciò che propriamente indica la parola ‘ragione’ è non solo la facoltà che l’uomo ha - come pure l’animale - di intuire il mondo esterno, ma anche la facoltà di astrarre da questa intuizione i concetti universali, le cosiddette notiones universales. Per poterli fissare e tenere ben saldi dentro la propria coscienza, l’uomo contraddistingue i concetti con parole, arrangiandole poi in infinite combinazioni.

Anche se queste combinazioni di parole, e i concetti da cui scaturiscono, fanno sempre riferimento al mondo conosciuto intuitivamente, esse costituiscono propriamente ciò che viene detto ‘pensiero’. È il pensiero che rende possibili i grandi vantaggi che l’uomo ha rispetto a tutti gli altri esseri viventi: il linguaggio, la meditazione, la reminiscenza del passato, la previsione del futuro, il proposito, l’intenzione, la collaborazione pianificata e comune di più persone, lo Stato, le scienze, le arti, ecc.

Tutto questo deriva esclusivamente dalla facoltà di elaborare rappresentazioni non-intuitive, astratte e generali: i concetti . Il concetto [la rappresentazione di una rappresentazione] è la quintessenza di un determinato oggetto [fenomeno], poiché raccoglie dentro sé i molteplici singoli aspetti di quell’oggetto.

Della facoltà di ragionare, invece, sono privi gli animali, anche i più intelligenti. Gli animali, quindi, non hanno altro che rappresentazioni intuitive, conoscono solo ciò che si presenta loro al momento e vivono solo nel presente. I motivi che eccitano la loro volontà, devono essere ogni volta intuitivi e presenti al momento. Di conseguenza gli animali dispongono di una scelta estremamente ridotta, semplicemente tra ciò che si presenta intuitivamente nel loro limitato campo di visuale e alla loro facoltà conoscitiva, ossia tra le cose che sono loro presenti nello spazio e nel tempo. Solo il motivo più forte determina immediatamente la loro volontà, rendendo così palese la causalità del motivo.

Una apparente eccezione è costituita dall’addestramento, il quale, in realtà, è la paura che agisce tramite il medium dell’abitudine (ossia, è l’abitudine che nasce dalla paura). Un’eccezione - in un certo modo reale - è costituita dall’istinto, nella misura in cui grazie ad esso l’animale, nel complesso del suo modo di agire, viene messo in azione non propriamente da motivi, bensì da una molla di spinta o impulso interiore. In ogni caso l’istinto, nei dettagli della singola azione, riceve di volta in volta la sua immediata determinazione ancora da stimoli esterni, quindi da motivi, cosicché rientra anch’esso nella regola [della motivazione].51

L’uomo, invece, grazie alla sua facoltà di elaborare rappresentazioni non intuitive - con le quali sorgono il pensiero e la riflessione - dispone di un campo di visuale infinitamente più ampio, che comprende anche ciò che non è immediatamente presente, ossia il passato e il futuro. In questo modo l’uomo dispone di una sfera di influenza dei motivi - quindi anche di scelta - molto più ampia di quella dell’animale, limitato allo stretto presente.

Di norma le azioni dell’uomo non sono determinate dalla sua momentanea intuizione sensoriale, da ciò che è a lui presente nello spazio e nel tempo. Le sue azioni sono piuttosto determinate da semplici pensieri, che egli porta sempre in testa con sé e che lo rendono indipendente dall’impressione del momento. Quando i pensieri non riescono a guidarlo, il suo comportamento viene definito irrazionale. È invece lodato come razionale, quando le sue azioni vengono intraprese esclusivamente dopo aver ben ponderato, indipendentemente dall’impressione destata dall’intuizione del presente.

Il fatto che l’uomo viene messo in azione tramite una sua particolare classe di rappresentazioni (concetti astratti e pensieri, di cui l’animale non dispone) è di per sè appariscente, poiché conferisce alle azioni dell’uomo, anche nei dettagli più insignificanti e addirittura nei suoi gesti e nei suoi passi, un carattere di intenzionalità e di premeditazione.

Il comportamento dell’uomo è così palesemente differente da quello dell’animale, che è addirittura possibile vedere quasi i suoi fili impalpabili (i motivi, composti solo da pensieri) pilotare i suoi movimenti, mentre quelli degli animali sembrano tirati dalle grezze e macroscopiche corde dell’intuizione del presente. Ma la differenza non va oltre. Il pensiero diventa un motivo, esattamente come l’intuizione del presente diventa un motivo appena riesce ad agire sulla volontà che le sta di fronte. In ogni caso il motivo è una causa e - come tale - comporta la necessità.

Grazie alla propria capacità di pensare, l’uomo può richiamare alla memoria - nell’ordine che meglio gli pare, scambiandoli e ripetendoli - i motivi dei quali avverte l’influsso sulla propria volontà e porli di fronte alla volontà stessa. Questo significa meditare. Egli è in grado di deliberare e questa facoltà gli consente una scelta molto più ampia di quella a disposizione dell’animale.

Certo, da questo punto di vista l’uomo è relativamente libero, ossia libero dalla costrizione immediata che gli oggetti del presente intuitivo esercitano - come motivi - sulla sua volontà (costrizione alla quale l’animale è in ogni caso soggetto). L’uomo, infatti, può determinare sé stesso indipendentemente dalle cose del presente tramite i pensieri, che sono i suoi motivi.

Questa relativa libertà è, in fondo, ciò che le persone istruite, ma prive di profondità di pensiero, intendono per libertà di volere, la quale sarebbe (secondo loro) una evidente prerogativa dell’uomo rispetto all’animale. La libertà dell’uomo, invece, è solo relativa riguardo all’intuizione del presente e comparativa riguardo agli animali. Grazie ad essa cambia solo il tipo di motivazione, mentre la necessità dell’effetto esercitato dal motivo non viene minimamente sospesa e neppure diminuita.

Un motivo astratto, costituito da un solo pensiero, è una causa esterna che determina la volontà, esattamente come un motivo intuitivo [concreto], costituito da un oggetto reale [nello spazio] e presente [nel tempo]. Di conseguenza un motivo astratto è una causa come tutte le altre ed è sempre anche qualcosa di reale e di materiale tanto quanto un motivo concreto, poiché ogni pensiero, in fin dei conti, poggia sempre su un’impressione esterna [una intuizione] ricevuta in qualche tempo e in qualche luogo.

La sua unica prerogativa è la lunghezza del filo con cui sollecita la volontà, poiché il motivo astratto (a differenza del motivo semplicemente intuitivo) non è vincolato a un determinata vicinanza nello spazio e nel tempo. Esso può, invece, esercitare la propria influenza sulla volontà partendo da una grandissima distanza e dopo un lunghissimo tempo, tramite una complessa concatenazione di concetti e di pensieri.

Questo è possibile grazie alla natura e all’eminente ricettività di quell’organo - il cervello umano - il quale innanzitutto avverte l’influenza di un motivo e poi lo acquisisce. In breve: grazie alla ragione. Questo tuttavia non altera minimamente la causalità del motivo, né la necessità ad essa associata. Solo uno sguardo molto superficiale può confondere quella libertà, relativa e comparativa, con il liberum arbitrium indifferentiae.

La conseguente facoltà di deliberare dà luogo, di fatto, solo ad un conflitto di motivi, dominato dall’indecisione e spesso sofferto, il cui campo di battaglia si trova nell’animo e nella coscienza dell’uomo. Questo conflitto consente ai motivi di esercitare, uno contro l’altro, la propria forza di attrazione nei confronti della volontà. Così questa si trova nella stessa situazione di un corpo sul quale agiscono diverse forze in direzioni opposte, finché alla fine il motivo più forte sgombra il campo dagli altri e determina la volontà. Questo esito si chiama ‘decisione’ e subentra con piena necessità, come il risultato finale del conflitto tra i motivi.

Gettiamo ora di nuovo lo sguardo sull’intera serie di manifestazioni della causalità in cui si distinguono, nettamente uno dall’altro, le cause nel senso più stretto della parola, poi gli stimoli, e infine i motivi (i quali a loro volta si suddividono in intuitivi e astratti).

Da questo punto di vista, nello scorrere dal basso verso l’alto la scala degli esseri naturali (inanimati, vegetali, animali e uomo) si può notare che le cause e i corrispondenti effetti si differenziano sempre più, si separano nettamente e diventano eterogenei. La causa, infatti, diventa sempre meno materiale e tangibile, tanto che l’effetto sembra acquisire sempre maggiore importanza e la causa, invece, sempre meno. In questo modo, alla fine il rapporto tra causa ed effetto diventa sempre meno evidente e comprensibile.

In effetti questa osservazione non si addice alla causalità meccanica, la quale rimane la più comprensibile di tutte. Da qui è scaturito, nel secolo scorso in Francia (dove tuttora persiste) e recentemente anche in Germania, l’errato tentativo di ridurre ogni tipo di causalità alla causalità meccanica, ossia di spiegare tramite le cause meccaniche ogni processo fisico e chimico, e tramite questi ultimi anche la vita stessa.

Il corpo che urta mette in moto il corpo che era in quiete e gli trasmette tanto momento cinetico [massa moltiplicata per la velocità] quanto esso stesso ne perde. In questo evento vediamo la causa quasi migrare nell’effetto. La causa e l’effetto sono completamente omogenei, perfettamente commensurabili, quindi tangibili. Questa è una caratteristica specifica di tutte le interazioni meccaniche.

In realtà vediamo che questa omogeneità diventa sempre minore, anzi, che avviene una sempre maggiore differenziazione quanto più in alto saliamo lungo la scala degli esseri naturali e osserviamo su ogni gradino il rapporto tra causa ed effetto. Ad esempio, quando osserviamo il rapporto tra il calore come causa e i suoi diversi effetti: la dilatazione, l’incandescenza, la fusione, l’evaporazione, la combustione, l’effetto termo-elettrico, ecc. Oppure tra l’evaporazione come causa e il raffreddamento o la cristallizzazione, come effetto; tra lo strofinamento del vetro, come causa, e il caricamento elettrico (con tutte le sue curiose manifestazioni), come effetto; tra la lenta ossidazione delle armature di una cellula elettrochimica, come causa, e il galvanismo con tutti i suoi fenomeni elettrici, chimici e magnetici, come effetto.

Causa ed effetto, quindi, si differenziano sempre di più, diventano eterogenei, il loro rapporto diventa sempre meno comprensibile, mentre l’effetto sembra contenere molto più di quanto la causa possa offrirgli, poiché essa diventa sempre meno materiale e tangibile. Tutto questo si manifesta sempre più chiaramente se passiamo ai corpi organici, dove le cause sono costituite da semplici stimoli, in parte esterni (la luce, il calore, l’aria, il terreno, il cibo) e in parte interni (la linfa e l’influenza reciproca tra le membra del corpo), mentre come effetto si configura la vita, in tutta la sua infinita complessità e in una innumerevole differenza di forme, nelle molteplici strutture degli organismi vegetali ed animali.52

Ma assieme a questa eterogeneità, incommensurabilità e incomprensibilità del rapporto tra causa ed effetto, che subentrano in maniera sempre più crescente, viene forse meno anche la necessità dell’effetto che la causalità impone? Assolutamente no, neppure in minima parte.

Come la biglia che rotola mette necessariamente in movimento la biglia che urta, altrettanto necessariamente anche la bottiglia di Leyda deve scaricarsi quando viene toccata con l’altra mano, l’arsenico deve uccidere un essere vivente, e il chicco di semente - che conservato all’asciutto non ha subito alcun cambiamento per millenni - appena viene interrato in un terreno adatto ed esposto all’influsso dell’aria, della luce, del calore e dell’umidità, deve germogliare, crescere e svilupparsi in una pianta. La causa è più complessa, l’effetto è più eterogeneo, ma la necessità con cui l’effetto subentra è esattamente la stessa.

Nella vita delle piante e nella vita vegetativa degli animali lo stimolo è, sotto ogni punto di vista, estremamente diverso dalla funzione organica da esso provocata. Entrambi si differenziano nettamente, ma non sono completamente separati, poiché tra di loro deve avvenire un contatto, seppur tenue e invisibile. La separazione completa subentra solo nella vita animale, nella quale le azioni sono provocate dai motivi.

In questo caso la causa, che finora (nei gradini inferiori della scala evolutiva) era materialmente collegata con l’effetto, si scioglie completamente da esso, è di tutt’altra natura, qualcosa di immateriale, una semplice rappresentazione. Proprio nel motivo che induce l’animale al movimento, la eterogeneità tra causa ed effetto, la differenziazione e l’incommensurabilità di entrambe, e l’immaterialità della causa (tanto da sembrare così povera di contenuto rispetto all’effetto) raggiungono il loro massimo grado.

L’incomprensibilità del rapporto tra le due diverrebbe assoluta, se noi le conoscessimo solo dall’esterno, come gli altri rapporti causali. A questo punto, invece, subentra una conoscenza di tutt’altro tipo, una conoscenza interiore, a completare quella esteriore. Il processo che in questo caso ha luogo, come effetto del subentrare di un motivo, ci è intimamente noto e può essere definito con un terminus ad hoc [termine appropriato]: ‘volontà’.

Tuttavia, appena lo riconosciamo come rapporto di causalità (questa forma di conoscenza fondamentale del nostro intelletto), possiamo affermare che anche in questo caso, come in quello precedente dello stimolo, il rapporto di causalità non viene minimamente penalizzato in termini di necessità. Troviamo, inoltre, che la motivazione è perfettamente analoga ai due altri tipi di rapporto causale. Si tratta solo del gradino più alto, verso il quale gli altri due tendono attraverso una graduale transizione.

Ai livelli più bassi della vita animale il motivo è ancora molto simile allo stimolo. Gli zoofiti, i radiolari in genere, i molluschi acefali, hanno solo un debole barlume di coscienza, esattamente quanto basta per percepire la presenza del cibo o della preda, da attirare verso di sé appena si presenta, oppure per cambiare eventualmente il posto momentaneamente occupato con uno più favorevole. A questi livelli meno evoluti l’effetto provocato dal motivo risulta ancora ben evidente, immediato, deciso e inconfondibile, come quello di uno stimolo. I minuscoli insetti vengono deviati dal bagliore della luce fino dentro la fiamma. Le mosche si posano con indifferenza sulla testa della lucertola che ha appena ingoiato una di loro di fronte ai loro occhi. Chi potrebbe fantasticare sulla libertà in questi casi?

Negli animali superiori più intelligenti l’effetto del motivo diventa sempre meno immediato. Il motivo, infatti si separa sempre più nettamente dall’azione che provoca, cosicché la distanza che intercorre tra motivo e azione potrebbe essere addirittura utilizzata come parametro di misura dell’intelligenza stessa di un animale. Nell’uomo la distanza tra motivo e azione è incommensurabile. Tuttavia anche per gli animali più intelligenti la rappresentazione che diventa il motivo dell’azione deve in ogni caso essere intuitiva. Anche quando esiste una possibilità di scelta, questa può aver luogo solo tra cose che appartengono all’intuizione del presente.

Il cane sta fermo ed esita, tra il richiamo del suo padrone e la vista di una femmina: il motivo più forte determinerà dove andare. Ma nel momento in cui questo motivo subentrerà, il corrispondente movimento verrà compiuto necessariamente, come se fosse un movimento meccanico. Anche in questo esempio vediamo un corpo che, posto fuori dal proprio punto di equilibrio, oscilla temporaneamente da un lato e dall’altro, fin quando esso avverte definitivamente da quale parte sta il proprio baricentro, e in quella direzione cade.

Fin quando la motivazione rimane nell’ambito delle rappresentazioni intuitive, la sua somiglianza con lo stimolo e con la causa in generale è ancora evidente, soprattutto per il fatto che il motivo, come causa efficiente, deve essere qualcosa di reale e di presente, anzi, deve intervenire fisicamente sui sensi, anche se indirettamente, tramite la luce, il suono, l’odore, ecc. In questo caso per l’osservatore esterno la causa è tanto evidente quanto l’effetto. Egli vede subentrare il motivo e seguire inesorabilmente il movimento dell’animale, fintanto che non entra in gioco un altro motivo contrario altrettanto evidente, oppure l’addestramento. È impossibile dubitare della interdipendenza fra i due. A nessuno verrà quindi in mente di riconoscere agli animali un liberum arbitrium indifferentiae, ossia la possibilità di compiere un’azione senza alcuna causa.

Invece, là dove la coscienza è capace di conoscenza razionale - fatta non solo di intuizioni, ma anche di concetti e di pensieri - i motivi perdono completamente la dipendenza dal presente e dall’ambiente concreto, e rimangono quindi invisibili all’osservatore. In questo caso, infatti, i motivi possono essere semplicemente dei pensieri che l’uomo porta con sé dentro la testa, la cui origine sta all’esterno di essa, spesso addirittura molto lontano nel tempo. I pensieri possono provenire sia dall’esperienza personale avvenuta negli anni passati, sia da qualcosa tramandato da estranei, tramite parole o scritti, addirittura in un tempo remotissimo.

In ogni caso la loro origine è sempre reale e oggettiva, sebbene, a causa della difficile combinazione di complicate circostanze esterne, tra i motivi stessi si trovino spesso anche molti errori, molti equivoci di trasmissione, quindi molte cose insensate. Oltretutto l’uomo nasconde spesso i motivi delle proprie azioni a tutti gli altri e talvolta anche a sé stesso, in particolare quando teme di scoprire cosa è che realmente lo spinge a compiere una determinata azione. Nel frattempo vediamo le sue azioni succedere e facciamo congetture per scoprirne i motivi. Diamo sempre per scontato, con la massima e assoluta certezza, che un motivo debba esistere, come esiste una causa di ogni movimento di un corpo inanimato. Siamo, infatti, assolutamente convinti che ogni azione di un uomo e ogni movimento di un corpo inanimato siano impossibili senza una causa.

Analogamente, ma in senso inverso, nei nostri progetti e imprese calcoleremmo l’effetto dei motivi su un determinato uomo, con una sicurezza assolutamente pari a quella con cui si calcolano i movimenti meccanici negli ingranaggi, se solo conoscessimo il carattere di quel determinato uomo, esattamente come in meccanica si conosce la lunghezza e lo spessore di una sbarra, il diametro di una ruota, il peso di un carico, ecc.

Ognuno si attiene a questo presupposto, fintanto che dirige il proprio sguardo verso l’esterno e ha a che fare con gli altri nel perseguimento di fini pratici. A questo, infatti, l’intelletto umano è propriamente destinato. Quando, invece, l’uomo prova a valutare la questione dal punto di vista teorico e filosofico (verso il quale l’intelligenza umana non è propriamente destinata per natura), ponendo sé stesso come oggetto dell’indagine, allora si lascia facilmente confondere dalla natura immateriale, fatta solo di pensieri e astratta, dei motivi, poiché questi non sono legati al presente né all’ambiente, e oltretutto ciò che si oppone ai motivi - ossia i contromotivi - sono anch’essi solo pensieri.

Questa confusione è tale che l’uomo mette allora in dubbio l’esistenza e la necessità dell’effetto provocato dal motivo, pensando che ciò che lui fa potrebbe altrettanto facilmente non farlo, che la volontà decide da sola senza essere soggetta a cause, e che ogni suo gesto è l’inizio primo di una infinita serie di futuri cambiamenti da esso indotti. Questo errore poggia soprattutto sulla falsa interpretazione di quell’affermazione dell’autocoscienza (abbondantemente discussa nel paragrafo I): ‘Io posso fare ciò che voglio’. Tanto più che questa affermazione - come sempre succede - si fa avanti spalleggiata da parecchi motivi che si escludono a vicenda e che semplicemente sollecitano temporaneamente la volontà.

L’insieme di questi fattori è la fonte di quella naturale illusione, dalla quale poi sorge l’errore di credere che nella nostra autocoscienza risieda la certezza della libertà di volere, ossia, che la volontà umana - contrariamente a tutte le leggi del puro intelletto e della natura - sia capace di prendere una decisione senza una ragione sufficiente e che una decisione presa dalla stessa persona nelle stesse circostanze, vien presa sì in un certo modo, ma potrebbe anche essere presa nel modo diametralmente opposto.

Vorrei ora, con un esempio, chiarire meglio questo errore così importante per il nostro problema e completare così l’indagine condotta nel precedente paragrafo sull’autocoscienza. Supponiamo che un uomo, per strada, dica a sé stesso:

“Sono le sei di sera e ho finito di lavorare. Ora potrei fare una passeggiata, o andare al club, oppure salire sulla torre per ammirare il tramonto. Potrei andare a teatro, visitare questo o quell’amico. Potrei addirittura infilare la porta della città, perdermi nel vasto mondo e non tornare più indietro. Tutto questo dipende solo da me: ho la piena libertà di farlo. Tuttavia non ne farò nulla, e me ne vado altrettanto liberamente a casa da mia moglie”.

È esattamente come se l’acqua dicesse:

“Potrei montare delle onde enormi (certo, in mare durante la tempesta), potrei scorrere velocemente e impetuosamente a valle (certo, nel letto di un torrente), potrei precipitare in mezzo a schiuma e spruzzi (certo, in una cascata), potrei zampillare verso l’alto (certo, in una fontana), potrei infine evaporare e svanire (certo, alla temperatura di 80 gradi). Tuttavia ora non ne faccio nulla: me ne rimango liberamente qui, tranquilla e limpida, nello stagno a specchio”.

Come l’acqua potrebbe fare tutte quelle cose solo se subentrassero le corrispondenti cause, per l’una o per l’altra, così pure quell’uomo potrebbe fare tutte quelle cose, che lui crede di poter fare, in nessun altro modo se non al subentrare delle corrispondenti cause.

Ma finché questo non succede, ognuna di quelle cose sarà per lui impossibile. Eppure una volta subentrata la corrispondente causa, egli deve fare quella determinata cosa, esattamente come deve farla l’acqua, quando si trova nella corrispondente circostanza. L’errore dell’uomo, e in generale l’illusione che nasce dalla falsa interpretazione dell’autocoscienza di poter fare al medesimo istante tutte quelle cose, poggia - a guardar bene - sul fatto che nella sua fantasia si può presentare solo un’immagine alla volta, la quale in quell’istante esclude tutto le altre.

Quando lui si immagina il motivo di una di quelle azioni teoricamente possibili, subito ne avverte l’influenza sulla propria volontà, la quale in tal modo viene sollecitata. In linguaggio tecnico questa è una velleitas [velleità]. Eppure, in quel momento, lui crede davvero di poter promuovere la velleitas a voluntas [volontà], di poter effettivamente compiere l’azione teoricamente possibile. Ma questa è solo un’illusione. Infatti, se solo subentrasse la riflessione a rammentargli i motivi che spingono in altre direzioni o nella direzione opposta, egli avrebbe modo di constatare che a quella velleitaria fantasia non viene dato seguito.

Durante questa rassegna sequenziale dei diversi motivi che si escludono tra di loro, costantemente accompagnata dall’intimo: ‘Io posso fare ciò che voglio’, la volontà gira prontamente - come, nel vento instabile, una banderuola segnavento attorno al proprio cardine ben lubrificato - nella direzione di ogni motivo che la fantasia le presenta e, immediatamente dopo, nella direzione di ogni altro motivo che le viene prospettato come possibile. In corrispondenza di ogni motivo l’uomo crede di poter volere la corrispondente cosa e di poter fissare la banderuola in quella determinata direzione. Ma è solo una illusione. In realtà la sua affermazione: ‘Io posso volere questa cosa’, è ipotetica e andrebbe integrata con la proposizione condizionale: ‘Se io non preferissi quell’altra cosa’, la quale però cancella tutto quel suo ‘poter volere’.

Ma torniamo all’esempio di quell’uomo che alle sei di sera sta decidendo cosa fare. Supponiamo che egli ora si accorga della mia presenza alle sue spalle, e del fatto che io stia filosofando su di lui e contestando la sua libertà di compiere tutte quelle azioni, a suo parere possibili. Potrebbe allora succedere che egli, pur di contraddirmi, compia proprio una di quelle azioni. In questo caso il motivo che lo spinge a compierla sarebbe proprio la mia contestazione e l’effetto che essa ha esercitato sul suo spirito di contraddizione. Tuttavia questo motivo potrebbe spingerlo a compiere una delle azioni meno impegnative sopra indicate - ad esempio, quella di andare a teatro - ma certamente non quella di abbandonare tutto e di perdersi nel vasto mondo, poiché il motivo da me rappresentato sarebbe troppo debole per un simile gesto.

In maniera altrettanto errata qualcuno, semplicemente impugnando una pistola carica, potrebbe credere di potere con essa togliersi la vita. In realtà, per compiere un simile gesto, la cosa che meno conta è proprio l’attrezzo meccanico. La cosa principale, invece, è un motivo straordinariamente forte - quindi insolito - che abbia l’enorme forza necessaria per sopraffare la voglia di vivere, o meglio, la paura di morire. Solo dopo che un simile motivo si sarà presentato, quella persona potrà davvero spararsi. Anzi, in quel momento dovrà spararsi, a meno che un contromotivo ancora più forte - ammesso che possa esistere - gli impedisca di farlo.

Io posso fare ciò che voglio. Posso, se voglio, dare tutto quello che ho ai poveri e diventare così uno di loro, se voglio! Ma non riesco a volerlo, poiché i motivi opposti esercitano su di me una forza troppo grande per poterlo fare. Se invece avessi un altro carattere, a tal punto da essere un santo, allora sì che potrei volerlo. Anzi, allora non potrei fare a meno di volerlo, e dovrei necessariamente farlo.

Tutto questo è perfettamente compatibile con quell’affermazione dell’autocoscienza: “Io posso fare ciò che voglio”[qualora venisse integrata con la proposizione condizionale: “Se nessun contromotivo mi impedisse di farlo”], nella quale, ancora al giorno d’oggi, alcuni filosofastri senza cervello presumono di vedere la libertà di volere e che quindi attestano come un dato di fatto dell’autocoscienza.

Tra questi spicca il signor Cousin, che si guadagna quindi una mention honorable [menzione d’onore], poiché nel suo Corso di storia della filosofia insegna che la libertà di volere è il dato di fatto più affidabile dell’autocoscienza.53 Egli biasima poi Kant di averlo dimostrato ed eretto a postulato solo tramite la legge morale, mentre la libertà di volere sarebbe un dato di fatto:

“Perché dimostrare ciò che basta constatare? ... La libertà è un fatto, non un’opinione”.54

Nel frattempo anche in Germania non mancano gli ignoranti che gettano al vento ciò che i grandi pensatori hanno detto al riguardo negli ultimi due secoli, e insistendo su quel supposto dato di fatto dell’autocoscienza - erroneamente interpretato da loro, come pure dalla grande massa - proclamano solennemente la libertà di volere come un dato di fatto. Ma forse sto facendo loro un torto. Forse, infatti, non sono poi così ignoranti come sembrano, ma hanno solo fame e sono quindi disposti, per un tozzo di pane raffermo, a insegnare tutto ciò che potrebbe piacere al loro sommo Ministero.

Non è assolutamente né una metafora né un’iperbole, ma semplice verità, che come una palla di biliardo non può mettersi in moto prima di subire un urto, così pure un uomo non può alzarsi dalla sedia prima che un motivo lo attiri o lo sospinga. Ma appena subentra il motivo, allora il suo alzarsi diventa necessario e inevitabile, come il rotolare della palla dopo l’urto.

Aspettarsi che uno faccia qualcosa verso cui nessun interesse lo spinge, è come aspettarsi che un pezzo di legno si muova verso di me, senza una corda che lo tiri. Chi afferma questo in mezzo a della gente che testardamente rifiuta di crederlo, potrebbe immediatamente venir a capo della faccenda dando l’incarico a un terzo di gridare all’improvviso: “Il soffitto sta crollando!”. In questo modo i suoi contraddittori avranno modo di constatare che anche un motivo è così potente da buttare la gente fuori casa, esattamente come la più palpabile causa meccanica.

L’uomo infatti, come ogni altro oggetto dell’esperienza, è un fenomeno nello spazio e nel tempo. Dato che la legge di causalità vale a priori (quindi senza alcuna eccezione) per ogni oggetto dell’esperienza, anche l’uomo è soggetto a questa legge. Così dice il puro intelletto a priori, così conferma l’analogia estesa a tutta quanta la natura, e così dimostra l’esperienza ad ogni istante, se non ci si lascia ingannare dall’apparenza.

Questo inganno nasce dal fatto che, risalendo lungo la scala dell’evoluzione, mentre gli esseri naturali diventano sempre più complicati - cosicché la loro sensibilità, da semplicemente meccanica, si eleva e si perfeziona in chimica, elettrica, suscettibile agli stimoli, sensoriale, intellettuale e infine razionale - anche la natura delle cause efficienti procede di pari passo. A ogni gradino la causa deve corrispondere adeguatamente all’essere sul quale deve agire. Pertanto anche le cause diventano meno tangibili e materiali, cosicché alla fine non sono più visibili ad occhio nudo. Esse rimangono tuttavia a portata dell’intelletto il quale, in ogni singolo caso, con incrollabile certezza presuppone la loro esistenza e, tramite una adeguata ricerca, è anche in grado di scoprirle.

Nel caso dell’uomo le cause efficienti si sono elevate a semplici pensieri, i quali lottano fra di loro, finché il più forte dà il colpo determinante [alla volontà] e mette l’uomo in azione. Tutto questo avviene con il rigore tipico del rapporto causale, come quando cause meccaniche, in una complicata combinazione, agiscono una contro l’altra e infallibilmente subentra il risultato matematicamente calcolato.

Poiché le cause non sono visibili, anche le minuscole palline di sughero elettricamente cariche, che si muovono caoticamente dentro un vaso di vetro, destano l’illusione ottica di mancanza di causalità, esattamente come quella destata dai movimenti dell’uomo. Ma ogni giudizio al riguardo non spetta all’occhio, bensì all’intelletto.

Se esistesse la libertà di volere, ogni azione umana sarebbe un miracolo inspiegabile: un effetto senza causa. Se tentassimo di immaginare un simile liberum arbitrium indifferentiae, subito ci renderemmo conto che di fronte a un simile tentativo l’intelletto rimane bloccato, poiché non dispone di alcuna forma intuitiva per procedere alla rappresentazione di una cosa del genere.

Infatti il principio di ragione sufficiente (il principio della determinazione e dipendenza reciproca dei fenomeni) è la forma generale del nostro conoscere e, a seconda delle diverse classi di fenomeni [oggetti, concetti, spazio-tempo e soggetto della conoscenza] si traduce a sua volta in espressioni diverse. Ma nel caso del liberum arbitrium indifferentiae dovremmo pensare a qualcosa che determina senza essere determinato, che non dipende da nulla, mentre tutto il resto dipende da lui. Qualcosa che, senza alcuna necessità - ossia senza alcuna ragione - ora produce l’effetto A, mentre potrebbe indifferentemente produrre l’effetto B, o C, o D. E potrebbe tranquillamente farlo - a parità di circostanze esterne - senza che ci sia in A qualcosa che gli conferisca alcuna preferenza rispetto a B, C e D, altrimenti sarebbe motivazione, quindi causalità.

In questo caso veniamo rinviati al concetto della pura casualità, che all’inizio di questo trattato abbiamo presentato come problematico. Lo ripeto: di fronte a questo concetto l’intelletto rimane completamente bloccato (ammesso che si riesca a presentarglielo).

Voglio ora ricordare che cosa è, in generale, una causa: il cambiamento precedente che provoca necessariamente il cambiamento successivo. Nessuna causa al mondo provoca semplicemente il proprio effetto o lo realizza dal nulla, bensì ogni volta esiste qualcosa su cui essa agisce. Essa dà luogo ad un mutamento solo in un determinato istante, luogo ed essere.

Il cambiamento indotto è sempre conforme alla natura di quel determinato essere, quindi esso deve già possedere una forza adeguata alla causa. L’effetto scaturisce quindi da due fattori: uno interno e uno esterno. Quello interno è la forza originaria dell’essere sul quale la causa agisce, mentre quello esterno è la causa determinante, la quale costringe necessariamente quella forza a manifestarsi in quel determinato istante e luogo.

Ogni causalità, e ogni spiegazione del mutamento a cui essa dà luogo, presuppone l’esistenza di una forza originaria. La spiegazione quindi non chiarisce mai tutto, ma lascia sempre qualcosa di inspiegabile dietro sè.

Questo è ciò che si osserva ovunque nella fisica e nella chimica. Nelle loro spiegazioni si presuppone sempre la presenza di forze naturali, le quali si manifestano nell’evento e alle quali ogni spiegazione viene ricondotta. Ma la forza naturale stessa non si presta ad alcuna spiegazione, bensì è essa stessa il principio di ogni spiegazione. Proprio per questo la forza naturale non è soggetta ad alcuna causalità, ma è lei stessa ciò che conferisce a ogni causa la causalità, la facoltà di provocare un cambiamento.

Una forza naturale è quindi il substrato comune di tutti gli effetti di un certo tipo ed è presente in ciascuno di essi. Così i fenomeni del magnetismo vengono ricondotti a una forza originaria, chiamata elettricità [cariche elettriche in movimento]. Ma riguardo all’essenza di questa forza non c’è nulla da spiegare. Essa detta solo le condizioni secondo le quali essa stessa si manifesta, ossia le cause che provocano la sua attività.

Le spiegazioni della meccanica celeste presuppongono la forza gravitazionale, in virtù della quale le singole cause, che determinano il movimento dei pianeti, agiscono. Le spiegazioni della chimica danno come presupposto le occulte forze che si manifestano come affinità elettive, secondo determinati rapporti stechiometrici. Su queste forze si basano tutti gli effetti che puntualmente subentrano, quando vengono richiamati da determinate cause.

Così pure le spiegazioni della fisiologia presuppongono la forza vitale che reagisce prontamente a specifici stimoli, interni ed esterni. E così avviene sempre e dappertutto. Perfino le cause di cui si occupa la meccanica elementare, come l’urto e la pressione, presuppongono la impenetrabilità, la coesione, la rigidità, l’inerzia, il peso, la elasticità, le quali non sono altro che inesplicabili forze naturali, esattamente come quelle sopra citate.

In ogni evento le cause non determinano altro che il luogo e il momento in cui le inspiegabili forze originarie si manifestano. Queste forze sono quindi il presupposto indispensabile affinché le cause possano sussistere, affinché possano provocare necessariamente determinati effetti.

Quello che vale per le cause nel senso stretto della parola e per gli stimoli vale anche per i motivi. La motivazione, infatti, non è essenzialmente diversa dalla causalità, anzi, è solo un tipo di causalità, e precisamente: la causalità che procede tramite il medium della conoscenza.

Anche in questo caso la causa provoca la manifestazione di una forza non riconducibile ad altre cause, che non è quindi passibile di ulteriori spiegazioni. Questa forza, che in questo caso si chiama volontà, ci è nota non solo dall’esterno - come le altre forze naturali - ma anche direttamente dall’interno, grazie all’autocoscienza. Solo presupponendo che una tale forza (la volontà) esista e che nel soggetto in questione essa sia di una determinata natura, le cause (i motivi) indirizzate verso la volontà del soggetto avranno effetto.

La natura della volontà, determinata in modo particolare e individuale, in virtù della quale la reazione di fronte ai medesimi motivi è differente a seconda di ogni singolo individuo, è il cosiddetto ‘carattere’, anzi il suo ‘carattere empirico’, poiché esso non è conoscibile a priori, ma solo tramite l’esperienza. Esso determina innanzitutto il tipo di effetto che i diversi motivi provocano su quel determinato individuo. Il carattere individuale, infatti, sta alla base di ogni effetto che i motivi provocano, esattamente come le forze naturali stanno alla base degli effetti provocati dalle cause in senso stretto, e come la forza vitale sta alla base degli effetti provocati dagli stimoli.

Come le forze naturali, anche il carattere è originario, immutabile e inspiegabile. Negli animali è diverso in ogni specie; negli uomini in ogni individuo. Solo negli animali più evoluti e intelligenti si può notare un carattere individuale più marcato, anche se quello della specie rimane predominante.

Il carattere dell’uomo è:

1. Individuale. In ognuno il carattere è diverso. È vero che per tutti alla base c’è il carattere della specie, cosicché in ogni uomo si possono ritrovare le caratteristiche principali della specie uomo. Tuttavia nell’uomo esiste una sfumatura di grado così significativa, una tale varietà di combinazioni e di modificazioni delle caratteristiche peculiari, da supporre che la differenza morale dei caratteri degli individui sia pari alla differenza delle loro facoltà intellettuali (il che è tutto dire) e che entrambe siano incomparabilmente maggiori della differenza corporea tra un gigante e un nano, tra Apollo e Tersite.55

Per questo l’effetto dello stesso motivo su individui diversi è del tutto diverso, come la luce solare, che sbianca la cera ma colora di nero il cloruro d’argento, e come il calore, che ammorbidisce la cera ma indurisce l’argilla. Quindi, nel caso di un determinato uomo, conoscendo solo i motivi non è possibile prevedere le sue azioni, poiché bisognerebbe anche conoscere esattamente il suo carattere.

2. Empirico. Solo tramite l’esperienza si impara a conoscere non solo il carattere degli altri, ma anche il proprio. Per questo spesso si rimane delusi non solo degli altri, ma anche di sé stessi, quando si scopre di non possedere questa o quella virtù (ad esempio, la giustizia, l’altruismo e il coraggio) nella misura che, con molta indulgenza verso noi stessi, ci accreditavamo. Ed è sempre per questo che, nell’imminenza di una difficile scelta, la nostra decisione personale rimane a lungo un mistero per noi stessi, come se fosse quella di un estraneo, finché non viene presa.

Nel frattempo noi pensiamo che essa debba cadere ora da questo e ora da quel lato, a seconda che questo o quel motivo venga meglio presentato dalla ragione alla volontà, per esercitare su di essa il proprio influsso. È in questo frangente che quella sensazione: ‘Io posso fare ciò che voglio’, fa sorgere l’illusione della libertà di volere. Ma alla fine il motivo più forte si impone sulla volontà, e la scelta finisce spesso in un modo diverso da quello inizialmente supposto. Nessuno quindi può sapere come agirà un altro, e neppure come agirà lui stesso, in una determinata situazione finché non ci sarà stato.

Solo dopo aver superato la prova egli avrà la certezza del comportamento dell’altro e anche del proprio. Solo allora sarà certo. Gli amici sperimentati, i servitori provati sono persone sicure. In generale noi trattiamo una persona che conosciamo bene esattamente come ogni altra cosa le cui caratteristiche ci sono ben note, e prevediamo con sicurezza ciò che possiamo, o non possiamo, aspettarci da lui.

Chi una volta ha fatto una determinata cosa, sia nel bene che nel male, la rifarà di nuovo quando si ritroverà nelle medesime circostanze. Pertanto chi ha bisogno di un grande aiuto straordinario, si rivolgerà a chi ha già dato prova di possedere un animo nobile, mentre chi vuole assoldare un sicario, lo cercherà tra la gente che si è già sporcata le mani di sangue.

Secondo quanto racconta Erodoto,56 Gelone di Siracusa si trovò nella necessità di affidare un’ingente somma di denaro a una persona che avrebbe dovuto trasferirla all’estero e disporne con piena facoltà. Scelse per questo incarico Cadmo, il quale aveva già dato prova di una rara, addirittura inaudita, onestà e scrupolosità. E la sua fiducia venne pienamente confermata.

Nello stesso modo la conoscenza di noi stessi, sulla quale poggia la personale sicurezza o insicurezza, sorge solo dall’esperienza e quando si presenta l’occasione opportuna. A seconda che in una determinata circostanza abbiamo dato prova di senno, coraggio, onestà, discrezione, gentilezza o di qualsiasi altra virtù che il caso richiedeva, oppure abbiamo mostrato la nostra mancanza di tali virtù, in seguito alla conoscenza sperimentalmente acquisita rimarremo soddisfatti, o insoddisfatti, di noi stessi.

Solo l’esatta conoscenza del proprio carattere empirico conferisce a un uomo il cosiddetto ‘carattere acquisito’. Questo lo possiede chi conosce esattamente le proprie qualità, sia quelle buone che quelle cattive, e sa quindi esattamente, con certezza, cosa può aspettarsi e pretendere da sé stesso. A quel punto un simile uomo può giocare il proprio ruolo con abilità e con metodo, con fermezza e con dignità, mentre prima poteva farlo solo con naturalezza, grazie al suo carattere empirico. D’ora in poi lui non potrà più - come si suol dire - ‘uscire dai binari’, dando così prova che, in un determinato caso, si stava sbagliando riguardo a sé stesso.

3. Costante. Il carattere rimane lo stesso per tutta la vita. Sotto il mutevole involucro dei suoi anni, delle sue condizioni, e perfino delle sue conoscenze e opinioni, si cela - come il paguro dentro la occasionale conchiglia - il medesimo uomo, assolutamente immutabile e sempre lo stesso. Il suo carattere subisce apparenti modificazioni solo nell’indirizzo e nell’oggetto dei propri interessi, a causa del variare dell’età e dei propri bisogni. Ma l’uomo non cambia mai: come si è comportato in un determinato caso, così si comporterà ogni volta che si ritroverà nelle medesime circostanze (tra le quali bisogna annoverare anche la medesima conoscenza di quelle circostanze).

La conferma di questa verità viene fornita dall’esperienza quotidiana. La più sorprendente è quando incontriamo di nuovo, dopo venti o trenta anni, una persona conosciuta e la cogliamo a fare le stesse cose di una volta. Certo, qualcuno a parole negherà questa verità. Tuttavia nel proprio comportamento anche lui la dà in ogni caso per scontata, poiché lui stesso non ha più fiducia di chi in precedenza si è dimostrato disonesto anche una sola volta, mentre confida in chi già in precedenza ha dato prova di onestà.

Su questa verità poggia la possibilità di conoscere gli altri e di avere piena fiducia nelle persone sperimentate, provate e convalidate. Quando rimaniamo anche una sola volta delusi della fiducia riposta in qualcuno, non diciamo mai: “Il suo carattere è cambiato”, bensì: “Mi sono sbagliato io nei suoi riguardi”. Su di essa poggia il fatto che, quando vogliamo giudicare il valore morale di un’azione, cerchiamo innanzitutto di capirne il motivo, ma poi la nostra lode - o il nostro biasimo - non riguarda il motivo, bensì il carattere che si è lasciato determinare da quel motivo. Il carattere, infatti, è certamente uno dei due fattori della decisione di compiere un’azione, ma è anche l’unico inerente all’autore.

Sempre su questa verità poggia il fatto che il vero onore (non quello cavalleresco, l’onore dei pazzi) una volta perso, non lo si può più recuperare. La macchia, anche di una sola azione indegna, rimane incollata per sempre all’autore e - come si suol dire - lo marchia a fuoco. Da qui il proverbio: “Chi ruba una volta è ladro per sempre”.

Su di essa si basa il fatto che, in occasione di importanti questioni politiche, quando si arriva ad auspicare il tradimento di qualcuno, si cerca una spia, la si utilizza e la si ricompensa. Tuttavia, una volta raggiunto lo scopo, la prudenza impone di sbarazzarsi di questa persona, poiché le circostanze possono cambiare, ma non il suo carattere.

Su questa verità poggia il fatto che il più grande errore di uno scrittore drammatico è quello di non preservare il carattere dei propri personaggi, di non rappresentarli con la costanza e con la rigorosa coerenza di una forza naturale, come invece fanno i grandi scrittori. A questo proposito ho già dato altrove un esempio dettagliato riguardo a Shakespeare.57

Su questa verità si basa perfino la possibilità della coscienza, poiché questa fino a tarda età ci rinfaccia i misfatti compiuti in gioventù. Come, ad esempio, la vergogna provata, ancora quarant’anni dopo, da J. J. Rousseau per aver accusato la domestica Marion di un furto che lui stesso aveva compiuto. Infatti, la vergogna di sé stessi è possibile solo se si assume che il proprio carattere non cambi, ma rimanga sempre il medesimo. Al contrario, nella vecchiaia non ci vergogniamo degli errori stupidi, della crassa ignoranza e delle più sorprendenti pazzie nella nostra gioventù. Quelle cose, infatti, erano dovute alla nostra difettosa conoscenza. Ora la situazione è cambiata, ne siamo usciti e le abbiamo da molto tempo abbandonate, come i nostri vestiti di gioventù.

Su questa verità si basa il fatto che talvolta un uomo, nonostante abbia la più chiara consapevolezza dei propri errori e difetti morali, nonostante li detesti e nutra il sincero proposito di comportarsi meglio, non riesce proprio a migliorare se stesso. Nonostante i seri propositi e le sincere promesse, appena si ripresenta l’occasione si lascia cogliere di nuovo - con propria sorpresa - sulla medesima strada di prima.

Solo la conoscenza può migliorare. Tramite essa l’uomo può rendersi conto che questo o quel mezzo, che prima aveva utilizzato, non conduce al traguardo auspicato, oppure che esso causa più perdite che guadagni. Allora egli cambierà il mezzo, ma non il fine. Su questa verità si basa il sistema penitenziario americano, il quale non si propone di migliorare il carattere, ossia il cuore dell’uomo, bensì di mettergli la testa a posto. Il proposito è di mostrargli che quei fini, che lui tenacemente persegue a causa del proprio carattere, potrebbero essere raggiunti attraverso il cammino della disonestà finora seguito con maggiori difficoltà, con sforzi e con pericoli ben più grandi, che attraverso il cammino dell’onestà, del lavoro e della moderazione. In generale, l’ambito di ogni miglioramento e perfezionamento sta solo nella conoscenza.

Certo, il carattere è immutabile e i motivi [che determinano la volontà] agiscono sempre con necessità. Tuttavia i motivi devono essere vagliati dalla conoscenza, poiché questa è il loro medium. Ma la conoscenza è in grado di ampliarsi nel modo più vario e migliorarsi costantemente in infiniti gradi. A questo mira ogni tipo di educazione.

Il perfezionamento della ragione tramite conoscenze esatte e approfondite di ogni tipo è moralmente importante, poiché apre l’accesso a quei motivi, dai quali l’uomo rimarrebbe altrimenti escluso. Fintanto che lui non li poteva comprendere, essi non erano disponibili per la sua volontà. Per questo, nelle medesime circostanze esterne, il comportamento di un uomo la seconda volta può essere completamente diverso dalla prima, se nel frattempo egli è diventato capace di comprendere correttamente e compiutamente quelle medesime circostanze. In quel momento su di lui possono aver effetto motivi che in precedenza gli erano inaccessibili.

In questo senso gli scolastici dicevano giustamente:

“Causa finalis movet non secundum suum esse reale, sed secundum esse cognitum” [la causa finale (il motivo) spinge ad agire non per come essa è in realtà, ma per come essa viene percepita].

Ma, oltre al perfezionamento della conoscenza, nient’altro esercita alcuna influenza sul comportamento morale. Il proposito di estirpare i difetti caratteriali di un determinato individuo tramite prediche moraleggianti, di voler quindi modificare il suo stesso carattere e la sua particolare moralità, è analogo al proposito di commutare tramite alchimie il piombo in oro, oppure di stimolare una quercia tramite particolari trattamenti a produrre albicocche.

La convinzione dell’immutabilità del carattere viene proclamata al di sopra di ogni dubbio già da Apuleio quando, difendendosi dall’accusa di arti magiche, fa appello al proprio ben noto carattere e dice:

“Per ciascuno di noi il miglior testimone è il cuore, poiché si inclina sempre, con scelta costante, o alla virtù o al vizio, e fornisce la prova più sicura per accogliere un’accusa o respingerla”.58

4. Innato. Il carattere non è opera artificiale o delle circostanze esterne soggette al caso, bensì è opera della natura stessa.

Esso si manifesta già nel bambino, quando mostra nel piccolo cosa sarà in futuro nel grande. Per questo due bambini, educati nello stesso modo e cresciuti nel medesimo ambiente, possono mostrare chiaramente due caratteri fondamentalmente diversi, gli stessi che avranno da vecchi. Nei suoi tratti principali il carattere è addirittura ereditario, ma solo da parte del padre, mentre l’intelligenza proviene dalla madre.59

Da questa esposizione dell’essenza del carattere individuale risulta chiaramente che le virtù e i vizi sono innati. Questa verità potrebbe risultare scomoda a parecchie persone piene di pregiudizi e a parecchi filosofi all’acqua di rose, con i loro cosiddetti ‘interessi pratici’, con i loro piccoli e ristretti concetti, e con le loro limitate opinioni da scolaretti.

Ma di questa verità era convinto già Socrate, il padre della morale, il quale - a quanto riferisce Aristotele - sosteneva che:

“Non dipende da noi essere buoni o malvagi”.60

Ciò che Aristotele ricorda, per replicare a Socrate su questo punto, è palesemente errato. Oltretutto anche lui condivide la stessa opinione di Socrate, e lo dice a chiare lettere:

“Sembra infatti che in ciascuno di noi ogni aspetto del carattere sia in qualche modo connaturato: la giustizia, la temperanza, il coraggio, e tutte le altre virtù, le abbiamo già dalla nascita”.61

Esaminando l’insieme delle virtù e dei vizi nel De virtutibus et vitiis di Aristotele (dove vengono raccolti in breve rassegna), troviamo che essi complessivamente possono essere pensati, riguardo all’uomo reale, solo come proprietà innate e solo come tali sarebbero genuine. Se, invece, le virtù derivassero dalla riflessione e venissero esercitate di proposito, risulterebbero in realtà quasi una simulazione, non sarebbero genuine e, nell’urgenza delle circostanze, non si potrebbe affatto contare sulla loro continuità e perseveranza. Anche se si volesse includere la virtù cristiana dell’amore verso il prossimo, la caritas - che Aristotele, come tutti gli antichi, non prende in considerazione - le cose non andrebbero diversamente neppure per questa virtù.

Come potrebbero l’instancabile bontà di un uomo e l’incorreggibile malvagità profondamente radicata di un altro - il carattere degli Antonini, di Adriano e Tito, da una parte, e quello di Caligola, Nerone e Domiziano, dall’altra - essere sopraggiunti dal di fuori, essere l’opera di circostanze fortuite o essere il frutto della conoscenza e dell’educazione? Ma proprio Nerone ha avuto Seneca come tutore! È vero, invece, il contrario: il germe di ogni vizio e di ogni virtù sta nel carattere innato, il vero e proprio nucleo dell’intera persona.

Questo convincimento - del tutto naturale per chi non è prevenuto - ha guidato anche la mano di Velleio Patercolo, quando a proposito di Catone scrive:

“... un uomo che è l’immagine stessa della virtù, e per carattere più vicino agli dei che agli umani, in tutto: mai ha agito bene per far vedere che agiva bene, ma perché non poteva fare altrimenti”.62

Se invece si supponesse l’esistenza della libertà di volere, non si riuscirebbe assolutamente a capire da dove scaturiscono la virtù e il vizio, e soprattutto il fatto che due persone cresciute nello stesso modo, in circostanze e con opportunità perfettamente identiche, possano comportarsi in maniera diversa, addirittura diametralmente opposta.

L’effettiva e originaria differenza fondamentale di carattere non è compatibile con l’ipotesi della libertà di volere. Questa infatti consisterebbe nel fatto che lo stesso uomo, in qualunque situazione, possa compiere indifferentemente delle azioni diametralmente opposte. Ma se così fosse, il carattere dell’uomo dovrebbe essere originariamente una tabula rasa (come secondo Locke dovrebbe succedere all’intelletto)63 e non ci potrebbe essere alcuna tendenza innata in un senso o nell’altro, altrimenti questa spazzerebbe via la perfetta indifferenza che si attribuisce al liberum arbitrium indifferentiae.

Ma se il carattere fosse originariamente una tabula rasa, le ragioni della differenza di comportamento di persone differenti non potrebbero risiedere nel loro ambito soggettivo. E tanto meno in quello oggettivo, altrimenti sarebbe l’oggetto a determinare il loro comportamento, e la supposta libertà di volere andrebbe completamente persa.

A questo punto rimarrebbe solo la scappatoia di spostare l’origine della grande diversità dei comportamenti (sperimentalmente verificata) in un punto intermedio tra soggetto e oggetto, e farla scaturire dal differente modo in cui il soggetto apprende l’oggetto - in altre parole - nel differente modo in cui lo stesso oggetto viene conosciuto da persone diverse. Ma allora tutto andrebbe attribuito alla conoscenza vera o falsa delle circostanze al momento dell’azione, cosicché la differenza morale dei comportamenti si configurerebbe solo come differenza nella correttezza dei giudizi, quindi la morale verrebbe ridotta alla logica.

Se i sostenitori della libertà di volere cercassero di salvarsi in extremis da questo grave dilemma [morale o logica] sostenendo che la differenza del carattere non è innata, bensì sorge dall’esterno tramite le circostanze, impressioni, esperienze, esempi, insegnamenti, ecc. e che, una volta che il carattere si è formato in questo modo, si può spiegare la differenza del comportamento che ne consegue, allora si potrebbe obiettare quanto segue.

Innanzitutto, secondo questa teoria, il carattere si verrebbe a formare solo tardivamente - mentre di fatto è chiaramente riconoscibile già nel bambino - e che la maggior parte degli uomini farebbe in tempo a morire prima di conseguire definitivamente il proprio carattere.

In secondo luogo, tutte quelle circostanze esterne, che plasmerebbero il carattere, stanno completamente al di fuori della nostra portata e verrebbero messe in campo, in un modo o nell’altro, dal caso (o - se si vuole - dalla provvidenza). Ma se il carattere, e con esso la diversità di comportamento, scaturisse dalle circostanze esterne, ogni responsabilità morale della diversità di comportamento dell’uomo verrebbe completamente a cadere, poiché, in fin dei conti, questa diversità sarebbe opera del caso (o della provvidenza).

Vediamo dunque che, se si ammettesse la libertà di volere, l’origine della diversità di comportamento - e con essa della virtù e del vizio - e l’origine della responsabilità morale fluttuerebbero senza alcun contenuto nell’aria, senza trovare mai un posticino dove affondare le radici.

Possiamo quindi concludere che l’ipotesi della libertà di volere - a prima vista così allettante per un intelletto filosoficamente rozzo - contraddice fondamentalmente il nostro convincimento morale [della responsabilità delle nostre azioni] e anche (come abbiamo a sufficienza mostrato in precedenza) il principio supremo del nostro intelletto, ossia la legge di causalità. La necessità con cui i motivi - e tutte le altre cause in generale - hanno effetto non è quindi priva di alcun presupposto. Adesso sappiamo quale è questo presupposto, il solido terreno sul quale poggiano: il carattere individuale innato.

Come nella natura inanimata ogni effetto è il necessario prodotto di due fattori - la forza naturale che si manifesta in quel determinato effetto e la causa specifica che ha indotto questa forza a manifestarsi - così pure ogni azione dell’uomo è il necessario prodotto del proprio carattere e del motivo che è sopraggiunto. Dati questi due fattori segue inesorabilmente l’azione.

Affinché avvenga un’azione diversa sarebbe necessario o un altro motivo o un altro carattere. Ogni azione potrebbe anche essere prevista con sicurezza, anzi, potrebbe addirittura essere calcolata, se il carattere di una determinata persona non fosse così difficile da individuare e se il motivo non fosse spesso nascosto, continuamente soggetto all’effetto contrario di altri motivi, i quali risiedono esclusivamente nella sfera del pensiero di quella determinata persona e rimangono inaccessibili agli altri.

In generale, i fini ai quali un uomo tende costantemente sono determinati dal suo carattere innato. I mezzi, ai quali egli ricorre per perseguire i propri fini, vengono determinati sia dalle circostanze esterne, sia dal modo in cui queste vengono da lui comprese, più o meno correttamente, a seconda dalla sua intelligenza e istruzione. Il risultato finale di tutto questo sono le sue singole azioni e, con esse, tutto il ruolo che quell’uomo ha da svolgere nel mondo.

La sintesi di questa dottrina del carattere individuale si trova esattamente e poeticamente esposta in uno dei più bei versi di Goethe:

“Come nel giorno che ti ha dato al mondo

stava il sole al saluto dei pianeti,

hai cominciato e continuato a crescere

in conformità alla legge che vigeva al tuo ingresso.

Così devi essere, non puoi sfuggire a te stesso.

Così hanno sentenziato le sibille e i profeti.

Nessun tempo e nessuna potenza può spezzare

la forma impressa che, vivendo, si sviluppa”.64

L’intima essenza di ogni cosa è il presupposto sul quale poggia la necessità dell’effetto di tutte le cause in generale, indipendentemente dal fatto che ciò che in quella cosa si manifesta sia semplicemente una forza naturale qualsiasi, la forza vitale, oppure la volontà. Ogni singolo essere, di qualsiasi tipo, al subentrare di una causa efficiente reagisce sempre in conformità alla propria peculiare natura.

Questa legge, alla quale tutte le cose del mondo sono soggette senza alcuna eccezione, è stata sintetizzata dagli scolastici nella formula:

“Operari sequitur esse” [l’operare è conseguenza dell’essere].

In conformità a questa legge il chimico identifica una determinata sostanza tramite i reagenti, mentre l’uomo verifica un altro uomo tramite le prove a cui lo sottopone. In entrambi i casi le cause esterne attivano, con assoluta necessità, ciò che sta dentro un determinato essere, poiché questo non può reagire altrimenti da quello che è.

A questo proposito bisogna ricordare che ogni existentia [esistenza] presuppone una essentia [essenza], ossia che ogni cosa che esiste deve anche essere qualcosa, deve possedere una determinata essenza. Nessuna cosa può esistere senza essere qualcosa. Nulla può essere un ens metaphysicum [ente metafisico], un ente che esiste e niente più, senza alcuna determinazione e proprietà, quindi senza un determinato modo di agire in conformità alla propria essenza.

Come una essentia senza existentia non implica alcunché di reale (secondo il famoso esempio dei cento talleri illustrato da Kant),65 così pure una existentia senza essentia non può essere qualcosa di reale. Ogni cosa che esiste, infatti, deve possedere una propria natura, essenziale e peculiare, grazie alla quale essa è ciò che è. Una natura che questa cosa afferma costantemente e le cui manifestazioni vengono provocate con necessità assoluta dalle cause, ma che tuttavia non è opera delle cause, né può da queste essere modificata.

Tutto questo vale per l’uomo e per la sua volontà esattamente come per ogni altro essere in natura. Anche l’uomo oltre alla existentia possiede una essentia, ossia possiede delle proprietà essenziali e fondamentali che costituiscono il suo carattere, e che necessitano solo di un’opportunità esterna per manifestarsi. Quindi, aspettarsi che un determinato uomo si comporti, nella medesima occasione, una volta in un certo modo e un’altra volta in un modo completamente diverso, equivale ad aspettarsi che la medesima pianta, che l’estate scorsa ha prodotto ciliegie, l’estate prossima produca pere.

A rigore, libertà di volere significa una existentia senza essentia: una cosa esiste e allo stesso tempo è nulla. Ma se è nulla, quella cosa non esiste, quindi una existentia senza essentia è una contraddizione.

Sulla comprensione di tutto questo, come pure della validità - certa a priori, quindi senza eccezioni - della legge di causalità, poggia il fatto che tutti i pensatori veramente profondi di tutti i tempi, indipendentemente da quanto diverse possano essere le loro opinioni su altri temi, si sono trovati d’accordo nell’affermare la necessità degli atti della volontà al subentrare dei motivi e nel negare l’esistenza del libero arbitrio.

Proprio perché l’incommensurabilmente grande maggioranza degli incapaci di pensare e la moltitudine di succubi dell’apparenza e del pregiudizio si è sempre testardamente opposta a questa verità, i grandi pensatori l’hanno addirittura posta in bella evidenza e l’hanno affermata con le più decise e audaci perifrasi. La più nota è quella dell’asino di Buridano, della quale tuttavia, da oltre un secolo, si cerca invano traccia negli scritti che ci sono rimasti di Buridano.

Io stesso possiedo una edizione del suo Trattato sui sofismi (apparentemente stampata nel secolo XV, senza indicazione della stamperia e dell’anno di stampa, e senza numerazione delle pagine) nella quale ho spesso cercato il famoso paradosso di Buridano, senza mai trovarlo, nonostante quasi in ogni pagina compaia un asino come esempio.

Pierre Bayle - il cui articolo su Buridano costituisce la base di tutto quanto è stato scritto a questo proposito da allora - sostiene che si ha conoscenza di un solo sofisma di Buridano. A torto però, poiché io possiedo un intero volume in quarto del Trattato sui sofismi di Buridano. Tuttavia Bayle, il quale ha trattato esaurientemente questo tema, avrebbe dovuto sapere una cosa che fin da allora sembra sia rimasta inosservata, ossia, che l’esempio dell’asino di Buridano (il quale è diventato quasi il simbolo o il prototipo della grande verità qui sostenuta) è ben più antico di Buridano stesso.

Esso, infatti, si trova già in Dante, il quale conosceva perfettamente tutto il sapere del suo tempo e visse prima di Buridano. Dante non parla di asini, bensì di uomini, nei seguenti versi che aprono il quarto canto del Paradiso:

Intra duo cibi, distanti e moventi

D’un modo, prima si morria di fame

Che liber’ uomo l’un recasse ai denti.66

Addirittura si trova già in Aristotele, con queste parole:

“La storiella dell’uomo che ha molta fame e molta sete, in eguale misura, e che si trova alla stessa distanza dal cibo e dalla bevanda: è inevitabile che anche costui rimanga immobile”.67

Buridano, che da queste fonti aveva prelevato l’esempio, ha scambiato l’uomo con un asino semplicemente perché - questo mediocre scolastico - aveva l’abitudine di usare per i suoi esempi Socrate, Platone, oppure un asinus.

Il problema della libertà di volere è, in effetti, la pietra di paragone con la quale si possono distinguere gli spiriti dotati di pensiero profondo, da quelli di pensiero superficiale. Ma è anche una pietra miliare, a partire dalla quale i due gruppi divergono, poiché i primi sostengono all’unanimità che, dato il carattere e il motivo, l’azione deve avvenire necessariamente, mentre i secondi - assieme alla grande massa - parteggiano per la libertà di volere.

Ma esiste anche un partito intermedio, il quale, non sentendosi a proprio agio su questo tema, si barcamena di qua e di là, sposta davanti a sé e agli altri il traguardo, si nasconde dietro parole e frasi fatte, oppure gira e rigira la questione finché non si capisce più dove vada a parare. Così ha fatto Leibniz, il quale era più un matematico e un polyhistor [genius universalis, erudito], che un filosofo.68

Per ricondurre al tema una controparte così irresoluta, bisogna porle con fermezza la questione nel seguente modo:

1. “Può un determinato uomo, in determinate circostanze, compiere due azioni differenti, oppure una sola”?

Risposta di tutti i profondi pensatori: “Una sola”.

2. “Il corso della vita di un uomo (tenendo conto che il suo carattere rimane saldamente immutabile e che, d’altro canto, le circostanze - la cui influenza lui deve subire - vengono necessariamente determinate, continuamente e fin nei minimi particolari, da cause esterne, le quali, a loro volta, subentrano sempre con rigorosa necessità, in una sequenza concatenata e altrettanto necessaria che si estende a ritroso all’infinito) avrebbe potuto avvenire diversamente -  anche solo in qualche dettaglio, seppur minimo, in qualche avvenimento o in qualche scena - da come è avvenuto”?

“No” è la risposta logica ed esatta.

La conclusione di queste due affermazioni è: tutto ciò che succede, dalla cosa più grande alla più piccola, avviene necessariamente.

“Quidquid fit, necessario fit”

[qualsiasi cosa succede, succede necessariamente].

Chi si spaventa di fronte a questa conclusione ha ancora qualcosa da apprendere e altre cose da dimenticare. Dopo di che scoprirà che questa conclusione è la più ricca fonte di consolazione e di tranquillità d’animo. Le nostre azioni non costituiscono affatto alcun primo inizio, quindi da esse non scaturisce nulla di realmente nuovo per l’esistenza. Da ciò che facciamo possiamo semplicemente apprendere chi noi siamo.

Sul convincimento - perlomeno avvertito, anche se non chiaramente riconosciuto - della rigorosa necessità di tutto ciò che succede poggia anche l’opinione, così fermamente condivisa dagli antichi, del fatum [fato], della e„marmšnh [eimarméne: destino], come pure il fatalismo dei maomettani e perfino la diffusissima e intramontabile credenza negli omina [presagi divinatori]. Anche il minimo evento accidentale accade necessariamente e tutti gli avvenimenti - per così dire - mantengono reciprocamente il ritmo, cosicché tutto è in sintonia con tutto.

A questo si riallaccia persino il fatto che, chi ha mutilato o ucciso un altro, del tutto casualmente e senza la minima intenzione, piange la vita intera questo piaculum [sacrilegio] quasi con un sentimento di colpa e, come persona piacularis [persona impura], dovrà sperimentare anche da parte degli altri una specie di discredito.

Il profondo convincimento dell’immutabilità del carattere e della necessità delle sue manifestazioni, potrebbe addirittura aver esercitato qualche influsso sulla dottrina cristiana della predestinazione.

Vorrei infine fare un’osservazione del tutto secondaria, che ciascuno - a seconda di credere, o meno, a determinate cose - può, a piacere, raccogliere o lasciar perdere.

Se non ammettessimo la rigorosa necessità di tutto ciò che accade, tramite una catena di cause che collega tra loro tutti gli avvenimenti senza eccezione alcuna, ma supponessimo che questa catena possa essere interrotta in innumerevoli punti dalla libertà assoluta, ogni tipo di previsione del futuro - il sogno, il sonnambulismo chiaroveggente, la second sight [seconda vista], ecc. - diverrebbe oggettivamente e assolutamente impossibile, quindi impensabile. In questo caso, infatti, non esisterebbe alcun futuro oggettivamente reale che possa, anche solo in via teorica, essere previsto. Noi invece, con la nostra tesi della necessità di tutto quanto succede, poniamo in dubbio solo l’esistenza delle condizioni soggettive, ossia la possibilità del singolo individuo di fare simili previsioni. Tuttavia, al giorno d’oggi le persone ben informate non possono più avere dubbi di questo tipo, dopo che innumerevoli testimonianze da parte di fonti attendibili hanno confermato l’esistenza di simili anticipazioni del futuro.

Aggiungo ancora un paio di corollari alla ben collaudata dottrina della necessità di tutto ciò che succede.

Innanzitutto, cosa sarebbe di questo mondo, se la necessità non attraversasse e collegasse tra di loro tutte le cose, e soprattutto se non sovraintendesse alla generazione degli individui? Un mostro, un mucchio di macerie, una smorfia senza senso e significato, effettivamente l’opera del vero e proprio caso.

Inoltre, desiderare che un determinato avvenimento non sia accaduto è una tortura pazzesca di sè stessi. È come desiderare qualcosa di assolutamente impossibile, un desiderio insensato come quello che il sole sorga a ovest. Proprio perché tutto ciò che succede, grande o piccolo, avviene in maniera rigorosamente necessaria, è inutile ripensare a quanto insignificanti e fortuite siano state le cause che hanno provocato un determinato evento e a come avrebbero potuto facilmente essere diverse.

Questa è una illusione, poiché tutte quelle cause sono subentrate con altrettanta rigorosa necessità e hanno esercitato il loro effetto con la stessa forza di quelle che fanno sorgere il sole a est. Dovremmo piuttosto osservare un avvenimento, così come è accaduto, con lo stesso sguardo con cui osserviamo la carta stampata che stiamo leggendo, ben sapendo che essa era così com’è, ancora prima che noi la leggessimo.

iv - Predecessori

Per giustificare quanto detto nel precedente paragrafo riguardo ai pensatori veramente profondi di tutti i tempi, che si sono trovati d’accordo nell’affermare la necessità degli atti della volontà al subentrare dei motivi e nel rigettare il liberum arbitrium, voglio ricordare alcuni dei grandi uomini che si sono pronunciati in questo senso.

Innanzitutto, per tranquillizzare chi teme che motivi religiosi si oppongano alla verità da me sostenuta, vorrei ricordare che già [nell’Antico Testamento] Geremia (10.23) dice:

“L’uomo non è padrone della sua vita; non è in potere di chi cammina indirizzare i propri passi”.

Ma soprattutto faccio riferimento a Lutero, il quale in Il servo arbitrio - un libro scritto esclusivamente a questo proposito - contesta con tutta la sua tipica veemenza la libertà di volere. Un paio di citazioni bastano per caratterizzare la sua opinione, che naturalmente Lutero sostiene non con argomenti filosofici, bensì teologici:

“Sta quasi scritto nel cuore dell’uomo che il libero arbitrio non esiste, sebbene questa affermazione sia oscurata da così tante dispute contrarie e dall’autorità di così tanti uomini ... E vorrei anche ammonire qui gli avvocati del libero arbitrio, che essi stanno negando Cristo, quando affermano l’esistenza del libero arbitrio ... Le testimonianze delle Scritture, ogni qualvolta parlano di Cristo, respingono il libero arbitrio. Ed esse sono numerose, anzi, sono tutte le Scritture. Pertanto, se la causa dovesse venir decisa tramite le Scritture, io vincerei su tutti i fronti, poiché non c’è una sillaba, o un titolo, nelle Scritture che non condanni la dottrina del libero arbitrio”.69

Ed ora passiamo ai filosofi. Gli antichi, a questo proposito, non sono da prendere seriamente in considerazione, poiché la loro filosofia, quasi in uno stato di innocenza, non aveva ancora avuto chiara consapevolezza dei due più profondi e complessi problemi della filosofia moderna: la libertà di volere e la realtà del mondo esterno (il rapporto tra l’ideale e il reale).

Quanto [poco] avvertito dagli antichi sia stato il problema della libertà di volere, si può ben vedere dalla Etica nicomachea di Aristotele, dove il suo pensiero si limita semplicemente alla libertà fisica e intellettuale. Aristotele parla solo di ˜koÚsion kaˆ ¢koÚsion [ekùsion kài akùsion: voluto e non voluto], dando per scontato che libero e volontario siano la stessa cosa.70

Aristotele non si è neppure posto il problema - ben più difficile - della libertà morale, anche se talvolta arriva a sfiorarlo nei suoi pensieri, in particolare nei paragrafi (II, 2) e (III, 7) della Etica nicomachea, dove comunque cade nell’errore di far dipendere il carattere dalle azioni (invece di fare il contrario). Così pure - in maniera del tutto errata - Aristotele critica l’opinione di Socrate [“Non dipende da noi essere buoni o malvagi”] citata nel precedente paragrafo. Eppure in altri passi Aristotele la fa sua:

“Le qualità naturali, ovviamente, non dipendono da noi, ma per qualche disegno divino toccano ai più fortunati”

e poco più avanti:

“Bisogna dunque che preesista una inclinazione del carattere alla virtù, amante del bene e nemica del male”.71

Questo è in accordo con il passo di Socrate precedentemente citato, e anche con quanto vien detto nella Etica grande (I, 11):

“Chi si è proposto di diventare il migliore, lo diventerà solo se le doti naturali lo soccorrono; in ogni caso, però, progredirà”.72

Nel medesimo senso Aristotele affronta il problema della libertà di volere nella Etica grande (I, 9-18) e nella Etica eudemia (II, 6-10), dove si avvicina ancora di più alla soluzione, nonostante il tutto rimanga vago e superficiale. È il modo consueto di Aristotele di non affrontare direttamente il problema per via analitica [induttiva], ma di procedere per via sintetica [deduttiva] traendo conclusioni da aspetti esteriori del problema.

Invece di darsi da fare per arrivare al nocciolo della questione, Aristotele si sofferma su caratteristiche esterne, talvolta addirittura su semplici parole. Questo metodo genera facilmente confusione e non porta mai al traguardo, quando il problema è abbastanza complesso. Di fronte alla supposta contraddizione tra ‘ciò che è necessario’ e ‘ciò che è voluto’73, Aristotele si ferma come di fronte a un muro.

Per andare oltre bisogna innanzitutto capire che ciò che è voluto, proprio come tale, è necessario a causa del motivo. Senza il motivo un atto di volontà è tanto impossibile quanto senza il soggetto che vuole. Il motivo è una causa efficiente così come una qualsiasi causa meccanica, dalla quale si differenzia solo per qualcosa di non essenziale. Aristotele stesso nella Etica eudemia lo afferma:

“Infatti, il ‘ciò per cui’ è una delle cause”.74

Quindi quella contrapposizione tra volontario e necessario è sostanzialmente falsa, anche se ancora oggi alcuni presunti filosofi si barcamenano come Aristotele su questo punto.

Cicerone, invece, ne Il fato (x e xvii), imposta abbastanza chiaramente il problema della libertà di volere, al quale l’oggetto del suo trattato lo conduce in maniera facile e naturale. Personalmente Cicerone parteggia per la libertà di volere; tuttavia vediamo che già [i protagonisti del dibattito] Crisippo e Diodoro dovrebbero aver preso coscienza, più o meno chiaramente, del problema.

Notevole è anche il trentesimo dei Dialoghi dei morti di Luciano, tra Minosse e Sostrato, il quale nega l’esistenza della libertà di volere e, con essa, della responsabilità [morale].

Il quarto libro dei Maccabei della Bibbia Septuaginta (assente nella Bibbia di Lutero) è già, in una certa misura, un trattato sulla libertà di volere, fintanto che si propone di dimostrare che il logismÒj [loghismòs: ragione] è in grado di superare tutte le passioni e gli affetti, e lo dimostra nel secondo libro tramite i martiri ebrei.

Il più antico - a quanto mi risulta - e chiaro riconoscimento del nostro problema lo troviamo in Clemente Alessandrino, quando dice:

“Se l’anima non fosse libera di assecondare un desiderio o di resistergli, e se le azioni malvagie fossero involontarie, la lode e il rimprovero, l’onore e la punizione sarebbero ingiustificati”.

Dopo un riferimento a cose precedentemente dette, Clemente Alessandrino aggiunge:

“Quindi, da nessun punto di vista Dio è per noi responsabile del male”.75

Quest’ultima conclusione (davvero notevole) mostra in quale senso la Chiesa abbia immediatamente inquadrato il problema e quale decisione si sia affrettata a prendere nel proprio interesse.

Circa 200 anni più tardi troviamo la dottrina della libera volontà ampiamente trattata da Nemesio, nel Sulla natura dell’uomo (c. 35 e 39-41). In questo libro la libertà di volere viene identificata senza esitazione con l’arbitrio o il potere decisionale, quindi sollecitamente affermata e dimostrata. Ciò nonostante, si tratta pur sempre di un accenno al problema.

Una matura e piena coscienza di questo problema, e di tutto quanto vi è connesso, la troviamo innanzitutto in Agostino, il padre della Chiesa, che prenderemo qui in considerazione, anche se egli tratta questo argomento più come teologo che come filosofo. Tuttavia vediamo che su questo tema Agostino manifesta una notevole perplessità e titubanti oscillazioni, che lo portano addirittura a incongruenze e contraddizioni nei suoi tre libri de Il libero arbitrio.

Da un lato Agostino non vuole concedere troppo alla libertà di volere - come invece fa Pelagio, cosicché l’uomo, grazie ad essa potrebbe con le proprie forze diventare giusto e degno di beatitudine - per non compromettere in tal modo le dottrine cristiane del peccato originale, della necessità della redenzione e della grazia divina.

Nelle Ritrattazioni (i, 9) Agostino lascia addirittura intendere che su questi tre temi della controversia con Pelagio - temi che Lutero, in seguito, difenderà con la sua tipica veemenza - egli avrebbe potuto dire ancora di più se i libri de Il libero arbitrio non fossero stati scritti prima della comparsa di Pelagio. Proprio per combattere l’opinione di Pelagio, Agostino ha poi scritto La natura e la grazia. Nel frattempo, nei libri de Il libero arbitrio Agostino dice:

“Ma l’uomo non è buono, e non ha neppure il potere di esserlo, sia perché non vede come dovrebbe essere, e sia perché, anche se lo vedesse, non potrebbe essere come vede che dovrebbe essere ... (Non c’è da meravigliarsi che l’uomo) o per ignoranza non abbia il libero arbitrio con cui scegliere il da farsi secondo ragione, oppure che, per la resistenza della consuetudine carnale - sviluppatasi in un certo senso come un’altra natura, a causa dell’impellente necessità di conservare la specie - egli conosca il da farsi e lo voglia, ma non possa compierlo”.76

E nelle Ritrattazioni:

“Se non intervenisse la grazia divina a liberare la stessa volontà dalla condizione servile che la fa schiava del peccato, e non l’aiutasse a superare i suoi difetti, non sarebbe possibile ai mortali vivere secondo pietà e giustizia”.77

D’altro canto, invece, tre sono le ragioni che lo spingono a difendere la libertà di volere:

1. La sua opposizione ai Manichei, contro i quali i libri de Il libero arbitrio sono espressamente indirizzati. I Manichei, infatti, negano la libertà di volere e sostengono l’esistenza di un’altra sorgente primordiale della malvagità e del male. A loro Agostino allude nell’ultimo capitolo del libro La grandezza dell’anima:

“All’anima è stato dato il libero arbitrio. Vi sono alcuni che con futili dimostrazioni tentano di demolirlo. Sono ciechi al punto di non capire che non potrebbero neanche sostenere tale tesi, inconsistente e sacrilega, senza una volontà autonoma. Tuttavia il libero arbitrio non è stato dato all’anima affinché ecc.”.78

2. Il naturale equivoco - da me evidenziato - secondo il quale l’affermazione ‘io posso fare ciò che voglio’ viene interpretata come libertà di volere, identificando così il concetto di volontario con il concetto di libero.

“Che cosa infatti è così immediato alla volontà, quanto la volontà stessa?”.79

3. La necessità di conciliare la responsabilità morale dell’uomo con la giustizia di Dio. All’acuto intelletto di Agostino non è infatti sfuggita una difficoltà estremamente seria, tanto difficile da risolvere che (a quanto mi risulta) tutti i filosofi successivi - ad eccezione di tre, di cui parleremo tra poco - hanno preferito aggirarla in sordina, come se non esistesse. Agostino invece ne parla apertamente e onestamente proprio nell’introduzione ai libri de Il libero arbitrio:

“Dimmi, ti prego, se Dio non è l’autore del male”.

E di seguito, più diffusamente:

“Una difficoltà però turba il pensiero, e cioè: perché non si debbano quasi immediatamente attribuire a Dio i peccati, se i peccati derivano dalle anime create da Dio e le anime da Dio”.

Al che l’interlocutore replica:

“Hai espresso con chiarezza ciò che turba assai il mio pensiero”.80

Questa considerazione, estremamente problematica, è stata ripresa da Lutero ed evidenziata con la veemenza tipica della sua eloquenza ne Il servo arbitrio:

“ ... ma la stessa ragione naturale è costretta a confessare che Dio, in virtù della sua libertà, deve essere tale da imporre a noi la necessità ... Se si ammette l’onniscienza e l’onnipotenza di Dio, segue naturalmente, come irrefragabile conseguenza, che noi non siamo stati fatti, non viviamo e non facciamo alcunché in virtù di noi stessi, bensì in virtù della sua onnipotenza ... L’onniscienza e l’onnipotenza di Dio cozzano, in maniera diametralmente opposta, con il nostro libero arbitrio ... Come inevitabile conseguenza, tutti gli uomini sono costretti ad ammettere che noi siamo stati fatti non per nostra stessa volontà, ma per necessità, e inoltre che noi non facciamo ciò che a noi piace - grazie al libero arbitrio - bensì ciò che Dio ha previsto e fa, in accordo con il suo infallibile e immutabile giudizio e con la sua potenza”.81

Del tutto pervaso da questa stessa convinzione troviamo, all’inizio del xvii secolo, il Vanini. Essa è il cuore e l’anima della sua ostinata ribellione contro il teismo, anche se astutamente occultata il più possibile, a causa della repressione in quel tempo. In ogni occasione il Vanini ritorna su questo tema, non stancandosi mai di illustrarlo dai più diversi punti di vista. Ad esempio, nel suo Anfiteatro dell’eterna provvidenza dice:

“Se Dio vuole il peccato, allora ne è responsabile. Infatti sta scritto: ‘Egli ha fatto tutto ciò che ha voluto’. Se non lo vuole e tuttavia viene commesso, allora si dovrebbe definire improvvido, o impotente, o crudele, poiché o non sa, o non può, oppure trascura di mantenere la padronanza dei propri desideri … I filosofi, infatti, dicono che se Dio non volesse che si diffondano nel mondo azioni pessime e delittuose, senza dubbio, con un sol cenno, annienterebbe, e bandirebbe ogni infamia fuori dai confini dell’universo. Chi di noi infatti potrebbe resistere alla volontà di Dio? E in che modo si potrebbe commettere un delitto contro la volontà divina, ammesso che nell’atto del peccare Dio fornisca al reo la forza per farlo? E ancora, dicono, se l’uomo cadesse nel peccato contro la volontà di Dio, Dio sarebbe inferiore all’uomo che riesce ad opporsi a Lui e a prevalere su di Lui. Da ciò deducono che Dio desidera questo mondo così come è”.

E più avanti:

“Lo strumento si muove così come è diretto dal suo agente principale. Ora la nostra volontà è, nelle sue azioni, come uno strumento di cui Dio è l’agente principale. Dunque, se essa agisce male, bisogna addossare la responsabilità a Dio ... La volontà umana dipende interamente da Dio, non solo per quanto riguarda il movimento, ma anche per quanto riguarda la sostanza. Dunque non v’è nulla che possa veramente imputarsi ad essa, né a proposito della sostanza, né a proposito dell’agire. Ogni responsabilità ricade su Dio, che ha formato e muove la volontà in questo senso determinato … Poiché l’essenza e il moto della volontà vengono da Dio, a Lui si devono attribuire sia le buone, che le cattive azioni della volontà, se essa è, rispetto a Dio, uno strumento”.82

Nel leggere lo Anfiteatro dell’eterna provvidenza, bisogna tuttavia tener presente che il Vanini adotta costantemente lo stratagemma di esporre, in maniera convincente ed esauriente, il proprio vero pensiero - che lui poi fingerà di aborrire e confutare - tramite un interlocutore avversario. In seguito, parlando a titolo personale, il Vanini replica a quel pensiero (che in realtà è il suo) con delle ragioni superficiali e argomentazioni zoppicanti. Fatto questo, se ne va trionfante tamquam re bene gesta [come se avesse fatto una gran cosa], confidando nella perspicacia del lettore.

Con questa astuzia il Vanini è riuscito a ingannare perfino i sommi dottori della Sorbonne, i quali, prendendo questa simulazione per oro colato, hanno concesso di buon cuore l’imprimatur [autorizzazione di dare alle stampe] ai suoi scritti più atei. Tuttavia tre anni dopo aver concesso l’imprimatur, i dottori della Sorbonne, con una gioia ancor più cordiale, lo hanno visto bruciare vivo sul rogo, non prima che la sua lingua blasfema fosse stata mozzata. Il rogo, in effetti, è l’argomento più convincente a disposizione dei teologi. Purtroppo, da quando è stato loro tolto, le loro quotazioni stanno cadendo sempre più in basso.

Tra i filosofi nel senso stretto della parola, Hume è stato - se non sbaglio - il primo che non abbia glissato sul profondo dubbio sollevato per la prima volta da Agostino. Hume lo espone apertamente, senza menzionare Agostino, Lutero e tantomeno il Vanini, nel suo saggio Sulla libertà e necessità, dove, verso la conclusione, dice:

“Il responsabile finale di tutti i nostri atti di volontà è il creatore del mondo, il quale per primo ha messo in moto questa immensa macchina, e ha posto tutti gli esseri in quella particolare situazione, a causa della quale ogni evento successivo deve avvenire con ferrea necessità. Le azioni umane, quindi, o non sono affatto riprovevoli, poiché procedono da una causa assolutamente giusta, oppure, se hanno qualcosa di sbagliato, coinvolgono nella stessa colpa il nostro Creatore, poiché egli è manifestamente il loro autore e la loro causa prima. Infatti, come chi ha dato fuoco a una miniera è responsabile di tutte le conseguenze che ne derivano - non importa quanto lunga o corta sia stata la miccia utilizzata - così pure, in un concatenamento ininterrotto di cause necessarie, l’Essere - finito o infinito - che innesca la causa prima è anche l’autore di tutto il resto”.83

Hume tenta poi di risolvere questo problema, ma alla fine ammette di ritenerlo insolubile.

Anche Kant, nella Critica della ragion pratica, indipendentemente dai suoi predecessori inciampa in questa vera e propria pietra dello scandalo:

“Sembra proprio che, se si assumesse che Dio, come Essere primario universale, sia anche la causa dell’esistenza della sostanza, si dovrebbe anche ammettere che le azioni dell’uomo hanno in quell’Essere supremo la loro ragione determinante. Questa ragione - che sta completamente al di sopra del potere umano - consiste nella causalità proveniente da un Essere supremo, ben distinto dall’uomo, dal quale dipende completamente l’esistenza dell’uomo stesso e l’intera determinazione della causalità, a cui l’uomo è soggetto.

L’uomo sarebbe un automa di Vaucançon, costruito e caricato dal sommo orefice. È vero che l’autocoscienza lo farebbe assomigliare a un automa pensante, tuttavia la coscienza della propria spontaneità, nel caso venisse scambiata per libertà, sarebbe una semplice illusione. Essa merita piuttosto di essere definita come libertà relativa, poiché le cause immediate che determinano il movimento, assieme alla lunga serie di movimenti e di cause determinanti precedenti, giacciono certamente al proprio interno, ma la causa prima, all’inizio della serie, sta completamente fuori, nelle mani di un altro”.84

Kant tenta poi di rimuovere questa difficoltà tramite la distinzione tra ‘cosa in sé’ e ‘fenomeno’. Tuttavia, anche con questa distinzione il problema rimane sostanzialmente immutato [se si ammette che tutto sia stato creato da Dio], cosicché sono convinto che Kant non abbia seriamente creduto in questo suo tentativo di soluzione. Anzi, Kant stesso ammette l’insufficienza della propria soluzione, quando aggiunge che:

“Esiste forse un’altra soluzione, più facile e comprensibile, che qualcun altro abbia proposto o voglia proporre? Si dovrebbe piuttosto dire che i maestri dogmatici di metafisica hanno mostrato più la loro furbizia, che la loro correttezza, con il distogliere il proprio sguardo il più possibile da questo difficile problema, sperando nel fatto che, non parlandone, probabilmente nessuno ci avrebbe pensato”.

Dopo questa raccolta, degna della massima attenzione, delle voci più eterogenee che unanimemente affermano la medesima cosa, ritorniamo al nostro padre della Chiesa.

Le argomentazioni con cui Agostino spera di liquidare quel dubbio tormentoso [“Dimmi, ti prego, se Dio non è l’autore del male”] da lui percepito in tutta la sua gravità, sono teologiche, non filosofiche. La loro validità, quindi, è condizionata [dalla fede]. Sostenere queste argomentazioni è il terzo dei motivi, precedentemente ricordati, che spingono Agostino a cercare di difendere la tesi del libero arbitrio, il quale sarebbe stato donato da Dio all’uomo.

Infatti, un libero arbitrio che si collocasse tra il Creatore e i peccati della propria creatura, separando uno dall’altro, sarebbe più che sufficiente per liquidare quel dubbio. Tuttavia lo sarebbe solo se il concetto di libero arbitrio - dopo un serio e approfondito esame - fosse perlomeno pensabile, così come è facile da esprimere a parole e per quanto possa soddisfare un cervello che non va oltre le semplici parole.

Ma è mai possibile immaginare un essere, la cui intera existentia ed essentia è opera di un altro, il quale ciò nonostante è in grado, fin dal primo momento, di determinare radicalmente sè stesso, diventando quindi responsabile delle proprie azioni?

Il principio operari sequitur esse [l’operare è conseguenza dell’essere] afferma che le azioni di ogni essere derivano dalla sua natura. È un principio inattaccabile, che butta a gambe all’aria il concetto di libero arbitrio, poichè se un uomo è malvagio si comporterà male.

Da questo principio deriva il corollario: ergo unde esse, inde operari [dunque, da dove proviene l’essere, da lì proviene anche l’operare]. Che cosa dovremmo dire di un orologiaio il quale se la prende con l’orologio che lui stesso ha costruito perché non funziona bene?

Anche se si volesse paragonare il volere a una tabula rasa, non si potrebbe fare a meno di ammettere che, ad esempio, quando una persona si comporta dal punto di vista morale in maniera diametralmente opposta ad un’altra, questa differenza - che deve pure aver una qualche origine - deve essere attribuita o alle circostanze esterne (ed in questo caso, evidentemente, l’uomo non sarebbe colpevole) oppure a una originale diversità della loro volontà. Ma in questo secondo caso alla persona non spetterebbe né la colpa né il merito, se il proprio intero essere fosse l’opera di un altro Essere supremo.

Dopo che i suddetti grandi uomini si sono sforzati invano di trovare un’uscita da questo labirinto, non esito ad ammettere che, anche per me, la responsabilità morale della volontà umana senza aseità [la condizione di un essere che ha in sé stesso la propria ragione di esistere] è un concetto che va ben oltre la mia capacità di intendere. Senza dubbio è stata questa mia stessa incapacità a dettare la settima delle otto definizioni, con le quali Spinoza apre la sua Etica:

“Libero è quell’ente, che esiste solamente per propria naturale necessità e che autonomamente determina le proprie azioni. Necessario, o meglio coatto, è quell’ente la cui esistenza, e le cui azioni, sono determinate da un altro ente, secondo un criterio rigido e ben definito”.85

In effetti, se una cattiva azione scaturisse dalla natura dell’uomo - ossia dalla sua innata costituzione - la colpa ricadrebbe evidentemente sul Creatore di quella natura. Di conseguenza si è provveduto a inventare il libero arbitrio.

Ma anche se si ammettesse l’esistenza del libero arbitrio, non si riuscirebbe semplicemente a capire da dove debba scaturire l’azione.

Il libero arbitrio, infatti, è solo una proprietà passiva, poiché esso afferma semplicemente che nulla costringe, od ostacola, l’uomo ad agire in un determinato modo invece che in un altro. Quindi continuerebbe a non essere chiaro da dove, in fin dei conti, dovrebbe scaturire l’azione. Questa infatti non potrebbe scaturire dalla natura innata o acquisita dell’uomo, altrimenti finirebbe a carico del Creatore. Ma non potrebbe neppure dipendere dalle circostanze esterne, altrimenti andrebbe attribuita al caso. In entrambi i casi l’uomo non avrebbe alcuna colpa, eppure lo si dichiara responsabile.

L’immagine appropriata di una libera volontà è quella di una bilancia vuota, che se ne sta tranquillamente nella posizione di equilibrio finché non viene posto un peso su uno dei piatti. Esattamente come una simile bilancia non entrerà mai spontaneamente in moto, così pure la libera volontà non produrrà mai spontaneamente alcuna azione, poiché dal nulla non deriva che il nulla.

Se la bilancia si abbassa da un lato, deve essere stato posto sopra quel piatto un corpo estraneo, il quale è la causa del movimento. Analogamente un’azione umana deve essere provocata da qualcosa che agisce attivamente, qualcosa di più che una libertà semplicemente passiva.

Questo può succedere solo in due casi. Nel primo, l’azione è provocata dai motivi stessi, ossia dalle circostanze esterne. In questo caso l’uomo non sarebbe evidentemente responsabile dell’azione, e inoltre tutti gli uomini, nelle medesime circostanze, dovrebbero agire esattamente nello stesso modo.

Nel secondo caso, l’azione scaturisce dalla suscettibilità personale nei confronti dei motivi, quindi dal carattere innato, ossia dalle inclinazioni personali che l’uomo possiede dalla nascita, le quali possono essere diverse in individui diversi e grazie alle quali i motivi hanno effetto. Ma in questo secondo caso la volontà non sarebbe più libera, poiché le inclinazioni personali sarebbero il peso posto sul piatto della bilancia. La responsabilità ricadrebbe allora su colui che ve le ha poste, su chi ha creato quell’uomo con quelle inclinazioni.

In definitiva, l’uomo sarebbe responsabile delle proprie azioni solo nel caso in cui egli fosse opera di sè stesso, ossia se fosse dotato di aseità.

Se inquadriamo il problema da questo punto di vista possiamo ben comprendere quale è il ruolo fondamentale della libertà di volere: aprire un opportuno abisso tra il Creatore e i peccati della sua creatura. Possiamo quindi capire perché i teologi vi si aggrappano con tanta ostinazione e perché i loro scudieri (i professori di filosofia), ligi al proprio dovere, la sostengono con tanto zelo, da rimanere ciechi e sordi di fronte alle azzeccatissime controprove presentate dai grandi pensatori. Loro invece insistono sulla libera volontà e per essa combattono come pro ara et focis [per la casa e il focolare].

Per concludere definitivamente il discorso lasciato in sospeso su Agostino, la sua opinione è che l’uomo abbia effettivamente goduto di una volontà assolutamente libera solo prima di commettere il peccato originale. In seguito, vittima di questo peccato, l’uomo può sperare nella salvezza solo tramite la redenzione e la grazia divina. Una affermazione come si conviene a un padre della Chiesa.

Nel frattempo, grazie ad Agostino e alle sue polemiche con i manichei e i pelagiani, la filosofia si è destata e ha preso coscienza di questo problema. Da Agostino in poi, grazie agli scolastici, questa consapevolezza divenne sempre più chiara, come testimoniano il paradosso di Buridano e il sopra citato passo di Dante.

A quanto risulta, il primo ad andare al fondo del problema della libertà di volere è stato Hobbes, del quale nel 1656 è apparso il libro (ora piuttosto raro) Le questioni concernenti la libertà, la necessità e il caso, espressamente dedicato a questo tema, dal quale riporto alcuni passi principali:

“Nulla ha inizio di per sé, ma per l’azione di qualche altro agente immediato e autonomo. Di conseguenza, se ora un uomo desidera o vuole qualcosa che un momento prima non desiderava né voleva, la causa del suo volere non è la volontà stessa, bensì qualcos’altro, che non dipende da lui. Poiché la volontà è, senza dubbio, la causa necessaria delle azioni volontarie, e poiché la volontà viene necessariamente determinata da altre cose che non dipendono da lei, ne risulta che ogni azione volontaria ha una causa necessaria, quindi avviene per necessità.

Una causa è sufficiente quando non le manca nulla di ciò che è indispensabile per produrre l’effetto. Una causa sufficiente è anche necessaria [ossia, non può che produrre l’effetto poichè non può essere altrimenti]. Infatti, se una causa sufficiente non avesse effetto le mancherebbe qualcosa di indispensabile per produrlo ed essa non sarebbe sufficiente. Poiché è impossibile che una causa sufficiente non abbia effetto, una causa sufficiente è anche necessaria. È quindi evidente che qualunque cosa viene prodotta, viene prodotta necessariamente. Infatti qualunque cosa viene prodotta ha avuto una causa sufficiente che l’ha prodotta, altrimenti non lo sarebbe stata. Pertanto anche le azioni volontarie avvengono necessariamente.

La definizione consueta di agente libero - secondo la quale esso potrebbe non produrre alcun effetto nonostante abbia tutti i requisiti necessari per farlo - implica una contraddizione ed è un nonsenso. Essa equivale, infatti, a dire che una causa può essere sufficiente, ossia necessaria, senza tuttavia essere seguita da alcun effetto.

Ogni accidente, per quanto contingente possa sembrare o per quanto volontario sia, avviene necessariamente”.86

Nel suo famoso libro Il cittadino Hobbes dice:

“Ogni uomo è portato a desiderare ciò che per lui è bene e a fuggire ciò che per lui è male. In particolare, il massimo dei mali naturali: la morte. E questo egli lo fa con una necessità non minore di quella con cui una pietra è attratta verso il basso”.87

Subito dopo Hobbes troviamo Spinoza pervaso dalla medesima convinzione. Per riassumere il pensiero di Spinoza su questo tema citerò alcuni passi:

“Non si può dire che la volontà sia una causa libera, ma solo che è una causa necessaria. Infatti la volontà, come tutto il resto, ha bisogno di una causa che la determini in modo univoco per esistere e operare.

Riguardo alla quarta obiezione (l’asino di Buridano) non esito ad affermare che un uomo, posto in quello stato di equilibrio (nella condizione appunto di non percepire altro che la sete e la fame, e quel cibo e quella bevanda posti alla stessa distanza da lui) morirebbe di fame e di sete.

Le decisioni della mente sorgono nella mente stessa con la medesima necessità con cui sorgono le idee delle cose che esistono di fatto. Pertanto coloro che credono di parlare, o di tacere, o di fare qualcosa in seguito a una libera determinazione della propria mente, stanno sognando ad occhi aperti.

Qualsiasi cosa è necessariamente determinata, nella propria esistenza e nelle proprie azioni, da qualche causa esterna. Ad esempio, immaginate una pietra che, per l’impulso esercitato da una causa esterna, riceve una certa quantità di moto, grazie alla quale essa continua necessariamente a muoversi, anche dopo che l’impulso della forza esterna è cessato. Immaginate poi che la pietra, mentre continua a muoversi, sia capace di pensare e sia consapevole di stare tentando, il più possibile, di continuare a muoversi. Questa pietra, essendo consapevole solo del proprio sforzo ma non del resto, crederà di essere assolutamente libera e di continuare nel movimento non per effetto di un’altra causa, ma perché è lei stessa che lo vuole.

Proprio questa è quella libertà dell’uomo che tutti si vantano di possedere. Essa consiste solo nel fatto che l’uomo è consapevole dei propri desideri, ma ignaro delle cause che li determinano. Questa è l’esposizione esauriente della mia opinione riguardo alla necessità libera e coatta, e anche riguardo alla cosiddetta libertà dell’uomo”.88

È notevole il fatto che Spinoza sia giunto a comprendere questa verità solo nei suoi ultimi anni (ossia, dopo i quaranta), mentre prima, quando era ancora un cartesiano, aveva decisamente e animosamente difeso la tesi opposta, addirittura in contraddizione con il sopra citato passo riguardo al sofisma di Buridano. Infatti, nel 1665 aveva scritto:

“Se in tale condizione di equilibrio ponessimo un uomo al posto dell’asino, quell’uomo, nel caso morisse di fame e di sete, dovrebbe essere considerato non un essere pensante bensì il più turpe degli asini”.89

In seguito avrò modo di riportare un analogo cambiamento di opinione e di insegnamento da parte di due altri grandi uomini. Questo dimostra quanto difficile e profonda sia l’esatta comprensione del nostro problema.

Nel saggio Sulla libertà e necessità - del quale ho già citato un passo - Hume afferma, con il più limpido convincimento, la necessità del singolo atto di volontà in seguito a un determinato motivo e la illustra con il massimo della chiarezza nel suo stile comprensibile a tutti. Hume dice:

“La connessione tra motivi e azioni volontarie sembra essere altrettanto regolare e uniforme quanto quella tra causa ed effetto in qualsiasi evento naturale”.

E un poco più avanti:

“Sembra quindi impossibile occuparsi di cose scientifiche, o di azioni di qualunque tipo, senza riconoscere il principio della necessità e la inferenza dai motivi alle azioni volontarie, dal carattere al comportamento”.90

Ma nessun scrittore ha dimostrato in maniera così esauriente e convincente la necessità degli atti di volontà come Priestley nel suo La dottrina della necessità filosofica, un libro esclusivamente dedicato a questo tema. Chi non viene convinto da questo libro, scritto in maniera estremamente chiara e comprensibile, deve avere davvero un intelletto paralizzato dai pregiudizi. Per riassumere i suoi risultati citerò alcuni passi:

“Mi sembra che non esista un’assurdità più evidente del concetto di libertà filosofica. Senza un miracolo o l’intervento di qualche causa esterna, nessun atto di volontà e nessuna azione di qualsiasi uomo avrebbe potuto essere diversa da come è stata.

Nonostante un’inclinazione dell’animo o una emozione psichica non rientrino nel campo della gravità, tuttavia esse mi influenzano e agiscono su di me in una maniera così certa e necessaria, come la gravità su una pietra.

L’affermazione che la volontà si determina da sola, è priva di significato, o meglio, contiene la contraddizione: ‘una determinazione (ossia un effetto) avviene senza alcuna causa’. Infatti, se escludiamo tutto ciò che si intende per motivo, non rimane proprio nulla per produrre quella determinazione.

Usate pure le parole che preferite, ma il concetto che un uomo possa essere determinato talvolta da motivi e talvolta no, non potrete mai descriverlo diversamente dal fatto che il piatto di una bilancia possa essere spinto verso il basso talvolta da un peso e talvolta, invece, da una fantomatica sostanza senza peso, la quale, qualunque cosa possa essere, per la bilancia deve essere proprio nulla.

In un linguaggio filosofico appropriato, il motivo dovrebbe essere denominato ‘causa propria dell’azione’. Esso ha le stesse proprietà di qualunque cosa che in natura è la causa di un’altra.

Non avremo mai la possibilità di fare due differenti scelte quando tutte le condizioni al contorno sono esattamente le stesse.

Certo, quando un uomo rimprovera a sé stesso un’azione compiuta nel passato, potrebbe pensare che trovandosi di nuovo nella medesima situazione agirebbe diversamente. Ma è una pura illusione. Infatti, se egli esaminasse rigorosamente sé stesso e prendesse in considerazione tutte le circostanze, potrebbe rendersi conto che - nella medesima disposizione d’animo e con la stessa visione delle cose che aveva allora, escludendo tutte le altre che ha acquisito in seguito tramite la riflessione - non avrebbe potuto agire diversamente da come ha agito.

Insomma, in questo campo non c’è alternativa: o la dottrina della necessità oppure l’assoluto nonsenso”.91

Bisogna notare che a Priestley è andata esattamente come a Spinoza e a un altro grand’uomo di cui parleremo più avanti. Infatti, nella prefazione alla prima edizione, Priestley dice:

“Non mi sono facilmente convertito alla teoria della necessità. Come il Dr Hartley anch’io ho rinunciato con grande riluttanza alla mia libertà. In una lunga corrispondenza, che ho avuto tempo fa su questo tema, ho difeso strenuamente la teoria della libertà e non mi sono affatto arreso agli argomenti che allora mi venivano opposti”.92

Il terzo grande uomo a cui è andata nel medesimo modo è Voltaire, il quale racconta questa vicissitudine con la sua tipica amabilità e spontanea sincerità. In effetti, nel suo Trattato di metafisica (1734) aveva diffusamente e animatamente difeso la cosiddetta libertà di volere. Solo nel libro Il filosofo ignorante, scritto trent’anni più tardi (1766), Voltaire sostiene la ferrea necessità degli atti di volontà:

“Archimede resta necessariamente nella sua stanza, sia quando lo si chiude dentro, sia quando è talmente preso da un problema da non pensare neppure ad uscire. Ducunt fata volentem, nolentem trahunt [il fato conduce chi lo vuole e trascina chi non lo vuole assecondare]. L’uomo ignaro, che arriva a convincersi di questa cosa, non ha sempre pensato in questo modo, ma alla fine è costretto ad arrendersi”.93

E nel libro successivo Il principio di azione Voltaire ribadisce:

“La boccia che urta e mette in moto un’altra, il cane da caccia che insegue un cervo perché lo deve e perché lo vuole inseguire, e il cervo che con altrettanta volontà e necessità salta un largo fossato. Tutto questo non è più inesorabilmente determinato di quanto lo siamo noi in tutto ciò che facciamo”.94

Questo identico cambiamento di opinione di tre eminenti pensatori, a favore della nostra tesi, deve certamente stupire chiunque si accinga a confutare una verità ben fondata con quell’affermazione - del tutto fuori luogo - della sua autocoscienza ingenua: “Io posso fare ciò che voglio”.

Dati questi suoi immediati predecessori, non dobbiamo meravigliarci che Kant abbia considerato la necessità, con la quale il carattere empirico viene determinato all’azione dai motivi, come un dato di fatto per sé e per gli altri, e non abbia perso tempo per dimostrarla di nuovo. Kant inizia il suo saggio Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico (1784) con questa frase:

“Qualunque possa essere, anche dal punto di vista metafisico, il proprio concetto di libertà di volere, rimane il fatto che i suoi fenomeni - le azioni umane - sono determinate da leggi universali naturali esattamente come qualsiasi altro fenomeno naturale”.

Nella Critica della ragion pura (p. 548, i Ed.; p. 577, v Ed.) Kant dice:

“Il carattere empirico stesso deve essere dedotto, come effetto, dai fenomeni e dalla loro regola che l’esperienza ci offre, poiché tutte le azioni dell’uomo, in quanto fenomeni, sono determinate, in conformità all’ordine naturale, dal suo carattere empirico e dalle altre cause concomitanti.

Se potessimo indagare fino in fondo tutte le manifestazioni del suo arbitrio, troveremmo che ogni azione dell’uomo potrebbe essere prevista con certezza e riconosciuta come necessariamente determinata dalle condizioni che la precedono.

Quindi, dal punto di vista del carattere empirico non esiste alcuna libertà, e se volessimo semplicemente osservare e ricercare - come fa l’antropologia - le cause che muovono l’uomo partendo dalle sue azioni, potremmo considerare l’uomo proprio in base al suo carattere empirico”.

E più avanti (p. 798, i Ed.) e (p. 826, v Ed.):

“La volontà può anche essere libera, ma questo riguarda solo il carattere intelligibile95 del nostro volere. Invece, per quanto concerne i fenomeni in cui la volontà si manifesta (le azioni), noi non possiamo mai spiegarli in maniera diversa da come spieghiamo qualunque altro fenomeno della natura, ossia in base alle immutabili leggi della natura stessa, secondo un principio fondamentale inviolabile, senza il quale non potremmo esercitare alcun uso pratico della ragione”.

Rincarando la dose, nella Critica della ragion pratica (p. 177, iv ed.; p. 230, ed. Rosenkranz) Kant dice:

“Se potessimo conoscere il modo di pensare [il carattere empirico] di un determinato uomo - così come esso si manifesta nelle sue azioni interne ed esterne - tanto in profondità da scoprire anche le più minuscole molle di spinta, e se, allo stesso tempo, potessimo anche conoscere tutte le circostanze esterne che su di lui influiscono, potremmo calcolare il comportamento futuro di quel determinato uomo con la stessa certezza con cui calcoliamo le eclissi del sole e della luna”.

Kant giustifica queste sue affermazioni con dottrina della coesistenza della libertà e della necessità, tramite la distinzione tra il carattere intelligibile e il carattere empirico. In seguito ritornerò su questa concezione, che io condivido pienamente. Kant ha esposto due volte questa dottrina nella Critica della ragion pura (p. 532-554, i Ed.; p. 560-582, iv Ed.; p. 224-231, Ed. Rosenkranz). Chi volesse comprendere a fondo la compatibilità tra la libertà e la necessità delle azioni umane dovrebbe leggere questi passi, che sono il frutto di un pensiero estremamente profondo.

Fino a questo punto il mio metodo di affrontare il problema [della libertà di volere] si differenzia da quello di tutti questi nobili e degnissimi predecessori soprattutto per due aspetti.

Il primo, nell’aver nettamente separato - come indicato nel quesito del concorso - la consapevole percezione interiore della volontà (autocoscienza) da quella esteriore (coscienza delle altre cose) e di averle trattate separatamente. In questo modo è stato possibile smascherare (per la prima volta) la sorgente di quell’illusione [io posso fare ciò che voglio = libertà di volere] così incredibilmente tenace per la maggior parte degli uomini.

Il secondo, nell’aver considerato la volontà umana in rapporto con tutto il resto della natura (cosa che nessun altro ha fatto prima di me). Questo approccio ha consentito di dibattere il problema con tutta la profondità, comprensione metodica ed esaustività che gli compete.

Ed ora due parole su alcuni scrittori, successivi a Kant, che hanno pubblicato qualcosa al riguardo, ma che io non considero miei predecessori.

Riguardo alla sopra lodata ed estremamente importante dottrina kantiana del carattere intelligibile ed empirico, Schelling ha fornito una parafrasi esplicativa [spiegazione con parole più semplici] nel trattato Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (p. 465-471). Grazie al suo stile vivace e colorito, la parafrasi scritta da Schelling può servire, per rendere questa dottrina comprensibile a parecchie persone, più di quanto riesca a fare la secca esposizione fatta da Kant.

Ma contemporaneamente non posso ricordarla senza rimproverare a Schelling - a onore della verità e di Kant - di non dire esplicitamente che la dottrina esposta (una delle più importanti e degne di ammirazione, anzi, secondo me, la dottrina di Kant dal significato più profondo) appartiene esclusivamente a Kant. Rimprovero anche a Schelling di esprimersi in maniera tale da indurre la maggior parte dei suoi lettori, che non ha ben presente il contenuto della vasta e difficile opera di quel grande uomo, a credere di stare leggendo un pensiero originale di Schelling.

Voglio ora mostrare, con una testimonianza tra le tante, quanto successo abbia corrisposto a questo suo proposito. Ancora oggi un giovane professore di filosofia di Halle, il signor Johann Erdmann, nel suo libro Corpo e anima, (1837 ) dice:

“Se anche Leibniz, analogamente a quanto fa Schelling nel suo trattato sulla libertà, ammette che l’anima sia determinata fin dall’inizio, ecc.”.

Su questo tema Schelling sta rispetto a Kant come Amerigo sta a Colombo, ossia la scoperta che l’altro ha fatto viene etichettata con il proprio nome. Ma Schelling deve ringraziare la propria astuzia, non il caso. Infatti, nel suo trattato (p. 465) Schelling così esordisce:

“È stato l’idealismo il primo ad innalzare la dottrina della libertà in quell’ambito, ecc.”

e di seguito viene direttamente riportato il pensiero di Kant.

In questo passo, invece di citare onestamente il nome di Kant, Schelling astutamente parla di idealismo, una termine con più significati, con il quale comunemente si intende la prima filosofia fichtiana di Schelling e quella di Fichte stesso, non certo la dottrina di Kant. Kant, infatti, ha protestato contro la denominazione di idealismo affibbiata alla sua filosofia - ad esempio, nei Prolegomeni (p. 51) e nella Critica della ragion pura (Ed. Rosenkranz, p. 155) - e ha addirittura inserito, nella seconda edizione della Critica della ragion pura (p. 274) un paragrafo dedicato alla confutazione dell’idealismo.

Nella pagina successiva, in una frase secondaria e con molta accortezza, Schelling fa un accenno al ‘concetto kantiano’, proprio per placare quei lettori che ben sanno, che ciò che Schelling sta pomposamente spacciando come merce propria appartiene, in realtà, a Kant. Ma poi (p. 472) - alla faccia della verità e della giustizia - Schelling afferma che Kant non si sarebbe spinto fino a quella visione della teoria. Invece, in quei due passi immortali che io ho raccomandato di leggere, ognuno può chiaramente constatare che questa visione della dottrina spetta originalmente ed esclusivamente a Kant, senza il quale neppure un altro migliaio di teste, come quelle dei signori Fichte e Schelling, sarebbero mai riuscite a concepirla.

Avendo dovuto parlare del trattato di Schelling, non ho potuto tacere su questo punto, per adempiere così il mio dovere nei confronti di quel grande maestro dell’umanità, il quale - unico insieme a Goethe - costituisce giustamente l’orgoglio della nazione tedesca, e per rivendicare a Kant ciò che indiscutibilmente a lui solo appartiene. Questa è una precisazione oltremodo opportuna, soprattutto in un’epoca dove vige davvero il detto di Goethe:

“Le bande di monelli sono i padroni della strada”.

Oltretutto Schelling, nel suo trattato, ha anche avuto la sfrontatezza di fare propri i pensieri, anzi, le parole di Jakob Böhme senza citare la fonte originale.

Oltre alla parafrasi del pensiero di Kant, in questo trattato di Schelling non c’è altro che possa essere utilizzato per acquisire nuovi o fondamentali chiarimenti riguardo alla libertà. Questo vuoto si annuncia già all’inizio del suo trattato dove compare la definizione della libertà come ‘facoltà di distinguere il bene dal male’.

Per il catechismo una simile definizione potrebbe anche andar bene, ma in filosofia essa non dice nulla, poiché partendo da una simile definizione non si può fare alcun passo in avanti. Il bene e il male, infatti, sono ben lontani dall’essere notiones semplices [concetti semplici] che di per sé non hanno bisogno di alcun chiarimento, precisazione e fondamento.

Solo una piccola parte di quel trattato affronta il problema della libertà. Il contenuto principale è piuttosto un dettagliato racconto riguardo a un Dio, che il signor autore lascia intendere di conoscere intimamente, dal momento che ci descrive addirittura come Dio è sorto. Peccato però che Schelling non dica una sola parola su come egli abbia potuto acquisire una simile conoscenza. L’inizio del trattato è poi un intreccio di sofismi, la cui superficialità risulta evidente a chiunque non si lasci intimorire dalla baldanza del tono della voce.

Grazie a questa e ad analoghe produzioni, da allora nella filosofia tedesca sono subentrati, al posto dei concetti chiari e di una ricerca onesta, la ‘intuizione intellettuale’ e il ‘pensiero assoluto’. Impressionare, sorprendere, mistificare, gettare sabbia negli occhi del lettore con concetti artificiosi di ogni tipo: questa è diventata la prassi. Al posto della comprensione è regolarmente l’intenzione a condurre il discorso.

Con tutto questo la filosofia (se così ancora vogliamo chiamarla) ha dovuto cadere sempre più in basso fino a raggiungere l’infimo gradino nella creatura ministeriale Hegel. Questi, per soffocare di nuovo la libertà di pensiero conquistata grazie a Kant, ha ridotto la filosofia - la figlia della ragione e la futura madre della verità - a strumento dei fini dello Stato, dell’oscurantismo e del gesuitismo protestante.

Per nascondere una simile vergogna e per conseguire allo stesso tempo il maggior ottenebramento possibile delle teste, Hegel vi ha gettato sopra il mantello di un ciarpame di parole vuote e della più insulsa gallimatia [chiacchiericcio insensato e vano]96 che siano mai state udite, perlomeno al di fuori di un manicomio.

In Inghilterra e in Francia la filosofia, nel complesso, è rimasta ancora al punto dove Locke e Condillac l’hanno lasciata. Maine de Biran (definito dal suo editore, il signor Victor Cousin: «il primo metafisico francese dei miei tempi») nel suo trattato Nuove considerazioni sui rapporti tra l’aspetto fisico e morale dell’uomo (1834) mostra di essere un fanatico sostenitore del liberum arbitrium indifferentiae, che lui considera come una cosa che si capisce perfettamente da sé.

Non la pensano diversamente parecchi scribacchini di filosofia tedeschi degli ultimi tempi. Per loro il liberum arbitrium indifferentiae, sotto il nome di ‘libertà morale’, è cosa fatta, come se tutti quei grandi uomini, precedentemente citati, non fossero mai esistiti. Questi scribacchini proclamano che la libertà di volere è immediatamente data nell’autocoscienza ed è così incrollabilmente salda, che ogni argomento contro di essa non può essere altro che un sofisma. Questa loro sublime certezza scaturisce semplicemente dal fatto che questa buona gente non sa assolutamente cosa significhi ‘libertà di volere’.

Nella loro innocenza, per libertà di volere non intendono altro che il dominio della volontà sulle membra del corpo (come si è visto nel paragrafo ii). Ma di questo tipo di libertà - la cui espressione è proprio quello: Io posso fare ciò che voglio - nessuna persona ragionevole ha mai dubitato. Ciò nonostante loro sostengono sinceramente che questa sarebbe la libertà di volere e ribadiscono che essa sta al di sopra di qualsiasi dubbio.

Si trovano proprio in quello stato di innocenza in cui, dopo così tanti e grandi predecessori, la filosofia di Hegel ha retrocesso lo spirito del pensiero tedesco. Gente di questa pasta si potrebbe giustamente così apostrofare:

“Siete forse come quelle donnicciole che ritornano sempre alla loro prima affermazione anche dopo che per ore si è ragionato con loro?”.97

Per parecchi di loro i motivi teologici, a cui abbiamo accennato in precedenza, potrebbero esercitare inconsciamente qualche effetto. Anche gli scrittori di medicina, zoologia, storia, politica e belletristica [letteratura amena] dei nostri giorni, con quanto piacere colgono ogni occasione per menzionare la ‘libertà dell’uomo’ e la ‘libertà morale’!

Così facendo credono di dire gran cosa, ma si guardano bene dal dare una spiegazione di quei concetti. Eppure, se potessimo indagare su di loro, scopriremmo che queste persone riguardo alla libertà di volere non pensano proprio nulla, oppure che pensano ancora al vecchio, onesto e arcinoto liberum arbitrium indifferentiae, qualunque possano essere le eccellenti perifrasi con cui tentano di camuffarlo. Questo è un concetto della cui inammissibilità non si riuscirà mai a convincere la grande massa; tuttavia le persone istruite dovrebbero ben guardarsi dal parlarne con tanta ingenuità.

Tra loro ci sono poi anche dei codardi molto divertenti i quali, non avendo il coraggio di parlare di ‘libertà di volere’, per fare bella figura parlano di ‘libertà dello spirito’, sperando così di aver aggirato l’ostacolo. Cosa loro intendano per ‘libertà dello spirito’ posso, per fortuna, spiegarlo io al lettore che, con uno sguardo perplesso, mi rivolge una simile domanda. Nulla, loro non ne pensano assolutamente nulla! Ma secondo le buone consuetudini tedesche, proprio un’espressione del tutto indeterminata, anzi, un’espressione che non dice assolutamente nulla, è ciò che fornisce alla loro vacuità e viltà l’agognato pretesto per svignarsela.

La parola ‘spirito’ è in realtà un’espressione tropica [dal significato mutevole] la quale indica in generale le facoltà intellettuali che si differenziano dalla volontà. Tuttavia queste facoltà non sono affatto libere nella loro attuazione, ma devono innanzitutto adeguarsi, conformarsi e sottomettersi alle regole della logica, e poi, di volta in volta, all’oggetto del loro conoscere, per poterlo comprendere puramente, quindi oggettivamente, cosicché non si dica mai: stat pro ratione voluntas [la volontà è assurta a ragione].

In generale questo Geist [spirito], che al giorno d’oggi gironzola dappertutto nella letteratura tedesca, è una figura molto sospetta, ed è quindi opportuno, ogni volta che lo si incontra, chiedere il suo salvacondotto. La sua più frequente attività, infatti, è servire da maschera alla povertà di pensiero in combutta con la viltà. Oltretutto la parola Geist [spirito] è notoriamente imparentata con la parola Gas, che trae origine dall’arabo e dall’alchimia, e che significa vapore o aria, ma anche spiritus, pneuma [pneuma: spirito] e animus (a sua volta imparentato con anemoj [anemos: vento]).

Per quanto riguarda il nostro tema le cose stanno come abbiamo precedentemente detto, sia nel mondo filosofico e sia in quello culturale più ampio, dopo tutto quello che i suddetti grandi pensatori ci hanno insegnato al riguardo. Questa è un’ulteriore conferma che non solo la natura in tutti i tempi ha prodotto - come rare eccezioni - pochissime persone che sanno veramente pensare, ma anche che, in ogni tempo, questi pochissimi sono esistiti solo per pochi altri. Proprio per questo l’illusione e l’errore continuano a dominare.

Nel campo morale è molto importante anche la testimonianza dei grandi poeti. Questi non parlano in seguito a una ricerca sistematica, eppure per il loro sguardo penetrante la natura umana è un libro aperto. Per questo ciò che loro dicono coglie direttamente la verità.

Nella tragedia Misura per misura di Shakespeare, Isabella chiede al supplente del re, Angelo, la grazia per il fratello condannato a morte:

Angelo: Non lo farò.

Isabella: Ma potreste farlo, se lo voleste?

Angelo: Guardate, non posso fare ciò che non voglio.98

Nella Dodicesima notte si dice:

“Fato, mostra la tua forza. Noi non siamo padroni di noi stessi. Ciò che è stato decretato deve accadere, e così sia”.99

Anche Walter Scott, grande conoscitore e pittore del cuore umano e dei suoi moti più segreti, ha messo chiaramente in luce quella verità così profondamente radicata. Nel suo Il pozzo di San Ronan, Scott ci presenta una peccatrice pentita e moribonda, che sul letto di morte cerca, confessandosi, di alleviare la propria coscienza angosciata e nel bel mezzo di questa confessione le fa dire:

“Andate, abbandonatemi al mio destino. Io sono la persona più miserabile e detestabile che sia mai esistita, e quel che è peggio, detestabile a me stessa. Anche nella mia attuale penitenza, infatti, una voce segreta mi dice che, se ora io fossi come ero, rifarei di nuovo tutte le malvagità che ho commesso in passato, anzi ne farei di peggio. Che il cielo mi aiuti a soffocare questo pensiero perverso!”.100

Una conferma di questa verità descritta poeticamente da Scott ce la fornisce la seguente analoga vicenda, la quale conferma anche al massimo grado la dottrina della costanza del carattere. La notizia è rimbalzata dal giornale francese La Presse al Times del 2 luglio 1845 , dal quale la traduco.

Titolo: Esecuzione militare a Oran. «Il 24 marzo lo spagnolo Aguilar, alias Gomez, è stato condannato a morte. Il giorno dell’esecuzione, parlando con il capo delle guardie, disse: “Io non sono così colpevole come mi hanno descritto. Sono stato accusato di trenta omicidi, mentre in realtà ne ho compiuti ventisei. Fin da piccolo ero assetato di sangue. A sette anni e mezzo ho accoltellato un bambino. Ho ucciso una donna gravida e più tardi un ufficiale spagnolo. Per questo sono stato costretto a lasciare la Spagna. Sono fuggito in Francia, dove ho commesso altri due delitti, prima di entrare nella legione straniera. Tra tutti i miei delitti provo rimorso soprattutto del seguente. Nel 1841, al comando della mia compagnia, ho fatto prigioniero un deputato commissario generale, scortato da un sergente, un caporale e sette uomini. Li ho fatti tutti decapitare. La morte di queste persone mi pesa sulla coscienza. Le rivedo nei miei sogni e domani le vedrò guardarmi attraverso gli occhi dei soldati del plotone di esecuzione. Nonostante tutto ciò, se dovessi riacquistare la libertà, ucciderei ancora altre persone”».

Anche il seguente passo, tratto dalla Ifigenia di Goethe, è pertinente a questo tema:

“Arcade: Così hai disatteso il mio sincero consiglio.

Ifigenia: Ho fatto volentieri, ciò che ho potuto fare.

Arcade: Potresti cambiare opinione all’ultimo momento.

Ifigenia: Questo non sta affatto nel nostro potere”.101

Infine un famoso passo del Wallenstein di Schiller ribadisce questa verità fondamentale:

“Gli atti e i pensieri dell’uomo - sappiatelo - non sono

come le onde del mare mosse ciecamente dal vento.

Il mondo interiore, il microcosmo, è il pozzo

profondo da cui eterni scaturiscono.

Essi sono necessari come i frutti dell’albero

e il caso non può mutarli per gioco.

Una volta scrutata l’intima essenza dell’uomo,

anche il suo volere e le sue azioni conosco”.102

v - Conclusione e visione più elevata

Ho voluto ricordare con piacere tutti quei gloriosi predecessori - poeti e filosofi - che hanno affermato la verità da me qui sostenuta. Ma le vere armi del filosofo non sono le autorità, bensì le ragioni. Per questo, solo con le ragioni ho sostenuto la mia tesi e spero di aver fornito un’evidenza tale, da sentirmi ora autorizzato a trarre la conseguenza: a non posse ad non esse [se una cosa non è possibile, non può neppure esistere].

Tramite questa conseguenza viene ora giustificata anche indirettamente, quindi a priori, la ben fondata risposta negativa al quesito della Reale Società. Questa risposta era stata data in precedenza direttamente e di fatto, quindi a posteriori, in seguito all’indagine sull’autocoscienza. In effetti, ciò che assolutamente non esiste, non può neppure avere alcun dato all’interno dell’autocoscienza grazie al quale possa dimostrare la propria esistenza.

Anche se la verità da me qui sostenuta fosse una di quelle che possono andare contro le opinioni preconcette della maggioranza miope delle persone, e addirittura scandalizzare le persone intellettualmente deboli e ignoranti, ciò non ha potuto trattenermi dall’esporla senza esitazioni e senza riserve.

Qui, infatti, stiamo parlando non alla massa, ma ad una illuminata Accademia, la quale ha formulato il suo quesito di vivissima attualità, non per consolidare il pregiudizio, ma per onorare la verità. Inoltre un onesto ricercatore, fintanto che si tratta di stabilire e di giustificare una determinata verità, presterà costantemente attenzione alle ragioni di quella verità, non alle sue conseguenze, per le quali verrà il tempo opportuno, quando quella verità si sarà imposta.

Non preoccuparsi delle conseguenze, verificare solo le ragioni e non domandarsi se una verità riconosciuta stia, o non stia, in sintonia con il sistema delle nostre precedenti convinzioni: questo è ciò che Kant stesso consiglia, con parole che io qui non posso fare a meno di ripetere.

“Questo rafforza la massima, lodata e riconosciuta già da altri, di portare avanti ogni ricerca scientifica con tutta l’accuratezza e la franchezza possibile, senza prestare attenzione a ciò contro cui essa potrebbe eventualmente cozzare fuori dal suo campo, bensì di eseguire la ricerca per sè stessa, con la massima verità e nella maniera più completa possibile.

Ho avuto spesso modo di osservare, e di convincermi, che quando si è condotta a termine una simile impresa, quelle cose che, nel bel mezzo della ricerca, mi sembravano talvolta problematiche tenendo conto di altre dottrine collaterali, se io mettevo da parte queste perplessità, semplicemente accantonandole e dedicando la massima attenzione alla mia ricerca fin quando essa non fosse ultimata, alla fine - sorprendentemente - combaciavano perfettamente con ciò che era stato scoperto di per sè, senza tener minimamente conto di quelle altre dottrine, senza parzialità o pregiudizi.

Lo scrittore potrebbe risparmiarsi parecchi errori e parecchie fatiche sprecate, poiché poggiate sulla illusione, se solo decidesse di mettere mano alle proprie opere con maggiore franchezza”.103

Le nostre conoscenze metafisiche in generale sono ancora distanti anni luce dall’avere una certezza tale, da dover respingere una verità accuratamente provata per il semplice fatto che le sue conseguenze non si accordano con quelle conoscenze. È vero piuttosto che ogni verità faticosamente perseguita e stabilita costituisce un pezzetto di terreno conquistato nel campo della conoscenza in generale, e un punto fermo, sul quale poggiare le leve che solleveranno altri carichi, anzi dal quale, nei casi più favorevoli, ci si può di colpo proiettare verso nuove visioni più elevate del tutto.

Il concatenamento delle verità in ogni campo del sapere, infatti, è talmente grande, che chi è entrato in sicuro possesso di una sola verità può eventualmente sperare, partendo da quella, di conquistare tutte le rimanenti.

Come in un difficile problema algebrico una sola grandezza positivamente data è di inestimabile valore, poiché consente di procedere alla soluzione, così nel più difficile di tutti i problemi umani - la metafisica - la conoscenza certa e dimostrata a priori e a posteriori della ferrea necessità con cui le azioni procedono da un determinato carattere e da determinati motivi, costituisce un dato di valore talmente grande, che partendo semplicemente da esso si può giungere alla soluzione dell’intero problema. Perciò tutto ciò che non può vantare una solida attendibilità scientifica, di fronte a una simile e ben fondata verità deve farsi da parte quando si trova sul suo cammino, e non viceversa. In nessun caso questa verità deve accettare accomodamenti e limitazioni per entrare in accordo con altre affermazioni infondate e probabilmente errate.

A questo punto mi si consenta un’osservazione di carattere generale.

Uno sguardo retrospettivo sul nostro risultato ci permette di constatare che riguardo a quelli che in precedenza abbiamo indicato come i più profondi problemi filosofici del nuovo tempo: la libertà di volere e il rapporto tra l’ideale e il reale (dei quali, invece, gli antichi non erano chiaramente consapevoli), il rozzo buon senso non solo è incompetente, ma addirittura manifesta una naturale e marcata tendenza all’errore, per correggere il quale è necessario ricorrere a una filosofia ben evoluta.

In effetti per l’intelletto è del tutto naturale, relativamente al conoscere, attribuire fin troppo all’oggetto. Proprio a causa di questa naturale inclinazione ci sono voluti Locke e Kant per dimostrare quanto grande sia il contributo alla conoscenza da parte del soggetto.

Invece, relativamente al volere, l’intelletto manifesta la tendenza opposta, di attribuire poco all’oggetto e molto al soggetto, a tal punto da far dipendere il volere stesso completamente dal soggetto, senza tenere in dovuta considerazione il fattore insito nell’oggetto: il motivo.

Eppure è proprio il motivo a determinare nel complesso la natura individuale dell’azione, mentre la generalità e l’essenza dell’azione - la sua caratteristica fondamentale dal punto di vista morale - deriva dal soggetto. Ma non dobbiamo stupirci di questa naturale stortura dell’intelletto nel corso di una indagine puramente teorica. L’intelletto, infatti, è originariamente destinato a fini pratici, non speculativi.

Se, in seguito a tutto quanto precedentemente esposto, siamo giunti a negare completamente la libertà delle azioni umane e ad assoggettarla alla più rigorosa necessità, ci troviamo ora nella situazione di poter comprendere la vera libertà morale, la quale è di natura ancora più elevata.

In effetti, esiste un altro dato di fatto della coscienza, che abbiamo finora completamente trascurato per non intralciare il corso dell’indagine. Questo dato di fatto è il sentimento perfettamente certo e chiaro della responsabilità che abbiamo di ciò che facciamo e della nostra imputabilità per le nostre azioni. Questo sentimento poggia sull’incrollabile certezza che noi stessi siamo gli autori delle nostre azioni.

In virtù di questa consapevolezza, a nessuno - neppure a chi è assolutamente convinto della necessità con cui le nostre azioni avvengono - verrà mai in mente di discolparsi di una cattiva azione tramite questa necessità e di scaricare la colpa dalle proprie spalle sui motivi, proprio perché il loro sopraggiungere ha reso inevitabile l’azione.

Ogni uomo, infatti, capisce perfettamente che questa necessità ha una condizione soggettiva e che oggettivamente - ossia, in quelle determinate circostanze e sotto l’influsso dei motivi che lo hanno personalmente determinato - un’azione ben diversa, anzi addirittura l’azione diametralmente opposta, sarebbe stata possibile e avrebbe potuto avvenire, semplicemente se lui fosse stato un altro. Tutto è dipeso solo da questo.

Certo, per lui non era possibile compiere un’altra azione, sia perché lui è quello che è e non un altro, e sia perché lui ha il carattere che ha. Ma per quanto riguarda un’altra azione, di per sé, quindi oggettivamente, essa sarebbe stata possibile. La sua responsabilità - di cui lui è consapevole - riguarda innanzitutto e apparentemente l’azione, ma essenzialmente riguarda il suo carattere. Di questo suo carattere lui si sente responsabile.

Anche per gli altri lui è responsabile del suo carattere. Il loro verdetto, infatti, mette subito in secondo piano l’azione per definire la natura dell’autore: ‘È un uomo cattivo, un furfante’, ‘È una canaglia’, oppure: ‘È un’anima meschina, falsa e vile’. Così suona il loro verdetto: il loro rimprovero ricade sul suo carattere. L’azione, insieme al motivo, viene presa in considerazione semplicemente come testimonianza del carattere dell’autore, e vale come sintomo certo di quel carattere, con il quale l’autore viene per sempre e irrevocabilmente bollato.

Giustamente Aristotele dice:

“Elogiamo coloro che hanno compiuto opere. D’altra parte, le azioni compiute sono il segno di una disposizione morale: infatti loderemmo anche uno che non ha realizzato nulla, se fossimo certi che ne sarebbe capace”.104

L’odio, l’avversione e il disprezzo non si abbattono quindi sull’azione transitoria, bensì sull’indelebile natura dell’autore, quindi sul suo carattere, dal quale l’azione è scaturita. Per questo in tutte le lingue gli epiteti di bassezza morale e le ingiurie che la contraddistinguono, sono predicati che vengono attribuiti più all’autore che all’azione. Essi bollano il suo carattere, poiché è questo il colpevole di ciò che è stato attribuito all'autore in seguito all’azione compiuta.

La responsabilità deve stare là dove sta la colpa. Siccome la responsabilità è l’unico dato che autorizza a sancire la libertà morale, anche la libertà deve stare nello stesso posto, ossia nel carattere dell’uomo. Questo è tanto più plausibile dopo che ci siamo abbondantemente convinti che la responsabilità non va ricercata immediatamente nella singola azione, poiché l’azione avviene con assoluta necessità una volta che il carattere è dato. Ma il carattere (come abbiamo visto nel paragrafo iii) è innato e immutabile.

Esaminiamo ora più da vicino la libertà in questo senso - il solo di cui si hanno dati - per poterla capire il più possibile dal punto di vista filosofico, dopo che l’abbiamo dedotta da un dato di fatto della coscienza e ben localizzata.

Nel paragrafo iii abbiamo visto che ogni azione di un uomo è il prodotto di due fattori: il suo carattere e il motivo. Ma questo non significa che l’azione sia qualcosa di mezzo, quasi un compromesso tra il motivo e il carattere. In realtà l’azione soddisfa pienamente sia il carattere che il motivo, poiché poggia in lungo ed in largo contemporaneamente su entrambi, nel senso che il motivo agisce su un determinato carattere e questo carattere è potenzialmente influenzabile da questo motivo.

Il carattere è la natura costante, immutabile ed empiricamente conosciuta di una volontà individuale. Il fatto che il carattere sia un fattore necessario per ogni azione, tanto quanto lo è il motivo, spiega l’origine della sensazione che le nostre azioni procedono da noi stessi, o quello ‘Io voglio’ che accompagna tutte le nostre azioni, in forza del quale ognuno deve riconoscerle come azioni sue, delle quali si sente quindi moralmente responsabile.

Questo è esattamente quello: ‘Io voglio, e voglio sempre soltanto ciò che io voglio’, in cui ci siamo precedentemente imbattuti durante l’indagine dell’autocoscienza, e che induce il rozzo intelletto ad affermare testardamente l’esistenza di una libertà assoluta di fare e di non fare, il liberum arbitrium indifferentiae.

Questa testarda affermazione non esprime altro che la consapevolezza del secondo fattore dell’azione - il carattere - il quale da solo non è capace di provocarla, tanto quanto è incapace di evitarla una volta che è subentrato il motivo. Solo in questo modo, ossia quando viene messo in azione, il carattere manifesta la propria natura alla facoltà conoscitiva, la quale - principalmente orientata verso l’esterno - può arrivare a conoscere la natura della propria volontà solo sperimentalmente tramite le sue azioni.

Questa conoscenza di sé, che si perfeziona sempre più e che diventa sempre più intima, è ciò che propriamente si chiama ‘coscienza morale’. Proprio a causa di questo [riconoscimento empirico a posteriori] la coscienza morale si fa sentire direttamente soltanto dopo l’azione. Prima, invece, si fa sentire solo indirettamente - tramite il ripensare e il rammentare casi analoghi [precedentemente vissuti], in occasione dei quali essa ha già avuto modo di conoscere sé stessa - nel momento in cui un nuovo caso [che si sta prospettando in] futuro diventa oggetto di riflessione.

A questo punto è opportuno ricordare la spiegazione (accennata nel precedente paragrafo) che Kant ha dato del rapporto tra il carattere empirico e il carattere intelligibile, e grazie ad esso della compatibilità tra libertà e necessità. Questa è una delle più belle e più profonde dottrine che questo grande spirito - anzi, che l’umanità intera - abbia mai prodotto. In questa sede posso fare solo un breve accenno, poiché sarebbe inutile e prolisso ripetere la spiegazione data da Kant.

Solo tramite questa dottrina è possibile comprendere - fin dove le forze umane lo consentono - come la ferrea necessità delle nostre azioni possa coesistere con quella libertà che il sentimento di responsabilità sta a testimoniare, in forza della quale noi siamo gli autori delle nostre azioni, che moralmente devono essere addebitate a noi.

Il rapporto - illustrato da Kant - tra il carattere empirico e il carattere intelligibile poggia completamente sul punto fondamentale della sua filosofia: la distinzione tra ‘fenomeno’ e ‘cosa in sé’. Come - secondo Kant - la realtà empirica del mondo dell’esperienza coesiste con l’idealità trascendentale105 del mondo stesso, così pure la necessità empirica dell’agire umano coesiste con la libertà trascendentale dell’agire stesso.

Il carattere empirico - come pure l’uomo - in quanto oggetto dell’esperienza è un semplice fenomeno legato alle forme della conoscenza (spazio, tempo e causalità), sottoposto quindi alle loro leggi. La ‘cosa in sé’, invece, essendo indipendente da queste forme, non è sottoposta ad alcuna differenziazione temporale. La condizione e il fondamento stabile e immutabile del fenomeno ‘carattere empirico’ è quindi il suo ‘carattere intelligibile’, ossia la volontà [dell’uomo] come ‘cosa in sé’. Al carattere intelligibile (in quanto ‘cosa in sé’) spetta anche l’assoluta libertà, ossia l’indipendenza dalla legge di causalità (la quale è solo una forma del fenomeno).

Ma questa libertà è trascendentale, ossia non si manifesta nel fenomeno ed è presente solo fin tanto che noi astraiamo dal fenomeno stesso e da tutte le sue forme, per giungere a ciò che si deve pensare come la costante (fuori dal tempo) intima essenza dell’uomo. Grazie a questa libertà, tutte le azioni dell’uomo sono opera sua, indipendentemente dal fatto che queste azioni derivino necessariamente dal suo carattere empirico quando questo si imbatte nei motivi.

Per la nostra facoltà conoscitiva (vincolata al tempo, allo spazio e alla causalità) il nostro carattere empirico è semplicemente il fenomeno del nostro carattere intelligibile, ossia il modo specifico in cui la ‘cosa in sé’ del nostro Io le appare. Quindi, è vero che la volontà è libera, ma solo in sé stessa, al di fuori del fenomeno. Dentro il fenomeno, invece, la volontà si manifesta con un carattere ben preciso, cosicché tutte le sue azioni devono essere conformi a quel carattere e, quando la volontà viene immediatamente determinata da un motivo, devono anche avvenire necessariamente in un certo modo e non in un altro.

È evidente che questo cammino ci porta a identificare l’esercizio della libertà non più - come secondo il comune punto di vista - nelle singole azioni, bensì nella complessiva existentia et essentia [esistenza ed essenza] dell’uomo stesso. È questa che deve essere pensata come il suo libero atto, il quale si manifesta alla facoltà conoscitiva nella rappresentazione del mondo reale in una molteplicità e varietà di azioni. Le azioni, a causa dell’unità originaria di ciò che in esse appare, devono avere tutte il medesimo carattere, cosicché sembrano derivare rigorosamente e necessariamente dai motivi che, di volta in volta, le suscitano e, ad una ad una, le determinano.

Nel mondo dell’esperienza vale il principio: operari sequitur esse, senza alcuna eccezione. Ogni cosa agisce secondo la propria natura e l’effetto da essa prodotto al subentrare della causa manifesta questa sua natura. Ogni uomo agisce secondo ciò che lui è e l’azione, che ogni volta avviene necessariamente, è determinata nel suo personale caso solo dal motivo. La libertà che non si riscontra nello operari, deve quindi risiedere nello esse.

È stato un grande errore [filosofico] di tutti i tempi, un Ûsteron prÒteron [ùsteron pròteron: capovolgimento totale (letteralmente: dopo prima)] attribuire la necessità allo esse e la libertà allo operari. Al contrario: la libertà sta solo nello esse e da questo esse insieme al motivo segue necessariamente lo operari. Così, solo tramite ciò che facciamo noi scopriamo ciò che siamo.

Sullo esse - non sul presunto liberum arbitrium indifferentiae - poggiano la consapevolezza della responsabilità e la tendenza morale della vita. Tutto dipende da cosa uno è. Da questo segue automaticamente, come un corollario necessario, ciò che uno fa.

Quindi, la consapevolezza che indubbiamente accompagna tutte le nostre azioni - nonostante la loro dipendenza dai motivi - dell’autonomia [del fatto che abbiamo noi il potere sulle nostre azioni] e dell’originalità [del fatto che esse traggono origine da noi], in virtù delle quali quelle azioni sono le nostre, non mente affatto.

Ma il vero contenuto di questa consapevolezza va ben oltre le azioni e comincia molto più in alto, poiché tocca il nostro vero essere, la nostra vera essenza, dalla quale poi tutte le azioni derivano necessariamente al subentrare dei motivi. In questo senso si potrebbe paragonare la consapevolezza dell’autonomia, dell’originalità e della responsabilità che accompagna il nostro agire, a una freccia che indica un oggetto più distante di quello che, pur nella medesima direzione, giace più vicino, al quale a prima vista sembra che la freccia stia puntando.

In breve: l’uomo fa sempre solo ciò che vuole, eppure lo fa necessariamente. Questo dipende dal fatto che l’uomo è già ciò che vuole, poiché da ciò che lui è deriva necessariamente tutto ciò che lui ogni volta compie.

Osservando il suo comportamento oggettivamente - ossia, dall’esterno - si riconosce con certezza apodittica che esso, come l’attività di ogni essere in natura, deve essere sottoposto alla legge di causalità con tutto il rigore che questa comporta. Soggettivamente, invece, ognuno ha la sensazione di fare solo ciò che lui stesso vuole. Ma questo significa soltanto che il suo comportamento è la pura manifestazione della sua vera e propria essenza. Anche l’essere più infimo nella scala naturale avrebbe la medesima sensazione, se solo avesse coscienza di sè stesso.

Nella mia esposizione, quindi, la libertà di volere non viene cancellata, bensì viene semplicemente rinviata dal campo delle singole azioni - dove certamente non può essere incontrata - verso l’alto, in un ambito più elevato, dove purtroppo la nostra conoscenza non può facilmente accedere. Questo significa che la libertà di volere è trascendentale.

Questo è anche il senso in cui vorrei che venisse inteso quell’aforisma di Malebranche:

“La libertà è un mistero”,106

sotto la cui egida, con il presente trattato, ho tentato di risolvere il compito posto dalla Reale Società Norvegese delle Scienze.

vi - Appendice a integrazione del primo paragrafo

In seguito alla suddivisione (fatta nel paragrafo i) della libertà in fisica, intellettuale e morale, ora, dopo aver trattato della fisica e della morale, non mi rimane che discutere della libertà intellettuale. Lo farò solo per completezza e brevemente.

L’intelletto (la facoltà di conoscere) è il medium dei motivi, tramite il quale essi influiscono sulla volontà, la quale è il nucleo vero e proprio dell’uomo. La volontà può decidere secondo la propria natura, ossia in conformità al carattere individuale dell’uomo, e manifestarsi liberamente secondo la propria essenza, solo fin tanto che questo medium dei motivi si trova in uno stato normale. Infatti, solo in uno stato normale l’intelletto può esercitare regolarmente le proprie funzioni, e presentare quindi senza alcuna distorsione i motivi - così come essi si trovano nel mondo reale esterno - alla volontà, affinché questa possa procedere alla propria scelta.

In questo caso l’uomo è intellettualmente libero, ossia le sue azioni sono il puro risultato della reazione della sua volontà di fronte ai motivi che si trovano nel mondo esterno, per lui come pure per tutti gli altri uomini. Queste azioni vanno quindi a suo carico, moralmente e giuridicamente.

La libertà intellettuale viene, invece, persa sia quando il medium dei motivi (la facoltà di conoscere) viene menomato temporaneamente oppure definitivamente, sia quando le circostanze esterne riescono, in situazioni particolari, a falsare la comprensione dei motivi.

Il primo caso è quello della pazzia, del delirio, del parossismo e dell’alterazione mentale per effetto di sostanze chimiche. Il secondo caso è quello dell’errore assolutamente involontario, ad esempio, quando si versa un veleno al posto di una medicina, oppure quando si scambia il servitore che rientra di notte in casa per un ladro e gli si spara, e situazioni simili.

In entrambi i casi, infatti, i motivi sono falsati, cosicché la volontà non può decidere come quando l’intelletto glieli presenta correttamente. I crimini compiuti in simili circostanze non sono neppure giuridicamente perseguibili. La legge infatti parte dal giusto presupposto che la volontà sia libera, non pilotata esternamente, bensì condizionata solo dai motivi.

La legge, quindi, si propone di contrastare tutti gli eventuali motivi per compiere un crimine tramite contromotivi ancora più forti rappresentati dalla minaccia di una pena, cosicché il codice penale non è altro che un elenco di contromotivi del crimine. Ma in quelle particolari circostanze l’intelletto, tramite il quale i contromotivi avrebbero dovuto esercitare la loro influenza, non è stato capace di raccoglierli e di presentarli alla volontà. Così il loro effetto non è stato possibile, poiché non erano presenti alla volontà. Come quando si scopre che uno degli ingranaggi, che avrebbero dovuto mettere in moto una macchina, si è spezzato.

In simili casi la colpa passa dalla volontà all’intelletto. Ma l’intelletto non è passibile di alcuna punizione, poiché la legge - come la morale - ha a che fare solo con la volontà. Solo la volontà è la vera essenza dell’uomo; l’intelletto è semplicemente un suo organo, la sua antenna rivolta verso l’esterno, il medium tramite il quale i motivi esercitano un effetto su di essa.

Tanto meno simili azioni hanno alcun valore morale, poiché non rappresentano alcun tratto del carattere di chi le compie. Questi, infatti, ha fatto qualcosa di diverso da ciò che credeva di fare, oppure non era in grado di pensare a ciò che avrebbe dovuto trattenerlo dal compiere quella determinata azione, ossia dare via libera ai contromotivi.

Come quando una sostanza chimica da analizzare viene fatta reagire con più elementi, per vedere con quale essa ha maggiore affinità. Ma se alla fine si scopre che, a causa di un impedimento casuale, uno degli elementi non ha potuto reagire, l’esperimento non è valido.

La libertà intellettuale, che in questi casi abbiamo considerato come completamente interdetta, potrebbe anche essere semplicemente menomata oppure temporaneamente sospesa. Questo succede in particolare in seguito a una forte emozione oppure in uno stato di ebbrezza.

La forte emozione è un’eccitazione improvvisa e intensa della volontà, causata da una rappresentazione che irrompe dall’esterno e che diventa un motivo dotato di una esuberanza tale, da mettere in ombra tutte le altre rappresentazioni che potrebbero agire come contromotivo, non consentendo loro di giungere chiaramente alla coscienza.

In una simile occasione i contromotivi - che di solito sono semplici pensieri di natura astratta, mentre una forte emozione è qualcosa di intuitivo e di immediato - non possono, per così dire, giocare le loro carte, quindi non beneficiano di ciò che in inglese si chiama fair play [gioco onesto]: l’azione è già avvenuta ancora prima che essi possano impedirla. Come se in un duello uno aprisse il fuoco prima del segnale convenuto.

Anche in questo caso la responsabilità sia giuridica che morale, a seconda delle circostanze, viene più o meno (ma sempre in qualche misura) cancellata. In Inghilterra un omicidio compiuto sui due piedi, senza premeditazione, durante un violento e improvviso scatto d’ira, viene denominato manslaughter [omicidio colposo] e punito con una pena mite, anzi, talvolta non viene neppure punito.

L’ebbrezza è uno stato che predispone a intense emozioni, poiché incrementa la vivacità delle rappresentazioni intuitive mentre attenua il pensiero in abstracto. Oltretutto, in un simile stato, la volontà diventa più energica. In questo caso, al posto della responsabilità per le azioni compiute, subentra la responsabilità per l’ebbrezza stessa. Questa, quindi, non viene giuridicamente assolta, anche se la libertà intellettuale era parzialmente sospesa.

Della libertà intellettuale:

“Ciò che si vuole o che si rifiuta secondo ragione”107

parla già Aristotele, anche se in maniera breve e insufficiente, nella Etica eudemia (ii, 7-9) e in maniera un poco più completa nella Etica nicomachea (iii, 2). Di essa ci si occupa, quando la medicina forensis [medicina legale] e la magistratura vogliono appurare se l’imputato al momento del delitto disponeva della propria facoltà di intendere ed era quindi responsabile.

In generale sono da catalogare come delitti compiuti in assenza di libertà intellettuale tutti quelli nei quali l’autore o non sapeva cosa stava facendo, oppure non era assolutamente in grado di pensare a ciò che avrebbe dovuto dissuaderlo, ossia alle conseguenze della sua azione. In simili casi l’imputato non è passibile di pena.

Chi invece sostiene che, siccome la libertà morale non esiste, tutte le azioni di una determinata persona sono ineluttabili, cosicché nessun delinquente dovrebbe essere punito, parte da una falsa concezione della pena, secondo la quale la pena sarebbe la persecuzione del delitto. Come tale, la pena sarebbe la vendetta di un male tramite un altro male, per ragioni morali.

Ma una simile concezione della pena - nonostante sia stata sostenuta anche da Kant - sarebbe assurda, inutile e completamente ingiustificata. Infatti, come potrebbe un uomo essere autorizzato ad erigersi, dal punto di vista morale, a giudice assoluto di un altro uomo e, in questa veste, punirlo per i suoi errori?

Piuttosto il fine di una legge, tramite la minaccia di una punizione, è di essere il contromotivo per il delitto ancora in fase di progettazione. Se in un determinato caso questo obiettivo fallisce, la legge deve essere fatta valere, altrimenti lo fallirà anche in tutti i casi successivi. Quando la legge viene applicata il delinquente sconta la giusta pena a causa della sua natura morale, poiché è stata questa che - in concomitanza delle circostanze esterne (i motivi) e del proprio intelletto, il quale gli ha prospettato la speranza di sfuggire alla punizione - lo ha spinto necessariamente a compiere quel delitto. La punizione sarebbe un’ingiustizia solo se il carattere morale dell’uomo non fosse opera sua (la sua ‘opera intelligibile’), bensì l’opera di un altro.

Lo stesso [giusto] rapporto tra azione e conseguenza (delitto e pena) si avrebbe se le conseguenze del suo delitto non derivassero da leggi umane, bensì da leggi di natura. Ad esempio, se eccessi sfrenati gli provocassero una terribile malattia, oppure se durante un tentativo di furto si ferisse accidentalmente (ad esempio, se nel porcile in cui irrompe di notte per portar via l’animale che di solito vi è rinchiuso, invece di un maiale si trova di fronte un orso (il cui padrone ha preso alloggio proprio quella notte in quell’albergo) il quale gli va incontro a braccia aperte).

Trattato su
Il fondamento della morale


non premiato dalla Regia Società Danese delle Scienze

Copenhagen, 30 Gennaio 1840


Predicare la morale è facile;
fondare la morale, difficile.
[Schopenhauer, La volontà nella natura]


Il quesito posto dalla Regia Società Danese delle Scienze, accanto a una premessa introduttiva, dice:

“Quum primitiva moralitatis idea, sive de summa lege morali principalis notio, sua quadam propria eaque minime logica necessitate, tum in ea disciplina appareat, cui propositum est cognitionem tîn ™qikîn explicare, tum in vita, partim in conscientiae judicio de nostris actionibus, partim in censura morali de actionibus aliorum hominum; quumque complures, quae ab illa idea inseparabiles sunt, eamque tamquam originem respiciunt, notiones principales ad tÕ ™qikÒn spectantes, velut officii notio et imputationis, eadem necessitate eodemque ambitu vim suam exserant, et tamen inter eos cursus viasque, quas nostrae aetatis meditatio philosophica persequitur, magni momenti esse videatur, hoc argumentum ad disputationem revocare, cupit Societas, ut accurate haec quaestio perpendatur et pertractetur: philosophiae moralis fons et fundamentum utrum in idea moralitatis, quae immediate conscientia contineatur, et ceteris notionibus fundamentalibus, quae ex illa prodeant, explicandis quaerenda sunt, an alio cognoscendi principio?”.


Traduzione:

“Un’idea primordiale di moralità, ovvero una nozione elementare della norma morale universale - fondata su un’intima necessità, non già su una deduzione razionale - non solo è riconosciuta da quella branca della filosofia che si propone di spiegare il significato tîn ™qikîn  [ton etikon: di ciò che è morale] ma traspare anche dalla vita stessa, nel giudizio della coscienza sulle nostre azioni e nella censura morale sulle azioni degli altri uomini. Inoltre, molti principi concernenti tÕ ™qikÒn [to etikon: ciò che è morale] che sono inseparabili da quell’idea e guardano ad essa come al loro fondamento (per esempio, il concetto di dovere e di responsabilità) traggono la loro forza dalla stessa necessità e dallo stesso ambito. Nondimeno, pur tra le molte direzioni di ricerca che la riflessione filosofica contemporanea persegue, sembra assai opportuno riproporre il dibattito su questo problema. In considerazione di tutto ciò, la Reale Società desidera che si proceda ad un’accurata trattazione del seguente tema: l’origine e il fondamento della filosofia morale devono essere ricercati in un’idea di moralità che sia naturalmente radicata nella coscienza, e negli altri principi fondamentali che derivano da questa idea, oppure in un diverso elemento di conoscenza?”.

I - Introduzione

§ 1 Il problema

Il quesito posto dalla Reale Società Olandese di Harlem nel 1810 (risolto da J. Meister):

“Perché i filosofi divergono così tanto riguardo ai fondamenti primi della morale, mentre concordano sulle conseguenze e sui doveri che derivano da quei principi?”

era un compito davvero facile, se paragonato al presente. Infatti:

1. Il presente quesito della Reale Società riguarda nientemeno che il fondamento oggettivamente vero della morale e, di conseguenza, anche della moralità [tutto quanto nella pratica è correlato alla morale]. È un’accademia universitaria che pone il quesito. Come tale, essa non si può contentare - come suol fare la gente comune - di una semplice esortazione con fini pratici verso la giustizia e la virtù, basata su motivi dei quali si mette in evidenza la plausibilità ma si nascondono i punti deboli.

Un’accademia ha interessi esclusivamente teorici, non pratici. Quindi, riguardo al fondamento ultimo di un comportamento moralmente valido, essa esige una obiettiva, chiara e nuda spiegazione puramente filosofica, ossia indipendente da ogni statuto positivo [che detta o impone qualcosa] da ogni premessa infondata, e da ogni presupposto metafisico o mitologico.

Si tratta di un problema la cui esorbitante difficoltà è dimostrata dal fatto che, non solo i filosofi di tutti i tempi e paesi hanno perso la voce a furia di parlarne, ma anche che tutte le divinità dell’oriente e dell’occidente devono a esso la loro ragione di esistere. Se si riuscisse ora a risolvere questo problema, la Reale Società non avrebbe certo investito male i suoi denari.

2. La ricerca teorica del fondamento della morale è soggetta al particolare svantaggio di venire facilmente scambiata per un tentativo di buttare tutto sottosopra, una operazione che potrebbe provocare il crollo dell’intero edificio della morale corrente. In questo campo, infatti, l’interesse pratico è talmente prossimo a quello teorico, che lo zelo - anche se ben intenzionato - di tradurre la teoria in pratica, difficilmente riuscirebbe a trattenersi dall’intervenire prematuramente.

Non tutti, infatti, sono in grado di distinguere la ricerca puramente teorica della verità - obiettiva e libera da ogni interesse, compreso quello di una applicazione pratica della morale - da una oltraggiosa aggressione dei sacri convincimenti radicati nel cuore. Pertanto, chi si accinge a una simile ricerca deve sempre tener ben presente - per farsi coraggio - che nulla è più distante dalle triviali faccende umane, dal tumulto e dal rumore della piazza, che il tempio di una accademia, immerso nel profondo silenzio, dove nessun grido esterno può penetrare e dove non si trova esposta la statua di alcuna divinità, tranne quella della venerabile e nuda verità.

Date queste premesse, mi sia concessa quindi una completa parresia [libertà di parola] e il diritto di dubitare di tutto. Mi si conceda inoltre che, se riuscissi realmente a portare anche solo un piccolo contributo alla soluzione di questo problema, sarebbe già una gran cosa.

Ma c’è un’altra difficoltà da affrontare. La Reale Società esige che il fondamento della morale venga esposto - compiutamente e separatamente - in una breve monografia a prescindere da qualsiasi sistema filosofico, ossia senza tener conto della corrispondente metafisica. Questa richiesta non solo renderà più difficile il compito, ma addirittura mutilerà inevitabilmente il risultato.

Già secondo Christian Wolff:

“Le tenebre nella filosofia pratica non possono essere disperse, se non vengono rischiarate dalla luce della metafisica”.108

e secondo Kant:

“La metafisica deve precedere ogni cosa, poiché senza di essa non può esistere alcuna filosofia morale”.109

Ogni religione al mondo, nel prescrivere un codice morale, non lascia che la morale poggi su sé stessa, bensì le fornisce un supporto fatto di dogmi, il cui scopo principale è di sostenerla. Così, anche in filosofia il fondamento della morale - qualunque possa essere - necessita di un punto di appiglio o di appoggio in una qualche metafisica, ossia in una determinata spiegazione del mondo e dell’esistenza in genere. Il significato etico dell’agire umano deve essere necessariamente e strettamente collegato alla spiegazione ultima e vera dell’essenza di tutte le cose.

In ogni caso ciò che viene posto a fondamento della morale - se non si vuole che sia semplicemente un’affermazione astratta, campata in aria e senza alcun aggancio con la realtà - deve essere un dato di fatto che si trova nel mondo oggettivo o nella coscienza dell’uomo. Come tale può solamente essere un fenomeno, il quale - come tutti gli altri fenomeni - necessita di un’ulteriore spiegazione che solo la metafisica può dare.

In generale la filosofia è un tutto talmente interconnesso, che è impossibile spiegare esaurientemente una sua parte, senza spiegare contemporaneamente anche tutto il resto.

Come giustamente dice Platone:

“Credi che sia possibile comprendere minimamente la natura dell’anima, senza riflettere sulla natura del tutto?”.110

La metafisica della natura, dei costumi e del bello si presuppongono vicendevolmente, e solo tramite i loro vari nessi perfezionano la spiegazione dell’essenza delle cose e dell’esistenza in generale. Quindi, chi riuscisse ad esaminare a fondo una di queste tre discipline fino al suo ultimo fondamento, contribuirebbe allo stesso tempo al chiarimento delle altre due, esattamente come chi riuscisse ad avere una chiara ed esauriente comprensione, fino in fondo, di una qualsiasi cosa al mondo, riuscirebbe anche a comprendere perfettamente tutto il resto del mondo.

Partendo da una data metafisica e assumendola come vera, si riuscirebbe a fondare l’etica per via sintetica [deduttiva]. In questo modo l’etica verrebbe costruita dal basso e poggerebbe su un saldo fondamento. Dovendo, invece, astrarre l’etica da ogni metafisica (come si richiede nel quesito) non rimane altra possibilità che procedere per via analitica [induttiva], partendo dai dati di fatto dell’esperienza esterna o dell’esperienza interna (la coscienza).

La coscienza può ricondurre quei dati di fatto alla loro più profonda radice dentro l’animo dell’uomo, cosicché questa radice diverrebbe il fatto fondamentale, il fenomeno originario, senza alcuna possibilità di essere rinviato ulteriormente ad altro. La spiegazione che si otterrebbe sarebbe, quindi, semplicemente di natura psicologica.

Al massimo si potrebbe poi accennare - come compendio - al nesso tra questo fatto interno alla coscienza e un determinata visione metafisica. In realtà questo fatto, questo fenomeno originario, potrebbe a sua volta essere giustificato se si potesse dedurre l’etica per via sintetica, partendo dalla metafisica. Ma questo significherebbe erigere un sistema filosofico completo e andare ben oltre quanto richiesto dal presente quesito.

Sono quindi costretto a rispondere al quesito entro i limiti imposti e a mantenere l’etica separata dalla metafisica. Alla fine vedremo che il fondamento, sul quale intendo erigere l’etica, è molto ristretto. Così, delle molte azioni umane degne di approvazione e di elogio, solo una piccola parte scaturisce da un impulso morale, mentre la maggior parte è da attribuire a impulsi d’altra natura.

Il fondamento della morale da me individuato sarà meno soddisfacente e brillante di un imperativo categorico (sempre pronto a stare agli ordini, per poi ordinare a sua volta cosa si deve o non si deve fare), per non parlare poi di altri fondamenti materialistici della morale.

Così non mi rimane che ricordare un versetto di Qoelet (4, 6):

“Meglio una manciata con riposo che due manciate con fatica”.

In ogni coscienza c’è sempre ben poco di genuino, di affidabile e di indistruttibile, come in una vena metallifera si nascondono poche once di oro in una tonnellata di pietra. Mostrerò, infatti, che le azioni umane lodevoli e legalmente giuste spesso non hanno affatto - oppure solo ben poco - valore morale, poiché in generale nascono da motivi riconducibili all’egoismo.

Se poi si vorrà in realtà - come faccio io - preferire un possesso sicuro a uno grosso, il poco oro che rimane nel crogiolo all’enorme massa di materiale da cui è stato separato, oppure se si preferirà incolparmi di aver tolto, piuttosto che di aver dato, il fondamento della morale, è una cosa che debbo accettare con tranquillità, anzi con rassegnazione. Da sempre concordo con lo Zimmermann quando dice:

“Sii fermamente convinto, fino alla morte, che al mondo non c’è nulla di più raro di un buon giudice”.111

Già vedo la mia spiegazione (che attribuisce un fondamento così minuscolo a ogni azione giusta, genuina e spontanea, a ogni filantropia e ad ogni nobile comportamento, dovunque si possano incontrare) levarsi povera ed esile accanto a quelle dei concorrenti (che senza esitazione erigono ampie fondamenta della morale da inculcare nella coscienza, capaci di sostenere qualunque peso, e gettano un’occhiata di disprezzo sulla moralità di chiunque osi dubitarne) come Cordelia, davanti al Re Lear, dare assicurazione con semplici parole delle proprie corrette intenzioni, in mezzo alle ridondanti declamazioni delle sue più eloquenti sorelle.

C’è proprio bisogno del conforto di un saggio motto come:

“La forza della verità è grande, e prevarrà”.112

Purtroppo questo non è molto incoraggiante per chi ha già vissuto e dato. Nel frattempo mi cimenterò con la verità. Ciò che toccherà a me, toccherà anche a lei.

§ 2 Retrospettiva generale

Per il popolo il fondamento della morale è dato dalla teleologia, come volontà di Dio rivelata. Vediamo invece che i filosofi - tranne alcune eccezioni - si preoccupano molto di escludere questo tipo di fondamento e che, pur di evitarlo, preferiscono ricorrere ad argomenti sofistici. A cosa è dovuto questo diverso comportamento?

Senza dubbio non è possibile immaginare un fondamento della morale più efficace di quello teologico. Chi sarebbe, infatti, cosi temerario da opporsi al volere dell’onnipotente e onnisciente? Certamente nessuno, se il volere divino fosse annunciato in un modo autentico, che non lascia spazio ad alcun dubbio, ossia - per così dire - in maniera ufficiale. Ma proprio questa è la condizione che manca.

I teologi cercano quindi di avallare la legge morale promulgata come volontà di Dio, mostrando che la volontà divina sarebbe in sintonia con alcune nostre convinzioni morali di altra origine - dunque naturali - e facendo poi appello a queste ultime, essendo esse il dato più immediato e certo.

A questo proposito è facile riconoscere che un comportamento morale messo in atto solo in seguito alla minaccia di una punizione, o alla promessa di una ricompensa, sarebbe morale solo in apparenza ma non nella sostanza, poiché poggerebbe sull’egoismo. Oltretutto, il fattore determinante sarebbe la maggiore o minore facilità con cui uno avrebbe più fede di un altro, pur basandosi su motivi insufficienti.

Lo stesso Kant, dopo aver distrutto il fondamento della morale basato sulla teologia speculativa - che fino ad allora era ritenuto indiscutibilmente valido - ha voluto, invertendo quel rapporto [di subordinazione dell’etica alla teologia], dare alla teologia, che fino ad allora era stata la depositaria della morale, un sostegno basato sull’etica, per garantire alla teologia, anche se solo idealmente, un’esistenza.

Ma anche in questo modo è più che mai difficile pensare a un fondamento dell’etica basato sulla teologia, poiché non si riesce più a capire, tra etica e teologia, chi è di sostegno e chi sta a carico, finendo così in un circulus vitiosus [circolo vizioso].

Durante gli ultimi cinquanta anni i fondamentali convincimenti filosofici della colta Europa hanno subito un cambiamento che probabilmente parecchi ammettono a malincuore, ma che non può essere negato. Innanzitutto per l’influsso della filosofia di Kant e poi per effetto degli innumerevoli progressi in tutte le scienze, grazie ai quali ogni secolo precedente, in confronto al nostro, sembra essere il periodo dell’infanzia.

Inoltre si ha avuto modo di conoscere la letteratura sanscrita, il Brahmanesimo e il Buddismo, le religioni più antiche e diffuse, che sono, dal punto di vista dei luoghi e dei tempi di diffusione, le più eminenti religioni dell’umanità. Queste furono anche le prime religioni della nostra stirpe, notoriamente di origine asiatica, che ora torna a conoscerle nella patria a loro estranea.

In seguito a questo cambiamento i vecchi sostegni dell’etica sono marciti. Eppure persiste la fiducia che l’etica non potrà mai crollare. Da questa fiducia è nato il convincimento che debbano pur esistere dei sostegni diversi dai precedenti, più consoni ai progressi del pensiero di questa epoca. Senza dubbio è stato il riconoscimento di questa esigenza - sempre più sentita - che ha spinto la Reale Società a bandire il presente significativo concorso.

In tutti i tempi non si è fatto che predicare la buona morale. Tuttavia fondare la morale è un’attività che è rimasta costantemente ferma a un punto morto.

Evidente è stato lo sforzo, in generale, di individuare una verità oggettiva, dalla quale fosse possibile dedurre logicamente i precetti morali. La si è cercata nella natura delle cose e in quella dell’uomo, ma invano. Si è sempre dovuto constatare che la volontà dell’uomo è orientata solo verso il proprio benessere, ossia verso ciò che si riassume nel concetto di felicità d’animo. Ma questa inclinazione porta l’uomo sempre su un cammino ben diverso da quello che la morale vorrebbe indicargli.

Si è tentato di identificare la felicità con la virtù o con qualche suo effetto collaterale. Ma entrambi i tentativi sono regolarmente falliti, nonostante un grande sfoggio di sofismi.

Si è poi tentato anche con sostegni puramente oggettivi o astratti - di origine sia a priori che a posteriori - dai quali poter dedurre il corretto comportamento morale. Ma a questi sostegni mancava un punto di aggancio nella natura dell’uomo, grazie al quale poter indirizzare le aspirazioni dell’uomo nella direzione opposta alla sua tendenza egoistica.

Mi sembra fuori luogo insistere in questa sede nell’elenco e nella critica di tutte le fondazioni della morale che sono apparse fino ad oggi. Come Agostino, sono del parere che:

“Non bisogna dare importanza a ciò che gli uomini pensano, bensì alla verità delle cose”.113

Oltretutto sarebbe come glaàkaj e„j 'Aq»naj kom…zein [glàukas éis Athénas komìzein: portare civette ad Atene],114 poiché la Regia Società conosce bene i precedenti tentativi di fondare l’etica e, con il bandire il presente concorso, dimostra di essere convinta della loro insufficienza. Il lettore meno esperto può trovare un compendio - non completo, ma in sostanza sufficiente - dei tentativi apparsi finora nel libro Panoramica dei più eminenti principi della dottrina morale di Christian Garve, nel libro Storia della filosofia morale di Karl Stäudlin, e in altri simili.

È deprimente constatare che all’etica, una scienza che tocca direttamente la vita, non sia andata meglio che all’astrusa metafisica. Da quando Socrate l’ha fondata, l’etica è stata sempre messa in pratica, ma ciò nonostante essa è ancora alla ricerca del suo fondamento.

Nell’etica, più che in qualsiasi altra scienza, l’essenziale è contenuto nel fondamento, dal quale si possono poi fare deduzioni, talmente facili che quasi si presentano da sé. Tutti, infatti, sono capaci di trarre una conclusione, ma pochi di formulare un giudizio. Proprio per questo, da sempre, i libri maestri e i trattati sulla morale sono tanto superflui quanto noiosi. Per me è un grande sollievo dare per scontato che il lettore sia già a conoscenza delle precedenti fondazioni della morale.

Mentre ai filosofi del medioevo bastava la fede nella Chiesa, sia gli antichi che i moderni  si sono aggrappati ai più diversi, talvolta i più sorprendenti, argomenti per dare un fondamento plausibile alle prescrizioni universalmente riconosciute della morale. Ciò nonostante i risultati sono stati indubbiamente pessimi. Se si tien conto di questo fatto si potrà apprezzare la difficoltà del problema e, in base a questa, giudicare il mio contributo alla sua soluzione.

Chi ha preso atto che tutte le vie fino ad ora seguite non hanno condotto alla meta, sarà maggiormente disposto a percorrere con me una via molto diversa, che nessuno ha finora intravisto oppure che ha scartato con disprezzo, forse perché era la più naturale. In effetti la mia soluzione del problema potrà sembrare ad alcuni come l’uovo di Colombo.

“Io dir non vi saprei per qual sventura,

o piuttosto per qual fatalità,

da noi credito ottien più l’impostura,

che la semplice e nuda verità”.115

Solo del più recente tentativo di fondare l’etica - quello di Kant - farò una analisi critica piuttosto esaustiva per due motivi. Innanzitutto, perché la grande riforma morale ad opera di Kant ha conferito a questa scienza un fondamento dotato di reali pregi rispetto ai precedenti. In secondo luogo perché il fondamento che Kant le ha dato rappresenta quanto di più significativo sia finora apparso nel campo dell’etica.

Il fondamento dato da Kant all'etica è ancor oggi generalmente ritenuto valido e viene regolarmente insegnato, anche se riaggiustato con alcune varianti nella descrizione e nella formulazione. Esso costituisce l’etica degli ultimi sessant’anni, della quale però ci dobbiamo liberare prima di battere un’altra via. Tuttavia la critica dell’etica di Kant offrirà l’occasione per analizzare e discutere i principali concetti basilari dell’etica.

Questo ci permetterà di gettare le premesse del risultato della nostra futura ricerca in questo campo. Poiché gli estremi contrapposti si chiariscono a vicenda, la critica del fondamento della morale di Kant costituirà la migliore premessa e introduzione, anzi, il cammino più diretto per procedere verso il mio fondamento della morale, il quale nella sua essenza si contrappone diametralmente a quello di Kant. Per questo motivo, il modo di cominciare più controproducente per il lettore sarebbe quello di saltare la critica dell’etica di Kant e passare direttamente alla parte propositiva della mia presentazione. Così facendo, questa risulterebbe comprensibile solo a metà.

È proprio giunto il momento di sottoporre l’etica, una volta per tutte, a un rigoroso esame. Da oltre mezzo secolo, infatti, essa riposa sul comodo cuscino che Kant le ha spianato sotto: l’imperativo categorico della ragione pratica.

Oggi l’imperativo categorico viene presentato in forma meno pomposa, con il titolo più smussato e facile di ‘legge morale’. Con queste credenziali, dopo un piccolo inchino in omaggio alla ragione e all’esperienza, esso si insinua inosservato. Ma una volta entrato in casa non cessa più di comandare e di dare ordini, senza rendere conto nessuno.

Il fatto che Kant - il suo inventore - dopo aver corretto alcuni errori grossolani se ne fosse contentato, è cosa giusta e necessaria. Ma è duro dover vedere come su quel cuscino, posto inizialmente da Kant e diventato poi sempre più ampio, ora si rotolano anche gli asini.

Mi riferisco ai moderni scrittori di compendi, i quali, con la tranquilla sicurezza di chi non ha capito nulla, pensano di aver fondato l’etica semplicemente facendo appello a quella ‘legge morale’, che si suppone risieda dentro la nostra ragione. Confidando in quella legge, essi poi intessono un vagabondo e confuso intreccio di frasi, con il quale riescono a rendere incomprensibili anche i più chiari e semplici rapporti della vita. Nel corso di queste belle imprese non si sono mai seriamente posti la domanda se mai una simile ‘legge morale’ - il comodo codice della morale - stia scritta nella nostra testa, nel petto o nel cuore.

È quindi con particolare piacere che mi accingo a sfilare via quel comodo cuscino sul quale la morale ancora riposa. Dichiaro apertamente il mio proposito di dimostrare che la ragione pratica e l’imperativo categorico sono solo supposizioni fasulle, senza alcuna giustificazione e senza alcun fondamento, e che anche l’etica di Kant è priva di un solido fondamento.

Voglio rimandare la morale alla sua totale e antica mancanza di certezze, nella quale è giusto che ritorni prima di accingermi a dimostrare il vero fondamento morale della natura umana, il quale affonda le radici nell'essenza dell'uomo ed è efficace senza ombra di dubbio.

Questo fondamento non offre certo un appoggio così ampio come quel cuscino. Perciò coloro che sono abituati a prendersela con comodo, esiteranno ad abbandonare il loro vecchio cuscino, fino a quando si renderanno conto di quanto profondo sia il baratro sul quale esso si trova.

ii - Critica del fondamento dell’etica di Kant

§ 3 Panoramica

Kant ha il grande merito di aver spazzato via dall’etica ogni forma di eudemonismo [ricerca della felicità]. L’etica per gli antichi era eudemonistica, mentre per i moderni è principalmente la dottrina della salvezza. Gli antichi volevano dimostrare che la felicità si identifica con la virtù, ma queste due figure non si sovrappongono mai, comunque le si voglia disporre.

I moderni, invece, hanno posto felicità e virtù in correlazione fra loro, non in base al criterio di identità ma a quello di motivazione, presupponendo che la felicità sia una conseguenza della virtù. Tuttavia, per fare questa operazione, hanno dovuto ricorrere all’aiuto di un altro mondo, diverso da quello di ogni possibile conoscenza, oppure a dei sofismi.

L’unica eccezione tra gli antichi è Platone, la cui etica non è eudemonistica bensì mistica. Perfino l’etica dei cinici e degli stoici è un particolare tipo di eudemonismo. Non mi mancano certo argomenti e prove per dimostrarlo. Mi manca solo lo spazio nell’ambito di quanto mi propongo di fare ora.116

Quindi, sia per gli antichi - ad eccezione di Platone - che per i moderni la virtù è solo il mezzo per un fine. Senza dubbio, a rigore, anche Kant ha bandito apparentemente, più che realmente, l’eudemonismo dall’etica. Kant, infatti, in un oscuro e isolato capitolo della sua dottrina del ‘sommo bene’, mantiene un tacito legame tra virtù e felicità. L’esperienza, invece, dimostra che la virtù agisce in maniera del tutto indipendente dalla felicità.

Ma, a prescindere dalla dottrina del sommo bene, secondo Kant il fondamento dell'etica è qualcosa di trascendentale117 o metafisico, completamente staccato da quanto l’esperienza ci insegna.

Kant, infatti, attribuisce al comportamento dell’uomo un significato che va oltre ogni possibile esperienza e che, quindi, costituisce un vero ponte con quello che lui chiama il mondo intelligibile, il mundus noumenon [il mondo del pensiero, in contrapposizione al mondo fenomenico], ossia il mondo della ‘cosa in sé’.

Oltre a questi pregi, l’etica di Kant deve la fama che ha conquistato anche alla sublime limpidezza morale dei suoi risultati. Su questa limpidezza si concentrò l’attenzione della maggior parte dei suoi estimatori, senza occuparsi specificatamente del fondamento dell’etica kantiana, esposto in una forma molto complessa, astratta ed estremamente artificiosa. Kant stesso ha dovuto ricorrere a tutto il suo acuto ingegno e alla sua capacità di articolazione del pensiero, per conferire al fondamento della sua etica una parvenza plausibile.

Per fortuna Kant ha dedicato all’esposizione del fondamento della sua etica una opera a parte, la Fondazione della metafisica dei costumi, il cui tema è esattamente lo stesso del presente concorso. A pagina xiii del prologo Kant dice:

“La presente fondazione non è altro che la visione e la determinazione del principio supremo della moralità. Da sola essa costituisce un’impresa completa nel suo intento, che va distinta da ogni altra ricerca nel campo della morale”.

In questo suo libro, come in nessun altro, viene presentato il fondamento, la cosa essenziale della sua etica, in maniera assolutamente sistematica, concludente e acuta. Questo libro possiede inoltre il notevole pregio di essere il più maturo dei suoi scritti sull’etica. Esso risale a solo quattro anni dopo [1785] la prima edizione della Critica della ragione pura [1781], al tempo in cui, nonostante Kant avesse già 61 anni, gli influssi deleteri della vecchiaia non si erano ancora manifestati sul suo spirito.

Questi influssi, purtroppo, possono essere chiaramente percepiti nella Critica della ragione pratica [1788], ossia solo un anno dopo l’infelice rielaborazione della seconda edizione della Critica della ragione pura [1787], con la quale Kant ha palesemente rovinato il suo immortale capolavoro. A questo proposito troviamo nella prefazione della nuova edizione di Rosenkranz della Critica della ragione pura un confronto critico [tra la prima e la seconda edizione] che io, dopo aver verificato personalmente la cosa, non posso fare a meno di approvare.118

Il contenuto della Critica della ragione pratica è sostanzialmente le stesso della Fondazione della metafisica dei costumi. Solo che la Fondazione lo riporta in maniera più concisa e rigorosa, mentre la Critica lo riporta tramite un’esposizione più ampia, interrotta da digressioni e sorretta da esclamazioni morali, per suscitare impressione. Al tempo in cui scriveva queste cose Kant aveva finalmente conquistato - anche se in ritardo - la sua meritatissima fama, cosicché, sicuro di disporre già dell’attenzione del lettore, diede maggior corda alla loquacità tipica dell’età avanzata.

Alla Critica della ragion pratica bisogna tuttavia riconoscere alcuni particolari pregi. Innanzitutto, la dottrina - oltremodo sublime - del nesso tra libertà e necessità (p. 169-I79, iv Ed.) e (p. 224-231, Ed. Rosenkranz). Questa dottrina è stata certamente concepita in tempi precedenti, poiché coincide esattamente con quanto riportato nella Critica della ragione pura (p. 560, iv Ed.; p. 438, Ed. Rosenkranz).

In secondo luogo, l’esposizione della ‘teologia morale’, grazie alla quale si riesce a capire meglio che cosa Kant intendesse realmente al riguardo. Più tardi, nei Principi metafisici della dottrina della virtù - una parte collaterale della sua deplorevole Dottrina del diritto, redatta nel 1797 - l’influsso dei disturbi senili si fece preponderante.

Per tutti questi motivi nella presente critica dell’etica di Kant seguirò, come principale filo conduttore, la Fondazione della metafisica dei costumi. A quest’opera farà espressamente riferimento la numerazione delle pagine. Le altre due opere [Critica della ragion pratica e Principi metafisici della dottrina della virtù] verranno prese in considerazione solo in maniera accessoria e secondaria.

Per comprendere la presente critica, che andrà a rivoltare fino in fondo l’etica di Kant, sarebbe opportuno che il lettore rileggesse con attenzione la Fondazione della metafisica dei costumi per rinfrescare nella memoria il suo contenuto. Dopotutto questo libro consiste solo di 128 più xiv pagine (cento, in tutto, nell’edizione Rosenkranz). Le citazioni, tramite il numero della corrispondente pagina, faranno riferimento alla terza edizione (1792). Il numero della pagina delle citazioni tratte dalla nuova edizione completa di Rosenkranz sarà preceduto dalla lettera ‘R’.

§ 4 La forma imperativa dell’etica di Kant

Il prîton yeàdoj [pròton pséudos: primo errore] di Kant sta già nel suo concetto di etica, come viene a chiare lettere enunciato (62, R 54):

“Nell’ambito di una filosofia pratica, non si tratta di dare ragione di ciò che succede, bensì di dare le leggi di ciò che dovrebbe accadere, anche se fosse una cosa che non accade mai”.

Questa è chiaramente una petitio principii [petizione di principio]. Infatti, chi vi dice che esistano leggi alle quali il comportamento dell'uomo deve sottomettersi? Chi vi dice che una cosa, che non accade mai, dovrebbe invece accadere? Cosa vi autorizza a fare una simile premessa, per poi imporre un’etica legislativa e imperativa, come se fosse l’unica etica possibile?

Al contrario di ciò che dice Kant, io sostengo che lo studioso di etica - come il filosofo in generale - dovrebbe contentarsi di chiarire e di dare un significato a ciò che è dato - ossia, a ciò che esiste realmente e che succede - per poterlo comprendere. Per questo c’è ancora molto da fare, molto più di quanto sia stato fatto in migliaia di anni fino ad oggi.

Tramite questa petitio principii, quindi, Kant dà per scontato già nel preambolo del problema, prima ancora di qualunque approfondimento, che esista di fatto una legge morale. Questo presupposto verrà poi fermamente mantenuto e andrà a costituire il fondamento ultimo di tutto il suo sistema.

Andiamo allora, innanzitutto, ad analizzare il concetto di legge. Il significato specifico e originale di legge si riduce alla legge civile, lex, nÒmoj [nòmos], ossia un ordinamento che è stato creato dall’uomo e che poggia sull’arbitrio dell’uomo.

Il concetto di legge possiede poi un secondo significato, dedotto, traslato e metaforico, in riferimento alla natura, il cui modo costante di procedere - in parte noto a priori e in parte determinato empiricamente - viene metaforicamente denominato ‘legge naturale’. Solo una piccolissima parte delle leggi naturali è di origine a priori. Essa costituisce ciò che Kant - acutamente e giustamente - ha separato e raccolto sotto il nome di ‘metafisica della natura’.

Infine, dal momento che l’uomo appartiene alla natura, anche per il suo volere esiste una legge rigorosamente provata, inviolabile, che non ammette eccezioni, stabile come una roccia, che racchiude in sé una reale necessità (non come la vel quasi [approssimativa] necessità dell’imperativo categorico).

È la legge di motivazione, ossia, della causalità che procede dalla conoscenza, la quale è una delle radici del principio di ragione sufficiente.119 Questa è la sola legge, di cui si può dimostrare l’esistenza, alla quale il volere dell’uomo è sottomesso. Questa legge afferma che ogni azione umana avviene solo in seguito a un motivo sufficiente. Si tratta di una legge naturale, come la legge di causalità nella fisica.

In aggiunta a questi tre tipi di leggi non si può ammettere, senza una adeguata prova, l’esistenza di altre leggi morali oltre a quelle che provengono da uno statuto redatto dagli uomini, da una istituzione statale o da una dottrina religiosa.

Pertanto, con quella sua premessa, Kant compie una petitio principii. È oltretutto un presupposto osato, poiché Kant sostiene (p. vi del prologo) che una legge morale deve comportare la ‘necessità assoluta’. Ma la necessità assoluta è contraddistinta dalla ineluttabilità del risultato. Quindi, come si può parlare di necessità assoluta per le presunte leggi morali, come quella che Kant cita ad esempio: «Tu hai l’obbligo di non mentire!», quando notoriamente - come lui stesso ammette - queste leggi vengono regolarmente disattese?

Se ci si preoccupasse non solo di consigliare l’onestà, ma anche di praticarla, prima di ammettere nella scienza dell’etica, oltre alla legge di motivazione, l’esistenza di altre leggi per la volontà dell’uomo originarie e indipendenti da ogni statuto umano, bisognerebbe innanzitutto provarne l’esistenza e solo poi dedurle. Ma finché una simile prova non verrà esibita io continuerò ad attribuire all’introduzione nell’etica del concetto di legge, norma e obbligo, nessun’altra origine se non quella - estranea alla filosofia - del Decalogo di Mosè [i dieci comandamenti].

Questa origine traspare ingenuamente anche dall’ortografia «Tu hai l’obbligo!» nel sopra citato esempio di legge morale fatto da Kant. Ma un concetto, che non possiede altra origine se non quella del Decalogo, non può impunemente intrufolarsi nella morale filosofica [l’etica]. Un simile concetto deve venir espulso, fino a quando non verrà giustificato e ammesso sulla base di prove adeguate. Pertanto, riguardo all’esistenza di una legge morale per la volontà dell’uomo, dobbiamo prendere atto della prima macroscopica petitio principii di Kant.

Esattamente come nel prologo - dove si assume che il concetto di legge morale sia dato ed esistente senza ombra di dubbio - così pure (8, R 16) Kant si comporta con il concetto di dovere, strettamente imparentato a quello di legge, il quale viene ammesso senza altra giustificazione, se non quella di essere pertinente all’etica. E ancora una volta sono costretto a sollevare obiezione.

Un simile concetto di dovere inteso nel senso di dovere incondizionato, trae origine dalla morale teologica, insieme ai suoi analoghi di legge, comandamento, obbligo, ecc.. Esso rimarrà estraneo alla morale filosofica fintanto che non produrrà una prova convincente, tratta dall’essenza della natura umana o del mondo oggettivo. Fino a quel momento l’unica origine che riconosco a lui, e ai suoi simili, è quella del Decalogo.

Nei secoli del cristianesimo l’etica ha inconsciamente preso forma dalla morale teologica. Poiché la morale teologica è - nella sua essenza - imperativa, anche l’etica ha ingenuamente assunto la forma di prescrizione e di dottrina del dovere, illudendosi che quella fosse la sua forma propria e naturale, senza neppure pensare che per l’etica occorre un altro tipo di legittimazione.

Come tutti i popoli, tutte le epoche e tutte le dottrine religiose, anche i filosofi (ad eccezione dei veri e propri materialisti) hanno chiaramente riconosciuto che il significato morale delle azioni umane è metafisico, ossia si estende oltre questa esistenza fatta di apparenze [fenomeni] fino a toccare l’eternità. Quindi il valore morale di una azione non deve necessariamente essere concepito in termini di comandamento, ubbidienza, legge e dovere.

Oltretutto, questi concetti [comandamento, ubbidienza, legge e dovere] separati dalle premesse teologiche da cui derivano perdono ogni significato. Se si cerca di sostituirli - come fa Kant - parlando di obbligo assoluto e di dovere incondizionato, si rimpinza di parole il lettore, dandogli da digerire una vera e propria contradictio in adjecto [contraddizione nel termine aggiunto]. Infatti, ogni obbligo ha senso e significato solo in relazione alla minaccia di una punizione o alla promessa di una ricompensa.

Ancora prima di Kant, Locke nel Saggio sull’intelletto umano ha scritto:

“Sarebbe del tutto vano pensare ad una regolamentazione delle libere azioni dell’uomo senza allegare ad essa il rinforzo di qualcosa di bene o di male, che determini la sua volontà. Ogni volta che si pensa a una legge bisogna pensare anche a una corrispondente ricompensa o punizione”.120

Ogni obbligo è dunque necessariamente condizionato da una punizione o da una ricompensa, quindi è essenzialmente e inevitabilmente ipotetico, mai categorico (nel linguaggio di Kant). Se le clausole di premio o punizione venissero meno, il concetto di obbligo perderebbe significato, cosicché parlare di un obbligo assoluto è una contradictio in adjecto.

È impossibile immaginare una voce che provenga indifferentemente dall’interno o dall’esterno, la quale emetta un ordine senza contemporaneamente promettere o minacciare qualcosa. Chi le obbedisce fa bene o fa male a seconda delle circostanze, ma in ogni caso egli perseguirebbe il proprio tornaconto, cosicché le sue azioni non avrebbero alcun valore morale.

L’assoluta astrusità e contraddittorietà del concetto di obbligo incondizionato, che sta alla base dell’etica di Kant, viene allo scoperto nel suo sistema solo più tardi, nella Critica della ragion pratica, come un veleno che non può rimanere nascosto dentro l’organismo, ma che prima o poi deve sfogarsi e prendere aria. Quell’obbligo incondizionato in realtà postula di nascosto una condizione, anzi, più condizioni: un premio (addirittura l'immortalità per il premiato) e chi promette questo premio.

Queste condizioni sono certamente necessarie quando dovere e obbligo vengono promossi a concetti base dell’etica. Questi due concetti, infatti, sono essenzialmente relativi, poiché hanno significato solo tramite la minaccia di una punizione o la promessa di una ricompensa.

La ricompensa prevista poi per la virtù (la quale, quindi, solo apparentemente ha lavorato senza retribuzione) compare sempre nascosta sotto un velo con il nome di ‘sommo bene’, il quale sarebbe l’unione della virtù con la felicità d’animo. Questa, in fondo, non è altro che una morale che persegue la felicità d’animo ed è pertanto mossa dall’egoismo.

Si tratta dell’eudemonismo, che Kant aveva solennemente cacciato fuori dalla porta d’ingresso del suo sistema poiché eteronomo [condizionato da fattori esterni], ma che si è intrufolato di nuovo, attraverso la porta di servizio, sotto il nome di ‘sommo bene’. Così il contraddittorio presupposto di un obbligo assoluto e incondizionato si è preso la rivincita.

D’altro canto, un obbligo condizionato non può certamente essere il concetto che sta alla base dell’etica, poiché tutto ciò che viene fatto nella speranza di una ricompensa, o nel timore di una punizione, è necessariamente un’azione egoistica e, come tale, priva di valore morale.

È quindi evidente la necessità di una concezione dell’etica più nobile e libera da pregiudizi, se si vuole veramente e realmente cogliere fino in fondo il significato perenne - ossia, che va ben al di là del fenomeno - del comportamento morale dell’uomo.

Come ogni obbligo, così pure ogni dovere è imprescindibilmente legato a qualche condizione. Entrambi questi concetti, infatti, sono strettamente imparentati, quasi identici. L’unica differenza sta nel fatto che l’obbligo può anche basarsi solo su una costrizione. Il dovere invece presuppone un riconoscimento, ossia l’accettazione di quel determinato dovere. Un dovere può pertanto sorgere tra padrone e servitore, superiore e dipendente, governo e sudditi.

Poiché nessuno si assume un dovere senza una ricompensa, ogni dovere conferisce automaticamente anche un diritto. Uno schiavo invece non ha alcun dovere poiché non ha alcun diritto. Per lui esiste solo l’obbligo fondato sulla costrizione. In seguito presenteremo l’unico significato che il concetto di dovere possiede nell’etica.

L’impostazione di un’etica in forma imperativa - ossia, come dottrina del dovere - e la concezione del valore morale delle azioni umane come adempimento, o trasgressione, di un dovere, traggono certamente origine, assieme al concetto di obbligo, dalla morale teologica, in definitiva dal Decalogo. Una morale di questo tipo si basa essenzialmente e necessariamente sul presupposto che l’uomo dipenda da una superiore volontà imperante, la quale gli promette una ricompensa oppure lo minaccia di una punizione.

Ma un simile presupposto è tipico della teologia, e pertanto non può essere tacitamente e tranquillamente trasferito alla morale filosofica [l’etica]. Non si può, quindi, assumere in anticipo che la forma imperativa - ossia l’imposizione di comandamenti, leggi e doveri - sia del tutto naturale ed essenziale per l’etica. Oltretutto è un cattivo espediente rimpiazzare la condizione esterna - essenziale a quei concetti, a causa della loro origine - con l’aggettivo ‘assoluto’ o ‘categorico’, poiché così facendo si crea di nuovo una contradictio in adjecto [contraddizione nel termine aggiunto].

La forma imperativa dell’etica di Kant è stata dunque presa in prestito, tacitamente e incautamente, dalla morale teologica. Alla sua vera base stanno delle premesse teologiche le quali, di fatto, sono in essa contenute in maniera inseparabile, anzi implicite [implicitamente], poiché sono l’unica cosa che conferisce ad essa un senso e un significato.

Dopo aver impostato in questo modo la sua etica, Kant ha avuto gioco facile, alla fine della sua presentazione, nel tirar fuori dalla sua morale una nuova teologia, la famosa ‘teologia morale’. Infatti, gli è bastato soltanto tirar fuori espressamente quei concetti che, implicitamente postulati dal concetto di obbligo, stavano nascosti alla base della sua morale ed erigerli esplicitamente a postulati della ragione pratica.

E così - con grande edificazione per il mondo intero - sembrò che una teologia fosse addirittura scaturita dalla morale filosofica, sostentandosi solamente su di essa. In realtà ciò è potuto accadere solo perché questa etica già poggiava di nascosto su premesse teologiche.

Senza voler mancare di rispetto a Kant, a me sembra che questa sorprendente operazione sia analoga a quella che un prestigiatore ci riserva quando ci fa trovare una cosa là, dove lui prima l’aveva abilmente nascosta.

In termini astratti, il procedimento seguito da Kant è stato quello di promuovere a risultato ciò che avrebbe dovuto essere il principio e il presupposto e di assumere invece come premessa ciò che avrebbe dovuto essere dedotto come risultato.

Così, dopo aver rigirato la frittata sottosopra, nessuno si accorse (neppure lui stesso) che si trattava in realtà ancora della vecchia e ritrita morale teologica. Vedremo nei paragrafi § 6 e § 7 come questa abile manovra è stata realizzata.

In realtà, già prima di Kant l’impostazione della morale in forma imperativa e come dottrina del dovere era pratica comune anche in filosofia. Solo che allora si fondava la morale sulla volontà di una divinità comprovata in qualche altro modo e poi si procedeva di conseguenza.

Ma quando ci si accinge - come fa Kant - a fondare una morale sganciata da qualunque autorità divina e ad erigere un’etica senza presupposti metafisici non si è autorizzati a porle come fondamento quella forma imperativa - ossia, ‘tu hai l’obbligo’ e ‘è tuo dovere’ - senza alcuna giustificazione.

§ 5 Riguardo ai presunti doveri verso noi stessi, in particolare

Tuttavia Kant non ha voluto giustificare quella impostazione imperativa - a lui così cara - della dottrina dei doveri neppure durante la sua presentazione. Inoltre Kant - come i suoi predecessori - ha posto accanto ai doveri verso gli altri anche i doveri verso sé stessi. Siccome io nego assolutamente l’esistenza di doveri verso sé stessi, voglio inserire per inciso qui - dove il contesto è più che appropriato - la mia spiegazione al riguardo.

I doveri verso sé stessi - come tutti i doveri - possono essere di giustizia o di amore. In base all’evidente principio: volenti non fit injuria [se uno è consenziente, non c’è offesa]121 è impossibile che esistano doveri di giustizia verso sé stessi. Infatti, se faccio deliberatamente una determinata cosa, la faccio perché la voglio io. Poi mi succederà qualcosa che ho voluto io, quindi non avrò compiuto alcuna ingiustizia nei miei confronti.

Per quanto riguarda, invece, i doveri di amore verso sé stessi, la morale arriva troppo tardi e si ritrova il lavoro già fatto. L’impossibilità di trasgredire il dovere di amare sé stessi viene data per scontata anche dal supremo comandamento della morale cristiana: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Questo comandamento presuppone che l’amore che uno nutre verso sé stesso sia il massimo e la premessa di ogni altro amore. Giammai si dirà: «Ama te stesso come ami il tuo prossimo». In tal caso, infatti, chiunque avrebbe la sensazione che si stia chiedendo troppo poco.

Oltretutto questo sarebbe l’unico dovere dove si pone all’ordine del giorno una opus supererogationis [opera di super-erogazione, fatta volontariamente ben al di là di quanto richiesto]. Kant stesso, infatti, nei Principi metafisici della dottrina della virtù (13, R 230) dice:

“Ciò che un uomo ineluttabilmente vuole non rientra nel concetto di dovere”.

Questo concetto dei doveri verso sé stessi viene sempre tenuto in molta considerazione ed è ben visto in generale. Non c’è da meravigliarsi. Eppure questo concetto susciterebbe un divertente effetto nel caso che qualcuno cominciasse a preoccuparsi per la propria persona e parlasse seriamente del dovere di conservare sé stesso. Come se non fosse fin troppo evidente che sarà la paura a fargli alzare i tacchi e non ci sarà bisogno di alcun dovere verso sé stessi per dargli la spinta.

Di solito però, quando si parla di doveri verso sé stessi, si fa innanzitutto un discorso, impegolato nei pregiudizi e affrontato con gli argomenti più superficiali, contro il suicidio.

A differenza dell’animale, che è vittima solo di sofferenze corporali e limitate all’immediato presente, l’uomo è vittima anche di sofferenze spirituali incomparabilmente più grandi, che possono riguardare anche il passato e il futuro. In compenso, solo all’uomo la natura ha dato il privilegio di poter deliberatamente porre fine alla propria vita prima ancora del termine che la natura stessa le ha posto, ossia di vivere non necessariamente fin quando è possibile (come l’animale), ma solo fino a quando lui stesso lo desidera. Se l’uomo debba opporsi a questo privilegio per motivi etici è una questione difficile che non si può certo risolvere con i soliti argomenti superficiali.

Anche i motivi contro il suicidio che Kant non si vergogna di addurre (53, R48) e (67, R57), onestamente non si possono definire che miserie spirituali, degne neppure di risposta. Non si può fare a meno di ridere al pensiero che simili considerazioni avrebbero dovuto strappare il pugnale dalle mani di Catone, Cleopatra, Cocceio Nerva122 e Arria (la moglie di Peto).123

Se esistessero realmente dei motivi genuinamente morali contro il suicidio, essi risiederebbero più nel profondo e non potrebbero essere toccati tramite il corto scandaglio dell’etica ordinaria. Questi motivi sono parte integrante di un modo di vedere le cose ancora più elevato del punto di vista del presente trattato.124

Altre cose, che di solito vengono elencate nella rubrica dei doveri verso sé stessi, sono in parte regole di prudenza e in parte prescrizioni dietetiche, che nulla hanno da vedere con la morale vera e propria.

Infine, fra i doveri verso sé stessi si include anche il divieto di atti di lussuria contro natura: l’onanismo, la pederastia e la zoofilia.

Di questi, l’onanismo è principalmente un vizio di gioventù, da sconfiggere più con la dietetica che con l’etica. Per questo motivo gli scritti contro l’onanismo sono stati redatti da medici (come Tissot, tra gli altri), non da moralisti. Dopo che la dietetica e l’igiene hanno assolto il loro compito riguardo a questo problema e lo hanno risolto con argomenti incontestabili, se anche la morale volesse intervenire troverebbe il lavoro già fatto, cosicché le rimarrebbe ben poco da fare.

La zoofilia è un trasgressione del tutto anormale, molto rara, una vera eccezione, che desta la massima indignazione perché contraria alla natura umana. È una cosa che ripugna e che parla da sola contro sé stessa, più di quanto possa fare qualunque argomento razionale. Inoltre, essendo una degradazione della natura umana, la zoofilia è un oltraggio alla specie umana, come tale e in astratto, non al singolo individuo.

Di queste tre deviazioni sessuali solo la pederastia rientra nella competenza dell’etica, dove troverà automaticamente posto nelle considerazioni che faremo sulla giustizia. È questa infatti che viene violata, poiché alla pederastia non si può concedere il volenti non fit iniuria [non vi è alcuna offesa se la controparte è consenziente]. In questo caso la violazione della giustizia consiste nella seduzione di persone giovani e inesperte che vengono corrotte fisicamente e moralmente.

§ 6 Il fondamento dell’etica di Kant

La forma imperativa dell’etica (una vera petitio principii, come dimostrato nel § 4) sta in relazione diretta con una particolare idea prediletta da Kant, la quale, come tale, si può certo giustificare ma non accettare.

Capita talvolta che un medico, avendo usato una particolare medicina in un determinato caso con brillante risultato, la prescriva poi per tutti gli altri casi. A un simile medico paragono Kant.

Con la separazione dello a priori dallo a posteriori nel campo della conoscenza umana, Kant ha compiuto la scoperta più brillante e ricca di conseguenze che la metafisica abbia mai potuto vantare. Perché meravigliarsi allora che egli cerchi di applicare questo metodo e di effettuare questa separazione in ogni altro campo della filosofia? Anche l’etica dovrebbe quindi consistere di una parte pura, conoscibile a priori, e di una parte empirica. Secondo Kant, per la motivazione dell’etica la parte empirica andrebbe respinta poiché inammissibile.

Come aveva già fatto per la fisica nei Principi metafisici della scienza della natura, per l’etica Kant si propone nella Fondazione della metafisica dei costumi di scoprire ed evidenziare la parte pura, cosicché l’etica dovrebbe essere una scienza completamente a priori. Quindi, quella legge morale - oltre a essere data per scontata in anticipo senza alcuna legittimazione, deduzione o prova - dovrebbe anche essere conoscibile a priori, indipendentemente da ogni esperienza interna ed esterna, ossia:

“... un giudizio sintetico a priori che poggia solo su concetti della ragione pura”.125

Ma allora anche la legge morale dovrebbe essere puramente formale come tutto ciò che è conoscibile a priori, e dovrebbe riferirsi solo alla forma, non al contenuto delle azioni. Pensate bene a cosa questo significa! Kant aggiunge esplicitamente (Prologo vi-vii, R 5-6) che la legge morale:

“... non deve essere cercata nella natura soggettiva dell’uomo (nel soggettivo) né nelle circostanze del mondo (nell’oggettivo)”,

e che:

“... neppure in minima parte dovrebbe derivare dalla conoscenza dell’uomo, ossia dall’antropologia”.

Kant ribadisce poi (59, R 52) che:

“... non si potrebbe neppure pensare di voler dedurre la realtà del principio morale dell’uomo dalla particolare costituzione della natura umana”,

e ancora (60, R 52) che:

“... tutto ciò che potrebbe essere dedotto da una particolare disposizione naturale dell’umanità (da certi sentimenti e tendenze, o addirittura da un particolare orientamento che dovesse essere proprio della natura umana), ma che non dovesse necessariamente valere per la volontà di ogni essere dotato di ragione, non potrebbe offrire alcun fondamento alla legge morale”.

Tutto questo prova incontestabilmente che (al contrario di ciò che tutti i filosofastri di questi tempi vorrebbero far credere) Kant non concepisce la presunta legge morale come un dato di fatto della coscienza, ossia, come qualcosa di empiricamente dimostrabile. Con il rifiuto di qualsiasi fondamento empirico della morale Kant esclude ogni esperienza interna e, ancora più decisamente, ogni esperienza esterna.

Kant fonda il suo principio morale (notate bene) non su un dato di fatto dimostrabile della coscienza - come, ad esempio, una disposizione d’animo - né tantomeno su un rapporto oggettivo delle cose nel mondo esterno. No! Entrambe costituirebbero un fondamento empirico. Il fondamento della morale dovrebbe, invece, essere costituito esclusivamente da puri concetti a priori, senza alcun contenuto proveniente dall’esperienza interna né da quella esterna, come un guscio vuoto senza gheriglio.

Valutiamo bene la portata di questa affermazione! Da sotto i piedi ci viene tolto il supporto della coscienza umana e del mondo intero, assieme a ogni esperienza e ad ogni dato di fatto ad essi associato. Non abbiamo più nulla su cui poggiare. A cosa dovremmo allora aggrapparci? Ad un paio di concetti astratti, completamente privi di contenuto e che fluttuano nell’aria.

Da simili concetti - anzi, a rigore dalla pura forma con cui vengono espressi in giudizi - dovrebbe scaturire una legge che dovrebbe valere con ‘assoluta necessità’  ed avere la forza di mettere la museruola e il morso all’impeto dell’ingordigia, all’assalto delle passioni ed allo smisurato egoismo.

A questa concezione preconfezionata dell’imprescindibile e necessaria a priorità e purezza da ogni contenuto empirico del fondamento della morale è strettamente associata un’altra idea tanto cara a Kant. È l’idea che il principio morale (ancora da definire), essendo un giudizio sintetico a priori dal contenuto esclusivamente formale, quindi di pertinenza esclusiva della ragione pura,  dovrebbe come tale valere per ogni possibile essere dotato di ragione.

Solo per questo motivo (quindi, come corollario e per accidens [per accidente]) il principio morale dovrebbe valere anche per gli uomini. Esso non si basa su un sentimento qualsiasi, bensì sulla ragione pura che non conosce altro che sé stessa e il principio di non contraddizione.

Così facendo Kant non considera la ragione pura semplicemente come una facoltà conoscitiva [esclusiva] dell’uomo (come invece essa è) ma la immagina (senza alcuna giustificazione) come qualcosa di a sé stante. In questo modo Kant crea un precedente pericolosissimo, come testimonia il miserabile stato della filosofia nei nostri tempi.

Questo erigere la morale non per gli uomini in quanto uomini, ma per tutti gli esseri dotati di ragione in quanto tali, è un’idea per lui così importante e prediletta, che Kant non si stanca mai di ribadirla ogni volta che si presenta l’occasione.

Io sostengo, invece, che non si è mai autorizzati a stabilire l’esistenza di un genus [genere (categoria sistematica superiore alla specie)], che sperimentalmente si ritrova solo all’interno di una sola species [specie], quando nel concetto di quel genus non si può includere assolutamente nulla che non si ritrovi già in quella determinata species, cosicché tutto ciò che si afferma di quel genus non si può intendere altrimenti che come appartenente a quella determinata species.

Oltretutto, se per costruire quel genere si toglie idealmente e senza alcuna autorizzazione ciò che spetta a quella specie, si annulla proprio la condizione della possibilità di esistenza degli attributi isolati e ipostatizzati [trasferiti dal concreto all’astratto] come genere.

Sappiamo che l’intelligenza [la facoltà esercitata dall’intelletto] in generale è una facoltà esclusiva degli esseri animali, cosicché non siamo autorizzati a pensare che l’intelligenza possa esistere al di fuori e indipendentemente dalla natura animale. Così pure sappiamo che la ragione è una proprietà esclusiva degli uomini, cosicché non siamo autorizzati a pensare che la ragione possa esistere al di fuori della loro specie, né siamo autorizzati a creare un genere di ‘esseri dotati di ragione’ diverso dall’unica specie ‘uomo’.

Tanto meno siamo autorizzati a stabilire leggi in abstracto per degli immaginari esseri ragionevoli. Parlare di esseri ragionevoli oltre agli uomini è come parlare di esseri pesanti oltre ai corpi. Non si può fare a meno di sospettare che, a questo proposito, Kant abbia voluto fare un pensiero ai cari angioletti e contare sulla loro solidarietà per convincere il lettore.

Comunque sia, così facendo si presuppone tacitamente l’esistenza di una anima rationalis - ben diversa dalla anima sensitiva e dalla anima vegetativa - che sopravvivrebbe alla morte e non sarebbe altro che razionale, appunto.

Eppure Kant stesso nella Critica della ragion pura aveva chiaramente e definitivamente posto fine a questa ipostasi [sostanza] del tutto trascendente. Ciò nonostante nell’etica di Kant, soprattutto nella Critica della ragione pratica, si vede costantemente aleggiare sullo sfondo il pensiero che l’essenza intima ed eterna dell’uomo sia la ragione.

Poiché questo problema rientra solo marginalmente nel tema di questo trattato, debbo qui contentarmi di affermare semplicemente il contrario, ossia che la ragione - come qualsiasi altra facoltà conoscitiva - è qualcosa di secondario che appartiene al fenomeno ed è condizionato dall’organismo, mentre il vero nucleo metafisico e indistruttibile dell’uomo è la sua volontà.

Kant ha voluto, dunque, estendere anche alla filosofia pratica lo stesso metodo di separazione tra conoscenza pura a priori e conoscenza empirica a posteriori che aveva utilizzato con tanto successo nella filosofia teoretica. In questo modo ha supposto che, come noi conosciamo a priori le leggi dello spazio, del tempo e della causalità, così pure (o in maniera analoga) dovremmo conoscere a priori anche il filo conduttore morale del nostro agire, il quale si dovrebbe poi manifestare come dovere assoluto nell’imperativo categorico.

Ma che distanza stellare corre tra quelle conoscenze teoretiche a priori e questa presunta legge morale! La conoscenza teoretica, infatti, si basa e si esprime tramite le forme della conoscenza [spazio, tempo e causalità], ossia le funzioni del nostro intelletto, grazie alle quali possiamo intuire il mondo. Tramite queste forme il mondo viene rappresentato, cosicché solo loro possono dettare legge assoluta al mondo reale. Ogni esperienza deve quindi sempre ed esattamente corrispondere ad esse, come tutto ciò che osservo attraverso un vetro azzurro mi si presenta, sempre ed esattamente, colorato di azzurro.

L’esperienza, invece, si fa continuamente beffe della presunta legge morale a priori, come lo stesso Kant ammette quando si pone la domanda se l’esperienza abbia avuto modo, anche una sola volta, di orientarsi secondo questa legge morale. Qui vengono raggruppate sotto il concetto di a-priorità due cose completamente disparate!

Oltretutto Kant non ha tenuto conto che, secondo la sua stessa filosofia teoretica, proprio la a-priorità delle conoscenze che [derivano direttamente dalle forme di conoscenza e che quindi] non derivano dall’esperienza limita la loro validità solo al ‘fenomeno’ (ossia, alla rappresentazione del mondo reale che avviene nella nostra testa a opera dell’intelletto) e nega qualsiasi validità a conoscenze riguardo allo ‘essere in sé’ delle cose (ossia a ciò che esiste di per sé, indipendentemente dalla nostra rappresentazione del mondo).

Quindi anche nella filosofia pratica, se la presunta legge morale scaturisse a priori nella nostra testa, essa dovrebbe essere solo una forma del ‘fenomeno’ e non toccare l’essenza della ‘cosa in sé’. Ma questa conseguenza sarebbe in netto contrasto con la concezione dell’etica kantiana. Kant, infatti, afferma ripetutamente - ad esempio nella Critica della ragion pratica (175, R 228) - che ciò che vi è di morale dentro l’uomo sta in un rapporto così stretto con il vero essere ‘in sé’ delle cose da addirittura toccarlo direttamente.

Anche nella Critica della ragione pura ogni qualvolta la misteriosa ‘cosa in sé’ spunta fuori in qualche modo più chiaramente, essa si fa riconoscere come la volontà morale dentro di noi. Eppure di questa incongruenza [se la legge morale fosse anch’essa una forma a priori dell'intelletto, come tale dovrebbe riguardare solo il fenomeno, non la ‘cosa in sé’] Kant non ha tenuto conto.

Nel paragrafo § 4 ho dimostrato che Kant ha prelevato la forma imperativa dell’etica - ossia i concetti di obbligo, di legge e di dovere - direttamente dalla morale teologica e ha ignorato cosa effettivamente conferisce a questi concetti forza e significato. Per dare poi un fondamento a questi concetti Kant si spinge tanto oltre, da pretendere che il concetto stesso di dovere costituisca anche il motivo per il suo compimento, ossia, che il concetto di dovere sia proprio ciò che obbliga.

Un’azione, secondo Kant (ii, R 18) possiede un genuino valore morale solo se viene compiuta esclusivamente per dovere, solo per amore del dovere, senza alcuna altra propensione a compierla. Il valore morale del carattere si mostra solo quando l’individuo, senza nutrire alcuna simpatia nel cuore, freddo e indifferente verso la sofferenza degli altri (quindi non esattamente nato per diventare un filantropo), elargisce benefici vari solo per il sofferto senso del dovere.

Quest’affermazione che offende il vero sentimento morale, questa apoteosi della mancanza di amore antitetica alla dottrina del cristianesimo - per il quale l’amore sta prima di ogni altra cosa e senza l’amore ogni azione perde qualsiasi valore (1 Corinzi 13.3) - e questa pedanteria morale senza tatto, sono stati ridicolizzati da Schiller in due azzeccati epigrammi, intitolati Scrupolo di coscienza e Decisione.126

Pare che lo spunto originario di questi epigrammi sia stato fornito da alcuni passi della Critica della ragion pratica. Ad esempio (150, R 211):

“Il sentimento che impone all’uomo di assecondare la legge morale è quello di farlo per dovere, non per naturale inclinazione o per iniziativa spontanea non comandata”.

Comandata deve essere! Che morale da schiavi! E ancora (213, R 257):

“I sentimenti di compassione e di partecipazione affettiva delle persone di buon cuore sarebbero addirittura inopportuni, perché potrebbero confondere le loro massime morali dettate dalla ragione, tanto da destare in loro - anche se soggetti alla ragione legislatrice - il desiderio di sbarazzarsene”.

Sono sicuro che ciò che apre le mani al suddetto benefattore, privo di amore e indifferente al dolore degli altri, non è altro (ammesso che non abbia secondi fini) che la deisidaimonia [paura irrazionale, superstizione] da schiavo, sia che il suo feticcio si chiami ‘imperativo categorico’ oppure Fitzlipuzli [nome di una divinità messicana]. Cos’altro potrebbe mai muovere un cuore così duro se non la paura?

In conformità a questa concezione della morale, secondo Kant (13, R 19) il valore morale di un’azione non dovrebbe affatto consistere nell’intenzione con cui è stata compiuta, bensì nella massima morale che è stata seguita. Io, invece, invito [il lettore] a riflettere sul fatto che solo l’intenzione determina il livello di moralità di un’azione, cosicché la medesima azione merita di essere elogiata oppure disapprovata a seconda dell’intenzione con cui è stata compiuta.

Di solito infatti, quando si discute dell’importanza morale di un’azione, si indaga innanzitutto sull’intenzione e si giudica poi in base ad essa. Così pure, d’altro canto, solo adducendo l’intenzione ci si suole giustificare quando un’azione viene fraintesa, oppure chiedere scusa, quando il suo esito è stato controproducente.

Finalmente, a pagina (14, R 20) troviamo la definizione del concetto base dell’etica di Kant: il dovere. Esso sarebbe:

“La necessità di un’azione per rispetto della legge morale”.

Tuttavia ciò che è necessario succede ed è inevitabile, mentre le azioni ‘per puro dovere’ di solito non succedono. Tanto che lo stesso Kant ammette (25, R 28) di non poter addurre alcun esempio sicuro del proposito di agire per puro dovere e (26, R 29) che:

“Tramite l’esperienza è semplicemente impossibile individuare con certezza un solo caso nel quale un’azione conforme al dovere si sia basata semplicemente sull’idea del dovere”

In quale senso si può allora dire che una simile azione é necessaria? Poiché è giusto interpretare un autore sempre nel modo a lui più favorevole, diciamo che secondo Kant un’azione conforme al dovere è oggettivamente necessaria ma soggettivamente casuale.

Ma questa è una cosa più facile da dire che da immaginare. Dove si trova l’oggetto di questa necessità oggettiva, il cui esito viene a mancare di solito (se non addirittura sempre) nella realtà?

Anche volendo essere il più possibile favorevoli nell’interpretazione, non si può fare a meno di pensare che la definizione ‘necessità di una azione’ non sia altro che una perifrasi forzata, ma abilmente camuffata, della parola ‘obbligo’. Il camuffamento risulta ancora più evidente se si osserva che nella medesima definizione viene usata la parola ‘rispetto’ al posto di ‘ubbidienza’. Infatti, nella nota a pagina (16, R 21) Kant dice:

“Rispetto significa semplicemente assoggettare la mia volontà alla legge. La determinazione immediata tramite la legge e la coscienza della legge si chiama rispetto”.

Ma in quale lingua? Ciò che questa frase esprime, nella mia lingua si chiama ‘ubbidienza’.

Tuttavia la parola ‘rispetto’ non deve essere stata scelta per caso, in un modo così infelice, al posto della parola ‘ubbidienza’; deve pur servire a qualche scopo. Evidentemente lo scopo non può essere altro che quello di mascherare la provenienza dell’imperativo categorico e del concetto di dovere dalla morale teologica. Esattamente come la precedente espressione ‘necessità di una azione’ (la quale rimpiazza in maniera forzata e impropria la parola ‘obbligo’) è stata scelta al posto di ‘obbligo’ proprio perché questo è un termine del Decalogo.

Quindi la precedente definizione, secondo cui: “Il dovere è la necessità di un’azione per rispetto della legge”, dovrebbe suonare, in un linguaggio senza forzature e distorsioni, ossia senza alcuna maschera: “Il dovere è un’azione che deve accadere per ubbidienza alla legge”. Questo è il punto.

Passiamo ora alla legge morale, la pietra fondamentale su cui poggia l’etica di Kant. Quale è il suo contenuto? Dove sta scritta? Questo è il problema principale.

Bisogna innanzitutto osservare che si tratta di due domande. La prima riguarda il principio, la seconda il fondamento della morale. Sono due cose ben distinte, sebbene spesso (talvolta di proposito) vengano confuse l’una con l’altra.

Il principio – ossia, la massima suprema - di una etica è l’espressione più breve e concisa che definisce il modo di agire che quella etica prescrive, oppure, quando essa non assume una forma imperativa, il modo di agire al quale essa riconosce un genuino valore morale. Si tratta quindi della sua direttiva, sintetizzata in una frase, verso la virtù in generale, ossia lo Óti [òti: che cosa] della virtù.

Il fondamento di una etica, invece, è il diÒti [diòti: perché] della virtù, ossia il motivo di quell’obbligo, di quella esortazione o di quell’elogio contenuti nel principio. Questo motivo può essere ricercato nella natura dell’uomo, nei suoi rapporti con il mondo esterno, oppure altrove.

Come in tutte le scienze anche nell’etica si dovrebbe distinguere chiaramente il ‘che cosa’ dal ‘perché’. La maggior parte dei moralisti, invece, cancella di proposito questa differenza, verosimilmente poiché il ‘che cosa’ è così facile, mentre il ‘perché’ è terribilmente più difficile da stabilire. Pertanto preferiscono compensare la povertà di una parte con la ricchezza dell’altra e cercano di creare un felice connubio tra Pen…a [penìa: povertà] e PÒroj [pòros: abbondanza] sintetizzando entrambe in una sola frase.

Di solito ci riescono tramite l’accorgimento di non indicare espressamente nella sua semplicità il ‘che cosa’ (a tutti ben noto) ma di costringerlo dentro una formula artificiosa, dalla quale esso può essere dedotto a conclusione di determinate premesse. In questo modo il lettore ha l’impressione di aver appreso non solo la cosa (il principio) ma anche la sua motivazione (il fondamento). Di questo espediente ci si può facilmente accorgere esaminando i principi morali comunemente noti.

Ma io nel seguito non ho intenzione di ricorrere a simili trucchetti. Voglio procedere onestamente, senza equiparare il principio dell’etica al suo fondamento, bensì distinguerli entrambi chiaramente. Ricondurrò quel ‘che cosa’, il principio, la massima (sulla quale tutti i moralisti sono d’accordo, anche se la rivestono in modi differenti) all’espressione che considero la più semplice e pura:

“Neminem laede, imo omnes, quantum potes, juva” [non danneggiare nessuno, anzi, per quanto puoi, aiuta tutti].

Questo è il vero principio, il risultato comune delle loro deduzioni così diverse, al quale tutti i moralisti si preoccupano di dare un fondamento. È lo Óti [che cosa] per il quale si sta ancora cercando il diÒti [perché]. È la conseguenza di cui si cerca il motivo, il datum il cui quaesitum costituisce il problema di ogni etica (come testimonia anche l’indizione del presente concorso). La soluzione di questo problema fornirà il vero fondamento dell’etica che, come la pietra filosofale, si sta cercando da millenni.

Che il datum, lo Óti [che cosa], il principio trovi realmente nella suddetta frase la sua espressione più pura, risulta evidente dal fatto che essa è la conclusione, ciò a cui si vuole arrivare, a partire dalle premesse di ogni altro principio morale. Anzi, ogni altro principio morale potrebbe quasi essere visto come una trascrizione, indiretta e allusiva, di quella semplice espressione.

Questo vale, ad esempio, anche per il comune e triviale principio: quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris [non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te]127 il cui difetto – quello di far riferimento solo alla giustizia tralasciando la bontà - può essere corretto con il ripetere la stessa frase senza il non e il ne.

Con questo emendamento anche questo secondo principio significa: neminem laede, imo omnes, quantum potes, juva. Tuttavia esso ci arriva attraverso un cammino indiretto, tanto da suscitare l’impressione di fornire anche il motivo, il ‘perché’ di quella prescrizione. E invece così non è, poiché il desiderio che una determinata cosa non venga fatta a me non implica affatto che io non debba farla ad altri. Lo stesso succede con tutti gli altri principi, o massime supreme dell’etica, che sono stati formulati fino a oggi.

Ma torniamo alle nostre precedenti domande. Cosa dice quella legge morale, nel cui rispetto, secondo Kant, consiste il dovere e su cosa è fondata? Vedremo che anche Kant ha legato strettamente, ma in maniera artificiosa, il principio con il fondamento della morale.

Ricordo ancora una volta il requisito posto da Kant riguardo al principio dell'etica. Esso deve essere essenzialmente a priori e formale, addirittura un giudizio sintetico a priori, senza alcun contenuto materiale. Inoltre non può poggiare su nulla di empirico, ossia su qualcosa di oggettivo nel mondo esterno o di soggettivo nella coscienza umana (ad esempio, un sentimento, un’inclinazione, un impulso, ecc.).

Kant era perfettamente consapevole della difficoltà di questo compito, tanto da affermare (60, R 53):

“Qui vediamo che la filosofia poggia su un punto delicato, che deve essere ben saldo, sebbene non abbia alcun aggancio ad alcuna cosa in cielo e non sia sorretto da alcuna cosa in terra”.

Proprio per questo dobbiamo attendere con ansia la soluzione del compito che Kant si è posto e aspettare con impazienza, per vedere come dal nulla - ossia da concetti a priori, senza alcun contenuto empirico o materiale - possano sorgere le leggi che materializzano il comportamento concreto dell’uomo. Si tratta di un procedimento che potremmo paragonare al processo chimico tramite il quale da tre gas invisibili come l’azoto, l’idrogeno e il cloro, davanti ai nostri occhi si materializza nello spazio apparentemente vuoto il concreto sale di ammonio.

Ma io voglio esporre il procedimento con cui Kant ha risolto questo difficile problema in maniera più chiara di quanto lui stesso abbia voluto, o potuto, fare. È una cosa oltretutto necessaria, poiché mi pare che raramente questo procedimento sia stato ben compreso. Infatti quasi tutti i kantiani sono incappati nell’errore di credere che Kant ponga l’imperativo categorico come dato immediato della coscienza.

Se così fosse la sua origine sarebbe antropologica e legata all’esperienza, anche se interiore, cosicché il suo fondamento sarebbe empirico. Ma un simile fondamento cozzerebbe frontalmente con il punto di vista di Kant ed è stato da lui ripetutamente respinto. Kant, infatti, afferma (48, R 44):

“Non si può per via empirica stabilire l’esistenza di un simile imperativo categorico”.

E aggiunge (48, R 44):

“La possibilità dell’imperativo categorico va ricercata a priori poiché, a questo proposito, non disponiamo della circostanza favorevole che la sua realtà sia data nell’esperienza”.

Ciò nonostante già Reinhold, il suo primo discepolo, è evidentemente caduto in quell’errore, poiché nei suoi quaderni scrive:

“Kant assume la legge morale come un fatto immediatamente certo, come un dato di fatto originario della coscienza morale”.128

Ma se Kant avesse voluto giustificare l’imperativo categorico come un dato di fatto della coscienza (quindi empirico) non avrebbe certamente evitato di dimostrarlo come tale. Eppure non si trova traccia di qualcosa di simile nelle sue opere.

A quanto mi risulta, l’imperativo categorico compare per la prima volta nella Critica della ragion pura (802 i Ed.; 830 v Ed.) dove sorge ex nunc [improvvisamente] senza alcun preavviso, semplicemente collegato alla frase precedente tramite un ingiustificato ‘quindi’. Formalmente viene presentato per la prima volta nella Fondazione della metafisica dei costumi in un modo del tutto a priori, tramite una deduzione da concetti.

Ciò nonostante la Formula di concordia del criticismo, che si trova nel quinto quaderno di quel periodico di Reinhold così ‘importante’ per la critica filosofica, riporta (p. 112) addirittura la seguente frase:

“Noi distinguiamo l’autocoscienza morale dall’esperienza, con la quale l’autocoscienza - come un dato di fatto originario, oltre al quale nessun sapere può andare - è legata nella coscienza umana. E per autocoscienza morale intendiamo l’immediata coscienza del dovere, ossia della necessità di assumere la legalità del dovere - indipendente dal piacere o dal dolore - come molla di spinta e come filo conduttore delle azioni volontarie”.

Qui ci troviamo senza dubbio di fronte a

“... una considerevole proposizione, che addirittura propone anche qualcosa”.129

Ma parlando seriamente, a quale sfacciata petitio principii vediamo qui giungere la legge morale di Kant! Se ciò che Reinhold scrive fosse vero, l’etica disporrebbe di un fondamento incomparabilmente solido e non ci sarebbe bisogno di alcun concorso a premi per stimolarne la ricerca. In questo caso sarebbe il più grande dei misteri che un simile dato di fatto della coscienza sia stato scoperto solo così tardi, dopo che per millenni si è andati alla ricerca, con solerzia e con fatica, di un fondamento per la morale. Mostrerò in seguito come lo stesso Kant abbia dato lo spunto per incappare in questo deprecabile errore.

Ma in fondo non ci dobbiamo stupire del persistere indisturbato di questo fondamentale errore tra i kantiani. Infatti, mentre lor signori scrivevano innumerevoli libri sulla filosofia di Kant, hanno mai notato la deformazione che la Critica della ragione pura ha subito nella seconda edizione e che l’ha resa un libro incoerente, addirittura contraddittorio? Questa deformazione è venuta alla luce solo recentemente ed è stata dibattuta (a mio parere) molto bene nel prologo di Rosenkranz al secondo volume della Opera omnia di Kant.

Bisogna pur tener conto che l’incessante insegnamento, dalla cattedra e tramite le pubblicazioni, lascia a molti dotti solo poco tempo per apprendere veramente. Il docendo disco [insegnando imparo]130 non è necessariamente vero. Andrebbe piuttosto rivisto con il semper docendo nihil disco [continuando ininterrottamente ad insegnare non imparo nulla].

Addirittura non è senza fondamento quello che Diderot scrive in Il nipote di Rameau:

“Credete forse che questi insegnanti conoscano le scienze che insegnano? Sciocchezze, caro signore, sciocchezze! Se le conoscessero abbastanza per insegnarle, non le insegnerebbero. E perché? Perché avrebbero dovuto prima passare la vita a studiarle”.

Anche Lichtenberg dice:

“Ho più volte avuto modo di notare che gli esperti di professione spesso non conoscono il meglio”.131

Ma torniamo alla morale di Kant e al suo impatto sul pubblico. La maggior parte delle persone, appena il risultato della morale di Kant risulta in accordo con i propri sentimenti morali, si affretta a dare per scontato che la sua deduzione sia esatta. Inoltre, appena sorge qualche difficoltà a proposito di questa morale, non si preoccupa di indagare a fondo, ma preferisce avere fiducia in ciò che dice la gente ‘del mestiere’.

In realtà, la motivazione della legge morale di Kant non consiste affatto nella sua evidenza empirica come dato di fatto della coscienza, né in un appello al sentimento morale, né in una petitio principii dall’altisonante nome (attualmente in voga): ‘postulato assoluto’. Si tratta invece di un sottile procedimento del pensiero, che Kant ci presenta due volte, (17, R 22) e (51, R 46), il quale può essere illustrato come segue.

Kant, disprezzando ogni molla di spinta empirica della volontà, rifiuta in partenza di fondare la legge morale su qualcosa di oggettivo o soggettivo, proprio perché empirico. Come unica risorsa per la legge morale non gli rimane altro che la sua stessa forma. Questa forma è, appunto, la legalità. Ma la legalità consiste nel valere per tutti, ossia nella validità in generale. Questa diventa quindi la sua sostanza: il contenuto della legge morale non è altro che la sua stessa validità universale. Pertanto la legge morale secondo Kant suona così:

“Agisci solo secondo la massima della quale tu allo stesso tempo puoi volere che diventi una legge universale per tutti gli esseri dotati di ragione”.

È la ‘validità in generale’ la vera motivazione - che è stata di solito travisata - del principio morale di Kant e quindi il fondamento (il diÒti [il perché]) di tutta la sua etica (si confronti anche la Critica della ragion pratica (61, R 147), alla fine della nota i).

Tutta la mia sincera ammirazione per l’acutezza di pensiero con cui Kant ha realizzato questo capolavoro! Tuttavia io devo proseguire nella mia rigorosa verifica con il metro della verità.

Vorrei inoltre far notare una cosa (sulla quale ritornerò in seguito) ossia che la ragione, proprio mentre e fintanto che compie il suddetto speciale procedimento del pensiero, acquista l’appellativo di ‘ragione pratica’. L’imperativo categorico della ragione pratica è la legge morale (lo Óti [il che cosa]) che si ottiene come risultato di quello speciale procedimento del pensiero [la sostanza della legge morale non può che coincidere con la sua forma, ossia la legalità, la quale implica la validità in generale].

Quindi la ragione pratica non è affatto - come i più, compreso Fichte, pensano - una facoltà particolare che non si può far risalire ad altro, una qualitas occulta [qualità occulta], una specie di istinto morale simile al moral sense [senso morale] di Hutcheson. È invece - come Kant dice nel prologo (xii, R 8) e poi ha ripetutamente ribadito - una sola e stessa cosa con la ragione teoretica. Anzi, è la ragione teoretica stessa quando essa compie quello speciale procedimento del pensiero.

Fichte, invece, definisce l’imperativo categorico come un ‘postulato assoluto’132. Questa è la moderna, camuffata versione di petitio principii. Come tale Fichte ha sempre considerato l’imperativo categorico, incappando così nell’errore che abbiamo precedentemente evidenziato.

Innanzitutto, la prima obiezione immediata da muovere al fondamento della morale di Kant è la seguente: è impossibile che sorga dentro di noi una legge morale di questo tipo.

Questo evento, infatti, presuppone che all’uomo stesso venga in mente di guardarsi attorno e cercare una legge per la sua volontà, alla quale la volontà stessa debba poi sottomettersi e ubbidire. Ma non è possibile che all’uomo venga in mente di fare spontaneamente questa cosa. Potrebbe farla, semmai, solo dopo che un’altra molla di spinta morale - reale, attiva ed efficiente, la quale, in quanto tale, si manifesta spontaneamente, ha effetto su di lui, anzi, penetra dentro di lui senza essere stata evocata e lo pervade di propria iniziativa - gli abbia dato la prima spinta e gli abbia offerto l’occasione.

Ma questo sarebbe in contraddizione con la premessa posta da Kant, secondo la quale proprio quello speciale procedimento del pensiero (di cui sopra) dovrebbe stare all’origine di ogni concetto morale e costituire il punctum saliens [punto saliente] della moralità.

Fintanto che questo non succede e fintanto che ex hypothesi [per ipotesi] l’uomo non dispone di alcuna altra molla di spinta morale che non sia quell’astratto procedimento del pensiero, le redini delle azioni umane rimangono esclusivamente nelle mani dell’egoismo, mosso dalla legge di motivazione. Così in ogni singolo caso sarebbero gli eventuali motivi empirici ed egoistici a dettare, da soli e indisturbati, le azioni dell’uomo.

Infatti, con simili presupposti, per l’uomo non esisterebbe alcun altro stimolo e neppure alcun altro motivo, in base ai quali dovrebbe venirgli in mente di porsi domande riguardo ad una legge, la quale limiterebbe la sua volontà e alla quale la volontà stessa dovrebbe sottomettersi, né tanto meno di ricercarla e di scervellarsi sopra (l’unica cosa da fare per portare avanti quel singolare procedimento del pensiero).

A questo proposito è assolutamente irrilevante quale grado di chiarezza si voglia attribuire a quel procedimento del pensiero proposto da Kant, oppure se lo si voglia semplicemente ridurre a una riflessione oscuramente percepita. Infatti nessuna modifica al riguardo può intaccare la fondamentale verità che dal nulla deriva il nulla e che ogni effetto implica una causa.

La molla di impulso morale - come ogni altro motivo capace di mettere in moto la volontà - deve assolutamente annunciarsi da sé e avere una certa efficacia, ossia deve essere reale. Ma reale è per l’uomo solo ciò che è empirico o che si presuppone possa essere conseguito empiricamente.

Pertanto la molla di impulso morale deve effettivamente essere empirica. Come tale deve annunciarsi spontaneamente, toccarci senza attendere una nostra richiesta e penetrare autonomamente dentro di noi con una forza tale, da poter perlomeno vincere gli enormi motivi egoistici che le si contrappongono.

La morale ha a che fare con le azioni reali dell’uomo, non con un castello di carta aprioristico, i cui risultati, nelle vicende serie e urgenti della vita, non interessano a nessuno e la cui efficacia, in mezzo all’infuriare delle passioni, sarebbe pari a quella di una siringa d’acqua su un incendio.

Abbiamo già accennato che Kant considerava un grande merito della sua legge morale il fatto di poggiare solo su puri concetti astratti a priori, ossia sulla ragione pura. Come tale essa sarebbe valida non solo per gli uomini, ma anche per tutti gli esseri dotati di ragione. Dobbiamo purtroppo lamentare che i puri concetti astratti a priori, senza contenuto reale e senza alcun fondamento empirico, non possono mai smuovere come minimo gli uomini. Che lo possano fare poi con altri esseri dotati di ragione, non saprei cosa dire.

E qui sta il secondo difetto della motivazione della morale di Kant: la mancanza di un contenuto reale.

Questa cosa è finora passata inosservata, poiché il vero fondamento della morale di Kant (chiaramente esposto in precedenza) probabilmente non è stato minimamente compreso nella sua essenza proprio da coloro che lo hanno celebrato e propagandato. Il secondo difetto dunque è la totale mancanza di realtà, quindi, di possibile efficacia.

Il fondamento della morale kantiana fluttua nell’aria come una ragnatela di sottilissimi concetti privi di contenuto. Non si basa su nulla, quindi non può né sorreggere né smuovere nulla. Oltretutto Kant gli ha posto sulle spalle un carico infinitamente pesante: il presupposto della libertà di volere.

Nonostante Kant abbia ripetutamente espresso il convincimento che la libertà delle azioni umane assolutamente non può esistere, che neppure teoricamente è mai ipotizzabile (Critica della ragion pratica 168, R 223) e che se si conoscessero esattamente il carattere di un uomo e i motivi che agiscono su di lui sarebbe possibile calcolare matematicamente le sue azioni come le eclissi di luna (Critica della ragion pratica 177, R 230), ora invece, semplicemente sul credito di quel fondamento della morale fluttuante nell’aria, la libertà viene ammessa - seppure idealiter [idealmente] e come postulato - tramite la famosa conclusione: “Tu puoi, perché tu devi”.

Ma una volta che si è chiaramente riconosciuto che una cosa non è e che non può essere, a che serve tutto quel postulare? Si dovrebbe piuttosto rigettare ciò su cui quel postulato si fonda, poiché si tratta di un presupposto impossibile, secondo la regola a non posse ad non esse valet consequentia [se una cosa non può essere, non esiste], e anche tramite una dimostrazione apagogica [per assurdo] che ribalterebbe l’imperativo categorico. Qui, invece, si costruisce una dottrina falsa sopra un’altra.

Kant stesso deve essersi reso conto, nel suo intimo, dell’insufficienza di un fondamento della morale fatto solo di un paio di concetti astratti e senza contenuto. Infatti nella Critica della ragion pratica (dove procede in generale con minor rigore e metodo, anche perché si è fatto più audace, grazie alla fama conquistata nel frattempo) Kant a poco a poco cambia la natura del fondamento della sua etica, dimentica quasi che è solo una ragnatela di combinazioni astratte di concetti, e sembra voler diventare più concreto. In questo libro (81, R 163) Kant dice:

“La legge morale è come un faktum [fatto] della ragione pura”.

Cosa dobbiamo pensare di questa strana espressione? Un fatto [è una conoscenza empirica e come tale] viene generalmente distinto da ciò che è conosciuto esclusivamente tramite la ragione pura. Così pure (83, R 164) Kant parla di una “ragione che determina direttamente la volontà”. A questo proposito bisogna ricordare che nella Fondazione della metafisica dei costumi Kant respinge ogni fondamento di tipo antropologico e ogni dimostrazione dell’imperativo categorico come dato di fatto della coscienza, perché sarebbe un fondamento empirico.

Imbaldanziti da queste occasionali esternazioni, i successori di Kant si spinsero molto più avanti su questa strada. Fichte addirittura ammonisce:

“... di non lasciarsi fuorviare, nello spiegare ulteriormente la coscienza che noi abbiamo dei doveri e di volerla dedurre da motivi fuori di essa, poiché questo pregiudicherebbe la dignità e l’assolutezza della legge”.

Bella scusa! E aggiunge:

“Il principio della moralità è un pensiero che si fonda sull’intuizione intellettuale della facoltà assoluta dell’intelligenza e si identifica direttamente con la stessa intelligenza pura”.133

Dietro quali espressioni retoriche un simile pallone gonfiato nasconde la sua mancanza di giudizio! Chi desiderasse convincersi di come i kantiani abbiano completamente ignorato, o a poco a poco dimenticato, il fondamento e la deduzione originali della legge morale di Kant, potrebbe leggere, ad esempio, un saggio degno di nota di Reinhold, dove si afferma che:

“Nella filosofia di Kant l’autonomia (che è un tutt’uno con l’imperativo categorico) è un dato di fatto della coscienza, e non deve essere ricondotta a null’altro, perché essa si annuncia tramite una coscienza immediata”.

Ma allora l’imperativo categorico avrebbe un fondamento antropologico, quindi empirico, in contrasto con quanto espressamente e ripetutamente affermato da Kant. Ciò nonostante Reinhold aggiunge:

“Sia nella filosofia pratica del criticismo, sia nell’intera filosofia trascendentale purificata e superiore, l’autonomia è ciò che fonda dopo aver fondato sé stessa, che non è capace e neppure necessita di ulteriore fondamento, l’assolutamente originale, il di per sé vero e certo, la verità atavica, il principio assoluto, il prius [primo] kat’ ™xoc»n [kat exochén: per eccellenza]”.134

Pertanto chi volesse presupporre, esigere o cercare un fondamento di questa autonomia al di fuori della stessa verrà sospettato, dalla scuola kantiana, di mancanza di coscienza morale135 oppure di errore speculativo a causa di falsi concetti fondamentali. La scuola di Fichte e Schelling lo dichiarerà affetto da quella mancanza di spirito che rende incapaci di filosofare, tipica del carattere del popolo profano e della pigra mandria - o meglio, con le pittoresche espressioni di Schelling - del profanum vulgus [volgo profano] e dello ignavum pecus [gregge ignavo].

Ognuno può comprendere quale possa essere la credibilità di una dottrina che tenta di estorcere la verità con simili assi. Proprio con il timore che questi incutevano possiamo spiegare la credulità - veramente infantile - con cui i kantiani hanno accettato l’imperativo categorico, dandolo per affare fatto. Nella scuola kantiana, infatti, la contestazione di un’affermazione teorica poteva essere scambiata per mancanza di rispetto morale.

Anche se nella propria coscienza uno non aveva capito molto dell’imperativo categorico, preferiva starsene zitto, pensando dentro di sé che l’imperativo categorico doveva essere meglio sviluppato ed essersi manifestato più chiaramente nella coscienza degli altri. A nessuno infatti piace rivoltare la propria coscienza all’esterno.

Nella scuola kantiana la ragione pratica, con il suo imperativo categorico, sembra diventare sempre più un fatto iperfisico, un tempio di Delfo dentro l’animo umano, nelle cui sacre tenebre l’oracolo pronuncia verdetti infallibili, non su cosa accadrà, ma su cosa deve accadere.

Purtroppo, una volta accettata - o meglio, insinuata ed estorta - l’immediatezza della ragione pratica venne poi estesa anche alla ragione teoretica, dal momento che lo stesso Kant ha ripetutamente affermato che le due ragioni sono una cosa sola (xii, R 8).

Così, una volta ammesso che dal punto di vista pratico la ragione è in grado di dettare legge ex tripode [dal tripode]136, si apre immediatamente la via per estendere lo stesso privilegio anche alla ragione teoretica, sorella del tutto consustanziale [di identica natura] della ragione pratica, dichiarando anche lei assolutamente sovrana, con immenso ed evidente vantaggio.

Ecco allora tutti i filosofastri e i visionari - con in testa il delatore degli atei F. H. Jacobi - infilare di corsa la porticina, che inaspettatamente era stata loro aperta, per portare al mercato le loro cianfrusaglie, o almeno, per portare in salvo quanto avevano di più caro tra le cose di famiglia, che la dottrina di Kant minacciava di distruggere.

Come un solo passo falso in gioventù può rovinare l’intero corso della vita di una persona, così il solo falso presupposto di Kant riguardo all’esistenza di una ragione pratica dotata di credenziali addirittura trascendenti e legittimata ad emettere sentenze ‘senza motivazione’ come la più alta corte d’appello, ebbe come conseguenza che dalla rigorosa e sobria filosofia di Kant sorgessero dottrine a lei del tutto eterogenee.

Dottrine di una ragione che all’inizio ha solo un lieve presentimento del ‘soprasensibile’, ma che in seguito lo percepisce chiaramente e infine lo intuisce intellettualmente con tutta forza. Da allora, grazie alle affermazioni e alle esternazioni ‘assolute’ di una simile ragione, pronunciate ex tripode, ogni visionario ha potuto spacciare le proprie fantasticherie. Questo inedito privilegio della ragione teoretica è stato ampiamente sfruttato.

Qui, dunque, sta l’origine di quel modo di filosofare, sorto subito dopo la dottrina di Kant, che consiste nel mistificare, imporre, ingannare, gettare sabbia negli occhi e vendere aria fritta. Questa epoca verrà ricordata nella storia della filosofia come il ‘periodo della disonestà’, poiché in essa il carattere di onestà e della ricerca comune assieme al lettore, che si trova negli scritti di tutti i precedenti filosofi, è scomparso. Ogni pagina dei loro scritti dimostra che i filosofastri di questa epoca non vogliono insegnare nulla, ma solo ammaliare il lettore.

Come eroi di questa epoca brillano Fichte e Schelling, e infine - anche se del tutto indegno e ad un livello più basso di questi due uomini prodigio - quel goffo ciarlatano senza spirito di Hegel. A far parte del coro si son messi poi tutti quei professori di filosofia che, con serio cipiglio, intrattengono il loro pubblico sullo ‘infinito’, sullo ‘assoluto’ e su altre cose simili, di cui non possono sapere nulla.

Come gradino, per risalire alla facoltà divinatoria della ragione, valse perfino il seguente penoso espediente: dal momento che la parola Vernunft [ragione] deriva dal verbo vernehmen [percepire], la ragione deve essere la facoltà di percepire il cosiddetto ‘soprasensibile’, ossia la Nefelokokkug…a [nefelokokkughìa: Nubicuculia].137

Questa bella pensata ebbe un immenso successo, fu raccontata in Germania per trent’anni ininterrottamente e con immenso diletto, anzi, divenne la prima pietra delle facoltà universitarie di filosofia.

Invece è chiaro che il sostantivo Vernunft [ragione] deriva certamente dal verbo vernehmen [percepire], ma solo perché la ragione conferisce all’uomo il vantaggio rispetto agli animali, non solo di ascoltare, ma anche di percepire, non quello che sta succedendo nella Nubicuculia, bensì quello che un uomo ragionevole dice a un altro. È il messaggio con gli altri che viene percepito dall’uomo e la facoltà [che consente questa percezione] è detta Vernunft [ragione].

Questo è il significato che in ogni tempo tutti i popoli e tutte le lingue hanno attribuito alla parola ‘ragione’: la facoltà di elaborare concetti generali, astratti, non intuitivi, che vengono espressi e fissati mediante la parola. Questo è il solo privilegio che l’uomo possiede realmente rispetto all’animale. È la rappresentazione astratta, il concetto, ossia la nozione [sintetica] di più cose singole, che determina il linguaggio.

Tramite il linguaggio, i concetti determinano il vero e proprio pensiero, e tramite il pensiero la coscienza non solo del presente - che anche gli animali possiedono - ma anche del passato e del futuro. Tramite tutto questo determinano poi il lucido ricordo, la riflessione, la previsione, il proposito, l’azione congiunta di più persone, lo Stato, il commercio, l’arte, le scienze, la religione, la filosofia, in breve, tutto quanto contraddistingue così marcatamente la vita dell’uomo da quella dell’animale.

Per l’animale esistono solo le rappresentazioni intuitive, quindi, solo i motivi immediati. Per questo la dipendenza delle sue azioni volontarie dai motivi balza subito all’occhio. Per l’uomo, invece, la dipendenza dalle intuizioni del momento è minore, anche se lui pure è mosso (secondo il suo carattere individuale) dai motivi con ferrea necessità. Ma i motivi che lo muovono, di solito, non sono quelli intuitivi e immediati, bensì le rappresentazioni astratte (i concetti e i pensieri) che sono in ogni caso il frutto di precedenti intuizioni, ossia dell’influsso che il mondo esterno ha esercitato su di lui.

Questo conferisce all’uomo una libertà relativa, in confronto a quella dell’animale. L’uomo, infatti, non è – come l’animale - determinato da ciò che gli succede intorno e che intuisce al momento, bensì dal sopraggiungere dei pensieri tratti da precedenti esperienze o acquisiti tramite l’insegnamento. Il motivo che muove necessariamente anche l’uomo rimane nascosto nella sua testa e non può essere scorto al momento dal testimone oculare dell’azione.

Tutto questo conferisce una caratteristica speciale, completamente diversa da quella appariscente dell’animale, non solo a tutte le sue azioni, ma anche ai suoi movimenti. L’uomo sembra quasi mosso da sottilissimi e invisibili fili, cosicché tutti i suoi movimenti hanno un’impronta di intenzionalità e di premeditazione, che conferisce loro una aspetto di indipendenza e li differenzia, a vista d’occhio, da quelli dell’animale. Tutte queste grandi differenze derivano esclusivamente dalla facoltà umana di elaborare rappresentazioni astratte [rappresentazioni di rappresentazioni], ossia i concetti.

Questa facoltà è l’essenza della ragione, il patrimonio che contraddistingue l’uomo, il cosiddetto tÕ lÒgimon, tÕ logistikÒn [to lòghimon, to loghistikòn: ragione, ragionevolezza], ratio, la ragione, il discorso, raison, reason, discourse of reason.

Se mi si chiedesse quale è la differenza tra l’intelletto (noàj [nùs], intellectus, entendement, understanding) e la ragione, risponderei che l’intelletto è quella facoltà conoscitiva che anche gli animali possiedono (seppure in diverso grado, mentre l’uomo la possiede al massimo), ossia la consapevolezza - diretta e anteriore a ogni esperienza - della legge di causalità, la quale costituisce la forma e nella quale consiste l’essenza dell’intelletto stesso.

Dall’intelletto dipende innanzitutto l’intuizione del mondo esterno. I sensi, infatti, di per sé sono solo capaci di produrre la sensazione, la quale non è affatto l’intuizione, ma solo il materiale per costruire l’intuizione:

“L’intelletto vede e ascolta, tutto il resto è sordo e cieco”.138

L’intuizione sorge quando noi riferiamo le sensazioni trasmesse dai sensi direttamente alla loro causa, la quale, proprio grazie a questa operazione dell’intelletto, si configura come oggetto esterno nello spazio (un’altra forma dell'intelletto). Questo prova che noi conosciamo a priori la legge di causalità. Questa legge, infatti, non proviene dall’esperienza, poiché l’esperienza presuppone l’intuizione degli oggetti esterni, la quale è possibile solo tramite la legge di causalità.

Nel grado di perfezione di questa immediata comprensione dei rapporti di causalità consiste la superiorità dell’intelletto, l’intelligenza, la sagacità, la profondità e l’acume, che stanno alla base della conoscenza del nesso tra le cose, nel senso più ampio della parola. Sono l’acume e l’esattezza di comprensione ciò che rende una persona più capace di intendere, più intelligente e più astuta di un’altra.

In tutti i tempi si è definito ‘ragionevole’ chi non si lascia guidare dalle impressioni intuitive, bensì dai pensieri e dai concetti, e intraprende qualcosa sempre con riflessione, logica e prudenza. In ogni paese un comportamento di questo tipo è definito ‘ragionevole’. Tuttavia per nessun motivo esso implica giustizia e amore verso il prossimo. Al contrario: una persona può essere estremamente ragionevole, ossia agire con riflessione, logica, prudenza, secondo un piano prestabilito, metodicamente, e tuttavia seguire principi estremamente egoistici, ingiusti e addirittura sprezzanti.

A nessuno, prima di Kant, era mai venuto in mente di identificare un comportamento giusto, virtuoso e nobile con un comportamento ragionevole. Al contrario: questi due comportamenti sono sempre stati considerati ben differenti e tenuti separati. Il comportamento razionale dipende dal tipo di motivazione, mentre il comportamento morale dipende dal tipo di principio [etico].

Solo dopo Kant la virtù è stata identificata con la razionalità, dal momento che anche la virtù dovrebbe scaturire dalla ragione pura. Ma questo è in netto contrasto con il modo di esprimersi di tutti i popoli, il quale non è certo sorto per caso, ma è il frutto della conoscenza universale - quindi concorde - degli uomini.

Razionalità e malvagità possono benissimo convivere; anzi, solo dalla loro unione possono sorgere i più grandi ed efferati crimini. Così pure possono convivere irrazionalità e nobiltà d’animo. Ad esempio, se donassi oggi, a chi ne ha bisogno, ciò di cui domani io stesso avrei ancora più bisogno, oppure se regalassi, a chi versa nel bisogno, la somma di denaro che spetta a un mio creditore, e così via.

Purtroppo, il promuovere la ragione a fonte della virtù - affermando che come ragione pratica essa è capace di emettere, come un oracolo, imperativi categorici puri a priori - insieme alla falsa teoria, esposta nella Critica della ragion pura, secondo la quale la ragione teoretica sarebbe una facoltà orientata prevalentemente verso lo ‘assoluto’ sotto forma di tre presunte idee [psicologica (anima), cosmologica (mondo) e teologica (Dio)] - la cui impossibilità è riconosciuta, anche questa a priori, dall’intelletto - hanno dato luogo a un exemplar vitiis imitabile [un modello imitabile anche nei suoi difetti].139

Questo errore ha indotto i filosofi ciarlatani - con Jakobi in testa - alle assurde affermazioni, che la ragione sarebbe in grado di percepire direttamente il ‘soprasensibile’, che sarebbe una facoltà orientata verso cose al di là di ogni esperienza (quindi verso la metafisica), che conoscerebbe direttamente e intuitivamente il fondamento primo di tutte le cose e di tutta l’esistenza, il soprasensibile, l’assoluto, la divinità, ecc.

Se si avesse voluto usare la ragione stessa, invece di idolatrarla, si sarebbe potuto controbattere a simili affermazioni, già da molto tempo, con la seguente semplice osservazione.

Se l’uomo, grazie alla ragione (la quale è il suo esclusivo strumento per risolvere l’enigma del mondo), possedesse dentro di sé una metafisica innata che ha bisogno solo di essere coltivata, tra tutti gli uomini regnerebbe una concordanza così perfetta sui temi della metafisica, come sulle verità dell’aritmetica e della geometria. Sarebbe anche assolutamente impossibile che sulla terra esistano un così grande numero di religioni e un numero ancora più grande di sistemi filosofici radicalmente differenti. Chiunque divergesse dalla maggioranza, riguardo ai punti di vista religiosi e filosofici [della metafisica], verrebbe subito catalogato come una persona nel cui cervello qualcosa non funziona.

Così pure avrebbe dovuto imporsi la seguente semplice constatazione. Se scoprissimo una specie di scimmie capaci di costruire intenzionalmente gli strumenti da utilizzare per la lotta, per l’edilizia o per qualsiasi altro uso, non esiteremmo ad ammettere che questi animali sono dotati di ragione. Eppure, quando troviamo dei popoli selvaggi senza alcuna religione o metafisica - come ce ne sono tanti - non ci passa neppure per la testa di non riconoscere a loro, per questa loro mancanza, di essere dotati di ragione.

Riguardo alle presunte conoscenze soprasensibili, Kant, con la sua critica, ha ricondotto la ragione entro i suoi confini. Ma una ragione alla Jakobi, capace di intuire direttamente il soprasensibile, Kant non l’avrebbe certamente ritenuta degna di alcuna critica. E intanto nelle università una simile ragione, dotata di poteri divinatori immediati, continua ad essere propinata agli studenti innocenti.

Nota

Se vogliamo scoprire la vera origine dell’ipotesi della ragione pratica dobbiamo risalire ulteriormente lungo il suo albero genealogico. Troveremo allora che essa proviene da una dottrina che lo stesso Kant ha nettamente respinto. Tuttavia, come una reminiscenza di un precedente modo di pensare, questa dottrina sta segretamente, quasi inconsapevolmente, alla base dell’ipotesi kantiana della ragione pratica, con il suo imperativo categorico e la sua autonomia.

Si tratta della psicologia razionale, secondo la quale l’uomo è fatto di due sostanze del tutto eterogenee: il corpo materiale e l’anima immateriale. Platone è stato il primo a proclamare questo dogma e ha cercato poi di dimostrarlo come verità oggettiva. Cartesio l’ha portato al massimo della perfezione e l’ha posto in primo piano, dotandolo di una determinata spiegazione e di rigore scientifico.

Tuttavia proprio in questo modo venne alla luce la sua falsità, come fu successivamente dimostrato da Spinoza, Locke e Kant. Da Spinoza - la cui filosofia consiste soprattutto nel contestare il dualismo del suo maestro - il quale, in netto e manifesto contrasto con le due sostanze postulate da Cartesio, ha così formulato la sua tesi principale:

“La sostanza pensante e la sostanza estesa sono una sola e medesima sostanza, che viene intesa a volte con questo e a volte con quell’attributo”.140

Da Locke, il quale contesta l'esistenza di idee innate, e sostiene che ogni conoscenza deriva dall’esperienza e che non è impossibile che la materia possa pensare. Da Kant, tramite la critica della psicologia razionale, come risulta nella prima edizione della Critica della ragion pura.

Sull’altro fronte, invece, Leibniz e Wolff si sono battuti per il partito sbagliato. Questo ha fatto sí che a Leibniz venisse conferito l’immeritato onore di essere paragonato al grande Platone, a lui così eterogeneo. Ma non è questa la sede adatta per esporre tutte queste teorie.

Secondo la psicologia razionale l’anima è originariamente ed essenzialmente un essere che conosce. Solo in seguito diventa anche un essere che vuole. A seconda che, nelle sue attività fondamentali, l’anima stia operando solo per sé stessa senza coinvolgere il corpo, oppure stia operando congiuntamente con il corpo, essa può disporre di una maggiore o minore facoltà conoscitiva, come pure di una maggiore o minore facoltà volitiva.

All’apice delle sue facoltà l’anima immateriale opera essenzialmente per sé stessa, senza coinvolgimento del corpo. È un intellectus purus [puro intelletto] che si occupa solo di rappresentazioni e di atti volitivi puramente spirituali, i quali spettano solo a lei, non sono per nulla sensoriali e nulla hanno a che fare con tutto ciò che è legato ai sensi, ossia che proviene dal corpo. Secondo Cartesio:

“La conoscenza pura non ha nulla a che fare con le immagini corporee”.141

In questo stato l’anima conosce solo cose puramente astratte, universalia [cose universali], concetti innati, aeternae veritates [verità eterne], ecc. Così pure la sua volontà si trova sotto l’influsso di rappresentazioni puramente spirituali.

Al contrario, la inferiore facoltà conoscitiva e volitiva è opera dell’anima quando essa agisce in stretta collaborazione con il corpo e i suoi organi, i quali pregiudicano la sua attività puramente spirituale. Proprio durante questa attività inferiore dovrebbe sorgere la conoscenza intuitiva, poco chiara e confusa, mentre quella astratta, fatta di concetti dedotti, dovrebbe essere la conoscenza chiara!

La volontà, quando viene determinata dalla conoscenza condizionata dai sensi, è bassa e per lo più malvagia, poiché il suo volere è guidato dall’eccitazione dei sensi. Il volere genuino, invece, è guidato dalla ragione pura e appartiene esclusivamente all’anima immateriale. Questa dottrina è stata esposta chiaramente dal cartesiano De la Forge:

“Non sono che due forme della stessa volontà: quella che è chiamata ‘appetito sensoriale’, quando viene destata per mezzo dei giudizi che si formano in conseguenza delle percezioni dei sensi, e quella che viene chiamata ‘appetito razionale’, quando la mente forma giudizi riguardo alle sue stesse idee, indipendentemente dalla confuse rappresentazioni dei sensi, che sono causa delle sue inclinazioni. Il motivo per cui queste due diverse propensioni della volontà sono state prese per due diversi appetiti, è il fatto che spessissimo uno si oppone all’altro. Infatti la rappresentazione che la mente costruisce sulla base delle sue proprie percezioni non sempre coincide con i pensieri che le vengono suggeriti dalla condizione del corpo. Quest’ultima spesso costringe la mente a volere qualcosa, mentre la sua parte razionale le fa desiderare una cosa diversa”.142

Da reminiscenze oscuramente consapevoli della psicologia razionale trae origine la dottrina kantiana dell’autonomia della volontà, la quale - come voce della pura ragione pratica - detta legge per tutti gli esseri dotati di ragione, in quanto tali. Essa è determinata solo da motivi formali, al contrario di quelli materiali, che determinano la facoltà più bassa del desiderio, alla quale la facoltà più elevata si oppone.

In realtà questa dottrina, sistematicamente presentata per la prima volta da Cartesio, si ritrova già presso Aristotele, il quale la espone chiaramente nel De anima (i, 1). Perfino Platone l’aveva già preparata e accennata nel Fedone (Ed. Bipontine, p.188).

In seguito all’opera di sistematizzazione e di consolidamento fatta da Cartesio, ritroviamo questa dottrina cent’anni dopo ancora baldanzosa, posta in primo piano, ma, proprio per questo, esposta al rischio di deludere.

Il Muratori fornisce un resumé [riassunto] della dottrina allora in voga in Della forza della fantasia umana (c. 13 e 14). In quest’opera la fantasia è un organo puramente materiale, corporale e cerebrale, la cui funzione è di intuire il mondo esterno tramite i dati dei sensi. La fantasia è la facoltà bassa di conoscenza, mentre all’anima immateriale spetta il compito di pensare, di riflettere e di giudicare.

Ma in questo modo la cosa diventa evidentemente problematica, e lo si doveva avvertire. Infatti, se la materia fosse capace di procedere alla complicata operazione di comprendere intuitivamente il mondo, non si capisce perché non dovrebbe anche essere capace di astrarre i concetti, partendo dall’intuizione, e poi anche di tutto il resto.

Dopo tutto l’astrazione concettuale non è altro che lasciar cadere le determinazioni non necessarie per un determinato scopo, ossia le differenze individuali e specifiche. Ad esempio, con il lasciare da parte quanto è specifico della pecora, del bue, del cervo, e del cammello si può arrivare al concetto di ruminante. Tramite questa operazione le rappresentazioni perdono il loro carattere intuitivo, cosicché, come rappresentazioni non intuitive e semplici concetti astratti, necessitano solo della parola per essere fissati nella coscienza e utilizzati.

Purtroppo dobbiamo constatare che Kant, mentre costruisce la sua dottrina della ragione pratica e dell’imperativo categorico, si trova ancora sotto l’influsso postumo di quella vecchia dottrina [la psicologia razionale].

§ 7 Il supremo principio dell’etica di Kant

Dopo aver illustrato nei precedenti paragrafi il vero fondamento dell’etica di Kant, passiamo ora al supremo principio che poggia su quel fondamento, a esso accuratamente legato e con esso cresciuto in maniera distorta. Ricordiamo che il supremo principio morale (l’imperativo categorico) di Kant dice:

“Agisci solo secondo la massima che, allo stesso tempo, tu possa volere che valga come legge universale per tutti gli esseri ragionevoli”.143

Osserviamo - per inciso - che è un curioso procedimento consigliare, a chi si suppone stia cercando una massima per il proprio comportamento, di andare innanzitutto a cercare una massima per il comportamento di ogni altro possibile essere ragionevole.

Prendiamo piuttosto atto che l’imperativo categorico di Kant non è ancora il principio vero e proprio della morale [ossia, lo Óti (òti: che cosa) della virtù] ma solo una regola euristica [metodica] per arrivarci, ossia un’indicazione riguardo a dove trovarlo. Quindi, non si tratta ancora di denaro sonante, bensì di una cambiale sicura. E chi dovrebbe riscuoterla? A dire il vero un esattore del tutto inatteso: nientemeno che l’egoismo (come subito dimostreremo).

Dunque, la massima stessa, secondo la quale io posso volere che tutti agiscano, sarebbe [secondo Kant] il vero principio della morale. Il mio ‘poter volere’ sarebbe quindi il cardine attorno al quale ruota l’indicazione data.

Ma cosa posso io realmente volere o non volere? Per stabilire cosa io posso volere in vista della suddetta massima, ho evidentemente bisogno di una ulteriore regola, tramite la quale io possa innanzitutto trovare la chiave di quell’indicazione che mi è stata data [nell'imperativo categorico] quasi come un ordine sigillato. Ma dove trovare questa regola?

Questa non può essere trovata in nessun altro luogo se non nel mio egoismo. È l’egoismo la regola immediata, sempre disponibile, originaria e viva, di ogni atto della volontà. Rispetto a ogni principio morale l’egoismo ha perlomeno il privilegio dello jus primi occupantis [il diritto del primo occupante]. L’indicazione contenuta nell’imperativo categorico di Kant, per trovare il principio vero e proprio (la massima) della morale, poggia infatti sulla tacita premessa che io possa volere solo ciò che è meglio per me.

Dal momento che, per stabilire la massima comune da seguire, io mi devo necessariamente considerare non sempre come parte attiva, ma a volte anche come parte passiva, da questo secondo punto di vista il mio egoismo decide per la giustizia e per l’amore verso il prossimo, non perché esso desideri praticare queste virtù, bensì per beneficiarne. Proprio come quell’avaro che, dopo aver ascoltato una bella predica sulla beneficenza, esclama: “Ben detto! Che bello! Quasi quasi vorrei anch’io andare a chiedere l’elemosina”.

Lo stesso Kant non può fare a meno di allegare questa indispensabile chiave di interpretazione all’indicazione contenuta nel suo principio supremo della morale (l’imperativo categorico). Ma non lo fa immediatamente nell’enunciare l’imperativo stesso, poiché ciò potrebbe suscitare scandalo. Lo fa, invece, ad una decente distanza, in fondo al testo, affinché non balzi subito all’occhio che qui, nonostante i sublimi preparativi a priori, sullo scranno del giudice siede l’egoismo stesso a pronunciare l’ultima parola.

Solo dopo aver deciso dal punto di vista dell’eventuale ruolo passivo, l’egoismo ufficializza la sua decisione anche per quello attivo. Con questo accorgimento, Kant afferma (19, R 24):

“Io non posso volere, come norma universale, il mentire, altrimenti nessuno mi crederebbe più, oppure mi ricambierebbe con la stessa moneta”.

E ancora (55, R 49):

“L’universalità di una legge, secondo la quale ognuno possa promettere ciò che gli pare, con il proposito poi di non mantenere la promessa, renderebbe impossibile la promessa stessa e il fine che, con essa, ci si prefigge. Nessuno, infatti, ci crederebbe più”.

A proposito dell’amore del prossimo (56, R 50):

“Chi decidesse di non agire per amore del prossimo rischierebbe di contraddire se stesso. Infatti, potrebbe prima o poi aver bisogno dell'amore e della partecipazione degli altri ma, a causa di quella norma scaturita dalla sua particolare volontà, toglierebbe a sè stesso ogni speranza di ricevere l'aiuto desiderato”.

Così pure:

“Se tu avessi la certezza che tutti guardano con assoluta indifferenza alla miseria altrui, continueresti ad aiutare il prossimo?” 144.

«Con quanta leggerezza dichiariamo ingiusta una legge per il semplice fatto che va conto i nostri interessi»145 sarebbe la risposta!

Questi passi chiariscono abbastanza bene in quale senso bisogna intendere il ‘poter volere’ dell’imperativo categorico di Kant. Ma come stiano realmente le cose, riguardo al principio supremo della morale di Kant, vien detto nella maniera più chiara nei Principi metafisici della dottrina della virtù (p. 30):

“Ognuno, infatti, desidera essere aiutato. Ma se proclamasse apertamente la sua massima di non voler aiutare gli altri, chiunque sarebbe autorizzato a non prestargli aiuto. Quindi una massima solipsistica [esasperatamente egocentrica] finirebbe con il contraddire sé stessa”.

‘Sarebbe autorizzato’ dice, ‘sarebbe autorizzato’!

Qui si afferma, nella maniera più chiara possibile, che l’obbligo morale si basa esclusivamente sul presupposto della reciprocità. Si tratta, quindi, di una morale egoistica. È l’egoismo che detta i termini dell’obbligo morale, accettando astutamente di scendere a compromessi, a patto che l’obbligo sia reciproco. Questo andrebbe bene per motivare il principio della convivenza civile, ma non il principio della morale.

Quando nella Fondazione della metafisica dei costumi (81, R 67) Kant dice:

“Il principio «agisci ogni volta secondo la massima che, allo stesso tempo, tu possa volere che valga come legge universale» è la sola condizione affinché una volontà non possa mai entrare in conflitto con sé stessa”

il vero significato della parola ‘conflitto’ è il seguente. Se uno proclamasse la massima dell’ingiustizia e della mancanza d’amore verso il prossimo, la dovrebbe revocare più tardi - quando eventualmente lui stesso passa nel ruolo di chi soffre - e in tal modo finirebbe con il contraddirsi.

Dopo questa spiegazione risulta perfettamente chiaro che il principio supremo della morale di Kant non è affatto un imperativo categorico - come si continua a sostenere - ma, di fatto, un imperativo ipotetico. Esso, infatti, presuppone tacitamente che la massima da stabilire per il mio comportamento, quando la elevo a legge universale, diventa anche legge nei miei confronti. A questa condizione - ossia, diventare io stesso eventualmente la parte passiva - non posso assolutamente volere nè l’ingiustizia, nè la mancanza d’amore.

Ma se nello stabilire la massima di validità universale io facessi a meno di questa condizione, confidando di rimanere sempre dalla parte attiva e mai passiva (per esempio, grazie alle mie superiori forze fisiche e spirituali) e se non esistesse alcun altro fondamento della morale oltre a quello di Kant, allora potrei benissimo scegliere come massima di validità universale l’ingiustizia e la mancanza d’amore per il prossimo, e lasciare che il mondo si regoli nel seguente modo:

“... secondo il semplice piano: prende chi ne ha la forza e mantiene chi può”.146

Pertanto, alla mancanza di un fondamento reale del supremo principio della morale di Kant (come abbiamo dimostrato nel paragrafo § 6) bisogna aggiungere anche la sua recondita natura ipotetica, nonostante Kant assicuri esplicitamente il contrario. È in realtà un imperativo ipotetico che poggia addirittura sull’egoismo, poiché è l’egoismo il segreto risolutore dell’indicazione data nel supremo principio.

Oltretutto, se lo si considerasse semplicemente come una esortazione, il supremo principio di Kant non sarebbe altro che una trascrizione, un travestimento, un’espressione camuffata della ben nota massima: quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris [non fare ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te]. Basta, infatti, ripetere questa massima togliendo il non e il ne, per liberarla dal difetto di contenere solo l’esortazione giustizia e non anche all’amore verso il prossimo.

Questa [quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris] è evidentemente la massima secondo la quale io, tenendo ovviamente conto del mio eventuale ruolo passivo e quindi del mio egoismo, posso volere che tutti gli altri agiscano. Anche questa massima è una trascrizione - o meglio, una premessa - della massima da me proposta come la più semplice e chiara espressione del comportamento morale unanimemente postulato da tutti i sistemi etici: neminem laede, imo omnes, quantum potes, juva [non fare del male a nessuno, anzi, per quanto puoi, aiuta tutti].

Quest’ultimo principio è, e rimane, il vero e puro contenuto di ogni morale. Ma su cosa poggia? Cosa è che dà forza a questo principio? Proprio questo [il diÒti (diòti: perché)] è l’antico e difficile problema, che viene ancora oggi qui riproposto.

Dal lato opposto grida forte la voce dell’egoismo: neminem juva, imo omnes, si forte conducit, laede [non aiutare nessuno, anzi danneggialo, se puoi trarne un vantaggio], con la variante proposta dalla malvagità: imo omnes, quantum potes, laede [fai del male a tutti, quanto più ti è possibile]. Opporre all’egoismo e alla malvagità un avversario di pari se non, addirittura, di maggior forza: questo è il problema di ogni etica. Hic Rhodus, hic salta! [fa conto che qui sia Rodi e qui salta!].147

Kant si propone poi (57, R 60) di convalidare il suo principio supremo della morale [l’imperativo categorico] tentando di dedurre da esso la suddivisione dei doveri (ben nota da tempo e che certamente poggia sull’essenza della moralità) in doveri di giustizia (detti anche doveri in senso stretto, perfetti e irrinunciabili) e in doveri di virtù (detti anche imperfetti, complementari, meritori, o meglio: doveri d’amore).

Peccato che il suo tentativo risulti così forzato e palesemente goffo, da deporre decisamente contro il supremo principio stesso.

Infatti, secondo Kant, i doveri di giustizia dovrebbero poggiare su una massima, la cui contraria non potrebbe mai essere pensata come legge universale di natura senza cadere inevitabilmente in contraddizione. I doveri di virtù [di amore] invece, dovrebbero poggiare su una massima, la cui contraria potrebbe certamente essere pensata come legge universale di natura, ma non potrebbe essere voluta.

Ora io invito il lettore a riflettere sul fatto che la massima dell’ingiustizia - ossia, il prevalere della forza sul diritto - che secondo Kant non potrebbe neppure essere pensata come legge di natura, è in realtà e di fatto la legge dominante in natura, non solo nel regno animale, ma anche tra gli uomini.

I popoli civili hanno cercato di prevenire gli effetti dannosi di questa legge tramite l’organizzazione statale. Tuttavia, appena questo rimedio viene meno o eluso, ecco che quella legge torna immediatamente in vigore. Senza interruzione, invece, questa legge continua a vigere tra popolo e popolo. Come tutti sanno, infatti, il termine giustizia nei rapporti tra i vari popoli è solo una finezza burocratica della diplomazia. In realtà è la forza bruta che decide. Eppure, la giustizia genuina, ossia quella spontanea, esiste certamente, ma sempre e solo come eccezione a quella legge di natura.

Come se non bastasse, negli esempi citati prima di procedere a quella suddivisione dei doveri (53, R 48), Kant illustra i doveri di giustizia innanzitutto con il cosiddetto dovere verso sé stessi di non togliersi volontariamente la vita, quando il male prevale sul piacere.

Quindi, il principio di togliersi la vita, quando il male prevale sul piacere, non potrebbe neppure essere pensato come legge universale di natura. Io invece affermo che, dal momento che lo Stato in questo assunto non ha alcun potere, proprio questo principio dimostra di essere l’incontrastata legge di natura realmente in vigore. Infatti - come l’esperienza quotidiana dimostra - è certamente regola comune per l’uomo togliersi la vita quando l’innato e fortissimo impulso di conservarla viene sopraffatto da una enorme sofferenza.

Che esista, invece, qualche altro pensiero capace di trattenerlo dopo che la fortissima paura innata della morte, che ogni essere vivente sente nel proprio intimo, si sia dimostrata impotente - ossia che esista un pensiero più forte della paura della morte - è una supposizione azzardata. Oltretutto è un pensiero così difficile da individuare che i moralisti non sono ancora riusciti a indicarlo esattamente. E tanto meno gli argomenti addotti da Kant in questa occasione (53, R 48 e 67, R 57) contro il suicidio sono mai riusciti a trattenere neppure per un istante una persona stanca della vita.

In definitiva, per far piacere alla suddivisione dei doveri secondo il principio supremo della morale di Kant, una legge naturale, incontestabilmente vigente di fatto e realmente operante ogni giorno, viene dichiarata ‘impossibile perfino da pensare’!

A questo punto non posso nascondere la mia soddisfazione nel gettare uno sguardo in avanti, sulla motivazione della morale che darò in seguito. Da quel fondamento della morale, infatti, la suddivisione in doveri di giustizia e di amore - più precisamente, la suddivisione [della virtù] in giustizia e amore verso il prossimo - segue spontaneamente e perfettamente grazie a un criterio di separazione del tutto naturale, il quale traccia automaticamente una netta linea di demarcazione. Il fondamento della morale da me individuato fornisce di fatto quella controprova che Kant ha cercato invano di esibire per il suo fondamento adducendo una pretesa assolutamente immotivata.



§ 8 Forme derivate del supremo principio dell’etica di Kant



Kant ha riformulato il principio supremo della sua etica [l’imperativo categorico] con una espressione diversa [una forma derivata], nella quale si dice espressamente dove cercare la massima [il principio vero e proprio] della morale, non indirettamente come nell’imperativo categorico, nel quale viene data solo un’indicazione.

Per enunciare questa [prima] forma derivata, Kant si spiana innanzitutto il cammino (63, R 55) con definizioni dei concetti di ‘fine’ e di ‘mezzo’ estremamente insolite e contorte, addirittura bizzarre. Meglio e con minor fatica avrebbe fatto definendoli più semplicemente e correttamente così: il ‘fine’ è il motivo diretto di un atto di volontà, il ‘mezzo’ quello indiretto. Simplex sigillum veri [la semplicità è il suggello della verità]!

Kant, invece, si insinua attraverso alcune sorprendenti definizioni fino ad affermare:

“L’uomo, e in generale ogni essere dotato di ragione, esiste come fine in sé stesso”.

Purtroppo devo precisare che l’espressione «esistere come fine in sé stesso» è addirittura un controsenso, una contradictio in adjecto [contraddizione nel termine aggiunto]. Infatti, ‘essere il fine’ significa ‘essere voluto’. Ogni fine presuppone una volontà, della quale il fine è il motivo diretto. Solo in questa relazione il concetto di fine ha un significato, che perde, invece, appena viene separato da essa.

Questa relazione [tra fine e volontà] è essenziale per il concetto di fine ed esclude necessariamente ogni ‘in sé’. ‘Fine in sé’ è come dire: ‘amico in sé’, ‘zio in sé’, ‘nemico in sé’, ‘nord o ovest in sé’, ‘sopra o sotto in sé’, ecc.

In ultima analisi, l’espressione ‘fine in sé’ ha la stessa origine dell’espressione ‘obbligo assoluto’. Infatti, come condizione di esistenza alla base di entrambe sta, segretamente e quasi inconsciamente, lo stesso pensiero teologico.

E non va meglio neppure con il concetto di ‘valore assoluto’, che dovrebbe spettare a quel presunto, ma impensabile, ‘fine in sé’. Anche il concetto di ‘valore assoluto’, infatti, deve essere bollato senza pietà come contradictio in adjecto. Ogni valore, infatti, è una grandezza comparativa, la quale oltretutto sta necessariamente in un duplice rapporto. Il primo è di relazione, in quanto è un valore per qualcuno. Il secondo è di confronto, poiché un valore, per essere quantificato, deve essere confrontato con qualche altra cosa. Avulso da queste due relazioni il concetto di valore perde ogni senso e significato. Questo è fin troppo chiaro e non servono ulteriori spiegazioni.

Come quelle due definizioni violano la logica, così pure viola la morale genuina l’affermazione (65, R 56) che gli esseri sprovvisti di ragione (ossia gli animali) sarebbero semplicemente cose, cosicché potrebbero essere utilizzati solo come mezzi (non anche come fini).

Questa affermazione viene chiaramente ribadita nei Principi metafisici della dottrina della virtù (§ 16):

“L’uomo non ha alcun dovere nei confronti di alcun altro essere, ma solo nei confronti dell’uomo”.

Inoltre (§ 17):

“Il trattamento crudele degli animali va contro il dovere dell’uomo verso sé stesso, poiché smorza nell’uomo la compassione di fronte al dolore umano. In questo modo si indebolisce un dispositivo naturale molto utile per la moralità nei confronti degli altri uomini”.

L’uomo dovrebbe quindi aver compassione degli animali solo per tenersi in allenamento morale. L’animale sarebbe quasi un fantasma patologico, sul quale esercitare il proprio sentimento di compassione, da praticare poi nei confronti degli uomini. Per me, e per tutta l’Asia intera non-islamica e non-giudaica, queste affermazioni sono rivoltanti e vergognose.

Ancora una volta possiamo constatare che l'etica di Kant è solo una versione camuffata della morale teologica (come precedentemente dimostrato), diretta emanazione della morale biblica. Dato che la morale cristiana (come vedremo in seguito) non ha alcun riguardo per gli animali, anche nell'etica di Kant gli animali vengono sommariamente messi al bando, sono solo cose, semplici mezzi per fini arbitrari, materiale per la vivisezione, la caccia a cavallo, la tauromachia, le corse d’azzardo, da frustare a morte legati al carretto stracarico di pietre, ecc.

Pfui! Che morale da paria, candala e misala148, la quale non sa riconoscere l’essere eterno presente in tutto ciò che vive, che risplende di misterioso significato in ogni occhio capace di vedere la luce del sole!

Questa morale conosce e considera solo la propria valorosa specie, per la quale il contrassegno della ragione è l’unica condizione affinché un essere vivente diventi oggetto di considerazione morale.

Proprio su un cammino così accidentato, addirittura per fas et nefas [utilizzando il lecito e l’illecito], Kant giunge a enunciare il principio supremo della sua etica tramite una seconda forma derivata:

“Agisci solo in modo tale da considerare l’umanità, sia nella tua come in qualsiasi altra persona, ogni volta anche come fine e mai solo come mezzo”.

Così - in maniera del tutto artificiosa e attraverso un’ampia perifrasi - Kant giunge a dire:

“Tieni conto non solo di te stesso, ma anche degli altri”.

Questa non è altro che una trascrizione della massima: quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris [non fare ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te] la quale tuttavia contiene solo le premesse della conclusione, del vero ultimo traguardo di ogni morale: neminem laede, imo omnes, quantum potes, juva [non fare del male a nessuno, anzi, per quanto puoi, aiuta tutti]. Questa massima, come ogni cosa bella, si presenta al meglio quando è nuda.

Nella seconda forma derivata del principio supremo della morale di Kant vengono poi tirati di nuovo in ballo, forzatamente e pesantemente, i supposti doveri verso sé stessi. Di questi abbiamo già detto abbastanza in precedenza.

A questa seconda massima di Kant si potrebbe, tra l’altro, obiettare che un criminale giustamente condannato a morte, viene trattato solo come un mezzo, non contemporaneamente come un fine. Precisamente, come un mezzo indispensabile per garantire alla legge, tramite la sua applicazione, il potere deterrente per il quale essa è stata fatta.

Sebbene questa seconda forma derivata non sia di alcun aiuto come massima morale, nè possa valere come adeguata ed esplicita espressione delle indicazioni sigillate nel supremo principio dell'etica kantiana, essa ha tuttavia il merito di offrire un sottile aperçu [scorcio] psicologico-morale. Essa infatti raffigura l’egoismo con una tratto estremamente caratteristico, che merita di essere approfondito.

L’egoismo, di cui tutti noi siamo stracolmi, è la nostra partie honteuse [parte vergognosa] per nascondere la quale abbiamo inventato la gentilezza. L’egoismo traspare da tutti i veli sotto cui tentiamo di nasconderlo, soprattutto quando cerchiamo istintivamente di utilizzare chiunque ci capiti davanti come un possibile mezzo per uno dei nostri innumerevoli fini.

Appena facciamo una nuova conoscenza, infatti, pensiamo subito se essa potrebbe servirci in qualche modo. Per la maggior parte delle persone, quando sono convinte che il nuovo conosciuto a loro non serve, quest’ultimo diventa proprio un nulla.

Cercare negli altri un possibile mezzo per i propri fini, come se gli altri fossero solo attrezzi, fa quasi parte del modo naturale di guardarsi attorno dell’uomo. Se poi l’attrezzo durante l’uso dovrà più o meno soffrire, è un pensiero che può sorgere solo più tardi, o addirittura non sorgere affatto. Parecchie cose dimostrano che noi diamo per scontato questo atteggiamento anche negli altri. Ad esempio, quando chiediamo un’informazione o un consiglio a qualcuno, perdiamo di solito ogni fiducia nella sua risposta appena scopriamo che in quella faccenda l’altro potrebbe avere qualche interesse personale, anche se piccolo e remoto. Subito diamo per scontato che l’altro ci voglia utilizzare come un mezzo per i suoi fini, e che ci stia consigliando non secondo la sua competenza, ma secondo il suo proposito, anche se la competenza fosse grandissima e il proposito piccolissimo. Sappiamo benissimo che un millimetro cubo di proposito pesa più di un metro cubo di competenza.

D’altro canto in una simile situazione, di fronte alla domanda: “Cosa dovrei fare?”, al nostro interlocutore spesso non viene in mente nulla, se non ciò che noi dovremmo fare per assecondare i suoi fini. Una simile reazione gli verrà immediatamente, quasi meccanicamente, ancor prima di pensare ai nostri fini, poiché è la sua volontà che gli detta immediatamente la risposta, ancor prima che la nostra domanda possa giungere al forum [tribunale] del suo vero e proprio giudizio.

L’altro, dunque, cercherà di indirizzarci secondo i suoi fini senza neppure rendersene conto, credendo sinceramente di parlare secondo competenza, mentre è solo il proposito personale che sta parlando per lui. Addirittura potrà arrivare al punto di mentire senza che lui stesso se ne renda conto.

Tanto preponderante è, infatti, l’influsso della volontà sulla conoscenza. Sul fatto di parlare secondo competenza, oppure secondo proposito, non vale la testimonianza della propria coscienza, bensì, nella maggior parte dei casi, del proprio interesse. Ad esempio, una persona inseguita da nemici e in pericolo di morte, che incrociando un venditore ambulante gli chiedesse informazioni su una possibile via di fuga, potrebbe sentirsi rispondere: “... non vi serve forse qualcosa della mia merce?”.

Tuttavia non si può dire che sia sempre così. Può anche capitare che qualcuno partecipi realmente e spontaneamente alla sorte di un altro, ossia - nel linguaggio di Kant - che consideri l’altro come un fine, non come un mezzo. Quanto immediato, o quanto remoto, è il pensiero di un uomo nel considerare gli altri non di solito come mezzo, ma a volte come fine: questo è il parametro per misurare la grande differenza morale fra i caratteri. Il vero fondamento dell’etica è costituito, in ultima analisi, proprio da ciò che determina questa differenza. Ma di questo parleremo in seguito.

Nella seconda forma derivata del principio supremo dell'etica, Kant ha dunque contraddistinto l’egoismo, e il contrario dell’egoismo, con un tratto estremamente caratteristico. Mi è piaciuto porre in evidenza e in piena luce questa sua perla, dal momento che, riguardo al resto del fondamento della sua etica, c’è purtroppo ben poco da condividere.

La terza (e ultima) forma derivata del principio supremo dell'etica di Kant riguarda l’autonomia della volontà:

“La volontà di ogni essere dotato di ragione è universalmente legislativa per tutti gli esseri ragionevoli”.

In questa terza forma derivata (71, R 60), nonostante derivi direttamente dall'imperativo categorico, dovrebbe tuttavia emergere il tratto specifico che lo contraddistingue: la volontà, quando vuole per dovere, è aliena da ogni interesse particolare.

Tutti i precedenti principi morali sarebbero dunque falliti, secondo Kant (73, R 62), poiché:

“... alla base delle azioni, indotte o spontanee, pongono sempre un interesse a vantaggio proprio o altrui”.

Nota bene: anche a vantaggio degli altri!

“Invece, una volontà universalmente legislativa prescrive di agire solo per dovere, senza interesse alcuno”

Invito il lettore a riflettere su cosa questo significa:  nientemeno che una volontà senza motivi, ossia un effetto senza causa!

In realtà, interesse e motivo sono due concetti intercambiabili. Interesse significa: quod mea interest, ossia, ciò che mi riguarda. E questo non è forse tutto ciò che stimola e muove la mia volontà? Cos’altro può essere un interesse se non un motivo che influenza la mia volontà? Quando un motivo muove la volontà, allora essa ha un interesse. Quando, invece, nessun motivo la muove, la volontà può in realtà entrare in azione esattamente come una pietra può cambiare posizione senza essere urtata o trascinata. Ma non è necessario spiegare queste cose a un lettore istruito. In conclusione: ogni azione deve necessariamente avere un motivo e ogni motivo presuppone necessariamente un interesse.

Kant invece ci presenta un secondo tipo - assolutamente inedito - di azioni, le quali procedono senza alcun interesse, quindi senza alcun motivo. E queste dovrebbero essere le azioni di giustizia e di amore verso il prossimo! Per confutare questa assurda premessa è bastato solo riportarla al suo vero significato, che stava nascosto nell’equivoco riguardo alla parola interesse.

Ciò nonostante Kant celebra il trionfo della sua autonomia della volontà (74, R 62) con la costruzione di una utopia morale, denominata ‘regno dei fini’. Questo è un regno popolato da esseri ragionevoli in abstracto, i quali vogliono tutti senza interesse alcuno, ossia senza volere nulla. Una sola cosa vogliono: che tutti vogliano sempre secondo la massima dell’autonomia della volontà.

“È difficile non scrivere una satira”.149

Ma la sua autonomia della volontà spinge poi Kant ben oltre questo piccolo e innocente regno dei fini (che in fondo potremmo anche lasciar perdere, poiché inoffensivo). Lo spinge verso un’altra cosa dalle conseguenze ben più gravi: il concetto di ‘dignità dell’uomo’.

Questa poggerebbe esclusivamente sull’autonomia della volontà, e consisterebbe nel fatto che l’uomo deve rispettare la legge che lui stesso si è dato, esattamente come i cittadini di uno stato costituzionale devono rispettare la costituzione che loro stessi si sono dati.

Ora, come ornamento dell’etica di Kant questa cosa potrebbe anche andar bene. Purtroppo peró l’espressione ‘dignità dell’uomo’, una volta che è stata pronunciata da Kant, è diventata in seguito lo schibboleth [la parola fantomatica] di tutti i moralisti scervellati e senza idee, i quali nascondono la mancanza di un fondamento reale (o perlomeno con qualche contenuto) della loro etica dietro l’imponente espressione ‘dignità dell’uomo’. Così facendo, pensano astutamente che anche i loro lettori si sentano dotati di una tale dignità, e che siano quindi soddisfatti di un simile fondamento.150

Ma proviamo a esaminare meglio questo concetto e a verificarne la realtà. Kant definisce (79, R 66) la ‘dignità dell’uomo’ come:

“... un valore incondizionato e senza paragone”.

È una spiegazione dal tono sublime e tanto imponente che nessuno osa avvicinarsi ad essa, per esaminarla meglio, senza esitare. Se invece lo facesse, scoprirebbe che anche questa è una vuota iperbole, nella quale si nasconde una contradictio in adjecto [contraddizione nel termine aggiunto] che come un verme la rode dall’interno.

Ogni valore, infatti, scaturisce dalla valutazione di una cosa rispetto ad un’altra, ed è quindi un concetto comparativo e relativo. Proprio la relatività costituisce l’essenza del concetto di valore. Già gli stoici - secondo Diogene Laerzio - ci insegnano giustamente che:

“Il valore è la contropartita di un determinato bene, definita dalla valutazione di un esperto. Come a dire, scambiare grano con orzo, asino compreso”.151

Un valore incondizionato, incomparabile e assoluto, come dovrebbe essere questa ‘dignità dell’uomo’, è pertanto un compito espresso a parole (come succede spesso in filosofia) per cogliere un pensiero che non è neppure possibile pensare, come il numero o lo spazio più grande di tutti.



“Proprio quando manca qualsiasi concetto ecco che, al momento opportuno, sbuca fuori una parola”.152

Così, anche in questa circostanza, con l’espressione ‘dignità dell’uomo’ si è buttata sulla piazza una parola molto ben accetta, grazie alla quale d’ora in poi ogni morale, dipanata in tutte le classi di doveri e in tutti i casi della casistica,153 ha trovato un comodo fondamento sul quale erigersi per continuare a predicare a piacere.

Alla fine della sua presentazione del concetto di ‘dignità dell’uomo’ (124, R 97), Kant dice:

“Come potrebbe la ragion pura, senza ulteriori impulsi presi altrove, essere di per sé pratica? Come potrebbe il solo principio dell’universalità di tutte le sue massime elevate a legge - senza il sostegno di alcun oggetto del volere, dove si potrebbe nascondere qualche interesse - dare un impulso a sé stesso e destare così un interesse puramente morale? In altre parole, come potrebbe la ragion pura diventare pratica?46 Nessuna ragione umana sarebbe capace di spiegarlo: sarebbe solo lavoro e fatica sprecata”.

A questo punto è opportuno ricordare che quando non è possibile dimostrare teoricamente la possibilità di una cosa, della quale si afferma l’esistenza, bisognerebbe perlomeno dimostrarla di fatto nella realtà.

Ma l’imperativo categorico della ragione pratica viene esplicitamente presentato come tutt’altro che un dato di fatto della coscienza, né viene motivato in qualche modo tramite l’esperienza. Al contrario, veniamo abbondantemente ammoniti da Kant (p. vi del prologo e p. 59-60, R 52). che esso:

“... non va ricercato per via antropologica empirica”.

Inoltre ci viene ripetutamente assicurato (48, R 44) che:

“È impossibile stabilire empiricamente, attraverso alcun esempio, se esista mai un simile imperativo”.

Infine (49, R 45) che:

“La realtà dell’imperativo categorico non è riscontrabile nell’esperienza”.

Riassumendo tutto quanto, si potrebbe davvero sospettare che Kant abbia voluto prendere in giro i suoi lettori. Questo sarebbe giusto e lecito fare con il pubblico filosofico tedesco del giorno d’oggi. Ma quello dei tempi di Kant non si era ancora contraddistinto in quel senso che da allora a oggi ha preso. Oltretutto l’etica era il tema meno adatto per scherzare.

Dobbiamo in ogni caso rimanere fermamente convinti che, se una cosa non è teoricamente possibile e se non può essere dimostrata nella realtà, la sua esistenza non è per nulla credibile.

Ma proviamo pure, con uno sforzo della fantasia, a immaginare un uomo il cui animo sia posseduto - come da un demone - da un obbligo assoluto che si esprime esclusivamente tramite imperativi categorici e che riesce a guidare le azioni di quell’uomo regolarmente in direzione opposta alle sue inclinazioni e ai suoi desideri.

Con un simile uomo non riusciremmo mai ad avere un’immagine della vera natura umana, nè di quanto succede nel nostro intimo. In un simile obbligo assoluto riconosceremo piuttosto un surrogato artificiale della morale teologica, rispetto alla quale esso sta come una gamba di legno a una gamba vera.

In conclusione, il nostro risultato è che l’etica di Kant - come pure le precedenti - è priva di un solido fondamento. Essa è in sostanza (come ho precedentemente dimostrato, tramite l’indagine sulla sua forma imperativa) un’edizione rivoltata della morale teologica, camuffata dietro alcune formule molto astratte e a prima vista dedotte a priori.

Questo camuffamento è talmente ben fatto e irriconoscibile da ingannare verosimilmente lo stesso Kant. Egli infatti credeva veramente di poter stabilire i concetti di legge morale e di comandamento del dovere (che hanno senso solo nella morale teologica) indipendentemente da ogni teologia e di poterli fondare sulla pura conoscenza a priori. Io ho invece abbondantemente dimostrato che questi due concetti della sua etica mancano di ogni fondamento reale e sono campati in aria.

Alla fine la morale teologica annidata all’interno si svela tra le sue stesse mani nella dottrina del bene supremo, nei postulati della ragione pratica e nella teologia morale.

Eppure tutto questo non ha deluso né Kant né il suo pubblico, riguardo al vero nesso tra l’etica kantiana e la morale teologica. Tutt’altro. Entrambi furono contenti di vedere questo articolo di fede [la morale teologica] motivato, anche se solo idealmente e per uso pratico, tramite l’etica. Entrambi confusero in buona fede le conseguenze con le premesse, e viceversa. Non si accorsero infatti che alla base dell’etica di Kant stanno già tacitamente nascoste, come premesse inevitabilmente necessarie, tutte le sue presunte conseguenze.

Al termine di questa indagine rigorosa (anche se faticosa per il lettore) permettetemi un paragone frivolo e scherzoso per risollevare un poco l’umore. A causa di questa sua auto-mistificazione, mi sembra che si possa paragonare Kant a un cavaliere, il quale a un ballo in maschera fa la corte la serata intera a una bella dama mascherata, illudendosi di fare una nuova conquista. Finché, alla fine del ballo, la dama getta la maschera e si rivela essere ... sua moglie.

§ 9 La dottrina kantiana della coscienza

Evidentemente la ragione pratica, con il suo presunto imperativo categorico, è strettamente imparentata con la coscienza. Esistono tuttavia alcune differenze.

La prima consiste nel fatto che l’imperativo categorico si esprime tramite un comando prima dell’azione; la coscienza, invece, solo dopo l’azione. Prima dell’azione la coscienza può al massimo parlare solo indirettamente tramite la riflessione, con il ricordare casi precedenti, nei quali azioni simili hanno ricevuto in seguito la sua disapprovazione. Su questo mi sembra che poggi anche l’etimologia della parola Gewissen [coscienza], poiché solo ciò che è già accaduto è gewiss [certo].

In ogni persona - anche la migliore - in seguito a eventi esterni, per uno stato d’animo alterato, o semplicemente per malumore, possono sorgere pensieri e desideri ignobili, bassi e malvagi. Tuttavia nessuno è moralmente responsabile di simili pensieri, quindi la sua coscienza non deve farsene carico. Essi mostrano semplicemente di che cosa sarebbe capace l’uomo in generale, non solo chi li ha avuti. Allo stesso tempo, infatti, altri motivi subentrano rapidamente nella coscienza e si contrappongono a quei pensieri, cosicché questi non potranno mai venir tradotti in azione, e rimarranno come la minoranza sconfitta in un’assemblea deliberante.

Solo tramite le azioni realmente compiute uno può conoscere empiricamente sé stesso, e così pure gli altri. Solo le azioni vanno a carico della coscienza, poiché esse non sono qualcosa di opinabile come i pensieri. Al contrario, l’azione compiuta è un dato di fatto immodificabile, che è conosciuto e non semplicemente pensato.

La stessa origine ha la parola latina conscientia [coscienza]. Si tratta del conscire sibi, pallescere culpa [rimproverare se stesso, impallidire per la propria colpa].154 Così pure la parola greca sune…dhsij [sunéidesis: conoscenza, consapevolezza morale, coscienza], ossia la conoscenza che l’uomo ha di ciò che ha fatto.

La seconda differenza consiste nel fatto che la coscienza trae sempre la sua materia dall’esperienza, mentre il presunto imperativo categorico - essendo puro a priori - non può trarre nulla dall’esperienza.

In attesa che ci venga presentata, possiamo nel frattempo supporre che la dottrina kantiana della coscienza potrà far luce anche sul concetto - coniato dallo stesso Kant - di imperativo categorico. Kant espone questa sua dottrina nei Principi metafisici della dottrina della virtù (p. 13). Sono poche pagine che - mentre mi accingo alla critica della dottrina stessa - presuppongo siano note al lettore.

La presentazione della coscienza ad opera di Kant fa un’impressione talmente imponente, che chiunque, con rispettoso timore, esita ad avvicinarsi e tanto meno osa muovere alcuna obiezione. Ognuno, infatti, teme che il proprio intervento teorico possa essere scambiato per pratico e di venire quindi tacciato di mancanza di coscienza, qualora osasse negare la correttezza dell’esposizione fatta da Kant.

Ma io non mi lascerò trarre in inganno, poiché qui si tratta di teoria, non di prassi. Qui non si tratta di predicare la morale, bensì di provare con rigore il fondamento ultimo dell’etica.

Innanzitutto Kant fa continuamente ricorso a espressioni giuristiche latine, che sembrano proprio le meno adatte per esprimere gli impulsi più reconditi dell’animo umano. Siccome questo linguaggio e taglio giuridico vengono utilizzati dall’inizio alla fine, sembra quasi che siano una cosa essenziale e propria al tema.

Nel profondo dell’animo viene montato un vero e proprio tribunale con tanto di processo, giudice, accusa, difesa e sentenza. Se nel nostro intimo dovesse realmente aver luogo quel processo che Kant descrive, dovremmo meravigliarci che qualcuno possa essere, non dico così malvagio, ma così stupido da agire contro la propria coscienza.

Infatti, una simile istituzione soprannaturale - del tutto singolare - nella nostra coscienza e un simile giudice, nelle segrete tenebre nel nostro intimo, dovrebbero suscitare in ognuno un orrore e una deisidaimonia tali, da trattenerlo dal procurare brevi e fugaci vantaggi contro il divieto, e sotto la minaccia, di una paurosa potenza soprannaturale, che si manifesta in maniera così chiara e immediata.

Nella realtà, invece, vediamo che l’efficacia della coscienza è talmente blanda, che tutti i popoli si sono preoccupati di rafforzarla con l’aiuto di una religione positiva [che detta comandamenti], se non addirittura di rimpiazzarla completamente con la religione stessa.

Oltretutto, se la coscienza avesse davvero simili facoltà, a nessuno sarebbe venuto in mente di bandire il presente concorso a premi della Reale Società.

Esaminando più da vicino la presentazione fatta di Kant, vediamo che l’effetto imponente viene ottenuto in un modo particolare. Kant attribuisce al giudizio morale di se stessi, come propria ed essenziale, una forma [giuridica] che, invece, non lo è affatto. Questa forma, infatti, potrebbe essere attribuita al giudizio morale esattamente come a qualsiasi altro tipo di insistente e intima riflessione - anche del tutto estranea alla morale - su cosa abbiamo fatto e cosa, invece, avremmo potuto fare.

Ad esempio, una coscienza non genuina, simulata e poggiata semplicemente sulla superstizione (come quella di un hindu che si rimprovera di aver causato la morte di una vacca, o quella di un ebreo che si ricorda di aver fumato la pipa di sabato a casa155), procederebbe esattamente nello stesso modo, con tanto di accusa, difesa e sentenza.

Anche la consueta verifica personale, che non nasce da alcun punto di vista etico (anzi, spesso, è addirittura più di carattere immorale che morale), procederebbe in ogni caso nello stesso modo. Ad esempio, quando bonariamente, e senza riflettere troppo, mi sono fatto garante per un amico, ma poi di notte mi rendo conto di quale grossa responsabilità mi sono fatto carico, e di come facilmente potrei ricavarne un grosso danno, ecco allora l’antica voce della saggezza lanciarmi la profezia:

“Dai una garanzia e subito ci sarà una sventura”.156

In quello stesso momento, infatti, anche nel mio intimo si fa avanti la pubblica accusa di fronte all’avvocato difensore, il quale cerca di giustificare la mia avventata malleveria [rendersi garante per qualcuno] con l’urgenza delle circostanze, con i legami di amicizia, con l’impossibilità di sottrarsi, addirittura lodando il mio buon animo, e infine il giudice che inesorabilmente pronuncia il verdetto: “ ... un gesto da stupido!”, sotto il quale mi sento sprofondare!

Quanto abbiamo detto riguardo alla forma giudiziaria prediletta da Kant, vale anche per gran parte della rimanente presentazione. Ad esempio, ciò che Kant afferma - all’inizio del paragrafo - come prerogativa esclusiva della coscienza, vale, invece, anche per qualsiasi scrupolo di altra natura. Potrebbe letteralmente riferirsi alla segreta consapevolezza di una persona che vive di rendita e le cui uscite oltrepassano le entrate, cosicché il capitale intaccato è destinato lentamente a estinguersi:

“Questa consapevolezza lo segue come la sua ombra, appena egli tenta di fuggire. Certo che potrebbe distrarsi con piaceri e svaghi, oppure dormirci sopra. Tuttavia non può fare a meno di ritornarci di tanto in tanto con il pensiero, o di perdere il sonno appena sente dentro di sé la tremenda voce della coscienza, ecc.”.

Dopo aver descritto la forma giuridica come qualcosa di essenziale per l’esposizione della dottrina della coscienza - così da mantenerla dall’inizio alla fine - Kant la utilizza anche per il seguente sottile sofisma:

“Se l’accusato dalla propria coscienza e il giudice fossero rappresentati dalla stessa persona, ci troveremmo di fronte ad un tribunale iniquo, poiché la pubblica accusa perderebbe sempre”.

Questo concetto viene poi ulteriormente ribadito tramite una nota molta contorta e oscura. Kant deduce infine che noi, per non cadere in contraddizione, dobbiamo pensare il giudice interno - in quel dramma giudiziario della coscienza - come un’altra persona, diversa da noi, un nunzio del cuore, un onnisciente, uno che potrebbe obbligare chiunque e, dal punto di vista esecutivo, una potenza assoluta.

In questo modo Kant si apre una comoda via per condurre il lettore dalla coscienza alla deisidaimonia, come se questa fosse una conseguenza necessaria della coscienza stessa, confidando nel fatto che il lettore lo seguirà volentieri, poiché sin dall’infanzia l’educazione gli ha reso simili concetti familiari, quasi connaturali.

Kant ha avuto così gioco facile, facendo tuttavia una cosa che avrebbe dovuto ben guardarsi dal fare, se veramente avesse voluto non solo predicare, ma anche praticare l’onestà.

Io semplicemente nego la validità dell’affermazione iniziale [riguardo alla necessità di differenziare giudice e accusato] dalla quale vengono poi tirate tutte quelle conseguenze, anzi, la dichiaro un sotterfugio. Infatti, non è vero che la pubblica accusa finirebbe regolarmente con il perdere se l’accusato e il giudice fossero la stessa persona, perlomeno non nel nostro tribunale interiore.

In quell’esempio di incauta malleveria, la pubblica accusa ha forse perso? Anche in quel caso dovremmo forse - per non cadere in contraddizione - ricorrere a una prosopopea [figura retorica che personifica un concetto astratto] e pensare necessariamente a un altro giudice oggettivamente diverso da quello che ha pronunciato lo sferzante verdetto: “... un gesto da stupido!” ? Dovremmo forse pensare a un Mercurio reincarnato, oppure alla personificazione della mÁtij [métis: saggezza, astuzia]157 come Omero suggerisce, e incamminarci anche in quel caso sulla strada della deisidaimonia, anche se pagana?

Nella presentazione [della sua dottrina della coscienza] Kant si astiene dall’attribuire validità oggettiva alla sua ‘teologia morale’ (anch'essa brevemente ma sostanzialmente accennata), bensì la presenta solo come una forma soggettivamente necessaria. Questo tuttavia non lo assolve dall’arbitrio con cui la costruisce (sia pure come solo soggettivamente necessaria), poiché parte da ipotesi assolutamente infondate.

Una cosa è comunque certa: tutta la forma giuridico drammatica con la quale Kant presenta la coscienza - mettendo assieme forma e coscienza come se fossero una cosa sola e mantenendole unite fino alla fine, per trarne poi le conseguenze - non è assolutamente essenziale, né peculiare, alla coscienza stessa.

Si tratta piuttosto della forma molto più comune che la riflessione assume spontaneamente in ogni situazione pratica. Una forma che di solito scaturisce in generale dal conflitto tra opposti motivi, la cui importanza viene soppesata dalla ragione tramite la riflessione. Non importa che i motivi siano di natura morale o egoistica, nè che si tratti di stabilire cosa fare oppure di riflettere su ciò che è già accaduto.

Se togliamo alla presentazione fatta da Kant la forma giuridico drammatica che le è stata arbitrariamente attribuita, subito il nimbus [l’aureola luminosa] che l’avvolge, assieme al suo aspetto imponente, svaniscono. Solo questo rimane: che nel rimuginare sulle nostre azioni a volte ci prende una insoddisfazione di noi stessi del tutto particolare, la quale ha la peculiarità di non riguardare il risultato, bensì l’azione stessa.

Non si tratta di una insoddisfazione come le altre, come quando, ad esempio, ci rimproveriamo di aver agito male e di essere andati contro il nostro interesse. È invece l’insoddisfazione di aver agito troppo egoisticamente, di aver pensato troppo a noi stessi e poco agli altri, o addirittura di aver avuto esclusivamente come fine - senza trarre alcun vantaggio personale - la sofferenza degli altri.

Che si possa essere insoddisfatti e rammaricati non per le sofferenze che abbiamo sofferto, ma per quelle che abbiamo causato, è un dato di fatto nudo e crudo, che nessuno può negare.

Esamineremo in seguito il nesso tra una insoddisfazione di questo tipo con l’unico fondamento dell’etica resistente a ogni verifica. Kant invece, come un astuto avvocato, ha cercato di trarre il massimo vantaggio da questo dato di fatto originario, addobbandolo e ingigantendolo, per assicurare in anticipo un comodo supporto alla sua etica e alla sua ‘teologia morale’.

§ 10 La dottrina kantiana del carattere empirico e intelligibile. La teoria della libertà.

Dopo aver attaccato l’etica di Kant, colpendola non solo in superficie (come altri hanno precedentemente fatto) ma rigirandola sottosopra per ristabilire la verità, mi sembra giusto e doveroso non congedarmi da lui senza prima ricordare il più grande e brillante merito di Kant nel campo dell’etica. Esso consiste nella dottrina della coesistenza della libertà con la necessità, che Kant espone dapprima nella Critica della ragion pura (533-554, I ed.) e ancora più chiaramente nella Critica della ragion pratica (169-179, iv Ed. ; R 224-231).

Hobbes per primo, poi Spinoza, Hume, Holbach nel suo Sistema della natura, e infine Priestley con la massima ampiezza e profondità, hanno dimostrato la totale e ferrea necessità degli atti della volontà al subentrare dei motivi, in maniera così chiara, da essere senza dubbio annoverata tra le verità perfettamente dimostrate. Solo per ignoranza e grossolanità si poteva continuare a parlare di libertà di volere nelle singole azioni dell’uomo, ossia di un liberum arbitrium indifferentiae.

Anche Kant, in seguito alle incontestabili prove di questi suoi predecessori, diede per certa l’assoluta necessità degli atti della volontà, al cui riguardo non poteva più sussistere alcun dubbio. Lo dimostrano tutti i passi in cui Kant parla della libertà solo dal punto di vista teorico.

Tuttavia è anche vero che le nostre azioni sono accompagnate dalla consapevolezza della loro specifica potenzialità e originalità, grazie alle quali noi le riconosciamo come opera nostra. Ognuno avverte con infallibile certezza di essere il reale autore e il responsabile morale delle proprie azioni.

Ma poiché la responsabilità presuppone la possibilità di agire diversamente - quindi la libertà, in qualche modo - la consapevolezza della responsabilità implica anche, di conseguenza, la consapevolezza della libertà.

La chiave per risolvere la contraddizione che sorge da questi due dati di fatto [necessità degli atti della volontà e consapevolezza della propria responsabilità (quindi, di essere in qualche modo liberi)] è stata finalmente trovata nella profondissima distinzione di Kant tra ‘fenomeno’ e ‘cosa in sé’.158 Questa distinzione è il nucleo di tutta la sua filosofia e costituisce il suo maggiore merito.

L’individuo , che per il suo carattere innato e immutabile viene rigidamente determinato in tutte le sue manifestazioni dalla legge di causalità (la quale in questo caso, in seguito alla mediazione operata dall’intelletto, è detta ‘legge di motivazione’), è semplicemente un ‘fenomeno’. La ‘cosa in sé’ (che essendo fuori dal tempo e dallo spazio, libera dalla successione e dalla molteplicità degli atti, è una e immutabile) sta alla base [di tutti i fenomeni, quindi] anche dell’individuo. L’originario fondamento come ‘cosa in sé’ dell’individuo è il suo carattere intelligibile159, il quale è presente in tutte le sue azioni e vi si imprime uniformemente, come un sigillo in mille ceralacche.

Attraverso la successione degli atti di volontà che si manifestano nel tempo, il carattere intelligibile definisce il carattere empirico dell’individuo come ‘fenomeno’. Questo ‘fenomeno’, quindi, in tutte le sue manifestazioni che vengono provocate dai motivi, deve presentare la costanza di una legge di natura, cosicché tutti i suoi atti di volontà si susseguono in maniera rigorosamente necessaria.

Questa dottrina kantiana fornisce un fondamento razionale alla immutabilità e alla inflessibile rigidità del carattere empirico di ogni uomo nelle quali molte teste pensanti hanno da sempre creduto (mentre le altre credono che sia possibile modificare il carattere di un uomo tramite argomentazioni razionali ed esortazioni morali).

È una dottrina in pieno accordo con l’esperienza, che è ormai diventata un caposaldo della filosofia. Grazie ad essa la filosofia non venne più sbeffeggiata dalla saggezza popolare, la quale già da moltissimo tempo aveva affermato quella stessa verità tramite il proverbio spagnolo: lo que entra con el capillo, saie con la mortaja [ciò che entra con la cuffietta da neonato, esce con il sudario], oppure: lo que en la leche se mama, en la mortaja se derrama [ciò che si succhia nel latte materno, si decompone nel sudario].

La dottrina di Kant della coesistenza della libertà con la necessità è - a mio parere - la più grande opera della profondità del pensiero umano. Questa dottrina e l’estetica trascendentale160 sono le due grandi gemme nella corona della gloria di Kant, che mai potrà svanire.

Come è noto, Schelling nel suo trattato Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana, grazie al suo modo colorito, vivace e intuitivo di esporre, ha fornito una parafrasi di questa dottrina più comprensibile a molti. Sarebbe una iniziativa da lodare, se Schelling avesse perlomeno avuto l’onestà di ammettere che si trattava del pensiero di Kant, non del proprio (come una parte del pubblico filosofico ancora oggi crede).

Questa dottrina di Kant, e l’essenza della libertà in generale, diventa ancora più comprensibile se la si riallaccia ad una verità universale, la cui espressione più concisa sta nella frase, spesso ripetuta dagli scolastici: operari sequitur esse [l’operare è conseguenza dell’essere (ciò che una cosa fa deriva da ciò che quella cosa è)].

Ogni cosa al mondo agisce in conformità a ciò che essa è, ossia, secondo la propria natura, nella quale tutte le sue manifestazioni si ritrovano già potentia [in potenza] e che si trasformano actu [in atto] quando vengono sollecitate dalle circostanze esterne. Solo allora si può vedere di quale pasta una determinata cosa è fatta. Questa pasta è il suo carattere empirico, mentre il suo fondamento primo - al quale l’esperienza non può accedere direttamente - è il carattere intelligibile, ossia l’essenza in sé di quella determinata cosa.

L’uomo non fa eccezione al resto dei fenomeni del mondo. Anche l’uomo ha la sua salda e permanente natura, il suo carattere immutabile, anche se individuale e diverso da quello di un altro. Questo carattere è appunto ‘empirico’ per la nostra comprensione, e proprio per questa empiricità è solo un fenomeno.

Il carattere intelligibile, invece, è l’essenza del carattere come ‘cosa in sé’. Tutte le azioni dell’uomo – le quali, per quanto riguarda la loro componente esterna, sono determinate dai motivi - non possono avvenire in nessun altro modo se non secondo il suo immutabile carattere individuale. Come uno è, così deve agire. Per un determinato individuo, in ogni particolare e determinato caso, solo una azione è possibile: operari sequitur esse. La libertà appartiene solo al carattere intelligibile, non al carattere empirico.

Lo operari [il comportamento] di ogni individuo è necessariamente determinato all’esterno dai motivi e all’interno dal suo carattere. Quindi, tutto ciò che egli fa, avviene per necessità. La libertà sta solo nel suo esse [essere]: egli avrebbe potuto essere un altro. Il merito, o la colpa, sono dovuti a ciò che lui è, poiché tutto ciò che lui fa discende automaticamente, come un semplice corollario, da ciò che lui è.

La teoria di Kant ci libera dall’errore fondamentale di confondere la libertà con l’operari e la necessità con l’esse. Adesso sappiamo che le cose stanno esattamente al contrario.

La responsabilità morale dell’uomo riguarda solo apparentemente ciò che lui fa, ma nel profondo riguarda ciò che lui è. Infatti, dato ciò che lui è, al presentarsi di determinati motivi il suo agire non può essere diverso da come avviene. Anche se ferrea è la necessità con cui, per un determinato carattere, le azioni sono determinate dai motivi, a nessuno - neppure a chi è convinto di questa necessità - verrà mai in mente di discolparsi scaricando la propria responsabilità sui motivi.

Ognuno infatti riconosce chiaramente che, a seconda del caso e delle circostanze, oggettivamente sarebbe potuta succedere un’azione ben diversa, addirittura opposta, se soltanto lui fosse stato un altro. Ma dato che - da quanto risulta dall’azione compiuta - lui è quello che è (e non un altro), proprio per questo si sente responsabile. Il martello della coscienza batte sul chiodo del proprio esse.

La coscienza, infatti, consiste nella conoscenza sempre più profonda del proprio Io, così come esso emerge dalle proprie azioni. In occasione del proprio operari la coscienza dà la colpa al proprio esse. Poiché solo grazie alla responsabilità ci rendiamo conto della libertà, dove risiede l’una deve risiedere anche l’altra, quindi nello esse.

L’operari, invece, è soggetto alla necessità. Noi impariamo a conoscere noi stessi - come pure gli altri - solo tramite l’esperienza. Del nostro carattere non abbiamo alcuna conoscenza a priori. Anzi, all’inizio noi abbiamo del nostro carattere un’altissima opinione, poiché il principio quisque praesumitur bonus, donec probetur contrarium [ognuno è presunto buono, fino a prova contraria] vale anche per il nostro forum [tribunale] interno.

Nota

Chi è in grado di riconoscere l’essenza di un pensiero anche sotto differenti forme, dovrà convenire che la dottrina del carattere intelligibile ed empirico è stata elevata a chiarezza astratta sicuramente da Kant, ma che già Platone l’aveva abbozzata.

Purtroppo Platone, non avendo riconosciuto l’idealità del tempo [ossia, che il tempo è solo una forma della conoscenza] ha potuto esporla solo in una veste temporale, ossia tramite un mito e collegandola alla metempsicosi [trasmigrazione dell’anima dopo la morte in altri corpi].

La comprensione dell’identità delle due dottrine è ancora più facilitata dalla presentazione e dalla spiegazione del mito di Platone che Porfirio ci ha fornito con estrema chiarezza e determinazione, cosicché la concordanza del mito di Platone con la dottrina astratta di Kant non può non essere riconosciuta.

Stobeo, nel secondo libro della sua Antologia, ha conservato in extenso [integralmente] la spiegazione data da Porfirio in uno scritto, ormai perso, nel quale Porfirio commenta, con esattezza e nei dettagli, il mito che Platone riporta nella seconda parte del decimo libro della Repubblica. È un testo che merita davvero di essere letto. Come saggio, riporto qui un breve passo, per indurre il lettore interessato a leggere direttamente Stobeo.

Il lettore potrà così rendersi conto che quel mito di Platone può essere visto come una allegoria della grande e profonda scoperta fatta da Kant - nella sua astratta purezza - della dottrina del carattere empirico e intelligibile.

Potrà anche rendersi conto che questa dottrina, sostanzialmente acquisita da Platone migliaia di anni prima di Kant, risale ancora più indietro nel tempo. Porfirio infatti sostiene che Platone l’ha presa dagli Egizi. In realtà essa si ritrova nella dottrina della metempsicosi del Brahmanesimo, dalla quale molto probabilmente trasse origine la saggezza dei sacerdoti egizi. Il passo di Stobeo dice:

“L’intero pensiero platonico mi sembra si possa riassumere così: prima di calarsi nei vari corpi e nelle varie vite, le anime hanno la libertà di scegliere o l’una o l’altra vita che intendono vivere, insieme alla forza vitale e al corpo corrispondenti a quella vita (infatti, dice che all’anima è aperta la possibilità di scegliere la vita di un leone o quella di un uomo). Ma dopo che l’anima si è calata in una di queste vite, tale libertà viene meno. Infatti, una volta discese nei corpi e diventate spiriti vitali, invece di pure anime, esse hanno ormai una libertà commisurata alla condizione del corpo: in certi casi è vivace e mobile, come nell’uomo, in altri rigida e fissa, come in quasi tutti gli altri esseri viventi. Questa libertà è strettamente legata all’organismo corporeo, dal momento che è autonoma nei movimenti, ma si indirizza secondo i desideri che nascono dal corpo”.161

§ 11 L’etica di Fichte, come lente di ingrandimento degli errori dell’etica di Kant

Allo studente di anatomia e di zoologia parecchie cose, nei preparati e nei prodotti naturali, non risultano così evidenti come nelle incisioni su lastra di rame, dove le medesime cose vengono raffigurate con una certa esagerazione. Analogamente io suggerirei a chi, dopo la precedente critica, non risultasse ancora evidente la nullità del fondamento dell’etica di Kant, di ricorrere al Sistema della dottrina morale di Fichte per chiarirsi le idee.

Infatti, come nell’antico teatro tedesco dei burattini accanto all’imperatore - o a qualsiasi altro eroe - veniva sempre posto un buffone, il quale ripeteva alla sua maniera e con esagerazione ogni cosa che l’eroe aveva detto o fatto, così accanto al grande Kant troviamo il fondatore della Wissenschaftslehre [dottrina della scienza] o meglio del Wissenschaftsleere [vuoto di scienza].162

Di fronte al pubblico filosofico tedesco quest’uomo ha perfettamente condotto a termine il suo piano - notevole e ben congegnato - di destare attenzione tramite la mistificazione filosofica, assicurando così la prosperità sua e dei suoi pari. Vi è riuscito proprio surclassando Kant in ogni questione e presentandosi come il superlativo vivente di Kant. Con l’ingigantire ogni parte saliente della filosofia di Kant, Fichte ne ha fatto davvero una caricatura; così pure ha fatto con l’etica.

Nel suo Sistema della dottrina morale l’imperativo categorico è degenerato in un imperativo dispotico. L’obbligo assoluto, la ragione legiferante e il comandamento del dovere, si sono evoluti in un fato morale, in un’insondabile necessità che il genere umano agisca rigorosamente secondo determinate massime (p. 308-309).

A giudicare dalle premesse morali quelle massime dovrebbero avere un grandissimo contenuto, tuttavia in nessuna pagina si riesce mai a saperne qualcosa. Si riesce solo a capire che, come le api sono pervase dall’impulso congiunto di costruire assieme favi e alveare, così pure anche gli uomini dovrebbero avere l’impulso di rappresentare tutti assieme una grande commedia mondiale rigorosamente morale, nella quale noi non saremmo altro che burattini mossi da fili. Ma sia ben chiaro: con la sostanziale differenza che alla fine l’alveare viene costruito davvero, mentre al posto della commedia morale mondiale viene in realtà rappresentata una commedia profondamente immorale.

In Fichte vediamo che la forma imperativa dell’etica di Kant, la legge morale e l’obbligo assoluto sono esasperati fino a costituire un sistema di fatalismo morale, il cui svolgimento a volte trascende nel ridicolo.163

Se nell’etica di Kant si avverte una certa pedanteria morale, in quella di Fichte la pedanteria morale più ridicola fornisce abbondante materia alla satira. Si legga, ad esempio (p. 407-409), la soluzione del noto dilemma casistico dove, di due vite umane, una deve andare persa. Tutti gli errori di Kant vengono elevati al superlativo. Ad esempio (p. 199):

“L’impulso di agire secondo la simpatia, la compassione e l’amore verso il prossimo non solo non è morale, ma va addirittura contro la morale” (!)

e (p. 402):

“La molla che spinge ad aiutare gli altri non deve mai essere una sconsiderata bontà di cuore, bensì il fine, chiaramente ponderato, di promuovere il più possibile la causalità della ragione”.

In mezzo a tanta pedanteria fa anche apertamente capolino la vera e propria rozzezza filosofica di Fichte, come ci si può giustamente aspettare da un uomo al quale l’insegnamento non ha mai concesso il tempo per imparare. Fichte, infatti, sostiene seriamente il liberum arbitrium indifferentiae [libero arbitrio di indifferenza], adducendo le più triviali ragioni (p. 160, 173, 205, 208, 237, 259, 261).

Chi non è ancora perfettamente convinto che un motivo, anche se agendo tramite il medium [mezzo] della conoscenza, è una causa come le altre (quindi, come ogni altra causa, comporta la stessa necessità dell’effetto, cosicché tutte le azioni umane avvengono rigorosamente per necessità) è una persona filosoficamente rozza e sprovvista delle basi della conoscenza filosofica. Comprendere la rigorosa necessità delle azioni umane costituisce la linea di demarcazione che separa le teste filosofiche dalle altre. Oltrepassando questo linea, Fichte dimostra chiaramente di appartenere alle altre.

Il fatto poi di affermare cose in netta contraddizione con quanto precedentemente lui stesso ha detto (seguendo le orme di Kant, p. 303), come pure molte altre contraddizioni nei suoi scritti, dimostra che Fichte non ha mai seriamente ricercato la verità, né aveva alcun salda convinzione fondamentale. Ma questa per i suoi scopi non era affatto necessaria.

La cosa più ridicola poi è che quest’uomo sia diventato famoso per la sua rigorosa logica, poiché la gente ha confuso il rigore logico con il suo tono pedante nel dimostrare prolissamente cose banali.

L’esposizione completa del sistema del fatalismo morale di Fichte si trova nel suo ultimo scritto La dottrina della scienza esposta nelle sue linee generali (Berlino, 1810), notevole per avere solo 46 pagine in formato 12 e tuttavia contenere tutta la sua filosofia in nuce [nel nucleo]. È un libro da consigliare a chi giustamente ritiene che il proprio tempo sia troppo prezioso per essere sprecato con le più voluminose opere di quest’uomo, scritte con la prolissità e la noiosità di Christian Wolff, con l’intento non di istruire, ma di ingannare il lettore. In questo breve scritto (p. 32) si dice:

“L’intuizione di un mondo sensibile aveva il solo scopo di permettere all’io di vedere se stesso in questo mondo come un dovere assoluto”.

Poi (p. 33 e p. 36) si dice addirittura:

“L’obbligo della visibilità dell’obbligo”,

e:

“Un obbligo di intuire che io ho l’obbligo”.

Fino a tal punto è dunque arrivata subito dopo Kant la forma imperativa della sua etica, con il suo ‘obbligo’ campato in aria - un exemplar vitiis imitabile [un modello imitabile anche nei suoi difetti] - che essa ha escogitato per avere un comodo poà stî [pu sto: punto di appoggio].

D’altro canto, tutto quanto abbiamo fin qui detto non cancella il merito di Fichte, che consiste nell’aver oscurato - con i superlativi boriosi, con le stravaganze e con l’insensatezza, camuffata da profondità di pensiero, dei suoi Fondamenti dell’intera dottrina della scienza - e nell’aver addirittura scacciato la filosofia di Kant (questo tardo capolavoro della profondità del pensiero umano) dalla nazione stessa dove essa era sorta.

In questo modo, infatti, Fichte è incontestabilmente riuscito a dimostrare al mondo intero quale possa essere la competenza filosofica del pubblico tedesco. Questo pubblico si è lasciato truffare come un bambino, al quale si sfila dalle mani un prezioso gioiello e gli si da in cambio un giocattolo di legno di Norimberga.

La fama che Fichte si è conquistato in questo modo vive di credito ancora oggi. Il suo nome viene regolarmente citato accanto a quello di Kant, come HraklÁj kaˆ p…qhkoj [Eraklés kài pìthekos: Ercole e la scimmia],164 e spesso viene addirittura posto prima di quello di Kant.165

Il suo esempio ha chiamato alla ribalta quei successori che tutti conosciamo, animati dallo stesso spirito e coronati dallo stesso successo nell’arte della mistificazione filosofica del pubblico tedesco. Ma non è il caso di parlare qui diffusamente di queste persone, anche se le loro ragguardevoli opinioni vengono ancora esposte in lungo e in largo, e discusse con serio cipiglio dai professori di filosofia, come se si trattasse realmente di filosofi.

Dobbiamo piuttosto ringraziare Fichte, per aver messo a disposizione del tribunale dei posteri una sovrabbondanza luculliana di atti per procedere a una revisione. In quasi tutte le epoche i posteri sono la corte di cassazione per giudicare il vero merito del mondo contemporaneo, come il giudizio universale per giudicare i santi.

iii - Motivazione dell’etica

§ 12 Requisiti

Anche la motivazione dell’etica di Kant, ritenuta da sessant’anni come un saldo fondamento, mostra invece di essere un inammissibile presupposto e un semplice travestimento della morale teologica, e affonda così, davanti ai nostri occhi, nel baratro profondo - probabilmente incolmabile - degli errori filosofici.

Do per scontato che il lettore sappia anche che i precedenti tentativi di motivare l’etica sono ancora meno soddisfacenti di quello di Kant. Essi sono per lo più supposizioni non provate e campate in aria. Allo stesso tempo - come la motivazione data da Kant - sono artificiose sottigliezze che richiedono le più sottili distinzioni e che si appoggiano sui concetti più astratti. Sono improbabili combinazioni, regole euristiche, affermazioni in equilibrio sulla punta di uno spillo, massime montate sui trampoli, dall’alto delle quali non si riesce più a scorgere la vita reale e il suo trambusto. Sono comunque tutte cose perfettamente adatte per rimbombare nelle sale universitarie e per esercitare l’acume del pensiero.

Tuttavia nessuna di esse può essere ciò che desta in ogni uomo un reale e sentito appello ad agire secondo giustizia e a fare del bene, e tantomeno ciò che può controbilanciare la forte tendenza verso l’ingiustizia e la durezza di cuore, o ciò che sta alla base del rimorso di coscienza.

Voler far risalire il rimorso di coscienza alla violazione di quelle massime cervellotiche può solo servire a rendere ridicole le stesse massime. Se esaminiamo la questione seriamente, combinazioni artificiose di concetti di quel tipo non potranno mai contenere il vero impulso verso la giustizia e l’amore per il prossimo.

Questo impulso dovrebbe essere piuttosto qualcosa che richieda meno riflessione e ancor meno astrazione e combinazione, che possa parlare a ciascuno indipendentemente dalle sue capacità intellettuali, anche alla persona più rozza. Qualcosa che poggi sulla comprensione intuitiva e che si faccia sentire partendo direttamente dalla realtà delle cose.

Fintanto che l’etica non avrà dimostrato un fondamento di questo tipo, continui pure a disputare e a mettersi in bella mostra nelle aule universitarie, tanto la vita reale se ne farà beffe. Debbo pertanto dare ai moralisti vari il paradossale consiglio di guardarsi un poco attorno nella vita reale degli uomini.

§ 13 Punto di vista scettico

Se gettiamo lo sguardo indietro sui tentativi fatti invano da oltre duemila anni per trovare un fondamento certo della morale, dobbiamo forse dedurre che non esiste una morale naturale indipendente dagli ordinamenti dettati dall’uomo?

È forse la morale solo un artefatto, un mezzo escogitato per domare meglio il genere umano, egoista e malvagio, che senza il supporto di una religione positiva [che detta comandamenti] non potrebbe stare in piedi, poiché privo di una legittimazione propria e di un fondamento naturale?

Eppure il giudice e il poliziotto non possono arrivare dappertutto. Esistono misfatti troppo difficili da scoprire, addirittura alcuni che non è possibile punire legalmente, dove quindi la pubblica sicurezza ci lascia soli. Oltretutto la legge statale ci può al massimo costringere a praticare la giustizia - non fosse altro perché ognuno desidera soprattutto beneficiarne personalmente, più che praticarla - ma non ci può certo costringere ad amare il prossimo o a fare del bene.

Queste considerazioni hanno fatto sorgere l’ipotesi che la morale poggi semplicemente sulla religione e che lo scopo di entrambe sia completare l’inevitabile insufficienza delle istituzioni e delle leggi dello Stato. Pertanto non esisterebbe una morale naturale, fondata semplicemente sulla natura delle cose o dell’uomo. Questo spiegherebbe perché i filosofi invano si son dati da fare nel cercare il fondamento della morale.

Una simile opinione è abbastanza plausibile, ed è già stata formulata dai pirroniani:

“Nulla è buono o cattivo per natura, ma è l’arbitrio umano che pronuncia questi giudizi, come dice Timone”.166

Anche nei tempi moderni alcuni eminenti pensatori si sono espressi in questo senso. Questa ipotesi merita pertanto di essere accuratamente esaminata, anche se sarebbe molto più comodo scartarla immediatamente, gettando un’occhiata inquisitrice nella coscienza di chi ha avuto un simile pensiero.

Commetterebbe un grosso errore puerile chi pensasse che tutte le azioni conformi alla giustizia e alla legalità umana abbiano un’origine morale. È vero piuttosto che la giustizia praticata dagli uomini e la genuina onestà di cuore stanno in un rapporto simile a quello che intercorre tra la cortesia e il genuino amore del prossimo. Solo quest’ultimo è capace di vincere l’egoismo realmente, non solo in apparenza, come fa la cortesia.

La rettitudine d’animo sbandierata in ogni occasione - la quale vorrebbe essere ritenuta al di sopra di ogni sospetto ed è accompagnata dalla massima indignazione che si scatena al minimo cenno di sospetto nei suoi confronti, pronta a degenerare nell’ira più focosa - sono cose che solo una persona inesperta e ingenua può scambiare sui due piedi per denaro sonante, ossia pensare che sia il frutto di delicati sentimenti o di una coscienza morale.

In realtà la giustizia che viene comunemente praticata nelle relazioni umane - affermata come [il loro] principio granitico - poggia soprattutto su due necessità esteriori. Innanzitutto sull’ordinamento legislativo, grazie al quale la forza pubblica protegge i diritti di ogni cittadino, e poi sulla sentita esigenza di godere di un buon nome e dell’onore civile, per poter fare strada nella società.

Al mondo, infatti, le azioni di ogni uomo sono tenute sott’occhio dall’opinione pubblica, la quale rigorosamente e implacabilmente non perdona mai un solo passo falso, anzi lo rinfaccerà al trasgressore fino alla fine dei suoi giorni, come una indelebile macchia. E in questo l’opinione pubblica è davvero saggia, poiché è convinta - in base al principio operari sequitur esse [ciò che uno fa deriva da ciò che uno è] - che il carattere di una persona è immutabile, cosicchè chi ha compiuto una sola volta una determinata azione, al ripresentarsi delle medesime circostanze, la rifarà inesorabilmente.

Questi due sono dunque i guardiani che sorvegliano la giustizia sociale, senza i quali - diciamolo francamente - ci troveremmo nei guai, soprattutto dal punto di vista della proprietà privata, questo punto cruciale della vita di ogni uomo, attorno al quale ruota ogni sua attività.

Nel campo della proprietà privata, infatti, i motivi puramente etici (ammesso che esistano) per comportarsi onestamente possono in generale trovare applicazione solo dopo un lungo giro. Essi, infatti, possono riferirsi innanzitutto e immediatamente solo alla proprietà per diritto naturale; alla proprietà per diritto legale, invece, solo mediatamente, poiché il diritto legale poggia su quello naturale.

Il diritto naturale vale esclusivamente per la proprietà acquisita grazie alla personale fatica del proprietario. Quando questo tipo di proprietà viene sottratto, lo è anche il lavoro fatto dal proprietario, il quale si trova così derubato.

La teoria del diritto del primo occupante, che io respingo incondizionatamente, non può essere trattata in questa sede.167

Senza dubbio la proprietà per diritto legale, anche se attraverso mille fasi intermedie, deve all’origine poggiare sulla proprietà per diritto naturale. Ma quanto è lontana nella maggior parte dei casi la proprietà legale dalla sua fonte originale per diritto naturale! Di solito vi giunge attraverso un collegamento molto difficile, se non addirittura impossibile da dimostrare.

La proprietà legale, infatti, può essere ereditata, acquisita per matrimonio, vinta alla lotteria, oppure anche guadagnata non proprio con il sudore della fronte, bensì grazie a una intelligente riflessione o ad un’idea improvvisa, ad esempio, nel mercato azionario. A volte addirittura grazie a un’idea insensata che, grazie al caso, il deus eventus [il dio evento] ha voluto onorare e coronare.

Solo nella minoranza dei casi si tratta veramente del frutto di fatica concreta e di lavoro. In questi casi rientra anche la fatica psichica, come quella di avvocati, medici, impiegati, insegnanti, che agli occhi della gente rozza sembra costare meno.

Ci vuole una considerevole cultura per riconoscere il diritto naturale anche a questo tipo di proprietà e per rispettarlo in base ad un impulso puramente morale. Molti invece, nel loro intimo, considerano la proprietà degli altri come posseduta solo per diritto legale, cosicché se trovassero il modo per strappargliela utilizzando, o anche raggirando, la legge, lo farebbero senza alcuna esitazione. Sono infatti convinti che gli altri la perderebbero nello stesso modo in cui l’hanno guadagnata, e che le proprie pretese siano altrettanto valide quanto quelle dei precedenti proprietari.

Dal loro punto di vista, nella società civile il diritto del più astuto è subentrato al diritto del più forte. Il ricco, invece, è spesso di una rettitudine meticolosa, poiché ha particolarmente a cuore una determinata regola e sostiene una massima, sul cui rispetto poggia ogni sua proprietà, compresi i privilegi che ne derivano. Il ricco, quindi, prende effettivamente sul serio la massima suum cuique [a ciascuno il suo] e non se ne separa.

Di fatto esiste un simile attaccamento oggettivo alla lealtà e alla fiducia, con la ferma determinazione di mantenerle sacre. Questo attaccamento poggia semplicemente sul fatto che la lealtà e la fiducia stanno alla base di ogni libera relazione tra gli uomini, di ogni buon ordinamento e del sicuro diritto di proprietà. Sono virtù che spesso tornano a vantaggio generale e che quindi meritano di essere mantenute anche a costo di sacrifici, proprio come quando per un buon terreno si spende anche una cifra.

L’onestà fondata su questi principi è riscontrabile di solito presso i benestanti, o persone che esercitano per lo meno un’attività redditizia. Soprattutto tra i commercianti, i quali sono perfettamente convinti che i traffici e il commercio hanno un indispensabile sostegno nella fiducia e nel credito. Proprio per questo motivo l’onore dei commercianti è del tutto particolare.

Il povero, invece, il quale possiede troppo poco e, a causa della disparità di mezzi, si vede condannato alle privazioni e ad un duro lavoro, mentre gli altri, ai suoi occhi, vivono nell’abbondanza e nell’ozio, difficilmente riconoscerà che questa disparità sia dovuta a un’altra disparità, in termini di merito e di onesto guadagno.

Dato che il povero non riconosce questi meriti, da cos’altro potrebbe trarre lo stimolo puramente morale verso l’onestà, per trattenersi dall’allungare la mano sull’abbondanza degli altri? Di solito è la legge che lo trattiene. Ma se una volta tanto si presentasse la rara occasione, tramite la quale lui - sicuro di farla franca - potesse in un sol colpo scaricare dalle proprie spalle il peso opprimente della miseria, che la vista del benessere degli altri rende ancor più gravoso, e impadronirsi dei beni così spesso invidiati, cosa potrebbe trattenere la sua mano? Dei dogmi religiosi? Raramente la fede è così solida. Un motivo puramente morale per agire secondo giustizia? Probabilmente solo in alcuni casi.

Nella maggior parte dei casi, invece, sarà solo la preoccupazione - molto sentita anche dal più modesto degli uomini - del proprio buon nome e onore civile, e il pericolo evidente di venire espulso per sempre, a causa di una simile azione, dalla grande loggia massonica degli uomini onesti (quelli che rispettano la legge della rettitudine, dopo essersi spartiti tra di loro e aver amministrato ogni proprietà sulla terra). È il timore di diventare, a causa di una sola azione disonesta, un paria della società civile, uno di cui nessuno più si fida, la cui compagnia tutti fuggono, tagliato fuori da ogni possibilità di miglioramento, in una parola ‘uno che ha rubato’, al quale si appioppa il detto: “Chi ruba una volta è ladro per sempre”.

Dunque sono questi i due guardiani della pubblica rettitudine. Chi ha vissuto con gli occhi ben aperti dovrà convenire che la maggior parte dell’onestà nei rapporti sociali è soprattutto merito loro.

Senza dubbio esistono anche persone che sperano di sfuggire alla sorveglianza di quei due guardiani e che considerano la rettitudine e l’onestà solo come un emblema, come una bandiera dietro la quale poter perfezionare le loro ruberie con maggior successo.

Non dobbiamo quindi trascendere in sacro fervore, andando su tutte le furie, quando, una volta tanto, qualche moralista solleva il problema, se mai la comune giustizia e onestà - in fin dei conti - non siano solo una convenzione, e neppure quando poi, andando a fondo della questione, si adopera per ricondurre anche tutta la morale convenzionale a ragioni più recondite e mediate, a un fondamento - tutto sommato - semplicemente egoistico (come ai loro tempi hanno cercato di fare Holbach, Helvetius, d’Alembert e altri).

Questo è certamente vero addirittura per la maggior parte delle azioni secondo giustizia (come ho precedentemente dimostrato). E non c’è alcun dubbio che sia vero anche per una considerevole parte delle azioni filantropiche. Queste, infatti, vengono spesso compiute per ostentazione, molto spesso nella speranza di una ricompensa nell’altro mondo elevata al quadrato o al cubo, e anche per altri fini egoistici.

Tuttavia è certamente vero che avvengono anche azioni di amore disinteressato verso il prossimo e di giustizia del tutto spontanea.

Prova dell’esistenza di simili azioni (senza fare riferimento a fatti opinabili, ma solo a fatti realmente accaduti) sono alcuni indiscutibili casi in cui un povero, senza correre il pericolo di essere perseguito legalmente e neppure di essere semplicemente scoperto o sospettato, ha tuttavia restituito a un ricco ciò che gli apparteneva. E ancora, quando un oggetto perso e poi ritrovato, o il denaro depositato da una terza persona in seguito deceduta, sono stati restituiti ai loro legittimi proprietari o agli eredi. Oppure quando il deposito di valori fatto sulla fiducia da un esule presso un povero prima di fuggire, è stato da quest’ultimo fedelmente custodito e al ritorno gli è stato restituito.

Senza dubbio casi di questo tipo esistono. La sorpresa, la commozione e l’ammirazione con cui li accogliamo dimostrano chiaramente che essi appartengono alle cose inaspettate, alle rare eccezioni.

In realtà esistono persone veramente oneste, come pure esiste veramente il quadrifoglio. Amleto non esagera affatto quando dice:

“Visto come va il mondo, essere onesto è come essere uno su diecimila”.168

Per controbattere l’obiezione che alla base delle suddette azioni ci siano dei dogmi religiosi - cosicché l’autore avrebbe tenuto conto di una punizione o di un premio nell’altro mondo - potrei citare alcuni casi in cui l’autore non aveva alcuna fede religiosa (un evento poi non così raro come il pubblico riconoscimento del fatto stesso).

Contro il punto di vista scettico si suole fare appello innanzitutto alla coscienza. Tuttavia gli scettici sollevano anche molti dubbi sull’ipotesi che l’origine naturale della moralità stia nella coscienza. Come minimo esiste anche una conscientia spuria [falsa coscienza] che spesso viene confusa con quella vera. Spesso, infatti, il rimorso e l’inquietudine che qualcuno prova per ciò che ha fatto, in fondo non è altro che la paura delle conseguenze che gli potrebbero succedere.

La violazione di norme imposte dall’alto, arbitrarie e addirittura senza senso, può torturare qualcuno con un rimorso intimo del tutto simile a quello della coscienza. Ad esempio, qualche ebreo bigotto potrebbe davvero sentirsi profondamente addolorato per avere fumato la pipa il sabato sera a casa sua, nonostante nell’Esodo (35.3) stia scritto:

“Non accenderete il fuoco in giorno di sabato, in nessuna delle vostre dimore”.

Parecchi gentiluomini o ufficiali, in seguito a una qualsiasi accusa, sono rosi nel loro intimo dal rimorso di non essersi attenuti scrupolosamente al codice dei pazzi, altrimenti detto ‘codice d’onore cavalleresco’. La cosa può degenerare a tal punto che parecchi membri di questa classe, nell’impossibilità di mantenere la parola d’onore data oppure, in una lite, di ottemperare al suddetto codice con un duello, si sparano (ho visto entrambi i casi). La stessa persona è invece capace ogni giorno, senza il minimo scrupolo, di non mantenere la parola data, fintanto che questa non sia accompagnata dallo schibboleth [parola fantomatica]: ‘onore’.

In generale, ogni incongruenza, ogni mancanza di attenzione, ogni azione contraria ai nostri propositi, principi e convinzioni di qualunque tipo, addirittura ogni indiscrezione, ogni passo falso e ogni balourdise [balordaggine] ci rodono poi dentro e ci lasciano una spina nel cuore. Parecchi si stupirebbero nel vedere di cosa è fatta la propria coscienza, che a loro sembra così imponente: 1/5 di timore degli altri, 1/5 di deisidaimonia, 1/5 di pregiudizio, 1/5 di vanità e 1/5 di abitudine. Tutto sommato, parecchi non sono meglio di quell’inglese che sinceramente ha confessato: “I cannot afford to keep a conscience” [non posso permettermi il lusso di avere una coscienza].

Le persone religiose di ogni credo per ‘coscienza’ non intendono altro che i dogmi e le prescrizioni della loro religione, insieme alla loro personale verifica, in base a quelle norme, delle azioni compiute. In questo senso vengono intese le espressioni ‘obbligo di coscienza’ e ‘libertà di coscienza’. I teologi, gli scolastici e i casisti [teologi ‘esperti’ nell’analizzare e risolvere i casi di coscienza] del medioevo e di epoche posteriori la intendevano proprio in questo modo. Tutto quanto uno sapeva sui principi e sulle prescrizioni della Chiesa, insieme al proposito di credere in essi e di seguirli, costituiva la sua coscienza. Di conseguenza c’era una coscienza che dubita, che crede, che sbaglia, ecc., per la cui rettifica ciascuno aveva lo specifico consigliere di coscienza.

Per capire quanto poco il concetto di coscienza (come altri concetti) sia determinato dal suo oggetto, in quanti modi diversi venga inteso da persone diverse, e con quante oscillazioni e incertezze compaia presso i vari autori, si veda la Storia delle teorie della coscienza di Stäudlin (1824).

Tutto questo non basta per accreditare la reale esistenza del concetto di coscienza ed ha quindi fatto sorgere la domanda: esiste realmente una genuina coscienza innata? Nel paragrafo § 10, dedicato alla teoria della libertà, ho già avuto modo di chiarire brevemente il mio concetto di coscienza, sul quale ritornerò in seguito.

Queste obiezioni degli scettici non bastano assolutamente per negare l’esistenza di una moralità genuina, tuttavia bastano per moderare le nostre aspettative riguardo all’attitudine morale dell’uomo e, con essa, al fondamento naturale della moralità. Infatti, molte delle cose che vengono attribuite alla moralità risultano poi derivare da altri impulsi.

La constatazione del marciume morale del mondo dimostra a sufficienza che la molla che spinge verso il bene non è tra le più poderose. Spesso, infatti, questa molla non ha efficacia, nonostante non vi siano stimoli opposti a contrastarla, anche se in questo campo la differenza di carattere individuale svolge un ruolo determinante. Oltretutto, smascherare il marciume morale non è facile, poiché le sue manifestazioni sono ostacolate e celate dall’ordinamento legislativo, dalla necessità di salvare l’onore e perfino dalla gentilezza.

Infine, come se non bastasse, con l’educazione si cerca di promuovere la moralità nei giovani presentando loro la giustizia e la virtù come se fossero le massime comunemente praticate al mondo. Solo più tardi l’esperienza mostrerà loro - spesso con gravi conseguenze - che le cose stanno in tutt’altro modo.

Scoprire, infatti, che proprio i loro maestri sono stati i primi a ingannarli in gioventù, avrà un effetto negativo sulla moralità dei giovani. Meglio avrebbero fatto presentandosi come primo esempio di sincerità e di onestà, dicendo loro chiaro e tondo:

“Il mondo è in uno stato penoso e gli uomini non sono come dovrebbero essere. Ma non lasciarti fuorviare; cerca di essere tu il migliore”.

Tutti questi fattori - come abbiamo detto - ostacolano lo smascheramento della reale immoralità del genere umano.

Lo Stato, questo capolavoro dell’egoismo consapevole, razionale e cumulativo di tutti, ha messo la protezione dei diritti di ognuno nelle mani di una forza infinitamente superiore a quella del singolo, costringendolo a rispettare il diritto degli altri. In questo modo l’egoismo senza limiti di quasi tutti, la malvagità di molti e la crudeltà di parecchi, non hanno via libera: la costrizione li imbriglia tutti.

L’equivoco che ne deriva è così grande che quando, nei casi particolari in cui la forza dello Stato viene a mancare o è elusa, vediamo sorgere l’avidità insaziabile, la vile bramosia di denaro, la falsità profondamente nascosta e la malvagità degli uomini, allora lo spavento ci fa spesso indietreggiare e lanciare un urlo, come se ci fossimo imbattuti in un mostro mai visto prima. Simili situazioni sarebbero all’ordine del giorno se non esistessero la costrizione imposta dalla legge e la necessità di conservare l’onore civile.

Bisogna leggere la cronaca nera e il resoconto di stati di anarchia, per vedere cosa l’uomo, dal punto di vista morale, realmente è. Le mille persone che qui, davanti ai nostri occhi, si mischiano pacificamente tra di loro, dovrebbero essere viste come altrettanti lupi e tigri, il cui muso è serrato da una robusta museruola. Al pensiero che per una volta sola la forza dello Stato venga meno, ossia che la museruola venga tolta, ogni persona avveduta si metterebbe a tremare di fronte allo spettacolo che ci si dovrebbe aspettare.

Questo dimostra quanta poca fiducia ognuno in fondo ha nella religione, nella coscienza o in qualsiasi altro fondamento naturale della morale, qualunque possa essere.

Eppure, proprio in quel momento, di fronte alla potenza scatenata dell’immoralità, la genuina molla di spinta morale dell’uomo mostrerebbe apertamente la sua efficienza e potrebbe così essere facilmente riconosciuta. Allo stesso tempo si mostrerebbe, senza veli, la incredibilmente grande diversità morale dei caratteri, tanto grande quanto la diversità intellettuale delle teste (che non è certamente poca).

Forse qualcuno obietterà che l’etica non ha nulla a che fare con ciò che gli uomini realmente fanno, ma che sia piuttosto la scienza che stabilisce cosa gli uomini dovrebbero fare.

Questa è proprio l’affermazione di principio che io nego. Nella parte critica di questo trattato, ho già dimostrato a sufficienza che il concetto di ‘obbligo’ - ossia la forma imperativa dell’etica - vale solo per la morale teologica e che al di fuori di questa non ha alcun senso. Io attribuisco invece all’etica il compito di interpretare il comportamento estremamente diverso, dal punto di vista morale, degli uomini, di chiarirlo e di ricondurlo al suo fondamento primo.

Non rimane quindi altra via che quella empirica per trovare il fondamento dell’etica, ossia per indagare se esistono in generale alcune azioni, alle quali possiamo attribuire un autentico valore morale. Queste saranno le azioni di spontanea giustizia, di puro amore verso il prossimo e di reale nobiltà d’animo.

Bisognerà allora considerare queste azioni come un fenomeno particolare, che deve essere chiarito correttamente, ricondurre questo fenomeno al suo vero fondamento e identificare lo specifico impulso che spinge gli uomini ad azioni di questo tipo, assolutamente diverse da tutte le altre.

Questa molla di spinta, assieme alla suscettibilità delle singole persone nei suoi confronti, costituisce il motivo ultimo della moralità. Identificandolo, avremo trovato il fondamento della morale.

Questo è il modesto cammino che io indico all’etica. Chi non lo ritiene abbastanza elevato, cattedratico e accademico, poiché non contiene alcuna struttura a priori, né alcun codice assoluto di leggi per tutti gli esseri ragionevoli in abstracto [in astratto], può tornarsene all’imperativo categorico, allo schibboleth [parola fantomatica] della ‘dignità dell’uomo’, ai vuoti modi di dire, alle fantasticherie e alle bolle di sapone delle scuole filosofiche, ossia a quei principi di cui l’esperienza si fa beffe ad ogni passo, che nessuno conosce e di cui nessuno ha mai sentito parlare al di fuori delle sale universitarie.

Invece il fondamento che noi troveremo, seguendo il cammino da me proposto, è supportato dall’esperienza. Ogni giorno e ogni ora questo fondamento fornisce una tacita testimonianza di sé stesso.

§ 14 Molle di spinta antimorali169

La principale e fondamentale molla di spinta per gli uomini e per gli animali è lo egoismus170 [egoismo], ossia l’impulso ad esistere e al proprio benessere.

L’egoismo è negli animali, come nell’uomo, completamente legato all’intimo nucleo del proprio essere, anzi, si identifica con esso. Tutte le azioni scaturiscono di regola dall’egoismo e proprio nell’egoismo bisogna di solito ricercare la spiegazione di una determinata azione. Sempre all’egoismo fa riferimento di solito il calcolo dei mezzi, con i quali si cerca di guidare una persona verso un determinato fine. Per sua natura l’egoismo non ha confini.

L’uomo vuole incondizionatamente preservare la propria esistenza, la vuole libera dalla sofferenza, compreso ogni tipo di mancanza o di privazione, vuole la maggior quantità possibile di benessere, vuole ogni piacere di cui è capace e addirittura - quando possibile - cerca di sviluppare dentro di sé nuove capacità per provare piacere. Tutto ciò che si oppone agli sforzi del suo egoismo provoca in lui dispiacere, ira, odio, ed egli cercherà di distruggerlo in quanto suo nemico. L’uomo vorrebbe godere e possedere tutto, ma poiché non è possibile, vorrebbe almeno dominare ogni cosa. ‘Tutto per me e niente per gli altri’ è la sua parola d’ordine.

L’egoismo è colossale, più grande del mondo. Se a ogni individuo fosse dato di scegliere tra la distruzione sua o del resto del mondo, non c’è bisogno che vi dica cosa la maggior parte delle persone sceglierebbe. Ognuno si ritiene al centro del mondo e ogni cosa viene riferita solo a sé stesso.

Di tutto ciò che succede - ad esempio, i grandi cambiamenti nel destino dei popoli - ognuno fa subito riferimento al proprio interesse e, anche se piccolo e mediato, a questo pensa prima di ogni altra cosa. Non esiste un contrasto maggiore tra la grande ed esclusiva attenzione che ognuno presta al proprio Io e l’indifferenza che normalmente tutti gli altri hanno proprio di quell’Io (esattamente la stessa che lui prova nei confronti degli altri).

È perfino comico osservare gli innumerevoli individui, ciascuno dei quali ritiene - per lo meno dal punto di vista pratico - solo sé stesso reale, mentre considera gli altri quasi come fantasmi.

Questo dipende dal fatto che ognuno è dato direttamente a sé stesso, mentre gli altri gli sono dati solo in modo mediato, ossia come rappresentazioni dentro la propria testa, cosicché l’immediatezza fa valere il proprio diritto. In virtù della soggettività essenziale di ogni coscienza, ognuno vede sé stesso come il mondo intero. Tutto ciò che è oggettivo, infatti, esiste solo indirettamente come semplice rappresentazione ad opera del soggetto, cosicché tutto dipende sempre dalla coscienza di sé.

L’unico mondo che ogni uomo realmente conosce, e di cui è consapevole, è quello che porta dentro di sé: il mondo come sua rappresentazione. Ognuno è [ai propri occhi] il centro del mondo e crede di essere tutto in tutto, il possessore di ogni realtà. Nulla quindi può essere per lui più importante di sé stesso.

Tuttavia mentre il suo Io, dal suo punto di vista soggettivo, si configura in queste colossali dimensioni, dal punto di vista oggettivo si riduce quasi a un nulla, a un miliardesimo - circa - dell’attuale popolazione mondiale [anno 1840]. Oltretutto ognuno è perfettamente consapevole che proprio quel suo Io - la cosa più importante di tutte, quel microcosmo dal quale per semplice modificazione, o accidente, sorge il macrocosmo, ossia il suo mondo intero [come rappresentazione] - dovrà scomparire con la morte, che per lui equivale alla fine del mondo.

Questi sono dunque gli elementi di cui, in base alla volontà di vivere, l’egoismo si nutre, per poi estendersi continuamente, come un ampio fossato, tra uomo e uomo.

Se per caso, una volta tanto, qualcuno riesce davvero a saltare al di là di questo fossato per aiutare un altro, allora è quasi un miracolo, che desta stupore e che strappa l’applauso.

Precedentemente (nel paragrafo § 8), durante l’esposizione del principio della morale kantiana, ho avuto modo di mostrare come l’egoismo si manifesti nella vita di ogni giorno e riesca sempre a fare capolino da qualche angolo, nonostante la cortesia che gli si applica davanti come una foglia di fico per nasconderlo.

La cortesia, infatti, è il rinnegamento convenzionale e sistematico dell’egoismo nelle piccole cose dei rapporti quotidiani. Si sa benissimo che è una ipocrisia, tuttavia la si esige e la si loda. Infatti ciò che essa nasconde (l’egoismo) è così brutto che nessuno vuole vederlo, nonostante si sappia benissimo che esiste. Come quando si vuole che gli oggetti ripugnanti vengano perlomeno nascosti dietro una tenda.

Siccome l’egoismo persegue sistematicamente i suoi scopi, qualora non venisse contrastato né da forze esterne (tra le quali bisogna annoverare anche ogni tipo di timore di potenze naturali o soprannaturali), né dall’impulso morale genuino, all’ordine del giorno della massa infinita di individui egoisti ci sarebbe sempre il bellum omnium contra omnes [la guerra di tutti contro tutti], a scapito di tutti.

Pertanto la ragione che riflette ha prontamente escogitato l’istituzione dello Stato, il quale, fondato sulla paura reciproca della violenza, riesce a prevenire le conseguenze nocive dell’egoismo di tutti, per lo meno fin quando la paura reciproca ha effetto.

Ma quando quelle due potenze che gli si oppongono [la forza esterna dello Stato e la molla interna di spinta morale] non hanno alcun effetto, l’egoismo si mostra subito in tutta la sua terribile dimensione, e questo non è certo un bello spettacolo.

Nel pensare a come caratterizzare con un solo tratto la veemenza dell’egoismo, per esprimere in maniera concisa la forza di questa potenza antimorale, nella ricerca di qualche enfatica iperbole ho trovato la seguente: qualcuno sarebbe in grado di ammazzare un altro solo per lucidare i propri stivali con il suo grasso. Tuttavia dubito che sia realmente un’iperbole.

L’egoismo è quindi la prima e la più importante - anche se non l’unica - potenza che l’impulso morale deve combattere. Già da questo si capisce immediatamente che, per scendere in campo contro un simile avversario, l’impulso morale deve essere qualcosa di più reale che un sofistico cavillo o una bolla di sapone aprioristica.

In guerra il primo passo da fare è la ricognizione del nemico. Nell’imminente battaglia contro l’egoismo, alla principale potenza da un lato si contrapporrà prevalentemente, dall’altro lato, la virtù della giustizia, la quale - a mio parere - è la prima e vera virtù cardinale. La virtù dell’amore verso il prossimo, invece, si contrapporrà prevalentemente alla cattiveria e alla malvagità. Esaminiamo, quindi, innanzitutto l’origine e le varie graduazioni di questi [altri due] vizi.

La cattiveria nei gradi più bassi è molto comune, addirittura consueta, e si spinge facilmente fino ai gradi più alti. Goethe ha perfettamente ragione quando afferma:

“In questo mondo, l’indifferenza e l’antipatia sono di casa”.171

È per noi una vera fortuna che la prudenza e la cortesia vi stendano sopra il loro mantello e non ci lascino vedere quanto comune è la cattiveria reciproca, né come il bellum omnium contra omnes [la guerra di tutti contro tutti] venga regolarmente portato avanti, almeno nel pensiero.

Tuttavia esso a volte fa capolino - ad esempio - nella maldicenza, così frequente e spietata. Diventa poi assolutamente evidente quando scoppia nell’ira, la quale di solito supera di molte lunghezze il motivo che l’ha scatenata. L’ira non potrebbe manifestarsi così violentemente se non fosse stata compressa, come la polvere da sparo nello schioppo, sotto forma di odio covato nell’intimo e lungamente represso.

La cattiveria sorge in gran parte dagli inevitabili conflitti a cui l’egoismo va incontro ad ogni passo. Inoltre, essa viene anche oggettivamente destata dallo spettacolo di vizi, errori, debolezze, pazzie, mancanze e imperfezioni di ogni tipo, che - più o meno occasionalmente - ognuno offre agli altri.

La cosa può degenerare a tal punto che a parecchi, in momenti di crisi ipocondriaca, il mondo potrebbe sembrare una mostra di caricature dal punto di vista estetico, un manicomio dal punto di vista intellettuale e un covo di briganti dal punto di vista morale. Se poi questo malumore persistesse nel tempo, si trasformerebbe in misantropia.

Una principale fonte di cattiveria è l’invidia. O meglio, l’invidia suscitata dalla fortuna, dai possedimenti e dai privilegi degli altri, è già essa stessa cattiveria. Nessuno è esente dall’invidia. Già Erodoto dice:

“L’invidia è connaturata nell’uomo”.172

Tuttavia i gradi che può raggiungere sono molto diversi. L’invidia più insanabile e velenosa è quella che riguarda le capacità personali, poiché in questo caso all’invidioso non rimane alcuna speranza. Allo stesso tempo è anche la più degradante, poiché l’invidioso, in questo caso, odia ciò che lui stesso dovrebbe amare e onorare. Già il Petrarca lamentava:

“Di lor par che più d’altri invidia s’abbia,
Che per se stessi son levati a volo,
Uscendo fuor della comune gabbia”.173

Un trattato completo sull’invidia si trova nel secondo volume dei Parerga e Paralipomena (§ 114).

Da un certo punto di vista, il contrario dell’invidia è il provare piacere delle disgrazie altrui. Mentre provare invidia è umano, provare piacere delle disgrazie altrui è diabolico. Non esiste alcun indice più sicuro di malvagità di cuore, e di profonda indegnità morale, che un lampo di puro e vivo piacere di fronte alle disgrazie altrui. Si dovrebbe evitare per sempre la persona che ha manifestato un simile sentimento.

“Questo è nero [di bile, di invidia]: state alla larga da lui, Romani”.174

L’invidia e il piacere delle disgrazie altrui di per sé sono solo teoriche: in pratica si traducono in malvagità e crudeltà. Anche se l’egoismo può condurre a crimini e a misfatti di ogni tipo, i danni e il dolore causati agli altri dall’egoismo sono semplicemente un mezzo, non un fine, quindi sono solo una conseguenza accidentale.

Per la malvagità e la crudeltà, invece, le sofferenze e il dolore degli altri sono di per sé un fine, causarli è un godimento. Per questo motivo esse sono due potenze ancora più grandi di degradazione morale.

La massima dell’egoismo estremo è: neminem juva, imo omnes, si forte conducit, laede [non aiutare nessuno; anzi fai del male a chiunque, se la cosa ti può dare un vantaggio], quindi ancora in maniera condizionata [da un ipotetico vantaggio].

La massima della malvagità è: omnes, quantum potes, laede [fai del male a tutti, quanto più ti riesce]. Come il compiacimento del male altrui è crudeltà a livello teorico, così la crudeltà è il compiacimento del male altrui a livello pratico. Il piacere teorico degenera in pratico, appena sorge l’occasione.

Per mostrare i vizi particolari che scaturiscono da quei due vizi fondamentali (egoismo e malvagità) bisognerebbe scrivere un trattato completo sull’etica.

Dall’egoismo si dedurrebbero: avidità, ingordigia, libidine, interesse personale, spilorceria, avarizia, ingiustizia, durezza di cuore, orgoglio, boria, ecc. Dalla malvagità si dedurrebbero: contrarietà, invidia, malevolenza, astiosità, compiacimento del danno altrui, curiosità invadente, calunnia, insolenza, petulanza, odio, collera, tradimento, perfidia, brama di vendetta, crudeltà, ecc.

La prima radice è animalesca, la seconda diabolica. La prevalenza dell’uno o dell’altro vizio, oppure dell’impulso morale che dimostreremo in seguito, fornisce il criterio principale per procedere alla classificazione dei caratteri. Nessuno è privo di almeno un poco di questi due vizi e di quella virtù.

Con questo avrei terminato la terrificante parata delle potenze antimorali, che ricorda un poco quella dei principi delle tenebre nel Pandemonio di Milton.

Il mio piano prevedeva di prendere innanzitutto in considerazione gli aspetti più oscuri della natura umana, affinché il mio cammino venisse chiaramente distinto da quello di tutti gli altri moralisti, facendolo assomigliare al cammino seguito da Dante che, come primo passo, porta all’inferno.

Da questa panoramica delle potenze antimorali risulta chiaramente quanto sia difficile il problema di trovare una molla di spinta morale che possa spingere l’uomo ad un comportamento opposto a tutte quelle tendenze profondamente radicate nella sua natura e - qualora l’esistenza di un simile impulso morale fosse confermata dall’esperienza - di renderne conto in maniera soddisfacente e non artificiosa.

Il problema è così difficile, che per la sua soluzione, in favore dell’umanità in generale, si è dovuto ricorrere al macchinario di un altro mondo.

Si è fatto ricorso agli dèi, la cui volontà e i cui comandamenti stabilirebbero il comportamento morale da seguire. Per dar peso ai loro comandamenti, gli dèi distribuirebbero un premio o una punizione in questo o in un altro mondo, dove verremmo trasferiti dopo la morte.

Se la fede in una dottrina di questo tipo si potesse radicare dappertutto (operazione in ogni caso possibile tramite un indottrinamento precoce) e se potesse ottenere l’effetto desiderato (cosa molto più difficile, che trova ben poca conferma nell’esperienza), dovremmo riscontrare un livello di legalità [conformità alla legge (divina e statale)] nelle azioni umane che va ben oltre i limiti garantiti dai tribunali e dalla polizia.

Tuttavia ognuno avverte chiaramente dentro di sé che questo non è assolutamente ciò che propriamente si intende per genuino sentimento morale. È evidente che tutte le azioni dettate da motivi di questo tipo affondano le loro radici nell’egoismo.

Come è possibile, infatti, parlare di mancanza di interesse personale quando si è attratti da una ricompensa o intimoriti da una punizione? Una ricompensa che si è certi di ottenere in un altro mondo equivale a una cambiale assolutamente sicura, anche se a lunghissima scadenza.

L’augurio di ringraziamento che di solito un mendicante porge al suo benefattore, ossia che l’offerta gli verrà restituita in un altro mondo moltiplicata per mille, potrebbe indurre qualche spilorcio a fare volentieri, come buon investimento, generose elemosine, fermamente convinto di risorgere nell’altro mondo ricco sfondato.

Forse, per la grande massa del popolo uno stimolo di questo tipo è sufficiente, tanto è vero che esso viene fornito da religioni anche tra loro differenti, le quali sono la metafisica del popolo.

Bisogna tuttavia tener presente che, riguardo ai veri motivi del nostro comportamento, talvolta ci sbagliamo tanto, quanto riguardo ai motivi del comportamento degli altri.

Senza dubbio parecchie persone, mentre credono che le proprie azioni più nobili siano dettate da motivi religiosi di quel tipo, in realtà stanno agendo sulla spinta di impulsi molto più nobili e puri, anche se più difficili da chiarire. Mentre credono di spiegare il proprio nobile comportamento semplicemente tramite il comandamento del loro Dio, in realtà stanno agendo sotto la spinta di un genuino amore verso il prossimo.

Nel campo della morale - come pure in tutti gli altri campi - la filosofia cerca invece, riguardo al problema da risolvere, conclusioni vere e definitive, fondate sulla natura dell’uomo, libere da ogni spiegazione mitica, dogma religioso o ipostasi [sostanza] trascendente, ed esige che ogni conclusione sia comprovata dall’esperienza, esterna o interna.

Il compito che noi dobbiamo svolgere è filosofico. Dobbiamo quindi escludere qualsiasi soluzione condizionata dalla religione, che io ho voluto qui ricordare, solo per far luce sulla grande difficoltà del problema.

§ 15 Criterio delle azioni con valore morale

A questo punto bisogna innanzitutto rispondere alla domanda empirica: esistono in realtà azioni di giustizia spontanea e di amore disinteressato verso il prossimo, che possono arrivare fino alla nobiltà e alla magnanimità d’animo?

Purtroppo, solo sulla base di osservazioni empiriche non è possibile rispondere, poiché nell’esperienza è data solo l’azione, non l’impulso che l’ha generata. Pertanto rimane sempre la possibilità che un’azione buona o giusta sia stata influenzata da un motivo egoistico.

In questa indagine teorica io non farò ricorso all’inammissibile trucco di scaricare la questione dentro la coscienza del lettore. Tuttavia credo che siano poche le persone che dubitino e che non siano fermamente convinte - in base alla propria esperienza - che spesso qualcuno agisce semplicemente ed esclusivamente per non far torto agli altri, e che addirittura esistono alcune persone per le quali il principio di rendere giustizia agli altri è quasi innato, cosicché deliberatamente non urtano nessuno, non cercano necessariamente il proprio vantaggio, ma tengono conto anche dei diritti degli altri.

Persone che, quando assumono reciprocamente un impegno, non controllano solamente che l’altro lo mantenga, ma anche che l'altro riceva ciò che gli è dovuto, poiché giustamente desiderano che chi ha a che fare con loro non ci rimetta. Queste sono le persone veramente oneste, i pochi aequi [giusti] in mezzo ai moltissimi iniqui [ingiusti]. Persone di questo tipo esistono davvero.

Così pure credo che molti siano d’accordo con me sul fatto che parecchie persone aiutano e danno, fanno e rinunciano, senza avere nel cuore altra intenzione se non di aiutare chi vedono nel bisogno.

Chi vuole pensi pure che Arnold von Winkelried,175 quando esclamò:

“Cari e fedeli compatrioti, pensate voi a mia moglie e ai miei bambini”,

per poi gettarsi contro tutte le lance dei nemici che gli fu possibile, abbia avuto qualche interesse personale. Io non ci riesco.

Nel paragrafo § 13 ho già richiamato l’attenzione su casi di giustizia spontanea, che nessuno può onestamente e ragionevolmente negare. A questo punto se qualcuno volesse insistere nel negare che azioni di questo tipo succedono realmente, secondo lui la morale sarebbe una scienza senza contenuto reale, come l’astrologia e l’alchimia, e sarebbe quindi tempo perso discutere riguardo al suo fondamento. A lui non ho altro da dire. Continuerò a parlare con coloro che ammettono la realtà di queste azioni.

Le azioni di questo tipo sono dunque le sole alle quali si può attribuire un autentico valore morale. Il tratto specifico e caratteristico di queste azioni è l’assenza di quei motivi che ispirano di solito le azioni umane, ossia i motivi egoistici nel senso più ampio della parola.

Pertanto proprio la scoperta di un motivo egoistico, nel caso fosse l’unico motivo presente, annullerebbe completamente il valore morale di una determinata azione, mentre lo diminuirebbe se ve ne fossero altri. L’assenza di qualsiasi motivo egoistico è quindi il criterio di valutazione del valore morale di un’azione.

Certo, si potrebbe obiettare che anche le azioni di pura malvagità e crudeltà non sono dettate da motivi egoistici. È ovvio però che simili azioni non possono essere prese in considerazione, poiché sono esattamente il contrario di quelle di cui stiamo parlando. Chi volesse comunque attenersi a una rigorosa definizione potrebbe espressamente escludere le azioni malvagie tramite la loro peculiare caratteristica di provocare negli altri sofferenza.

Una ulteriore caratteristica del tutto personale, e quindi poco evidente all'esterno, delle nostre azioni con valore morale è quella di destare dentro noi stessi una specie di intima soddisfazione, il cosiddetto plauso della coscienza. Analogamente le nostre azioni di segno opposto - come l’ingiustizia e la mancanza di amore, e ancora di più la malvagità e la crudeltà - destano dentro noi un giudizio negativo.

Inoltre, come caratteristica esterna, secondaria e accidentale, i testimoni neutrali applaudono e ammirano le azioni morali, mentre biasimano quelle immorali.

Dobbiamo ora considerare le azioni con valore morale - così definite e indiscutibilmente esistenti di fatto - come un fenomeno sperimentale da chiarire, e quindi individuare cosa è che muove l’uomo a compiere azioni di questo tipo.

Se questa ricerca avrà successo, essa metterà necessariamente in luce la genuina molla di spinta morale. A quel punto, siccome l'etica deve completamente sostenersi tramite questa molla di spinta, il problema che ci siamo posti sarà risolto.

§ 16 Presentazione e dimostrazione dell’unica genuina molla di spinta morale

Dopo i precedenti, inevitabili ma necessari preparativi, passiamo ora alla dimostrazione della vera molla di spinta morale, che sta alla base di ogni azione con autentico valore morale.

Come tale si presenterà una, che per la sua serietà e indiscutibile realtà si discosta abissalmente da tutti quei cavilli, sottigliezze, sofismi, affermazioni campate in aria e bolle di sapone aprioristiche, che i precedenti sistemi filosofici hanno voluto erigere come fonte del comportamento morale e porre a fondamento dell’etica.

Io non voglio proporre questa molla di spinta morale come una arbitraria supposizione, bensì voglio dimostrare realmente che essa è la sola possibile. Ma per procedere a questa dimostrazione è necessario riassumere innanzitutto alcuni concetti.

Faccio quindi alcune premesse propedeutiche alla dimostrazione, le quali potrebbero valere anche come assiomi (ad eccezione delle ultime due, le quali fanno riferimento a quanto è stato precedentemente detto):

1) Nessuna azione può accadere senza un motivo determinante (ossia, senza una ragione sufficiente), esattamente come una pietra non si può muovere senza una causa (qualcosa che la spinge o che la attrae).

2) Analogamente, in presenza di un motivo determinante per il carattere di chi compie l’azione, un’azione non può non essere compiuta se un motivo opposto, ancora più forte, non rende necessaria la sua omissione.

3) Ciò che muove la volontà è solo il bene o il male in generale, nel senso più ampio della parola. E viceversa: bene significa ‘conforme alla volontà’ e male ‘non conforme alla volontà’. Ogni motivo deve pertanto fare riferimento ad un bene o ad un male.

4) Il fine ultimo di ogni azione riguarda, quindi, un essere sensibile al bene e al male.

5) Questo essere è lo stesso che compie l’azione, oppure un altro essere che partecipa passivamente all’azione, traendone un danno o un beneficio.

6) Ogni azione, il cui fine ultimo è procurare il bene, o evitare il male, di chi la compie, è un’azione egoistica.

7) Tutto ciò che è stato detto per un’azione vale anche per l’omissione dell’azione stessa, in presenza di un motivo (per non compierla) o di un contromotivo (per compierla).

8) L’egoismo e il valore morale di un’azione si escludono a vicenda (per quanto è stato detto nel precedente paragrafo). Se un’azione ha per motivo un fine egoistico, non può avere alcun valore morale. E viceversa: se ha valore morale non può avere alcun motivo egoistico, diretto o indiretto, vicino o remoto.

9) Dopo aver escluso l’esistenza di presunti doveri verso noi stessi (come dimostrato nel § 5), il valore morale di un’azione può esistere solo in relazione agli altri . Solo se riguarda gli altri un’azione può avere una valenza morale o immorale, essere quindi un’azione di giustizia e di amore verso il prossimo, oppure il contrario di entrambe.

Date queste premesse, è evidente che il bene o il male - i quali devono stare alla base di ogni azione come fine ultimo (secondo la premessa n. 3) - riguardano o colui che compie l’azione, oppure qualcun altro che la subisce. Nel primo caso l’azione è necessariamente egoistica, poiché poggia su un motivo interessato. A questa categoria appartengono le azioni:

- intraprese palesemente per il proprio interesse e vantaggio personale (come avviene nella maggior parte dei casi)

- dalle quali ci si aspetta un futuro profitto qualsiasi, sia in questo o in un altro mondo

- nelle quali si tien d’occhio il proprio onore, la propria reputazione sociale, la stima di qualcuno, la simpatia degli astanti, ecc.

- il cui proposito è affermare una massima dalla quale, se fosse osservata da tutti, si potrebbe eventualiter [eventualmente] attendere un vantaggio personale (ad esempio, la massima della giustizia o del mutuo soccorso), ecc.

- tramite le quali si ritiene opportuno ubbidire a qualsiasi comandamento assoluto, emesso da una non ben precisata ma sicuramente superiore potenza, nel timore di sfavorevoli conseguenze (anche se solo immaginarie e imprecisate) in caso di disobbedienza

- con le quali si cerca di affermare l’alta opinione di sé stessi, il proprio valore e la propria dignità (intesi più o meno chiaramente), che altrimenti andrebbero persi, con grande frustrazione del proprio orgoglio

- con le quali si vuole contribuire al proprio perfezionamento (secondo il principio di Wolff).

In breve, qualsiasi possa essere il motivo dichiarato di un’azione, se risulta che in qualche modo (più o meno diretto) la vera molla di spinta è procurare il bene o evitare il male di chi la compie, l’azione è egoistica e, come tale, priva di alcun valore morale.

Esiste un solo caso in cui ciò non avviene: quando il motivo ultimo dell’azione consiste direttamente ed esclusivamente nel procurare il bene o nell’evitare il male di qualcun altro, il quale viene coinvolto in maniera passiva [ossia, è semplicemente il destinatario dell’azione].

In questo caso, la parte attiva [l’autore dell’azione] con la sua azione od omissione tiene conto solo del bene e del male dell’altro, e si propone esclusivamente che l’altro non venga leso, anzi che riceva aiuto, assistenza e sollievo. Solo questo fine imprime su un’azione il sigillo del valore morale.

Pertanto il valore morale si basa esclusivamente sul fatto che l’azione viene compiuta (od omessa) semplicemente in favore di qualcun altro.

Se questo non fosse il caso, il bene o il male che spingono a compiere (o a desistere dal compiere) l’azione riguarderebbero solo la parte attiva. Ma allora l’azione (o la sua omissione) sarebbe egoistica e, come tale, priva di valore morale. Quando la mia azione viene compiuta solo a favore di un altro, il bene dell’altro costituisce il mio motivo diretto, esattamente come il motivo diretto di tutte le altre mie azioni è il mio bene.

Tutto questo ci induce a formulare il problema, di cui stiamo trattando, in un modo più stringato. Come è possibile che il bene di un altro muova direttamente la mia volontà esattamente come se fosse il mio? Come può il bene di un altro diventare il mio motivo a tal punto, da porre talvolta addirittura in secondo piano il mio stesso bene (il quale di solito è l’unica sorgente dei miei motivi)?

Evidentemente solo se l’altro diventa il fine ultimo del mio volere esattamente come lo sono io, cosicché io voglio direttamente il suo bene (o non voglio il suo male) come se fosse il mio.

Questo presuppone necessariamente che io addirittura soffra insieme a lui del male che lui patisce, che io percepisca il male suo come di solito percepisco il mio, e che quindi io voglia immediatamente il suo bene come di solito voglio il mio. Questo richiede che, in qualche modo, io mi identifichi con lui e che la differenza che esiste tra me e il prossimo, sulla quale poggia il mio egoismo, venga annullata, almeno fino a un certo punto.

Ma io non sto dentro la pelle dell’altro. Quindi, solo tramite la conoscenza che ho di lui - ossia la rappresentazione che faccio di lui nel mio cervello - io posso identificarmi con lui a tal punto, che la mia azione mostri che quella differenza è stata annullata.

Il processo qui esposto non è né immaginario né campato in aria, bensì è assolutamente reale e non è poi così raro. È il fenomeno quotidiano della compassione, ossia, innanzitutto dell’immediata solidarietà, spontanea e senza ripensamenti di alcun genere, alla sofferenza di un altro e in seguito del darsi da fare per evitare o alleviare quella sofferenza, poiché in questo consiste in fondo ogni appagamento, benessere e felicità.

Solo la compassione è il reale fondamento della spontanea giustizia e del genuino amore verso il prossimo. Solo se scaturisce dalla compassione, un’azione ha valore morale, mentre non ne ha affatto se scaturisce da qualunque altro motivo.

Appena la compassione si muove, la buona e la cattiva sorte dell’altro mi stanno a cuore proprio nello stesso modo - anche se non sempre nella stessa misura - della mia sorte, cosicché la differenza fra lui e me non è più assoluta.

In ogni caso questo processo desta stupore ed è addirittura misterioso. In realtà è il grande mistero dell’etica, il suo fenomeno originario, la pietra del confine oltre il quale solo la speculazione metafisica può osare avventurarsi. In questo processo vediamo abbattere il muro che, secondo la ‘luce della natura’ (come gli antichi teologi chiamavano la ragione) separa nettamente un essere dall’altro, e il non-Io diventare in un certa misura l’Io.

Per il momento non ci addentreremo nella spiegazione metafisica di questo fenomeno. Vogliamo innanzitutto verificare se effettivamente ogni azione di spontanea giustizia e di genuino amore per il prossimo deriva da questo processo. In tal caso il nostro problema sarà risolto, poiché avremo dimostrato che il fondamento ultimo della morale risiede nella natura stessa dell’uomo.

A sua volta questo fondamento non sarà più un problema dell’etica, bensì - come ogni altro problema della natura umana - della metafisica. Tuttavia la spiegazione metafisica del fenomeno originario dell’etica va ben oltre la domanda posta dalla Reale Società, la quale mira solo al fondamento dell’etica. La spiegazione metafisica potrebbe comunque essere allegata come supplemento, da prendere o lasciare, a piacere.

Prima di passare alla deduzione delle virtù cardinali, a partire dalla molla di spinta fondamentale che abbiamo identificato, bisogna ancora fare due importanti osservazioni complementari.

1) Per facilitare la comprensione, ho semplificato la precedente dimostrazione della compassione come unica sorgente delle azioni con valore morale, tralasciando deliberatamente di considerare la molla di spinta della malvagità, la quale - come la compassione - non è egoistica, ma ha come fine ultimo il dolore degli altri. Ora però possiamo prendere anche questa in considerazione e riassumere la precedente dimostrazione, in maniera più completa e stringata, come segue.

Esistono solo tre molle di spinta fondamentali delle azioni umane, cosicché un qualunque possibile motivo scaturisce solo in seguito alla loro sollecitazione. Esse sono:

a) l’egoismo, il quale vuole il proprio bene (ed è senza confini)

b) la malvagità, che vuole il male degli altri (e si estende fino alla estrema crudeltà)

c) la compassione, che vuole il bene degli altri (e si estende fino alla nobiltà e alla magnanimità d’animo).

Ogni azione umana deve essere ricondotta a una di queste tre molle di spinta, anche se talvolta le prime due possono agire contemporaneamente. Dato che le azioni dotate di valore morale esistono realmente, anch’esse devono derivare da una di queste tre molle di spinta fondamentali.

Queste azioni non possono scaturire dall’egoismo (in base alla premessa n. 8) e neppure dalla malvagità. Da questa infatti derivano azioni che sono completamente riprovevoli dal punto di vista morale, mentre dall’egoismo derivano azioni che possono essere al massimo moralmente indifferenti.

Le azioni dotate di valore morale possono quindi derivare solo dalla compassione. È possibile anche dare una prova a posteriori di questa affermazione tramite la seguente osservazione.

2. La solidarietà immediata nei confronti degli altri è limitata alla loro sofferenza. Di solito essa non viene destata (almeno non direttamente) dal loro benessere, il quale, di per sé, ci lascia indifferenti. Lo afferma anche Rousseau:

“Regola prima: il cuore dell’uomo è propenso a mettersi dalla parte solo di quelli che sono più da compiangere, non di quelli più felici di lui”.176

Questo succede perché il dolore e la sofferenza - nella quale rientra anche ogni mancanza, privazione, necessità e addirittura ogni desiderio - sono attivi e si fanno sentire direttamente. Invece la natura della soddisfazione, del piacere e della felicità, consiste solo nella rimozione di una privazione e nella cessazione di un dolore. Questi sono quindi passivi. Il bisogno e il desiderio sono addirittura il presupposto necessario di ogni piacere.

Questo fatto viene riconosciuto già da Platone, il quale fa solo una eccezione per i profumi e per i piaceri dello spirito.177 Anche Voltaire dice:

“Non esiste alcun vero piacere, se non vi è un vero bisogno”.178

Ciò che è attivo e che si fa sentire spontaneamente è il dolore. L’appagamento e il piacere non sono attivi, poiché consistono solo nella cessazione del dolore. Proprio per questo solo la sofferenza, la miseria, il pericolo e il bisogno di aiuto dell’altro destano direttamente, in quanto tali, la nostra solidarietà. Chi è felice e fortunato, in quanto tale, ci lascia indifferenti, proprio perché il suo stato di mancanza di dolore, di privazione e di bisogno non è attivo [non ha effetto su di noi].

Certo, possiamo anche compiacerci della felicità, del benessere e della soddisfazione di un altro. Ma questo compiacimento è solo un effetto secondario, il quale presuppone una nostra previa preoccupazione per le precedenti sofferenze e privazioni dell’altro. Oppure partecipiamo alla felicità e al piacere di un altro non in quanto persona felice, ma semplicemente perché è il nostro figlio, padre, amico, parente, servitore, dipendente, ecc. Ma il felice e il gaudente, in quanto tali, non destano affatto la nostra solidarietà, come invece succede con il sofferente, il bisognoso e l’infelice, proprio perché tali.

Anche nel nostro ambito personale solo la sofferenza - nella quale bisogna includere anche ogni privazione, bisogno, desiderio e, addirittura, la noia - desta la nostra attività, mentre uno stato di allegrezza e di beatitudine ci lascia inattivi, pigri e tranquilli. Come potrebbe essere diversamente riguardo a un altro, dato che la nostra solidarietà nei suoi confronti poggia su una identificazione con lui? Anzi, la vista di una persona felice e gaudente, in quanto tale, potrebbe addirittura destare l’invidia (che già abbiamo classificato tra le potenze antimorali), verso la quale ogni uomo ha una certa predisposizione.

In seguito alla precedente descrizione della compassione - come il sorgere di un mio motivo immediato a causa del dolore di un altro - devo deplorare il ripetuto errore fatto dal Cassina179 Questi, infatti, sostiene che la compassione sorge da una momentanea confusione della fantasia, cosicché noi stessi ci metteremmo idealmente al posto di colui che soffre e crederemmo di soffrire nella nostra persona i dolori dell’altro. Ma non è affatto così.

A noi, invece, è chiaro e ben presente in ogni momento, che è lui che sta soffrendo, non noi. Addirittura noi percepiamo il dolore nella sua persona, non nella nostra, e ne rimaniamo afflitti. Noi soffriamo con lui, quindi nella sua persona. Percepiamo il suo dolore come suo e non immaginiamo affatto che sia il nostro. Addirittura quanto più felice è il nostro stato e quanto più siamo consapevoli che esso contrasta con quello dell’altro, tanto più siamo suscettibili alla compassione.

Non è certo facile spiegare come questo fenomeno estremamente importante possa accadere, tanto meno dal punto di vista semplicemente psicologico, come il Cassina ha cercato fare. Questo fenomeno può essere spiegato solo dal punto di vista metafisico, come cercherò di fare nell’ultimo paragrafo.

Ora però procediamo alla deduzione delle azioni dotate di genuino valore morale, a partire dalla loro comprovata fonte. Nei precedenti paragrafi abbiamo stabilito come massima di simili azioni, quindi come principio dell’etica:

“Neminem laede, imo omnes, quantum potes, juva” [non danneggiare nessuno, anzi, per quanto puoi, aiuta tutti].

Dato che questa massima consiste di due proposizioni, possiamo suddividere le corrispondenti azioni morali in due classi.

§ 17 La virtù della giustizia

Esaminando più da vicino il fenomeno della compassione che sta alla base dell’etica (come abbiamo precedentemente dimostrato), possiamo immediatamente vedere che esistono due gradi ben distinti secondo i quali la sofferenza di un altro può diventare un motivo immediato per me, ossia mi può indurre a fare (o a tralasciare di fare) qualcosa.

Il primo, quando la compassione, contrapponendosi ai miei motivi egoistici o malvagi, mi trattiene dal causare sofferenza all’altro e dar luogo a ciò che ancora non è, ossia diventare io stesso la causa della sofferenza altrui. Il secondo, di grado ancora più elevato, quando la compassione interviene attivamente e mi spinge a portare aiuto all’altro.

La separazione tra i cosiddetti doveri di giustizia e di virtù, o meglio, tra la giustizia e l’amore verso il prossimo, che nell’etica di Kant risulta così forzata, si presenta nella mia etica in maniera del tutto spontanea, a conferma della sua esattezza. Si tratta del confine naturale, inconfondibile e netto, tra l’attivo e il passivo, tra il non ledere e il portare aiuto.

La denominazione finora solita di doveri di giustizia e doveri di virtù - questi ultimi detti anche doveri d’amore, o doveri imperfetti - presenta innanzitutto il difetto di coordinare il genere [virtù] alla specie [giustizia]. In realtà anche la giustizia è una virtù. Oltretutto questa denominazione si basa su una estensione eccessivamente ampia del concetto di dovere, che in seguito ricondurremo entro i suoi veri limiti.

Pertanto, al posto di quei due ‘doveri’, io pongo le due virtù della giustizia e dell’amore verso il prossimo. Le chiamerò ‘virtù cardinali’, poiché da esse tutte le altre virtù derivano in pratica e possono essere dedotte in teoria. Entrambe affondano le radici nella compassione, che è un dato di fatto innegabile, proprio ed essenziale, della coscienza umana, il quale non dipende da premesse, concetti, religioni, dogmi, miti, educazione e istruzione.

La compassione è spontanea e immediata, poiché giace nella natura stessa dell’uomo. Proprio per questo essa regge alla prova in ogni circostanza e si manifesta in ogni paese e in ogni epoca. Ad essa si fa ovunque appello con fiducia, come a qualcosa di cui l’uomo è necessariamente dotato, non come qualcosa che appartiene agli ‘Dei estranei’. Chi mostra di non avere compassione viene addirittura definito ‘disumano’, e il termine ‘umanità’ viene spesso utilizzato come sinonimo di ‘compassione’.

Il primo grado di efficienza di questa naturale e genuina molla di spinta morale, è semplicemente passivo. In origine siamo tutti inclini all’ingiustizia e alla violenza, poiché dentro di noi il bisogno, l’ingordigia, la collera e l’odio si fanno immediatamente avanti e godono dello jus primi occupantis [diritto del primo occupante]. Invece la sofferenza degli altri, causata dalla nostra ingiustizia e violenza, arriva alla nostra coscienza solo tramite l’esperienza ed il cammino secondario della rappresentazione, quindi in maniera mediata. Per questo Seneca dice:

“La bontà non si insinua mai in noi prima della malvagità”.180

Il primo grado di efficienza della compassione è, quindi, farsi avanti per evitare che io stesso, in seguito alle mie innate potenze antimorali, diventi la causa della sofferenza dell’altro, di gridarmi ‘fermo!’, e di porsi come arma di difesa dell’altro, per proteggerlo dall’offesa che, altrimenti, il mio egoismo e la mia malvagità mi spingerebbero a compiere.

Da questo primo grado scaturisce la massima neminem laede [non danneggiare nessuno], ossia il principio della giustizia, la virtù che proprio nella compassione trova la sua semplice e pura origine morale, priva di ogni mescolanza. Né potrebbe trovarla altrove, altrimenti dovrebbe appoggiarsi sull’egoismo.

Se il mio animo è suscettibile alla compassione fino a questo grado, essa mi tratterrà quando e dove vorrò perseguire i miei fini usando la sofferenza altrui come un mezzo, indipendentemente dal fatto che questa sofferenza sia presente o futura, diretta o indiretta, ossia mediata da altre mani. Allora eviterò di aggredire l’altro nel patrimonio e nella persona, e tantomeno di procurargli dolori spirituali o corporali.

Quindi, non solo mi tratterrò dal causargli alcun dolore fisico, ma anche dal procuragli alcuna sofferenza spirituale tramite offese, angustia, ira o calunnia. La stessa compassione mi tratterrà dal cercare di soddisfare le mie voglie a costo della felicità di persone dell’altro sesso, dal sedurre la moglie di un altro, dal corrompere fisicamente o moralmente i giovani pervertendoli con la pederastia.

Tuttavia non è necessario che la compassione venga destata in ogni singolo caso, dove potrebbe anche arrivare troppo tardi. Infatti, tramite la consapevolezza acquisita una volta per tutte della sofferenza che ogni azione ingiusta provoca necessariamente agli altri, esacerbata anche dal dover sopportare l’ingiustizia e la prepotenza altrui, in ogni animo nobile sorge la massima: neminem laede [non fare del male a nessuno]!

La matura riflessione eleva questa massima - una volta per tutte - a fermo convincimento di rispettare il diritto degli altri, di non permettersi mai di lederlo, di mantenersi liberi dal rimorso di aver causato qualche sofferenza, di non scaricare sugli altri, con violenza o astuzia, il peso e le sofferenze della vita che le circostanze assegnano a ognuno, ma di farsi carico personalmente della parte che ci spetta, per non raddoppiare quella di un altro.

Certo, un principio o una conoscenza astratta non possono assolutamente costituire la fonte e il fondamento ultimo della moralità. Tuttavia sono indispensabili per procedere a un cambiamento morale della propria vita, come un recipiente, un reservoir [serbatoio] nel quale conservare lo stato d’animo che scaturisce dalla sorgente della moralità (la quale non scorre in ogni momento), per lasciarla fluire poi in una specie di canale secondario, appena giunge il momento di usarla. Da questo punto di vista, nel campo della morale succede come in fisiologia, dove - ad esempio - la cistifellea è necessaria per conservare alcune sostanze prodotte del fegato da utilizzare al momento opportuno, e in molti altri casi simili.

Senza saldi principi cadremmo inesorabilmente in balia delle molle di spinta antimorali, quando queste, sotto l’influsso di impressioni esterne, degenerano in passioni. La padronanza di sé stessi consiste nell’attenersi fermamente e nel seguire i propri principi nonostante la presenza di motivi contrari che spingono in direzione opposta.

Questo spiega anche perché le donne - le quali, per una debolezza della loro ragione, sono meno capaci di comprendere, attenersi e adottare come linea di condotta i principi universali - di solito sono seconde agli uomini nella virtù della giustizia, quindi anche dell’onestà e dell’agire secondo coscienza. Per questo i loro più frequenti difetti sono l’ingiustizia e la falsità, e la menzogna è il loro proprio elemento.

Le donne invece superano gli uomini nella virtù dell’amore verso il prossimo. Questo, di solito, sorge intuitivamente dalla occasione e fa appello immediato alla compassione, nei confronti della quale le donne sono molto più sensibili. Per le donne esiste veramente solo ciò che è intuitivo, presente e immediatamente reale. Loro non riescono ad afferrare bene ciò che è lontano, assente, passato o futuro, che può essere conosciuto solo tramite concetti.

Anche in questo campo c’è una specie di compensazione: la virtù della giustizia è più frequente negli uomini, l’amore verso il prossimo più frequente nelle donne. Il pensiero di vedere una donna esercitare l’ufficio di giudice fa sorridere; ma le sorelle della misericordia superano decisamente i loro fratelli.

L’animale invece, essendo completamente privo di conoscenza razionale astratta, è assolutamente incapace di alcun proposito, né tantomeno di principi e di autocontrollo, cosicché rimane in completa balia delle impressioni e delle passioni. Proprio per questo l’animale non è moralmente consapevole, sebbene le varie specie mostrino una grande differenza in termini di buono o cattivo carattere, e nelle più evolute perfino i singoli individui.

Nelle singole azioni di giustizia la compassione agisce solo in maniera indiretta, tramite principi, più potentia [in potenza] che actu [in azione]. Un po’ come in statica, dove la maggiore mobilità di un braccio della bilancia (dovuta alla sua maggiore lunghezza, grazie alla quale una massa minore può bilanciare una maggiore) in uno stato di equilibrio agisce solo in potenza, eppure con altrettanta efficacia in azione.

Ma la compassione è sempre pronta a manifestarsi actu, ossia a entrare direttamente in azione. Pertanto, quando in alcuni casi la suddetta massima della giustizia vacilla, per sostenere la giustizia e rinvigorire i giusti propositi nessun motivo è più efficace di quello che scaturisce dalla sua fonte originaria (la compassione).

Questo vale non solo nel caso di lesione della persona, ma anche del patrimonio. Ad esempio, quando uno ha la tentazione di tenere per sé una cosa di valore che ha trovato, nulla (a parte i motivi di prudenza o di natura religiosa) può ricondurlo meglio sul cammino della giustizia come il pensiero della preoccupazione, del profondo dispiacere e delle lamentele di chi ha perso quella cosa. Consapevoli di questa verità, spesso succede che al pubblico appello per la restituzione di denaro perso viene allegata l’assicurazione che chi l’ha perso è un povero diavolo, una persona a servizio, e simili.

Da queste considerazioni spero risulti chiaro - sebbene al primo sguardo potrebbe anche non essere evidente - che anche la giustizia, come virtù spontanea e genuina, trae la sua origine dalla compassione.

A chi dovesse ritenere che questo terreno sia troppo povero per consentire a quella grande e autentica virtù cardinale di affondarvi le radici, vorrei ricordare quanto piccolo sia l’ammontare della giustizia genuina, spontanea, non interessata e non simulata, che si riscontra tra la gente.

Vorrei inoltre ricordare che la vera giustizia si presenta come una sorprendente eccezione, e che in confronto alla pseudo giustizia - basata semplicemente sull’astuzia e sbandierata ai quattro venti - essa sta, in termini di qualità e di quantità, come l’oro al rame.

Vorrei chiamare la pseudo giustizia dikaiosÚnh p£ndhmoj [dikaiosùne pàndemos: giustizia comune] e la vera giustizia oÙran…a [uranìa: la giustizia celeste], proprio quella che, secondo Esiodo, nell’età del ferro ha abbandonato la terra per rifugiarsi tra gli Dei del cielo. Per questa pianta rara e sempre esotica sulla terra la radice della compassione è forte abbastanza.

L’ingiustizia - o il torto - consistono dunque nel ledere il prossimo. Il concetto di torto è attivo e precede il concetto di diritto, il quale è passivo e indica semplicemente le azioni che si possono compiere senza ledere il prossimo, ossia senza fargli torto.

È evidente che nel diritto rientrano anche quelle azioni il cui unico scopo è difendersi da un tentato torto. Infatti, nessuna solidarietà e nessuna compassione per il prossimo può indurmi a lasciarmi ledere da un altro, ossia a lasciare che sia io a soffrire un torto.

Che il concetto di diritto è negativo [passivo: non ledere la giustizia] mentre quello di torto è positivo [attivo: ledere la giustizia] può anche essere inteso tramite la spiegazione che il padre della dottrina filosofica del diritto, Ugo Grozio, inserisce nel prologo della sua opera principale:

“Qui ‘diritto’ non significa altro che ciò che è giusto, in senso negativo più che positivo, ossia, il diritto coincide con ciò che ingiusto non è”.181

La negatività [passività] della giustizia (nonostante a prima vista potrebbe sembrare il contrario) viene comprovata anche dalla triviale massima: “A ciascuno il suo”. Infatti, se una cosa appartiene a un altro, non c’è bisogno di dargliela. Quindi questa massima in realtà significa: “Non togliere all’altro ciò che gli appartiene”.

Poiché ciò che viene richiesto dalla giustizia è solo passivo (non ledere gli altri), questa richiesta può anche essere pretesa. Il neminem laede, infatti, può essere praticato contemporaneamente da tutti. L’istituzione incaricata di questa imposizione è lo Stato, il cui specifico scopo è proteggere il singolo dagli altri e la comunità dai nemici esterni.

Alcuni filosofastri tedeschi di quest’epoca decadente vorrebbero trasformare lo Stato in un istituto di moralità, di educazione e di edificazione. Dietro questo tentativo si nasconde il proposito gesuitico di sospendere la libertà e ostacolare la crescita personale del cittadino, per trasformarlo - come si fa in Cina - in una semplice ruota della macchina statale e religiosa.

Questo è esattamente il cammino che in passato ha portato all’Inquisizione, agli auto da fè182 e alle guerre di religione. Le parole di Federico il Grande:

“Nella mia terra ognuno deve poter provvedere alle proprie esigenze spirituali come meglio gli pare”

dimostrano che lui non avrebbe mai assecondato l’odierno progetto.

Ed invece vediamo che ovunque (ad eccezione - più apparente che reale - dell’America del Nord) in maniera più o meno evidente, lo Stato si prende cura anche delle esigenze metafisiche dei suoi cittadini. Sembra quasi che i governi abbiano eletto a proprio principio la frase di Curzio Rufo:

“Nulla governa la massa in maniera più efficace della superstizione. La folla - di solito sfrenata, crudele e mutevole quando si lascia prendere dal fanatismo - obbedisce più ai suoi preti che ai suoi comandanti”.183

I concetti di giusto (che contempla anche la difesa preventiva da una lesione) e di ingiusto, equivalenti a quelli di non-lesione e di lesione, non dipendono evidentemente da alcuna legislazione positiva [che impone il rispetto di determinate norme], bensì la precedono.

Esiste quindi un diritto etico puro - il cosiddetto diritto naturale [o meglio, morale] - e una dottrina del diritto pura, ossia, indipendente da ogni legislazione positiva.

I principi della pura dottrina del diritto sono empirici poiché sorgono assieme al concetto di lesione, ma di per sé poggiano sull’intelletto puro, il quale fornisce a priori il principio: causa causae est causa effectus [la causa della causa è la causa dell’effetto].

Questo significa - nel caso dell’autodifesa preventiva - che il responsabile di ciò che io sono costretto a fare, per difendermi preventivamente dalla lesione che un altro mi vuole procurare, non sono io, bensì l’altro. Pertanto io posso oppormi, senza fargli alcun torto, a tutti i danni che lui mi vuole procurare. Potremmo paragonarla a una legge morale di reciprocità.

Dall’unione del concetto empirico di lesione con quella regola (causa causae est causa effectus), di cui l’intelletto dispone a priori, nascono i concetti fondamentali di giusto e di ingiusto, che ognuno comprende a priori e che mette immediatamente in pratica a seconda delle circostanze.

All’empirista, che nega queste cose, si può far notare - dato che per lui solo l’esperienza conta - che anche i selvaggi sanno distinguere, spesso con accuratezza e con precisione, il diritto dal torto. Questo fatto balza immediatamente all’occhio durante il baratto di merci, o accordi vari, con l’equipaggio di navi europee quando questo entra in contatto con loro. I selvaggi, infatti, si mostrano audaci e sicuri quando stanno dalla parte del diritto, ma insicuri, quando stanno dalla parte del torto. Nelle controversie sono propensi ad accettare un giusto compromesso, mentre un comportamento ingiusto della controparte li spinge alla guerra.

La pura dottrina del diritto è un capitolo dell’etica che stabilisce quali sono le azioni che uno non può fare se non vuole ledere gli altri, ossia per non far loro torto.

Da questo punto di vista la morale tiene d’occhio il soggetto dell’azione. La legislazione, invece, prende questo capitolo dell'etica per utilizzarlo dal punto di vista di chi subisce l’azione (quindi, dall’altro punto di vista) e classificare quelle stesse azioni [ossia le azioni che - secondo l'etica - uno non può fare, per non ledere gli altri] come azioni che nessuno deve subire, poiché a nessuno si deve fare torto.

Contro queste azioni lo Stato erige il bastione delle leggi, come diritto positivo [che impone con la forza il rispetto della legge]. Il proposito del diritto positivo [promulgato dallo Stato] è che nessuno subisca un’ingiustizia, mentre il proposito della pura dottrina del diritto è che nessuno compia una ingiustizia.184

In ogni azione ingiusta la qualità del torto è la stessa e consiste nella lesione della persona, della libertà, della proprietà o dell’onore dell’altro, ma la quantità può essere molto differente.

La differenza in quantità del torto pare che non sia stata finora adeguatamente presa in considerazione dai moralisti. Nella vita reale, invece, se ne tiene ben conto, poiché ad essa corrisponde la dimensione del danno provocato. Lo stesso vale riguardo alla giustizia delle azioni.

Facciamo alcuni esempi, per chiarire meglio le differenze in quantità. Un morto di fame che ruba il pane compie un torto. Ma quanto piccola è la sua ingiustizia rispetto a quella di un ricco che - in qualche modo - sottrae l’ultima cosa rimasta a un povero. E analogamente: il ricco che paga il suo bracciante si comporta secondo giustizia. Ma quanto piccola è questa giustizia rispetto a quella di un povero che spontaneamente restituisce a un ricco il portafoglio perso.

L’ammontare della significativa differenza in quantità di giustizia - a parità di qualità - non è diretta e assoluta come le grandezze misurabili con il metro, bensì indiretta e relativa (come le grandezze trigonometriche). Per valutarla, propongo la seguente formula: la grandezza dell’ingiustizia della mia azione è uguale all’ammontare del danno che con essa provoco a un altro, diviso l’ammontare del vantaggio che tramite essa io ottengo. E analogamente, la grandezza della giustizia della mia azione è uguale all’ammontare del vantaggio che la lesione dell’altro mi procurerebbe, diviso l’ammontare del danno che lui soffrirebbe, nel caso io non compissi quella determinata azione.

Ma esiste anche un’ingiustizia doppia, che si contraddistingue da un’ingiustizia semplice (anche se grande) in questo particolare modo: la dimensione dell’indignazione di un testimone neutrale (che di solito è proporzionale all’ammontare dell’ingiustizia) raggiunge il massimo possibile. Quell’azione viene aborrita come qualcosa di sconvolgente, che grida vendetta al cielo, come un misfatto, uno ¥goj [àgos: empietà] di fronte al quale anche gli Dei si coprono il viso con la mano.

La doppia ingiustizia succede quando qualcuno, che si è assunto espressamente l’impegno di proteggere un altro riguardo a una determinata cosa, non solo non adempie l’impegno assunto (e questo costituisce già una lesione dell’altro, quindi un’ingiustizia), ma in aggiunta aggredisce e lede deliberatamente l’altro, proprio quando dovrebbe proteggerlo.

Questo succede, ad esempio, quando la guardia del corpo o l’accompagnatore di fiducia si trasformano in assassini, quando il custode di fiducia diventa un ladro, quando il tutore fa man bassa del patrimonio del pupillo, quando l’avvocato commette una prevaricazione [delitto ai danni della parte da lui difesa], quando il giudice si lascia corrompere, quando il consigliere di fiducia fornisce di proposito un consiglio deleterio.

Tutti questi delitti rientrano nel concetto di tradimento, la vergogna di questo mondo. Per questo anche Dante colloca i traditori nel girone più profondo dell’Inferno, dove si trova lo stesso Satana.185

Siccome stiamo parlando del concetto di assunzione di un impegno, è il momento opportuno per definire anche il concetto di dovere, così spesso usato nell’etica e nella vita quotidiana, al quale tuttavia viene attribuito una significato troppo esteso.

Abbiamo visto che il torto consiste sempre nella lesione di un altro nella persona, libertà, proprietà e onore. Potrebbe quindi sembrare che ogni torto sia sempre un’azione intrapresa, un fatto compiuto. In realtà esistono delle azioni, la cui semplice omissione costituisce un torto. Queste azioni si chiamano doveri. Questa è la vera definizione filosofica del concetto di dovere.

Questo concetto, invece, perde ogni sua particolarità e svanisce se - come nella morale di Kant - si vuol definire dovere ogni modo di agire degno di essere lodato, dimenticando così che, ciò che è un dovere, è anche un debito.

Il dovere, tÕ dšon [to déon: ciò che è doveroso fare], le devoir, duty, è quindi un’azione che comporta la lesione di un altro (commettendo così un torto) nel caso non venisse compiuta. Evidentemente questo può succedere solo quando chi omette di compiere quella determinata azione si era impegnato a compierla. Ogni dovere infatti deriva da una precedente assunzione di impegno.

L’impegno, di solito, deriva da un espresso accordo reciproco, ad esempio, tra principe e popolo, governo e funzionari, padrone e servitore, avvocato e cliente, medico e malato. In generale, tra chi si è impegnato a fornire una prestazione di qualsiasi tipo, nel senso più ampio della parola, e chi l’ha richiesta. Un dovere fornisce anche un diritto, poiché nessuno si assume un impegno senza alcun motivo, ossia senza alcun vantaggio per se stesso.

Mi risulta che esiste solo un tipo di dovere il quale viene assunto senza un previo accordo diretto, bensì indirettamente, tramite una semplice azione, poiché la controparte era assente nel momento in cui l’impegno è stato assunto. Si tratta del dovere dei genitori nei confronti dei figli.

Chi mette al mondo un figlio ha il dovere di mantenerlo fin quando il figlio non è in grado di mantenersi da solo. Se quel momento non dovesse arrivare mai - ad esempio, nel caso di un figlio cieco, minorato fisico o psichico - anche l’impegno non verrebbe mai a cessare. Infatti, se il genitore semplicemente non prestasse assistenza al figlio (commettendo così un’omissione) lo lederebbe, anzi, lo porterebbe alla rovina.

Il dovere morale dei figli nei confronti dei genitori non è altrettanto immediato e definito. Esso deriva dal fatto che, siccome a ogni dovere corrisponde un diritto, anche i genitori possono vantarne uno nei confronti dei figli. Da qui sorge il dovere dell’ubbidienza, che tuttavia viene a cessare più tardi, quando cessa anche il diritto dal quale era sorto. Al suo posto subentra la riconoscenza per quello che i genitori hanno fatto in più di ciò che era loro stretto dovere.

Anche se la ingratitudine è un difetto odioso e spesso perfino rivoltante, non si può dire che la gratitudine sia un dovere, poiché la sua omissione non provoca una lesione dell’altro, ossia non costituisce un torto. Oltretutto [per costituire un torto] il benefattore dovrebbe aver erroneamente pensato di aver tacitamente concluso [preventivamente] un accordo [con il beneficiato].

Come dovere derivante da una determinata azione si potrebbe far valere il risarcimento dell’eventuale danno arrecato. Tuttavia il risarcimento, come compensazione delle conseguenze di un’azione ingiusta, è un semplice tentativo di cancellarla. È quindi essenzialmente qualcosa di negativo [una misura di ripiego], giustificato dal fatto che l’azione stessa non avrebbe dovuto succedere.

Bisogna anche notare che la faciloneria è nemica della giustizia e che spesso la lede grossolanamente. Pertanto non le si debbono fare troppe concessioni. I tedeschi sono amici della faciloneria, mentre gli inglesi si attengono alla giustizia.

La legge di motivazione è tanto ferrea quanto la causalità fisica e comporta una altrettanto irresistibile necessità. Di conseguenza ci sono due modi per compiere un’ingiustizia: tramite la violenza o l’astuzia.

Come io posso con la violenza uccidere un altro, oppure derubarlo, o costringerlo a ubbidirmi, così posso fare tutte queste cose con l’astuzia, presentando al suo intelletto dei falsi motivi, cosicché l’altro è costretto a fare ciò che altrimenti non farebbe. Questo succede tramite la menzogna, detestabile proprio perché è uno strumento dell’astuzia, ossia della costrizione sulla base della legge di motivazione.

Di solito la menzogna è da condannare. Infatti, anche la menzogna deve avere un motivo e - tranne qualche rara eccezione - questo motivo è di solito ingiusto, poiché consiste nell’intenzione di indurre un altro, sul quale non ho altrimenti alcun potere, ad assecondare invece il mio volere, costringendolo tramite la legge di motivazione. Questa intenzione sta anche alla base della semplice bugia millantatrice, poiché con essa uno cerca di porsi, agli occhi degli altri, in una posizione di prestigio ben più alta di quanto gli spetta.

L’obbligo che sorge da un accordo o da un contratto sta nel fatto che, se non vengono rispettati, diventano una solenne menzogna, il cui proposito di ledere l’altro è ancora più evidente, poiché il motivo della menzogna, ossia la fruizione della prestazione richiesta alla controparte, è stato espressamente dichiarato. L’aspetto biasimevole di un simile imbroglio sta nel fatto che prima si disarma l’altro con una illusione e poi lo si deruba. Il massimo si raggiunge con il tradimento, estremamente odioso poiché rientra nella categoria della doppia ingiustizia.

Come, con pieno diritto, è lecito respingere con violenza la violenza altrui, così pure è lecito respingere una violenza con l’astuzia, quando manca la forza o quando semplicemente lo si ritiene più opportuno. Nei casi in cui si ha il diritto di usare la violenza, se ne ha altrettanto di usare la menzogna. Ad esempio: per attirare con l’astuzia in una trappola un rapinatore o un criminale violento; in tali occasioni non sono vincolato da alcuna eventuale promessa estorta con la violenza.

Ma il diritto di mentire va ben oltre, fino alle domande assolutamente illecite e indiscrete riguardo alla propria persona o ai propri affari, per i quali non solo la risposta, ma anche un semplice «...preferisco non rispondere», potrebbe destare un sospetto e mettermi in pericolo. In questi casi la menzogna diventa l’arma di difesa contro la curiosità illecita, la quale spesso non è mossa da buone intenzioni.

Di fronte al timore di una violenza fisica, ad opera della presunta malvagità di un altro, ho il diritto di opporre anticipatamente resistenza fisica con opportuni mezzi di prevenzione, a discapito dell’aggressore. Ad esempio, montando delle punte aguzze sul muro di cinta, liberando i cani di notte nel giardino, e addirittura disponendo delle tagliole o mettendo dei congegni che aprono automaticamente il fuoco, le cui eventuali deleterie conseguenze saranno da ascrivere all’invasore stesso.

Così pure ho il diritto di mantenere il segreto su tutto quanto mi esporrebbe all’aggressione altrui, nel caso venisse divulgato. A buona ragione, poiché bisogna sempre ritenere come estremamente probabile la malvagia volontà degli altri e prendere in anticipo le dovute precauzioni.

Proprio per questo l’Ariosto dice:

“Quantunque il simular sia le più volte

ripreso, e dia di mala mente indici,

si trova pure in molte cose e molte

avere fatti evidenti benefici,

e danni e biasmi e morti avere già tolte:

che non conversiam sempre con gli amici,

in questa assai più oscura che serena

vita mortal, tutta d’invidia piena”.186

Ad un probabile danno, causato dall’astuzia altrui, posso opporre in anticipo la mia astuzia senza commettere alcuna ingiustizia. Pertanto, a chi vuole mettere arbitrariamente il naso nei miei affari privati non debbo rendere conto e neppure mostrargli - ad esempio, con l’affermazione: «... questo preferisco non rivelarlo» - dove sta qualcosa di segreto, che potrebbe essere per me pericoloso e per lui eventualmente vantaggioso, o che comunque gli conferirebbe un certo potere su di me.

“Vogliono sapere i segreti della casa, e così farsi temere”.187

Sono addirittura autorizzato a sbarazzarmi di lui con una menzogna anche a suo discapito, nel caso che questa lo induca a compiere un errore con conseguenze per lui dannose. In questo caso infatti io mi debbo difendere e la menzogna è l’unico mezzo per contrastare la curiosità malintenzionata dell’altro.

Ask me no questions, and I’ll tell you no lies [non farmi domande, e non ti dirò bugie] è la giusta massima in questi casi. In effetti gli inglesi - per i quali l’accusa di mentire è estremamente offensiva e che quindi mentono meno di quanto si faccia negli altri paesi - considerano come un segno di maleducazione ogni domanda indiscreta riguardo ai propri affari privati. Proprio questo l’espressione to ask questions [fare domande] vuole significare.

Ogni persona ragionevole procede secondo questo principio [la menzogna come legittima difesa preventiva] anche se fosse una persona della massima onestà. Ad esempio, se a chi sta ritornando da un luogo lontano, dove è andato a prelevare dei soldi, un viaggiatore sconosciuto si avvicinasse e gli chiedesse - come al solito - da dove viene e dove va, e poi, a poco a poco, cosa mai lo ha spinto in quel luogo, chiunque risponderebbe con una menzogna, per non correre il rischio di essere rapinato.

Se uno viene sorpreso in casa dal padre della ragazza che sta corteggiando, alla domanda sul motivo della sua insolita presenza, risponderà senza pensarci due volte con una bugia, se proprio non è picchiato in testa. E così in molti altri casi, nei quali ogni persona ragionevole mente senza il minimo scrupolo di coscienza.

Questo principio semplicemente elimina lo stridente contrasto tra la morale che viene predicata e quella che viene praticata ogni giorno anche dalle persone migliori e più oneste. Tuttavia la menzogna deve essere utilizzata esclusivamente come arma di difesa. Oltretutto il diritto di mentire potrebbe dar luogo ad abusi abominevoli, poiché la menzogna è uno strumento molto pericoloso.

Come anche in un paese pacifico la legge consente a chiunque di portare armi e di usarle in caso di legittima difesa, così pure la morale consente il ricorso alla menzogna, ma esclusivamente per legittima difesa. Al di fuori del caso di legittima difesa contro una violenza o un inganno, la menzogna è uno strumento con cui si compie un torto, poiché la giustizia esige che si dica la verità nei confronti di chiunque.

Contro il rifiuto assoluto, senza eccezioni e a priori, della menzogna testimonia anche il fatto che esistono delle situazioni in cui mentire è addirittura un dovere, specialmente per un medico.

Esistono poi anche delle menzogne con nobili propositi, come ad esempio quella del marchese Posa nel Don Carlos188, e quella della Gerusalemme liberata189, in generale in tutti i casi dove uno vuole farsi carico della colpa di altri. In fin dei conti anche Gesù Cristo una volta non ha detto di proposito la verità.190 Anche Campanella dice:

“Bello il mentir, se a fare gran ben’ si trova”.191

Eppure il principio, comunemente messo in pratica, della menzogna necessaria è [considerato come] un vergognoso rattoppo sul bel vestito di una morale da quattro soldi.

Le deduzioni dell’illegittimità della menzogna, riportate in alcuni compendi di ispirazione kantiana che fanno riferimento alla facoltà di parola dell’uomo, sono così piatte, infantili e insulse, che verrebbe voglia - per metterle in ridicolo - di gettarsi fra le braccia del diavolo ed esclamare, assieme a Talleyrand:

“L’uomo ha ricevuto il dono della parola per poter nascondere i propri pensieri”.192

L’orrore di Kant, incondizionato e illimitato, per la menzogna - che viene tirato fuori in ogni occasione - si basa sull’affettazione e sul pregiudizio. Nel capitolo della Dottrina della virtù193 dedicato alla menzogna, Kant la descrive con tutti i più oltraggiosi attributi, senza addurre però alcun vero motivo (che sarebbe stato molto più efficace) per rifiutarla.

Declamare è più facile che dimostrare, e predicare la morale è più facile che essere sinceri. Kant avrebbe fatto meglio a scatenare tutto quel suo fervore contro il compiacimento del danno altrui. Questo è il vero vizio diabolico, non la menzogna. Questo vizio è esattamente il contrario della compassione. È l’impotente crudeltà che si compiace di vedere il prossimo in preda a sofferenze che lei stessa è incapace di procurargli, con tanti ringraziamenti al caso che fa questo sporco lavoro per lei.

Secondo il codice dell’onore cavalleresco, l’accusa di mentire è talmente grave che va letteralmente lavata con il sangue dell’accusatore. Questo non perché per l’uomo d’onore la menzogna è una ingiustizia - altrimenti l’accusa di aver commesso un’ingiustizia tramite un’azione violenta dovrebbe mandarlo su tutte le furie allo stesso modo (ma notoriamente questo non avviene) - bensì perché per lui la violenza stessa sta a fondamento della giustizia. Pertanto chi ricorresse alla menzogna per compiere un’ingiustizia dimostrerebbe di non avere la forza, o abbastanza coraggio, per compierla. Ogni menzogna, secondo il codice dell’onore cavalleresco, dimostra che chi mente ha paura, e questo basta per condannarlo.

§ 18 La virtù dell’amore verso il prossimo

La giustizia è la prima e fondamentale virtù cardinale. Tutti i filosofi dell’antichità l’hanno riconosciuta come tale tuttavia le hanno coordinato altre tre virtù, scelte pero' in maniera impropria. Non hanno invece eletto a virtù l’amore verso il prossimo, la caritas, la ¢g£ph [agàpe: amore fraterno, affetto]. Anche Platone, che primeggia nel campo della morale, ha indicato come virtù solo la giustizia spontanea e disinteressata.

In pratica l’amore verso il prossimo si è manifestato in ogni tempo, ma in teoria è stato preso in considerazione ed elevato formalmente a virtù - anzi, la più grande di tutte le virtù, che abbraccia addirittura anche il nemico - per la prima volta dal cristianesimo, e questo è uno dei suoi maggiori meriti.

Questo per quanto riguarda l’Europa. In Asia invece, già mille anni prima, l’amore illimitato per il prossimo era stato oggetto non solo di dottrina e di precetto, ma anche di pratica. I Veda e i Dharmashastra, lo Itihasa e il Purana, come pure la dottrina del Buddha Sakyamuni194 non si stancano mai di predicarlo.

Ad essere rigorosi, già presso gli antichi troviamo tracce di esortazione all’amore verso il prossimo, ad esempio, in Cicerone,195 come pure in Pitagora (secondo Giamblico).196

Ora il mio compito è dedurre, dal punto di vista filosofico, questa virtù a partire dal fondamento della morale da me dimostrato.

Tramite la compassione - che, come ho precedentemente dimostrato, esiste davvero, nonostante la sua misteriosa origine - il secondo grado con cui la sofferenza dell’altro, di per sé stessa e immediatamente, diventa il mio motivo, si differenzia nettamente dal primo grado [quello della giustizia] per il carattere attivo delle azioni che ne conseguono. La compassione, infatti, in questo secondo grado non solo mi trattiene dal ledere gli altri, ma addirittura mi spinge a portare loro aiuto.

A seconda che la mia partecipazione immediata sia viva e profondamente sentita, e che le necessità dell’altro siano grandi e urgenti, io verrò indotto da quel motivo puramente morale a compiere un sacrificio più o meno grande, per portare soccorso ai bisogni e alle necessità dell’altro. Questo sacrificio può consistere nello sforzo delle mie capacità fisiche e psichiche, nella mia proprietà, salute, libertà, o addirittura nella mia stessa vita in favore dell’altro.

In questa solidarietà immediata, che non ha bisogno del supporto di alcuna argomentazione, si trova la sola pura fonte dell’amore verso il prossimo, della caritas [carità], della ¢g£ph [agàpe: amore fraterno], ossia di quella virtù la cui massima è: omnes, quantum potes, iuva [aiuta tutti, per quanto ti è possibile]. Da questa virtù deriva tutto quanto l’etica prescrive sotto il nome di doveri di virtù, doveri d’amore e doveri imperfetti.

Questa solidarietà del tutto immediata, addirittura istintiva, con chi soffre - ossia, la compassione - è la sola fonte delle azioni con valore morale.

Queste sono azioni prive di alcun motivo egoistico e, proprio per questo, sono solite destare nel nostro intimo una certa soddisfazione, il cosiddetto ‘plauso della coscienza’. Anche negli astanti esse sono solite destare approvazione, rispetto e ammirazione, e addirittura far loro sentire un poco di vergogna di sé stessi (un fatto che nessuno può negare).

Se, invece, un’azione benefica fosse dettata da un qualunque altro motivo, non potrebbe che essere egoistica, se non addirittura malvagia. Infatti, in conformità alle tre molle di spinta originarie di tutte le azioni (l’egoismo, la malvagità e la compassione) è possibile suddividere i motivi che muovono l’uomo in tre grandi classi principali e generali: 1) il proprio bene, 2) il male degli altri, 3) il bene degli altri. Se il motivo di un’azione benefica non appartiene alla terza classe, non può che appartenere ad almeno una delle due precedenti.

Talvolta, infatti, azioni [apparentemente] benefiche per fare del male agli altri succedono davvero. Ad esempio, quando faccio del bene a uno, ma non a un altro, per indispettire il secondo e fargli così pesare maggiormente la sua sofferenza, o per svergognare una terza persona che non ha voluto compiere quella stessa buona azione, oppure, infine, per umiliare il destinatario stesso dell’azione benefica.

Più frequente invece è il caso di una buona azione fatta per motivi egoistici. Ad esempio, quando miro al mio bene, anche se remoto e tramite un lungo giro, contando su una ricompensa in questo o in un altro mondo, sulla conquista della stima degli altri e della fama di persona nobile di cuore, sul pensiero che chi aiuto oggi, un domani mi potrà a sua volta aiutare, essere utile in qualche modo, o servire. Infine anche quando sono mosso solo dal pensiero di mantener viva la massima della nobiltà d’animo e della beneficenza, perché in futuro questa massima potrebbe far comodo anche a me.

In breve, quando il mio scopo è qualcosa di diverso da quello, puro e semplice, di aiutare l’altro, di strapparlo dall’indigenza e dal bisogno, e vederlo così libero dalla sofferenza. Nulla di più e nulla di meno. Solo ed esclusivamente in questo caso dimostrerò di possedere realmente quell’amore verso il prossimo, quella caritas [carità] e quella ¢g£ph [agàpe: amore fraterno], predicato con grande ed eccelso merito dal cristianesimo.

Le stesse indicazioni che il Vangelo allega al suo comandamento di amore verso il prossimo, come:

“Non sappia la tua mano sinistra ciò che fa la tua destra”197

e simili, poggiano sul sentimento che - come ho dimostrato - costituisce il fondamento della morale. Affinché un’azione possegga valore morale, il motivo deve essere esclusivamente il bisogno dell’altro, senza tener conto di nient’altro.

Giustamente nello stesso passo del Vangelo198 si dice che chi dà con ostentazione, proprio da questa trae il suo compenso. A questa affermazione anche i Veda conferiscono - per così dire - gli ordini maggiori, ribadendo che chi aspira a ricevere una ricompensa dalle proprie azioni si trova ancora sul cammino dell’oscurità, non essendo ancora pronto per la redenzione.

Se qualcuno, mentre sta facendo un’elemosina, mi chiedesse che cosa ne ricava lui, onestamente gli risponderei:

“Solo questo: dare un poco di allevio al destino di quel povero, null’altro. Se questo non ti serve a nulla oppure non ti interessa, allora tu non hai voluto fare un’elemosina, bensì hai voluto acquistare qualcosa, ma hai usato male i tuoi soldi. Se invece ti importa che quella persona, oppressa dalla miseria, soffra un poco meno, allora tu hai raggiunto il tuo scopo, hai ottenuto che lui soffra meno e puoi vedere esattamente quanto la tua offerta ricompensa sé stessa”.

Ma come è possibile che una sofferenza, che non è la mia e che non mi colpisce direttamente, ciò nonostante possa diventare per me un motivo così immediato da spingermi ad agire, come di solito succede solo con un motivo esclusivamente mio?

È possibile solo se anch’io partecipo a quella sofferenza, nonostante essa mi venga data solo come una cosa esterna tramite l’intuizione o la conoscenza, se la percepisco come mia - non dentro di me, bensì dentro l’altra persona - e se avviene ciò che dice Calderon:

“... che tra il veder soffrire e il soffrire non ci sia alcuna distanza”.199

Ma questo presuppone che io mi sia identificato in qualche modo con l’altro, che per un momento la barriera tra l’Io e il non-Io sia stata rimossa. Solo allora la situazione in cui versa l’altro, i suoi bisogni, le sue necessità e le sue sofferenze diventano immediatamente miei. Allora vedo l’altro non più come l’intuizione empirica me lo presenta, come qualcosa di estraneo, di indifferente e di completamente diverso, bensì io soffro insieme a lui, nonostante i miei nervi non stiano sotto la sua pelle. Solo così il suo dolore e i suoi bisogni possono diventare il mio motivo; altrimenti solo i miei possono diventarlo.

Questo processo è misterioso: è qualcosa che sfugge completamente alla ragione, qualcosa la cui origine non si spiega tramite l’apprendimento.

Eppure è una cosa che succede tutti i giorni. Ognuno lo ha spesso vissuto, e neppure alle persone più dure di cuore e più egoiste è rimasto estraneo. Ogni giorno si presenta davanti ai nostri occhi in casi sporadici, nelle piccole cose, ogni volta che un uomo aiuta un altro uomo e corre in suo soccorso con un impulso immediato, senza ragionarci troppo sopra. A volte, addirittura, qualcuno pone consapevolmente a rischio la propria vita per una persona che vede per la prima volta, senza pensarci sopra due volte, appena si rende conto della grande necessità e del grande pericolo dell’altro.

Questo fenomeno si presenta, invece, macroscopicamente quando, dopo una lunga riflessione e un acceso dibattito, la magnanima nazione inglese sborsa venti milioni di sterline per pagare il riscatto degli schiavi nelle sue colonie, suscitando l’entusiasmo del mondo intero.

Chi volesse negare che questa bella azione in grande stile sia stata dettata dalla compassione e la volesse, invece, attribuire alla cristianità, tenga presente che nel Nuovo Testamento non vien detta una sola parola contro la schiavitù - nonostante questa pratica fosse comunissima anche ai tempi di Gesù - e inoltre che nel 1860 in Nord America, durante il dibattito sulla schiavitù, qualcuno si è appellato al fatto che anche Abramo e Giacobbe avevano avuto degli schiavi.

Ora gli studiosi di etica dibattano pure su quali possano essere, in ogni singolo caso, i risultati pratici di quel misterioso e intimo processo, suddividendoli in capitoli e paragrafi sui doveri di virtù, d’amore e imperfetti, o come meglio credono. Tuttavia la radice fondamentale dell’amore verso il prossimo è quella che ho qui esposto, dalla quale scaturisce la massima: omnes, quantum potes, juva [aiuta tutti, per quanto ti è possibile].

Da questa massima si può dedurre facilmente tutto il resto, come pure dalla prima frase della massima - ossia, dal neminem laede [non nuocere a nessuno] - si possono dedurre tutti i doveri di giustizia.

L’etica è in realtà la più facile di tutte le scienze - come si poteva anche prevedere - dal momento che ognuno ha il compito di costruirsela personalmente, di dedurre lui stesso la regola per ogni singolo caso a partire da quella massima, che affonda la radice nel suo cuore. Pochi hanno infatti il tempo e la pazienza per apprendere un’etica già confezionata.

Dalla giustizia e dall’amore verso il prossimo discendono tutte le altre virtù. Esse sono pertanto le virtù cardinali. Avendo individuato da cosa esse provengono, abbiamo localizzato la pietra fondamentale dell’etica.

La giustizia è tutto il contenuto etico dell’Antico Testamento; l’amore verso il prossimo quello del Nuovo. Questa è la kain¾ ™ntol» [kainé entolé: il nuovo comandamento]200 nel quale, secondo Paolo201, sono contenute tutte le virtù cristiane.

§ 19 Conferme del fondamento della morale presentato

La verità che abbiamo appena enunciato - ossia, che la compassione è l’unica genuina e altruistica molla di spinta morale - costituisce uno straordinario, addirittura quasi incomprensibile paradosso [una sofferenza, che non è la mia, può diventare un motivo immediato per la mia volontà]. Cercherò pertanto di dissuadere il lettore da un simile pensiero, dimostrando che questa verità è, invece, confermata dall’esperienza e dalle manifestazioni di un sentimento umano universale.

1. Innanzitutto, a questo scopo prenderò come esempio un caso appositamente escogitato, che possa fungere da experimentum crucis [esperimento cruciale] in questa ricerca. Tuttavia, per non rendere troppo facile il mio compito, non prenderò in considerazione un caso di amore verso il prossimo, bensì proprio uno dei casi più gravi di violazione del diritto.

Supponiamo che due giovani, Tizio e Caio, siano entrambi follemente innamorati di una ragazza (non la stessa) e che sul cammino di entrambi si trovi un altro spasimante, preferito dalla ragazza per altri motivi. Supponiamo che entrambi siano decisi a spedire all’altro mondo il proprio rivale e che siano in grado di farlo in maniera assolutamente sicura, addirittura al di sopra di ogni sospetto.

Tuttavia, al momento di compiere l’omicidio entrambi, dopo un conflitto di coscienza, decidono di desistere. Supponiamo, inoltre, che essi debbano dare una spiegazione, chiara e sincera, dei motivi che li hanno indotti a desistere dal loro proposito omicida.

Ora il lettore è libero di scegliere a piacere tra le seguenti spiegazioni fornite da Caio. A trattenerlo potrebbe essere stato un qualunque motivo religioso, come la volontà di Dio, il giudizio universale, la dannazione eterna, ecc. Oppure Caio potrebbe dire, insieme a:

Kant: “Mi son reso conto che la massima del mio comportamento in questo caso non sarebbe stata idonea a fornire una regola universalmente valida per tutti gli esseri ragionevoli, poiché avrei trattato il mio rivale solo come mezzo e non allo stesso tempo come fine”.

Fichte: “Ogni vita umana è un mezzo per realizzare la legge morale. Pertanto io non posso, senza mostrare indifferenza verso la realizzazione della legge morale, uccidere una persona destinata a contribuirvi”.202

Detto per inciso, Caio potrebbe sbarazzarsi di un simile scrupolo nella speranza - una volta in possesso della sua amata - di generare un nuovo strumento per la realizzazione della legge morale.

William Wollaston: “Mi son reso conto che quell’azione sarebbe stata l’espressione di un principio non vero”.

Francis Hutcheson: “Il senso morale, le cui sensazioni - come pure quelle degli altri sensi - non possono essere spiegate, mi ha indotto a desistere”.

Adam Smith: “Ho previsto che la mia azione non avrebbe destato alcuna simpatia nei miei confronti da parte degli spettatori”.

Christian Wolff: “Ho capito che con una simile azione avrei ostacolato il mio perfezionamento e che neppure avrei promosso quello di chiunque altro”.

Spinoza: “Ad un umano nulla è più utile di un altro umano: per questo non ho voluto ucciderlo”.203

Insomma, Caio dica pure quello che gli pare. Tizio invece (la cui spiegazione faccio mia) dice:

“Quando giunsi ai preparativi, cosicché per un momento non dovetti pensare più alla mia passione bensì al mio rivale, mi divenne chiaro che cosa gli sarebbe realmente successo. Allora ebbi compassione e pietà di lui, mi dispiacque per lui, mi si spezzava il cuore: non potevo farlo!”.

Ora io chiedo a ogni lettore onesto e imparziale: quale dei due è il migliore? A chi dei due preferireste affidare il vostro destino? Quale dei due è stato trattenuto dal motivo più puro? Dove sta quindi il fondamento della morale?

2. Nulla scuote così profondamente il nostro sentimento morale come la crudeltà. Possiamo perdonare ogni altro misfatto, ma non la crudeltà, proprio perché questa è esattamente il contrario della compassione.

Quando veniamo a sapere di un’azione molto crudele - come, ad esempio, quella riportata sui giornali di una madre che ha ucciso il proprio figlio di cinque anni versandogli dell’olio bollente in gola e il figlio minore seppellendolo vivo, oppure la notizia proveniente da Algeri, dove in seguito a una rissa accidentale tra uno spagnolo e un algerino, quest’ultimo, fisicamente più forte, ha letteralmente strappato la mandibola dell’altro e se l’è portata via come trofeo, abbandonandolo ancora vivo - allora rimaniamo profondamente turbati e ci domandiamo:

“Come è possibile fare una cosa simile?”.

Ma qual’è il vero senso di questa domanda? Forse:

“Come è possibile temere così poco la dannazione nella vita futura?”.

Difficilmente. Forse:

“Come è possibile agire secondo una massima che non si presta affatto a diventare legge universale per tutti gli esseri ragionevoli?”.

Certamente no. Oppure:

“Come è possibile trascurare fino a tal punto il proprio e l’altrui perfezionamento?”.

Tanto meno. Il vero senso di questa domanda è senza dubbio semplicemente questo:

“Come è possibile essere così senza pietà?”.

È la mancanza assoluta di compassione che bolla una determinata azione con il timbro di moralmente abietta e ripugnante. Quindi, è la compassione la vera molla di spinta morale.

3. Il fondamento della morale - ossia la molla di spinta morale che io ho individuato - è assolutamente l’unico al quale si possa attribuire un’efficacia reale e diffusa.

La stessa cosa - onestamente - nessuno può affermare riguardo ai principi morali enunciati da tutti gli altri filosofi. Quelli, infatti, sono principi astratti, a volte addirittura cavillosi, senz’altro fondamento che una combinazione artificiosa di concetti, tanto che la loro applicazione alle azioni reali mostra spesso un lato addirittura comico.

Una buona azione, compiuta tenendo conto solo del principio morale di Kant, sarebbe in fondo un’opera di pedanteria filosofica. Oppure potrebbe dar luogo ad un autoinganno, poiché l’autore di quell’azione, dettata probabilmente da altri e più nobili motivi, potrebbe erroneamente pensare che essa sia il prodotto dell’imperativo categorico e di un concetto di dovere fondato sul nulla.

Raramente è possibile dimostrare una decisa efficacia reale dei principi morali, non solo filosofici (i quali mirano solo alla teoria) ma anche religiosi, promulgati per scopi esclusivamente pratici. La prova sta innanzitutto nel fatto che, nonostante la grande differenza di religioni sulla terra, il grado di moralità - o meglio, di immoralità - non corrisponde affatto a questa differenza, anzi è essenzialmente lo stesso ovunque. Non bisogna poi confondere la raffinatezza o la grossolanità con la moralità o l’immoralità.

La religione dei greci aveva una tendenza morale estremamente ridotta, quasi limitata al giuramento; non si insegnava alcun dogma e non si predicava apertamente alcuna morale. Ma non per questo possiamo dire che i greci, tutto sommato, siano stati moralmente peggiori degli uomini dei secoli cristiani.

La morale del cristianesimo è qualitativamente più alta della morale di tutte le altre religioni apparse in Europa. Tuttavia, se uno volesse credere che la moralità in Europa sia migliorata di pari passo [con il diffondersi del cristianesimo] e che ora eccella per lo meno tra le morali contemporanee, potrebbe venir facilmente convinto del contrario.

Innanzitutto tra i musulmani, parsi, hindu e buddisti troviamo altrettanta onestà, fedeltà, tolleranza, gentilezza, benevolenza, nobiltà d’animo e abnegazione come tra le popolazioni cristiane. Ma soprattutto un lungo elenco di crudeltà disumane, che hanno accompagnato il cristianesimo, darebbe addirittura il colpo di grazia al cristianesimo stesso.

Ad esempio, le innumerevoli guerre di religione, le irresponsabili crociate, lo sterminio di gran parte degli indigeni d’America e il ripopolamento di quel continente con schiavi negri trascinati dall’Africa, strappati senza il minimo diritto alle loro famiglie, alla loro patria, al loro continente, e condannati per sempre ai lavori forzati.204

Inoltre, la millenaria persecuzione degli eretici, i tribunali dell’Inquisizione che gridano vendetta al cielo, la notte di San Bartolomeo, il massacro di diciottomila olandesi da parte dei soldati spagnoli del duca di Alba, ecc.

Ma soprattutto dovremo effettivamente riconoscere quanto minuscola è l’influenza di ogni religione sulla moralità se solo confrontassimo l’eccellente morale che il cristianesimo - e, più o meno, ogni altra religione - predica con la prassi dei suoi fedeli. Basta pensare a dove mai andremmo a finire con questa prassi se non ci fosse la forza dello Stato a proteggerci dai criminali e cosa mai dovremmo temere se anche per un solo giorno le leggi dello Stato venissero abolite.

Il problema sta senza dubbio nella debolezza della fede. In teoria e fintanto che ci si attiene a delle pie considerazioni, a ciascuno la propria fede sembra essere salda. Tuttavia la pietra di paragone di ogni nostro convincimento è la pratica. Quando si arriva al dunque e si dovrebbe dare prova della propria fede di fronte a pesanti rinunce e sacrifici, allora la debolezza della fede traspare chiaramente.

Quando uno medita seriamente di compiere un crimine, in quel momento ha già abbattuto lo steccato della vera e propria moralità. In seguito, la prima cosa a trattenerlo è il pensiero della polizia e della magistratura. Superato anche questo, contando di sfuggire alle loro maglie, la seconda barriera che si frappone è la salvaguardia del proprio onore sociale. Superata anche questa, c’è poco da sperare che, dopo aver vinto queste due poderose resistenze, un dogma religioso qualsiasi possa avere abbastanza influenza per trattenerlo dal compiere quel crimine. Infatti se i pericoli certi e immediati non sono riusciti ad intimorirlo, difficilmente potranno trattenerlo i pericoli remoti, basati semplicemente sulla fede.

Oltretutto, a discapito di ogni buona azione dettata da motivi essenzialmente religiosi, si può obiettare che non si tratta mai di un’azione disinteressata. Essa infatti tien conto di un premio o di una punizione, quindi non possiede un genuino valore morale.

Questa considerazione si trova chiaramente espressa in una lettera del granduca Carlo Augusto di Weimar, dove si dice:

“Il barone Weyhers stesso ha osservato che deve proprio essere un cattivo soggetto colui che si comporta bene per motivi religiosi e non per una naturale inclinazione”.205

Si prenda, invece, in considerazione la molla di spinta morale da me presentata. Chi oserebbe negare per un solo istante che in tutti i tempi, in tutti i popoli, in tutte le condizioni di vita, anche in assenza delle leggi dello Stato, in mezzo agli orrori delle rivoluzioni e delle guerre, negli eventi grandi o piccoli, ogni giorno e ogni ora quella molla non abbia manifestato, clamorosamente o discretamente, un’efficienza decisa e veramente sorprendente?

Quotidianamente essa impedisce molti torti e spinge a compiere parecchie buone azioni senza tener conto di alcuna ricompensa, e spesso quando meno uno se l’aspetta. Quando poi essa, ed essa sola, entra in azione, tutti noi, commossi e riverenti, riconosciamo incondizionatamente un genuino valore morale a questa azione.

4. La compassione illimitata verso tutti gli esseri viventi è la garanzia più solida e sicura di un comportamento morale corretto, che non ha bisogno di alcuna casistica.

Chi ne è pervaso molto probabilmente non lederà, non danneggerà e non farà del male a nessuno. Piuttosto, avrà riguardo verso tutti, perdonerà e aiuterà chiunque secondo le sue possibilità. Ogni sua azione porterà impresso il marchio della giustizia e dell’amore verso il prossimo.

Provate a dire:

“Quest’uomo ha molte virtù, ma non ha alcuna pietà”,

oppure:

“È un uomo ingiusto e malvagio, tuttavia ha molta compassione degli altri”

e avvertirete subito la contraddizione.

Ognuno ha i suoi gusti. Tuttavia io non conosco un augurio più bello di quello con il quale si concludevano le antiche rappresentazioni teatrali indiane (come pure, in tempi più recenti, quelle inglesi con la preghiera per il re). Essa recita:

“Possano tutti gli esseri viventi rimanere liberi dal dolore”.

5. Anche da alcuni piccoli particolari si può dedurre che la vera molla di spinta morale è la compassione.

Ad esempio, è parimenti ingiusto sottrarre senza pericolo, tramite sotterfugi legali, cento denari a un ricco o a un povero. Tuttavia il rimprovero della coscienza e il biasimo di testimoni imparziali saranno molto più forti e sentiti nel secondo caso. Proprio per questo Aristotele dice:

“È peggio fare del male a un uomo sfortunato che a uno fortunato”.206

Il rimprovero della coscienza diventa addirittura ancora più lieve, che nel caso del ricco, se si sottraggono soldi ad una cassa statale. Questa infatti non può essere in nessun modo oggetto di compassione. Questo dimostra che l’oggetto del proprio biasimo, e di quello dei testimoni, non è la violazione del diritto in quanto tale, bensì la sofferenza causata agli altri.

In effetti, la semplice violazione del diritto in quanto tale (ad esempio, il furto ai danni di una cassa statale) viene disapprovata anche dalla propria coscienza e da quella dei testimoni, ma solo perché viene infranto il principio di rispettare ogni tipo di diritto, come un uomo veramente onesto è solito fare. Si tratta quindi di una disapprovazione mediata e di grado minore.

Tuttavia se si trattasse di una cassa statale ricevuta in custodia sulla fiducia, la situazione sarebbe ben diversa, poiché in questo caso subentrerebbe il concetto (precedentemente accennato) di doppia ingiustizia, con il suo aspetto particolarmente odioso.

Questo fatto spiega perché il più grave rimprovero che si suol muovere agli avidi ricattatori e alle canaglie legali è di essersi impossessati dei beni di vedove e di orfani. Proprio questi ultimi, in quanto completamente indifesi, avrebbero dovuto destare compassione più di chiunque altro.

Quindi è proprio la mancanza assoluta di compassione che taccia un determinato individuo di malvagità.

6. L’amore per il prossimo poggia sulla compassione in maniera ancora più evidente che la giustizia.

Nessuno riceverà mai una testimonianza di amore genuino da parte degli altri, fintanto che le cose gli stanno andando bene sotto ogni aspetto. Una persona felice può certo sperimentare l’affetto di parenti e amici. Tuttavia la manifestazione di una genuina, disinteressata e oggettiva solidarietà alle vicende e al destino altrui - come effetto dell’amore verso il prossimo - viene riservata solo a chi sta in qualche modo soffrendo.

Infatti verso una persona felice, in quanto tale, non ci sentiamo solidali. Anzi, proprio perché felice, quella persona rimane estranea al nostro cuore: habeat sibi sua [a ciascuno quello che si merita]. Addirittura, se uno possedesse molto più degli altri, desterebbe facilmente invidia, la quale, in occasione di una sua eventuale futura caduta dalla vetta della felicità, potrebbe trasformarsi in compiacimento della disgrazia altrui. Tuttavia, nella maggior parte dei casi questo rischio non si avvera, ossia non si arriva allo:

“... e i nemici ridono”.207

di Sofocle.

Infatti, appena una persona felice cade in disgrazia, avviene una grande trasformazione nel cuore degli altri, che dice molto riguardo al tema che stiamo trattando. Innanzitutto egli può in quel momento verificare quale tipo di solidarietà era quella che gli amici nei tempi felici gli riservavano:

“Gli amici se la squagliano appena si vede il fondo della bottiglia”.208

Tuttavia le cose che lui temeva ancora più della sfortuna, ossia il giubilo degli invidiosi e le risa di scherno dei perfidi (cose insopportabili, solo a essere immaginate) di solito non avvengono. Anzi, l’invidia si placa e svanisce assieme a ciò che l’aveva causata, e al suo posto subentra la compassione, che porta con sé l’amore per il prossimo.

Spesso gli invidiosi e i nemici di una persona felice, alla sua caduta si trasformano in amici premurosi, che consolano e aiutano. Chi non ha mai sperimentato qualcosa di simile (anche se in tono minore) e con grande sorpresa, dopo essere stato colpito dalla sfortuna, non ha visto coloro che avevano mostrato la maggior freddezza, o addirittura malevolenza nei suoi confronti, avvicinarsi con sincera solidarietà?

L’infelicità è la condizione necessaria per la compassione, e la compassione è la sorgente dell’amore per il prossimo.

Questa considerazione è in accordo con il fatto che nulla riesce ad attenuare la nostra collera (anche se giusta) più rapidamente del commento: “È un povero disgraziato”, riferita alla persona oggetto della nostra collera. La compassione è per la collera ciò che la pioggia è per il fuoco.

Pertanto, a chi non desidera avere rimorsi di coscienza, qualora si trovasse in preda alla collera nei confronti di un altro e meditasse di procurargli un grosso dolore, vorrei dare il seguente consiglio. Immagina di avergli già effettivamente inflitto quel dolore, di vederlo dibattersi tra sofferenze corporali o spirituali, nel bisogno e nella miseria, e dì a te stesso: “Questa è opera mia”.

Se c’è qualcosa che può placare l’ira, è proprio questo. La compassione, infatti, è il vero controveleno dell’ira. Meglio prevenire [il rimorso] con un artificio di questo tipo finché si è in tempo.

“La pietà, la cui voce, dopo che uno si è vendicato, fa sentire la sua legge”.209

In generale nulla riesce a dissipare così facilmente il nostro cattivo umore nei confronti degli altri, come l’osservare le cose da un punto di vista nel quale loro destano la nostra compassione. Perfino il fatto che i genitori di solito amino maggiormente il figlio cagionevole di salute deriva dalla compassione che quel figlio desta in loro continuamente.

7. La molla di spinta morale che abbiamo individuato dimostra di essere quella vera anche dal fatto che essa si prende cura anche degli animali, così irresponsabilmente trascurati dagli altri sistemi etici europei.

La presunta mancanza di diritti degli animali, il pensiero assurdo che il nostro comportamento nei loro confronti non abbia alcuna valenza morale o - come recita la morale kantiana - che non esista alcun dovere verso gli animali, è una scandalosa grossolanità, una barbarie dell’occidente, la cui origine sta nel giudaismo.

In filosofia questo assurdo pensiero risale alla presunta totale differenza - a dispetto di ogni evidenza - tra uomo e animale sostenuta da Cartesio nella maniera più decisa e stridente, come una inevitabile conseguenza dei suoi errori. Quando infatti la filosofia di Cartesio, Leibniz e Wolff, sulla base di concetti astratti, concepì la psicologia razionale corredandola di una anima rationalis [anima razionale] immortale, le naturali pretese del mondo animale andarono evidentemente a cozzare contro questo privilegio esclusivo e contro la patente di immortalità, riservati alla specie umana. Come succede in simili frangenti, la natura non ha potuto far altro che protestare in silenzio.

Questi filosofi poi, messi alle strette dalla loro coscienza intellettuale, dovettero cercare di dare un supporto alla psicologia razionale tramite quella empirica. Dovettero pertanto darsi da fare per aprire un enorme fossato, una distanza abissale tra uomo e animale, per rappresentare gli animali - a discapito di ogni evidenza - come qualcosa di fondamentalmente diverso dall’uomo. Di questi loro propositi già Boileau si fa [ironicamente] beffe:

“Gli animali hanno forse delle università? Le quattro facoltà fioriscono forse presso loro?”.210

Alla fine gli animali avrebbero dovuto non sapere distinguere sé stessi dal mondo esterno, non avere coscienza di sé stessi e neppure avere un proprio Io! Contro queste sguaiate affermazioni si potrebbe semplicemente ricordare lo smisurato egoismo insito in ogni animale, anche il più piccolo e insignificante. Esso ci dimostra continuamente quanto gli animali siano consapevoli del proprio Io rispetto al mondo, ossia il non-Io. Se uno di questi cartesiani finisse tra gli artigli di una tigre, potrebbe chiarissimamente constatare quale netta differenza la tigre pone tra il proprio Io e non-Io.

A livello popolare, in sintonia con i sofismi di quei filosofi, troviamo la peculiarità di alcune lingue (quella tedesca in particolare) di utilizzare termini specifici riguardo al mangiare, bere, concepire, partorire, morire e riguardo al cadavere dell’animale, con il proposito di non dover utilizzare per gli animali gli stessi termini delle corrispondenti azioni o oggetti dell’uomo. In questo modo si cerca di nascondere, dietro la diversità delle parole, la perfetta identità delle cose.

Le lingue antiche, invece, non conoscono un simile doppione, bensì indicano senza esitazione la stessa cosa con lo stesso termine. Questo penoso stratagemma deve senza dubbio essere opera della pretaglia europea la quale, nella sua profanità, non pensa di aver mai fatto abbastanza per negare e per oltraggiare l’essere eterno che vive in ogni animale.

Così facendo, essa ha dato un fondamento alla durezza di cuore e alla crudeltà, tipiche in Europa, nei confronti degli animali. Cose che un asiatico non può guardare senza inorridire. Nella lingua inglese non troviamo questo indegno stratagemma, senza dubbio perché i Sassoni, quando hanno conquistato l’Inghilterra, non erano ancora cristiani. Tuttavia troviamo qualcosa di analogo anche presso gli inglesi.

In inglese, infatti, ogni animale è generis neutrius [di genere neutro] e viene indicato con il pronome neutro it [esso], esattamente come una cosa inanimata. Questo è particolarmente deplorevole soprattutto per i primati, le scimmie, i cani, ecc. È un tipico stratagemma, ad opera della pretaglia, per degradare gli animali a livello di cose.

Gli antichi egizi, la cui vita era interamente dedicata a fini religiosi, seppellivano nella stessa tomba le mummie dell’uomo e quelle dell’ibis, del coccodrillo, ecc. In Europa, invece, è un orrore e un crimine se un cane fedele viene seppellito accanto alla tomba del suo padrone, sulla quale a volte, per una fedeltà e un attaccamento assolutamente senza riscontro presso gli uomini, quel cane ha aspettato la propria morte.

Nulla meglio della zoologia e dell’anatomia può rivelare l’identità di ciò che è essenziale nel fenomeno ‘animale’ e ‘uomo’. Cosa dire allora se, al giorno d’oggi uno zootomista bigotto ha la sfrontatezza di affermare una assoluta e radicale differenza tra uomo e animale, fino ad arrivare ad aggredire e insultare gli zoologi onesti, i quali, alieni da ogni clericalismo, servilismo e tartufianismo [bigotteria] proseguono la loro ricerca attenendosi alla natura e alla verità? Una simile persona deve essere davvero cieca in tutti i cinque sensi e totalmente cloroformizzata dal foetor judaicus [fetore giudaico] per non riconoscere l’identità di ciò che è essenziale e principale nell’uomo e nell’animale.

Ciò che contraddistingue l’uomo dall’animale non sta in ciò che è primario, ossia nel principio, nella forza primordiale, nell’intima essenza, nel nucleo di entrambi i fenomeni, poiché per entrambi si tratta della volontà dell’individuo.

La differenza sta solo in ciò che è secondario, ossia nell’intelletto, nel grado della facoltà conoscitiva, la quale nell’uomo è incomparabilmente maggiore grazie alla facoltà supplementare della conoscenza astratta, ossia la ragione. Questa tuttavia deriva chiaramente solo dal maggiore sviluppo cerebrale, quindi dalla differenza somatica (principalmente, in termini di quantità) di un singolo organo: il cervello.

Incomparabilmente molto più grande è, invece, ciò che vi è di identico, dal punto di vista psichico e somatico, tra l’uomo e l’animale. A quello [zootomista bigotto] occidentale e giudaizzato, che disprezza gli animali e idolatra la ragione, si dovrebbe ricordare che, esattamente come lui, anche il cane è stato allattato dalla propria mamma.

Già in precedenza ho criticato perfino Kant per essere caduto in quello stesso errore dei suoi contemporanei e compatrioti.

La morale del cristianesimo non ha rispetto per gli animali. Questo è un suo difetto che farebbe meglio a confessare piuttosto che perpetuare. È tuttavia una cosa sorprendente, poiché la morale cristiana mostra per il resto una grande concordanza con quella del Brahmanesimo e del Buddhismo, anche se meno chiaramente espressa e non portata agli estremi.

È difficile non pensare che la morale cristiana, come pure l’idea del Dio diventato uomo (Avatar) sia provenuta originariamente dall’India e giunta in Giudea attraverso l’Egitto. Così il cristianesimo sarebbe un bagliore della luce atavica indiana il quale, riflesso dalle rovine egizie, è caduto purtroppo sul suolo giudaico.

Un emblema scherzoso del suddetto deprecabile difetto della morale cristiana, nonostante la grande concordanza con quella indiana, potrebbe essere intravisto nel fatto che Giovanni Battista si presenta come un Sanyassi indiano, tuttavia vestito di pelli animali!

Questa cosa - come tutti sanno - sarebbe un orrore per uno hindu, tanto che la Reale Società di Calcutta ha ricevuto il suo esemplare dei Veda solo dopo aver promesso che non lo avrebbe rilegato in cuoio, alla moda europea; per questo si trova in quella biblioteca rilegato in seta.

Un analogo caratteristico contrasto ci viene offerto da un lato dalla parabola evangelica della pesca di Pietro,211 propiziata da un miracolo del Redentore a tal punto, che le barche si riempiono di pesci fino quasi ad affondare, e dall’altro dall’aneddoto di Pitagora - cultore della saggezza egizia - il quale, mentre i pescatori stanno tirando la rete ancora sott’acqua, compra l’intero pescato solo per poter ridare immediatamente la libertà a tutti i pesci catturati.212

La pietà per gli animali sta in rapporto talmente stretto con la bontà di carattere, da poter con sicurezza affermare che chi è crudele con gli animali non può essere un uomo buono. Essa mostra di scaturire dalla stessa fonte della virtù da praticare nei confronti degli uomini.

Così, ad esempio, una persona sensibile, al ricordo di avere immeritatamente, gratuitamente, oppure oltre il necessario, maltrattato il proprio cane, cavallo o scimmia in un momento di malumore, o d’ira, o per aver bevuto un po’ troppo, prova esattamente la stessa insoddisfazione nei propri confronti - il cosiddetto rimprovero di coscienza - che prova al ricordo di un torto commesso contro un uomo.

Ricordo di aver letto di un cacciatore inglese in India, il quale, dopo aver sparato a una scimmia, non ha più potuto dimenticare lo sguardo che quella gli ha gettato mentre stava morendo, cosicché da quel giorno non ha più sparato a una scimmia. Lo stesso è successo a Wilhelm Harris, un vero Nimrod [mitico cacciatore biblico], che per puro piacere della caccia ha viaggiato nell’Africa nera negli anni 1836-37.

Nel suo libro Viaggi (pubblicato nel 1838 a Bombay) racconta di essere andato, il giorno dopo aver sparato al suo primo elefante (una femmina), alla ricerca dell’animale ferito a morte. Tutti gli altri elefanti erano fuggiti da quella zona. Solo il piccolo della vittima aveva passato la notte accanto al cadavere della madre. Alla vista dei cacciatori, dimenticando ogni paura, si fece loro incontro manifestando chiaramente e animatamente la propria assoluta disperazione, e li cinse barrendo con la proboscide per chiedere il loro aiuto. Lo Harris afferma di aver provato in quel momento un vero e proprio rimorso per quello che aveva fatto, e di essersi reso conto di aver compiuto quasi un assassinio.

Ora vediamo la sensibile nazione inglese contraddistinguersi da tutte le altre per una accentuata pietà per gli animali, e non perdere alcuna occasione per dimostrarlo. Nonostante il suo deprecabile ‘freddo scetticismo’ in generale (come scrive il principe Pückler nelle Lettere di un morto), questa nazione è stata capace di assecondare la pietà per gli animali a tal punto, da colmare tramite la legge questa lacuna della religione nel campo della morale.

Proprio questa lacuna è il motivo per cui in Europa e in America c’è bisogno di associazioni per la protezione degli animali, le quali possono operare solo con l’aiuto della giustizia e della polizia. In Asia le religioni stesse garantiscono agli animali abbastanza protezione, cosicché laggiù nessuno pensa a simili associazioni.

Nel frattempo anche in Europa cresce sempre più la coscienza dei diritti degli animali, nella misura in cui svanisce, lentamente fino a scomparire, il curioso concetto di un mondo animale creato per essere sfruttato dall’uomo e per divertirlo, cosicché gli animali vengono trattati come cose. Questo concetto, la cui origine risale all’Antico Testamento (come ho dimostrato nel secondo libro dei Parerga, § 177), sta alla base del trattamento rozzo e senza rispetto degli animali in Europa.

Ad onore degli inglesi bisogna ricordare che in Inghilterra, per la prima volta, la legge ha seriamente preso le difese degli animali anche contro ogni trattamento crudele. Il malvagio che commette un abuso contro un animale deve infatti pagare realmente una multa, anche se fosse il proprietario dell'animale.

Ma non ancora soddisfatti di questo, a Londra è addirittura sorta un’associazione di volontari per la protezione degli animali, la Società per la prevenzione della crudeltà nei confronti degli animali, la quale si dà molto da fare per combattere la tortura degli animali, con un notevole dispendio di risorse proprie. I suoi membri - la cui presenza è da temere in ogni luogo - sorvegliano e poi denunciano chi tortura gli esseri sensibili privi di parola.213

A Londra, in prossimità dei ponti erti, la società per la protezione degli animali ha disposto un tiro di cavalli che ogni carro con carico pesante può gratuitamente utilizzare. Non è forse una bella cosa che merita il nostro plauso tanto quanto una buona azione in favore degli uomini?

Anche la Società filantropica di Londra ha dal canto suo bandito nel 1837 un premio di 30 sterline per la migliore spiegazione delle argomentazioni morali contro la tortura degli animali, le quali dovevano tuttavia essere tratte esclusivamente dal cristianesimo (questa clausola rende certamente più difficile il compito). Il premio è stato attribuito nel 1839 al signor Macnamara.

A Filadelfia è sorta per fini analoghi la Società degli amici degli animali. Al suo presidente il signor T. Forster (un inglese) ha dedicato il suo libro - originale e ben scritto - Philozoia: considerazioni morali sulla condizione attuale degli animali e i mezzi per migliorarla (Brussel, 1839). L’autore - da buon inglese - cerca ovviamente di dare un sostegno tratto dalla Bibbia alle sue esortazioni a favore di un trattamento umano degli animali. Tuttavia non vi trova alcun appiglio, cosicché alla fine si deve aggrappare all’argomento che Gesú è nato in una stalla, accanto al bue e all’asinello, proprio per mostrare simbolicamente che dobbiamo considerare gli animali come nostri fratelli e trattarli di conseguenza.

Quanto sopra dimostra che la corda morale che stiamo toccando comincia a vibrare anche nel mondo occidentale.

Ma in generale la pietà per gli animali non ci deve spingere fino al punto - come fanno i Brahamini - di astenerci dal mangiare carne, poiché in natura la sensibilità al dolore procede di pari passo con l’intelligenza. Pertanto l’uomo, soprattutto nei paesi nordici, se si astenesse dal nutrirsi di carne andrebbe incontro a delle sofferenze maggiori di quelle a cui è sottoposto un animale tramite una morte rapida e repentina, le quali in ogni caso dovrebbero anche venir alleviate con il cloroformio. Senza una alimentazione carnivora il genere umano nei paesi nordici non potrebbe sopravvivere.

Secondo lo stesso principio, l’uomo fa lavorare a proprio vantaggio gli animali ma compie una crudeltà solo quando li costringe a uno sforzo eccessivo.

8. Proviamo - una volta tanto - ad astenerci da ogni possibile indagine metafisica sulla motivazione ultima della compassione (dalla quale soltanto possono scaturire le azioni non egoistiche) e consideriamola solo dal punto di vista empirico, come se la compassione fosse una semplice istituzione naturale.

Ognuno vedrebbe allora chiaramente che per alleviare il più possibile le innumerevoli e varie sofferenze a cui la vita è esposta (alle quali nessuno può sfuggire del tutto), come pure per porre un contrappeso al bruciante egoismo (che riempie ogni essere e che spesso degenera in malvagità), la natura non avrebbe potuto fare nulla di meglio che impiantare nel cuore dell’uomo questo stupefacente dispositivo.

Grazie a esso la sofferenza di uno viene percepita e condivisa da un altro, e da esso si alza la voce che, secondo le circostanze, grida forte e chiaro: “Abbi pietà!”, oppure: “Aiuta!”.

Di sicuro, per il benessere di tutti, dalla reciproca solidarietà che nasce dalla compassione c’era da aspettarsi molto di più che da un rigido comandamento di un dovere astratto e generico, dedotto da rigorose considerazioni razionali e combinazioni di concetti. Da un simile comandamento, infatti, c’era da aspettarsi un successo ben minore, poiché per l’uomo comune i principi generali e le verità astratte sono del tutto incomprensibili: per lui conta solo ciò che è concreto.

Purtroppo l’umanità intera, ad eccezione di una piccolissima parte, è sempre stata incolta e continuerà necessariamente ad esserlo poiché il molto lavoro fisico, necessario e inevitabile per l’intera comunità, non consente di provvedere adeguatamente all’educazione dello spirito.

Invece, per destare la compassione (l’unica e comprovata fonte delle azioni non egoistiche, e vero fondamento della moralità) non c’è bisogno di alcuna conoscenza astratta. Basta solo la conoscenza intuitiva, la semplice comprensione del caso concreto, per destarla immediatamente senza alcuna mediazione da parte della ragione.

9. In piena sintonia con la precedente considerazione [la compassione poggia su una conoscenza intuitiva, non astratta], il fondamento che io ho attribuito all’etica mi lascia senza alcun predecessore di scuola filosofica.

Anzi, stando ai loro insegnamenti il mio fondamento sarebbe un paradosso, poiché parecchi di loro, ad esempio gli stoici214, Spinoza215 e Kant216, addirittura disapprovano e respingono la compassione.

Tuttavia il mio fondamento ha dalla sua parte l’autorità del più grande moralista dell’epoca moderna, come di sicuro è J. J. Rousseau, il profondo conoscitore del   cuore umano. Rousseau ha tratto la sua saggezza non dai libri ma dalla vita, e il suo insegnamento non è indirizzato alla cattedra, bensì all’umanità. Nemico dei pregiudizi e allievo della natura, è il solo al quale la natura ha conferito il dono di insegnare la morale senza essere noioso, dicendo la verità e toccando il cuore degli uomini.

Dopo essere stato in precedenza il più possibile stringato con le citazioni, mi permetterò ora di riportare alcuni passi di Rousseau a conferma della mia tesi.

Nel Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini Rousseau dice:

“C’è un altro principio, che Hobbes non ha colto e che è stato regalato all’uomo per mitigare, in alcune circostanze, la ferocia del suo egocentrismo e il desiderio estremo del proprio tornaconto: la spontanea ripugnanza alla sofferenza di un suo simile. Penso di non dovermi difendere da alcuna contraddizione se attribuisco all’essere umano un’unica virtù innata: la compassione. Su di essa deve convenire - senza alcuna remora - anche il più accanito detrattore di qualsivoglia umana virtù.

Mandeville ha capito che gli uomini, senza il dono naturale della compassione, sarebbero dei mostri ed a nulla servirebbe qualsiasi loro dottrina morale, ma non ha colto la forza della compassione come supporto della ragione. Solo dalla compassione derivano tutte le virtù sociali che lui attribuisce agli uomini. In effetti, cosa sono la generosità, la clemenza, l’umanità, la pietà verso i deboli, i colpevoli e la specie umana in generale?

La benevolenza e l’amicizia stesse risultano (se bene analizzate) prodotte dalla pietà costante indirizzata verso una precisa finalità. Volere che qualcuno non soffra coincide con il desiderare che sia felice. La compassione sarà massima quando lo spettatore si identificherà totalmente con colui che soffre. È quindi assolutamente certo che la compassione è un sentimento naturale il quale, mitigando dentro ogni individuo l’amore per sé stesso, concorre alla mutua conservazione di tutta la specie.

È la compassione che nello stato di natura tiene il posto delle leggi, dei costumi e delle virtù, con il vantaggio che a nessuno verrà la tentazione di disubbidire alla sua voce. È lei che farà desistere un prepotente selvaggio dal togliere a un bambino fragile, o a un vecchio infermo, i loro mezzi di sussistenza acquisiti a stento, fintanto che gli rimane la speranza di trovare i suoi altrove.

È lei che al posto della sublime massima della giustizia razionale: ‘fai agli altri quello che vorresti fosse fatto a te’, ispira in tutti gli uomini quest’altra massima della bontà naturale, meno perfetta ma probabilmente più utile della precedente: ‘fai il bene tuo causando il minor male possibile agli altri’. In una parola, è in questo sentimento naturale, più che nelle sottili argomentazioni, che va ricercata la ripugnanza che ogni uomo prova nel fare il male, a prescindere dalle massime apprese tramite l’educazione”.217

Si confronti con quanto Rousseau dice nello Emilio, dove tra l’altro afferma:

“In effetti come possiamo lasciarci muovere dalla compassione se non trasportandoci fuori di noi stessi fino a identificarci con l’essere che soffre, lasciando quasi il nostro essere per assumere quello dell’altro. Noi soffriremo tanto quanto crederemo che l’altro soffra. Non sarà dentro noi, ma dentro lui che proveremo dolore. Dobbiamo offrire al giovane degli oggetti sui quali possa agire la forza espansiva del suo cuore, affinché lo dilatino fino a comprendere gli altri. Deve potere incontrare se stesso fuori dal proprio Io ed evitare tutto ciò che incatena, contrae e restringe l’umano sé stesso”.218

Privo del sostegno di eminenti esponenti di scuole filosofiche posso solo allegare che i cinesi ammettono l’esistenza di cinque virtù cardinali (tschang) tra le quali la prima è la compassione (sin) e le altre quattro sono: la giustizia, la cortesia, la saggezza e la sincerità.219

Analogamente vediamo anche che presso gli Hindu, sui cippi eretti in memoria dei principi defunti, la compassione verso uomini e animali sta al primo posto tra le virtù attribuite loro. Pausania scrive che:

“Nell’Agorà di Atene c’è un altare della Pietà, alla quale gli Ateniesi - soli tra i Greci - rendono onore, considerandola la divinità più utile nella vita umana e nei cambiamenti di fortuna”.220

Di questo altare parla anche Luciano nel Timone. Un detto di Focione - tramandatoci da Stobeo - descrive la pietà come la cosa più sacra dell’uomo:

“Come da un tempio non si deve togliere un altare, così dal cuore umano non si deve rimuovere la pietà”.221

Nel libro Sapientia Indorum222 - traduzione greca del Pantscha Tantra - troviamo:

“Si dice infatti che la prima tra le virtù sia la compassione”.

Vediamo quindi che la sorgente della moralità è stata chiaramente riconosciuta in tutti i tempi e in tutti i paesi, tranne che in Europa, principalmente a causa del foetor judaicus [fetore giudaico] che qui pervade ogni cosa. Per loro ci deve essere assolutamente un comandamento del dovere, una legge morale, un imperativo, insomma un ordine o un comando, al quale si deve ubbidire. Da questa convinzione non vogliono recedere, né vogliono riconoscere che alla base di un simile comportamento c’è solo l’egoismo.

Senza dubbio alcune persone eccellenti hanno avuto l’intuizione della verità. È successo a Rousseau (come abbiamo precedentemente detto) e anche a Gotthold Ephraim Lessing, il quale in una lettera del 1756 scrive:

“L’uomo che più prova compassione è il migliore degli uomini, il più propenso alle virtù sociali e ad ogni manifestazione di grandezza d’animo”.

§ 20 Differenza morale dei caratteri

L'ultima domanda, la cui risposta potrà contribuire al completamento del fondamento dell’etica che abbiamo presentato, è:

“Da dove proviene la così grande differenza nel comportamento morale degli uomini?”.

Se la compassione è la molla di spinta fondamentale della genuina - ossia disinteressata - giustizia e dell’amore verso il prossimo, perché essa muove una determinata persona ma non un’altra? Può forse l’etica, una volta scoperta la molla di spinta morale, metterla anche in moto? Può l’etica trasformare una persona dura di cuore in una persona caritatevole, giusta e amorevole?

Certamente no. La differenza di carattere è innata e non può cambiare. La malvagità di una persona malvagia è innata, come i denti e le ghiandole velenifere di un serpente. Come il serpente non può cambiare denti e ghiandole, così anche il malvagio non può cambiare il proprio carattere. Velle non discitur [il volere non si impara] ha detto il precettore di Nerone.223

Platone dibatte a fondo nel Menone la questione della possibilità di apprendere la virtù. Egli riporta una frase di Teognide:

“Con tutti i tuoi insegnamenti, non potrai far diventare buono un uomo cattivo”.224

Platone giunge alla conclusione che:

“La virtù non è né per natura né per insegnamento; ma in coloro nei quali è presente, essa sopravviene per sorte divina, senza l’intervento dell’intelletto”.225

Mi sembra che la differenza tra fÚsei [fùsei: per natura] e qe…v mo…rv [théia mòira: per sorte divina] corrisponda quasi alla differenza tra ‘fisico’ e ‘metafisico’. Già Socrate, il padre dell’etica, aveva affermato (a quanto riferisce Aristotele nella Etica grande):

“Non dipende da noi essere buoni o cattivi”.226

Lo stesso Aristotele si esprime nel medesimo senso:

“Sembra infatti che per tutti gli uomini i tratti del carattere siano determinati dalla natura: è per nascita, infatti, che siamo giusti o saggi o coraggiosi, e così via”.227

Lo stesso convincimento troviamo chiaramente espresso negli antichissimi frammenti (forse non autentici) del pitagorico Archita, che Stobeo ci ha conservato (in dialetto dorico) nella sua Antologia:

“Le virtù che si sviluppano da argomentazioni e dimostrazioni, dovrebbero piuttosto essere chiamate conoscenze, mentre la vera virtù è quell’ottima disposizione morale della parte irrazionale della nostra anima, per la quale gli altri dicono che abbiamo una certa qualità, per esempio che siamo generosi o giusti o saggi”.228

Se si esaminano tutti i vizi e le virtù che Aristotele ha raccolto in rapida rassegna nel De virtutibus et vitiis, vediamo che entrambi possono essere considerati facoltà innate, anzi solo così risultano autentici. Se invece, in  seguito alla riflessione razionale venissero praticati di proposito, saprebbero di simulazione e mancherebbero di genuinità. Per questo, nell’urgenza delle circostanze non si potrebbe affatto contare sulla loro persistenza e conferma. Non diversamente succede anche alla virtù dell’amore per il prossimo, che Aristotele - come tutti gli antichi filosofi - non prende neppure in considerazione.

Nello stesso senso - anche se con il suo tipico scetticismo - Montaigne dice:

“Sarà poi vero che per essere assolutamente buoni dobbiamo esserlo grazie a una proprietà occulta, naturale e universale, senza legge, senza ragione e senza esempio?”.229

Lichtenberg afferma a chiare lettere:

“Essere virtuosi di proposito serve ben poco. Ci vuole sentimento o disposizione congenita”.230

Anche la dottrina originale del cristianesimo è in accordo con questa visione. Infatti, nel Discorso della montagna si dice:

“L’uomo buono tira fuori il bene dalla ricca riserva che ha in cuore, mentre l’uomo cattivo, dalla sua riserva di cattiveria, tira fuori il male”.231

Nei due versetti che precedono quest’ultima frase questo concetto viene anticipato, in maniera figurata, con l’immagine di un determinato frutto prodotto regolarmente da un determinato albero.232

Tuttavia il primo a chiarire perfettamente questo importante punto è stato Kant, con la sua grande dottrina del carattere empirico e del carattere intelligibile. Alla base del carattere empirico, il quale - in quanto fenomeno - si manifesta nel tempo in una molteplicità di azioni, sta il carattere intelligibile, il quale, invece, costituisce la ‘cosa in sé’ di quel fenomeno.233

Come tale, il carattere intelligibile è indipendente dal tempo, dallo spazio, dalla pluralità e dal cambiamento. Solo con questa dottrina si spiega la sorprendentemente ferrea invariabilità del carattere, ben nota a ogni persona con un minimo di esperienza.

La realtà e l’esperienza hanno sempre contrapposto, con successo, l’invariabilità del carattere alle promesse di una morale che vorrebbe migliorare l’uomo e che parla di progresso nel campo della virtù, e hanno così dimostrato che la virtù è innata e non può essere acquisita tramite le prediche.

Ma supponiamo pure che il carattere originario possa essere mutato e che l’uomo possa migliorare tramite le correzioni, frutto di una migliore conoscenza. Supponiamo anche che sia possibile migliorare il carattere tramite la morale in un ‘costante progresso verso il bene’, come quell’etica superficiale afferma.

In questo caso non sarebbe possibile che le numerosissime istituzioni religiose e tutte le campagne moralizzatrici abbiano fallito il loro obiettivo. In media, infatti, almeno la metà più anziana degli uomini dovrebbe essere significativamente migliore della più giovane. Di questa differenza peró non si trova alcuna traccia. Al contrario. Spesso ci aspettiamo qualcosa di buono più dai giovani che dai vecchi, che la vita di solito rende peggiori.

Certo, può succedere che nella vecchiaia qualcuno sembri un poco migliore e qualcun altro, invece, un poco peggiore di quanto lo fosse in gioventù. Ma questo dipende semplicemente dal fatto che nella vecchiaia, in seguito alla conoscenza più matura e ripetutamente rettificata, il carattere di una persona si manifesta in maniera più limpida e chiara. In gioventù invece l’ignoranza, gli errori e le chimere, talvolta pongono in primo piano dei falsi motivi e nascondono quelli veri.234

Che tra i delinquenti definitivamente condannati dalla Giustizia ci siano più giovani che vecchi deriva dal fatto che, se esiste una predisposizione nel carattere verso simili imprese, presto essa trova l’occasione per manifestarsi di fatto, raggiungendo così il suo obiettivo, oppure la galera e il patibolo.

Viceversa se le occasioni, capitate nel corso di una lunga vita, non sono riuscite a spingere una determinata persona a commettere alcun crimine, in seguito quella persona non troverà facilmente motivi per farlo. Per questo mi sembra che la vera ragione del rispetto tributato alla vecchiaia consista nell’aver superato con successo la prova di una lunga vita, dimostrando così la propria integrità morale.

Questa è in effetti la condizione necessaria per riscuotere rispetto. In accordo con questo modo di vedere le cose, nella vita pratica nessuno si è mai lasciato ingannare dalle promesse dei moralisti. Al contrario. Nessuno confida più in chi ha agito male una sola volta, mentre tutti guardano sempre con fiducia alla nobiltà d’animo di chi una volta ha dato prova di averne, nonostante tutti i cambiamenti che possono essere sopraggiunti.

Operari sequitur esse [l’operare è conseguenza dell’essere] è una feconda affermazione della scolastica. Ogni cosa al mondo agisce secondo l’immutabile natura che costituisce il suo essere e la sua essentia [essenza]. Lo stesso succede anche con l’uomo: come uno è così agisce, anzi così deve agire. Il liberum arbitrium indifferentiae [il libero arbitrio di indifferenza] è una invenzione del periodo infantile della filosofia già da molto tempo smentita, che tuttavia alcune vecchie donnicciole, con il tocco di professore, si compiacciono ancora di trascinarsi dietro.

Le tre principali molle di spinta morale dell’uomo - ossia l’egoismo, la malvagità e la compassione - sono presenti in ogni individuo in proporzioni incredibilmente diverse. A seconda di queste proporzioni, determinati motivi avranno effetto su di lui e determinate azioni verranno intraprese.

Su un carattere egoistico solo i motivi egoistici hanno effetto, cosicché i motivi che muovono alla compassione, o che spingono alla malvagità, non potranno prevalere su lui. Un simile individuo non sacrificherà il proprio interesse né per vendicarsi di un nemico, né per aiutare un amico.

Un altro carattere, invece, particolarmente sensibile ai motivi malvagi, spesso non avrà neppure timore di pesanti conseguenze sfavorevoli per la propria persona, pur di fare del male agli altri. Esistono infatti dei caratteri che provano un tale piacere nel procurare sofferenze agli altri, da vincere le proprie altrettanto grandi sofferenze

“... pur di fare del male a un altro, senza preoccuparsi di se stesso”.235

Simili individui affrontano con morboso piacere una battaglia dove prevedono di causare grandi ferite e di subirne altrettanto grandi. Addirittura - come l’esperienza ha spesso dimostrato - vogliono deliberatamente uccidere chi ha fatto loro del male e subito dopo uccidere anche sé stessi, per sfuggire alla punizione.

La bontà di cuore, invece, consiste in una pietà universale, profondamente sentita verso tutti gli esseri dotati di vita, soprattutto verso gli uomini. Infatti, con l’aumentare del grado di intelligenza aumenta anche, di pari passo, la sensibilità al dolore. Pertanto le numerose sofferenze spirituali e corporali dell’uomo destano compassione molto più del dolore solamente fisico - ed anche più ottuso - degli animali.

La bontà di carattere impedirà innanzitutto di ledere in qualsiasi modo gli altri e poi spingerà anche a prestare aiuto, ogni qualvolta si troverà di fronte alla sofferenza altrui.

Anche in questo campo si può giungere all’estremo (come succede in direzione opposta con la malvagità) quando un carattere di rara bontà prende maggiormente a cuore la sofferenza altrui che la propria, fino a compiere un sacrificio in favore dell’altro che farà soffrire lui stesso più di quanto l’altro stesse effettivamente soffrendo, prima del suo aiuto.

Quando poi si tratta di aiutare più di una o molte persone, egli giungerà eventualmente fino a sacrificare la propria vita, come ha fatto Arnold von Winkelried. Müller racconta che, nel v secolo, Paolino, vescovo di Nola, durante l’incursione dei Vandali dall’Africa in Italia:

“... dopo aver consegnato, per riscattare i prigionieri, tutti i tesori suoi, della sua chiesa e dei suoi amici, quando vide lo strazio di una vedova, alla quale avevano portato via l’unico figlio, offrì sé stesso in cambio come schiavo. In quel tempo, chiunque fosse in età utile e non fosse caduto sotto la spada, veniva portato come prigioniero a Cartagine”.236

A seconda di quella differenza incredibilmente grande, innata e originaria, ognuno verrà prevalentemente mosso dai motivi verso i quali lui stesso possiede una spiccata sensibilità. Esattamente come una determinata sostanza reagisce solo con gli acidi, mentre un’altra solo con gli alcali. Come le sostanze chimiche, neppure il carattere può cambiare.

I motivi filantropici, che esercitano una spinta così potente su un carattere buono, non hanno invece, come tali, alcun effetto su chi è sensibile solo ai motivi egoistici. Se si volesse indurre un simile carattere a compiere delle azioni filantropiche, sarà possibile solo con il miraggio che l’attenuazione della sofferenza altrui porterà anche, in qualche modo, un proprio vantaggio.

In fin dei conti, la maggior parte delle dottrine morali non sono altro che tentativi vari in questo senso.

In questo modo la sua volontà viene semplicemente sviata, non migliorata. Per un reale miglioramento sarebbe necessario cambiare completamente la sua sensibilità verso i motivi. Ad esempio, facendo in modo che uno non sia più indifferente al dolore altrui, che un secondo non provi più piacere nel causare sofferenze, che ad un terzo il minimo incremento del proprio benessere non prevalga e non neutralizzi ogni altro motivo.

Ma tutto questo è certamente ancora più impossibile che tramutare il piombo in oro, poiché richiederebbe che allo stesso tempo - per così dire - si rovesciasse il cuore nel petto dell’uomo e si ricreasse il suo animo nel più profondo.

Il massimo che si può fare, invece, è illuminare la mente, migliorare la comprensione, portare l’uomo a una più corretta conoscenza di ciò che esiste oggettivamente e dei veri rapporti della vita. Con questo non si fa altro che permettere alla natura della propria volontà di manifestarsi in maniera più coerente, chiara e netta, e di esprimersi in maniera autentica.

In effetti, come parecchie buone azioni si basano su falsi motivi o su vane - anche se bene intenzionate - promesse di vantaggi personali in questo o nell’altro mondo, così anche parecchie cattive azioni si basano semplicemente su una falsa conoscenza dei rapporti della vita umana.

Su questo principio si basa il sistema penitenziario americano. Esso si propone non di cambiare il cuore di un delinquente, ma semplicemente di mettergli la testa a posto, così da fargli capire che il lavoro e l’onestà sono un cammino verso il proprio bene, più sicuro e addirittura più facile del crimine.

Facendo leva sui motivi si può costringere alla legalità, ma non certo alla moralità. Si può cambiare il comportamento ma non la volontà, alla quale soltanto spetta il valore morale. Non si può cambiare l’obiettivo al quale la volontà aspira, bensì solo il cammino che la volontà deve percorrere per raggiungerlo.

L’educazione può cambiare la scelta dei mezzi, ma non gli obiettivi finali. Questi sono stabiliti per ciascuno dalla propria volontà, in conformità alla propria originaria natura. Ad un egoista si può mostrare che, rinunciando ad alcuni piccoli vantaggi, potrebbe ottenere vantaggi maggiori. Al malvagio si può mostrare che, nel procurare sofferenze ad altri, potrebbe causare maggiori sofferenze a sé stesso. Tuttavia non si può convincere nessuno a rinunciare all’egoismo e alla malvagità, esattamente come non si può convincere il gatto a rinunciare al suo istinto di cacciare il topo.

Tramite l’aumento della comprensione e la spiegazione dei veri rapporti della vita - ossia, l’illuminazione della mente - persino la bontà di carattere può essere sollecitata a manifestare in maniera più conseguente e perfetta la propria essenza.

Ad esempio, mostrando le conseguenze remote che le nostre azioni potrebbero avere sugli altri, come le sofferenze che potrebbero derivare, indirettamente o anche con il semplice trascorrere del tempo, da questa o da quella azione, che noi non ritenevamo poi così cattiva. Così pure illustrando le conseguenze deleterie di parecchie buone azioni, come, ad esempio, tralasciare di punire un criminale, e sottolineando la precedenza da attribuire sempre al neminem laede [non fare del male a nessuno] rispetto allo omnes juva [aiuta tutti].

In ogni caso, in questo senso esiste solo un’educazione morale e un’etica che aiuta a migliorare. Altre possibilità non esistono, e il limite lo si riconosce chiaramente. La testa viene rischiarata, ma il cuore rimane sempre lo stesso.

La cosa fondamentale ed essenziale che fa la differenza nel campo della moralità - come pure nel campo dell’intelligenza e delle capacità fisiche - è l’innato: l’artificioso può al massimo offrire solo un sostegno.

Ognuno è quello che è, direi quasi ‘per grazia di Dio’, jure divino, fÚsei, qe…v mo…rv [fùsei, théia mòira: per natura, per sorte divina].

“Tu sei alla fin fine ... quello che sei.
Poniti in capo una parrucca con millantamila ricci
ed ai piedi zoccoli alti tre gran palmi,
ma tu rimarrai pur sempre quello che sei”.237

Già da tempo sento il lettore porre la domanda: «Dove stanno allora la colpa e il merito?». Per la risposta lo rinvio al paragrafo § 10. Là ha già trovato posto ciò che dovrei dire ora qui, in stretta relazione con la dottrina di Kant sulla coesistenza della libertà e della necessità. Lo invito quindi a rileggere quanto è già stato scritto. In conformità a quella dottrina, con il subentrare dei motivi lo operari [l’operare] diventa assolutamente necessario. Pertanto la libertà - che si annuncia esclusivamente tramite la responsabilità - può stare solo nello esse [essere].

È vero che i rimproveri della coscienza riguardano innanzitutto ed evidentemente ciò che abbiamo fatto, ma essenzialmente e fondamentalmente riguardano ciò che siamo. In realtà le nostre azioni sono solo una valida testimonianza e stanno con il nostro carattere nello stesso rapporto in cui stanno i sintomi con la malattia. Nello esse, in ciò che siamo, deve stare anche la colpa o il merito.

Ciò che negli altri stimiamo e amiamo, oppure disprezziamo e odiamo, non è qualcosa di mutevole e variabile, bensì di stabile e duraturo in eterno: ciò che loro sono. Se per caso dovessimo ravvederci al riguardo, non diremmo che sono cambiati loro, bensì che ci siamo sbagliati noi.

Così pure l’oggetto della soddisfazione, o dell’insoddisfazione, nei nostri confronti è ciò che noi siamo, ciò che irrevocabilmente siamo e restiamo. Lo stesso vale anche per le doti intellettuali e addirittura per le caratteristiche fisionomiche. Come potrebbe allora la colpa, o il merito, non stare in ciò che siamo?

La coscienza è la conoscenza che si va sempre più perfezionando di noi stessi, il protocollo dei fatti che si va via via riempiendo. Il tema dibattuto all’interno della nostra coscienza sono innanzitutto le nostre azioni. Più precisamente, quelle in cui non abbiamo prestato ascolto alla compassione (che ci chiedeva perlomeno di non fare del male agli altri, o addirittura di prestare loro aiuto e assistenza) poiché eravamo guidati dall’egoismo o addirittura dalla malvagità. Oppure quelle azioni in cui abbiamo dato ascolto a quell’appello, ripudiando l’egoismo e la malvagità.

Entrambi i casi dimostrano quanto grande sia la differenza che facciamo tra noi e gli altri. In questa differenza consiste, in fin dei conti, il nostro grado di moralità o di immoralità, ossia di giustizia e d’amore verso il prossimo, oppure del loro contrario.

La memoria sempre più ricca delle azioni da questo punto di vista significative va a completare sempre più il quadro del nostro carattere e la conoscenza vera di noi stessi. Da questa conoscenza sorge poi la soddisfazione, o l’insoddisfazione, personale di ciò che siamo, a seconda che abbia prevalso l’egoismo e la malvagità oppure la compassione, ossia, a seconda che la differenza che noi abbiamo fatto tra noi stessi e gli altri sia stata maggiore o minore.

Con questo stesso metro noi giudichiamo anche gli altri, il cui carattere arriviamo a conoscere per via empirica, come il nostro, seppure in maniera meno perfetta. E allora sorge l’elogio, il plauso e la stima, oppure il biasimo, l’indignazione e il disprezzo.

Queste sono reazioni che nel giudizio di noi stessi si traducono in soddisfazione oppure in insoddisfazione, la quale può arrivare fino all’angoscia.

Molti modi di dire comuni testimoniano che anche i rimproveri, che noi facciamo agli altri, fanno riferimento solo apparentemente alle loro azioni bensì al loro carattere immutabile, e che la virtù o il vizio sono considerati qualità permanenti, inerenti al carattere.

Ad esempio: ‘adesso vedo come sei!’, ‘sul tuo conto mi sono sbagliato’, now I see what you are! [adesso vedo cosa sei!], voilà donc, comme tu es! [ecco dunque come sei!], ‘io non sono così!’, ‘io non sono la persona capace di colpire alle spalle!’. E inoltre: les âmes bien nées [le anime ben nate], in spagnolo bien nacido [ben nato], eÙgen»j [eughenés: nobile, generoso], eÙgšneia [eughéneia: nobiltà, generosità], generosioris animi amicus [un amico dall’animo più generoso], ecc.

La coscienza è condizionata dalla ragione solo per il fatto che la ragione le permette di ricordare in modo più chiaro e circostanziato. È naturale che la coscienza parli solo dopo che il fatto sia avvenuto: per questo vien anche detta ‘coscienza giudicante’. Prima che il fatto avvenga la coscienza può parlare solo in senso improprio, ossia indirettamente, con l’annunciare, grazie alle considerazioni tratte dal ricordo di precedenti azioni simili, la propria futura disapprovazione di una determinata azione, che per il momento viene solo progettata.

Questo per quanto riguarda l’aspetto etico della coscienza. Questo aspetto rimane comunque un problema metafisico, che esula dal presente compito, ma verrà toccato nell’ultimo paragrafo.

La sensibilità estremamente diversa, tra le diverse persone, nei confronti dei motivi dell’egoismo e della malvagità, oppure della compassione (sulla quale poggia il valore morale dell’uomo) è qualcosa di innato e di immutabile. Questa sensibilità non può essere spiegata con qualcosa, non può essere conseguita tramite l’educazione, non può sorgere nel tempo, mutare o addirittura dipendere dal caso.

Questo è in perfetto accordo con il ben noto fatto che la coscienza è semplicemente la conoscenza empirica, tramite le azioni compiute, del proprio carattere immutabile. Pertanto il corso stesso della vita, con tutte le sue molteplici vicissitudini, non è altro che il quadrante esterno di un meccanismo primario interno, oppure lo specchio nel quale appare chiaramente, all’intelletto di ognuno, l’essenza della propria volontà, ossia del proprio intimo nucleo.

Chi si vuol dar la pena di riflettere su ciò che ho detto in questo e nel paragrafo § 10, scoprirà nella mia fondazione dell’etica una coerenza e una integrazione perfetta che agli altri sistemi etici manca. Troverà inoltre una perfetta corrispondenza con i dati di fatto dell’esperienza, che agli altri manca ancora di più.

Solo la verità, infatti, può stare continuamente in perfetto accordo con sé stessa e con la natura. Le false teorie invece si contraddicono al loro interno con sé stesse e all’esterno con l’esperienza, la quale ad ogni passo inoltra la sua silenziosa protesta.

A questo punto mi rendo perfettamente conto - senza tuttavia provare alcun rimorso o dispiacere - che le verità qui dedotte cozzano frontalmente contro molti pregiudizi ed errori radicati nella morale corrente, adatta per gli scolaretti. Ma innanzitutto io qui non sto parlando né ai bambini né alla gente comune, ma ad un’accademia illuminata, il cui quesito, puramente teorico, riguarda le verità fondamentali dell’etica.

Ad una domanda estremamente seria un’accademia illuminata si aspetta una risposta altrettanto seria. In secondo luogo ritengo che non esistano errori privilegiati, errori utili o errori addirittura innocui, bensì che ogni errore provochi infinitamente molti più danni che benefici.

Se si volesse invece che gli attuali pregiudizi diventino il metro di misura e la pietra di confine oltre la quale non si possa esporre la verità, sarebbe più onesto lasciare che le facoltà e le accademie di filosofia vadano scomparendo, poiché ciò che non è, non deve neppure sembrare.

iv - Interpretazione metafisica del fenomeno originario dell’etica

§ 21 Chiarimento riguardo a questa appendice

Precedentemente ho dimostrato che la molla di spinta morale [la compassione] è un dato di fatto e che solo da essa possono scaturire la giustizia disinteressata e il genuino amore verso il prossimo. Su queste due virtù cardinali poggiano poi tutte le altre virtù.

Per la fondazione dell’etica questo è sufficiente, poiché l’etica deve essere necessariamente sostenuta da qualcosa che esiste di fatto, riscontrabile nel mondo esterno o nell’intimo della propria coscienza. Altrimenti si farebbe come la maggior parte dei miei predecessori, i quali hanno postulato arbitrariamente un principio astratto e da quello hanno poi dedotto le prescrizioni morali, oppure, come ha fatto Kant, il quale è partito dal semplice concetto di legge.

Mi sembra che quanto esposto nei precedenti paragrafi sia sufficiente per adempiere il compito posto dalla Reale Società, focalizzato sul fondamento dell’etica ma senza pretese di una metafisica, la quale, a sua volta, motivasse il fondamento.

Tuttavia mi rendo perfettamente conto che con questo lo spirito umano non può sentirsi soddisfatto e appagato fino in fondo. Come alla fine di ogni ricerca scientifica nell’ambito del mondo reale, anche nel campo dell’etica lo spirito umano si trova di fronte a un fenomeno originario il quale, nonostante riesca a chiarire tutto quanto lo concerne e le sue conseguenze, rimane di per sé inesplicato e si presenta come un enigma.

Anche qui sorge l’esigenza di una metafisica, ossia di una spiegazione ultima dei fenomeni originari come tali e, nel loro complesso, del mondo. Questa esigenza solleva la domanda del perché ciò che osserviamo e comprendiamo sia così e non in un altro modo, e di come dall’essenza in sé delle cose scaturisca un determinato carattere del fenomeno.

Anzi, per l’etica l’esigenza di una fondazione metafisica è ancora più impellente, dal momento che tutti i sistemi filosofici, come pure quelli religiosi, sono d’accordo sul fatto che il significato etico delle azioni debba essere anche metafisico, ossia andare ben oltre il semplice fenomeno delle cose e ogni possibile esperienza, e stare in stretto rapporto con l’esistenza del mondo intero e con il destino dell’uomo.

Tutti, infatti, ammettono che l’ultima vetta, sulla quale il significato dell’esistenza si compie, è senza dubbio l’etica. Questa convinzione è dimostrata anche dal fatto inconfutabile che, all’avvicinarsi della morte, il corso dei pensieri di ogni uomo - indipendentemente dal credere o meno in dogmi religiosi - prende un indirizzo etico, cosicché ognuno si sforza di tirare le somme del corso della propria vita soprattutto dal punto di vista morale. A questo proposito valgono soprattutto le testimonianze degli antichi, poiché esenti da ogni influsso cristiano.

Ricordo pertanto che questo dato di fatto è già stato riportato in un passo, che Stobeo ci ha conservato, attribuito all’antichissimo legislatore Zaleuco (Bentley e Heine, invece, lo attribuiscono a un pitagorico):

“Ciascuno dovrebbe avere sempre ben presente il momento in cui se ne andrà da questa vita. Infatti, tutti coloro che stanno per morire sono presi dal pentimento al pensiero delle ingiustizie commesse, e vorrebbero essersi comportati sempre in modo giusto”.238

Così pure - per citare un esempio storico - Pericle, sul letto di morte, non volle sentir parlare delle sue grandi imprese, ma solo del fatto di non aver mai fatto soffrire nessun ateniese.239

Per citare un fatto molto più prosaico del precedente, mi viene in mente il resoconto delle dichiarazioni, di fronte ad una giuria inglese, di un semplice quindicenne di colore. Questi, in procinto di morire a causa delle ferite subite in una rissa su una nave, mandò a chiamare di fretta tutti i suoi compagni, per chiedere loro se lui li avesse mai umiliati od offesi. Ricevuta una risposta negativa, provò una grande pace nell’animo.

Ripetutamente l’esperienza ci mostra che i moribondi, prima della definitiva separazione, desiderano riconciliarsi con tutti.

Una ulteriore prova della tesi che l’etica deve avere un fondamento metafisico è fornita da un ben noto fatto sperimentale. Mentre per una prestazione di tipo intellettuale - anche se fosse il massimo capolavoro del mondo - l’autore sarebbe anche disposto ad accettare volentieri una ricompensa, qualora gli venisse offerta, quasi tutti coloro che hanno compiuto qualcosa di moralmente eccellente non sono invece disposti ad accettare alcuna ricompensa.

Questo è proprio il caso delle grandi azioni morali come, ad esempio, quando uno salva la vita di una o più persone, mettendo a rischio la propria. Di solito, anche se si tratta di un povero, l’autore del gesto eroico non è disposto ad accettare alcuna ricompensa, poiché si rende perfettamente conto che con questa il valore metafisico della sua azione verrebbe menomato. Bürger, nella conclusione della Ballata dell’uomo coraggioso240, descrive poeticamente questo comportamento.

È una cosa che succede così spesso nella realtà, che l’ho riscontrata più volte sui giornali inglesi. Simili eventi sono comuni ed avvengono senza alcuna distinzione di religione.

A causa di questa innegabile tendenza etico-metafisica della vita, nessuna religione al mondo potrebbe stare in piedi senza fornire una spiegazione del significato etico dell’esistenza. La religione, infatti, ha nel suo aspetto morale il punto di aggancio nell’animo dei fedeli.

Ogni religione pone il proprio dogma alla base dell’impulso morale che l’uomo percepisce spontaneamente, anche senza esserne consapevole, e ve lo lega così stretto, che dogma e impulso morale sembrano quasi inseparabili. I preti addirittura si preoccupano di spacciare la mancanza di fede e l’immoralità come una sola e identica cosa. Per questo motivo, per chi crede in una religione il termine ‘non credente’ equivale a ‘moralmente cattivo’. Attributi come ‘senza Dio’, ‘ateo’, ‘pagano’, ‘eretico’ e simili, sono comunemente usati come sinonimi di ‘moralmente depravato’.

Per le religioni la spiegazione metafisica dell’impulso etico è abbastanza semplice, poiché, partendo dalla fede, possono pretendere che il fedele, sotto la minaccia di una pena futura, creda anche nel loro dogma religioso.

Ma per i sistemi filosofici il gioco non è altrettanto facile. Se andiamo ad esaminare i diversi sistemi vediamo che per tutti le cose vanno piuttosto male, sia riguardo al fondamento dell’etica, sia riguardo al punto di aggancio della loro etica con la loro metafisica. Tuttavia la necessità di poggiare l’etica sulla metafisica non può essere elusa, come ho già sottolineato nell’introduzione tramite le autorevoli parole di Wolff e di Kant.

Purtroppo il problema della metafisica è il più difficile dei problemi che assillano lo spirito umano a tal punto, che molti pensatori lo ritengono semplicemente insolubile.

In questo trattato mi trovo di fronte anche al particolare svantaggio che la struttura di una monografia isolata comporta, la quale mi impedisce di partire dal determinato sistema metafisico in cui credo. Dovrei infatti o esporlo, il che sarebbe troppo lungo, oppure darlo per noto, il che sarebbe molto improbabile.

Quindi, riguardo al tema specifico del principio metafisico dell’etica, non posso utilizzare il metodo sintetico [deduttivo (dal principio verso le conseguenze)] come ho fatto nei precedenti paragrafi, ma solo quello analitico [induttivo], ossia dovrò procedere a ritroso dalle conseguenze verso il principio.

La dura necessità di dover procedere senza alcuna premessa e partire da nessun altro punto che non sia comune a tutti, mi ha già reso molto difficile l’esposizione del fondamento dell’etica. Andando a rivedere ciò che ho fatto (nei paragrafi precedenti) mi sembra di aver realizzato a mano libera un complesso artefatto, che di solito viene realizzato con l’ausilio di specifici strumenti.

Ora che è stata sollevata la questione della spiegazione metafisica del fondamento della morale, la difficoltà di dover procedere senza dar nulla per scontato diventa così grande, che non vedo altra soluzione se non quella di accontentarmi di fare un abbozzo del tutto generico. Faró più accenni che dimostrazioni, mostrerò la strada che porta al traguardo ma senza seguirla fino in fondo, e soprattutto dirò solo una piccola parte di quanto, in altre circostanze, dovrei mettere in evidenza.

Nel procedere in questo modo faccio appello, oltre alle precedenti ragioni, anche al fatto che il compito originariamente assegnato è già stato risolto nei precedenti paragrafi. Quello che sto per compiere ora è solo una opus supererogationis [opera di super-erogazione (fatta volontariamente ben al di là di quanto richiesto)] un contributo supplementare da dare e da prendere a piacere.

§ 22 Fondamento metafisico

Ora dobbiamo abbandonare il solido terreno dell’esperienza, che finora ha sostenuto tutti i nostri passi, per cercare l’ultima spiegazione teorica in quel campo dove l’esperienza non ha alcuna possibilità di spingersi. Sarà una fortuna se riusciremo a trovare anche un solo indizio o intravedere fugacemente qualcosa, di cui potremo in una certa misura contentarci.

Ma ciò che non ci deve abbandonare è l’onestà del procedimento che abbiamo rispettato finora. Noi non cadremo in fantasticherie, non scodelleremo favole, non stupiremo con belle parole e non getteremo sabbia negli occhi del lettore, come suol fare la cosiddetta filosofia post-kantiana. Promettiamo solo poche cose, ma onestamente presentate.

Quello che finora è stato il motivo chiarificatore, ora diventa il nostro problema: la compassione naturale, innata e inestinguibile nell’uomo. Questa - come abbiamo visto - è l’unica sorgente delle azioni non egoistiche e solo ad essa spetta il valore morale.



Molti filosofi moderni trattano i concetti di ‘buono’ e di ‘cattivo’ come se fossero concetti elementari, che non necessitano e non si prestano ad alcuna spiegazione. Poi parlano - di solito in maniera trasognata e misteriosa - di una ‘idea del bene’ sulla quale poggiano la loro etica, o perlomeno con la quale tentano di coprire, come con un mantello, le sue lacune.241

Questo mi costringe subito a chiarire che questi concetti non sono affatto elementari, né tantomeno a priori, bensì esprimono una determinata relazione e sono tratti dall’esperienza quotidiana.

Tutto ciò che è conforme alle aspirazioni di una volontà individuale qualsiasi viene detto ‘buono’ in relazione a questa volontà. Ad esempio, un buon mangiare, un buon cammino, un buon presagio. Il contrario è detto ‘cattivo’, oppure ‘malvagio’ se si riferisce a esseri viventi. Un uomo che, in virtù del proprio carattere, non ostacola le aspirazioni degli altri, anzi per quanto possibile si rende disponibile, li favorisce e asseconda, che non li lede, ma che piuttosto, quando può, presta loro aiuto e assistenza, viene definito dagli altri (ossia, dal loro punto di vista ): un uomo ‘buono’.

Il concetto di ‘buono’ viene quindi usato dal punto di vista relativo, empirico e specifico del soggetto che beneficia di una determinata azione.

Ora però vogliamo esaminare il carattere di un uomo ‘buono’ non solo dal punto di vista degli altri, bensì dal proprio. Da quanto precedentemente detto, sappiamo che ciò che fa scaturire in lui le virtù della giustizia e dell’amore per il prossimo è l’immediata partecipazione alle vicissitudini degli altri, la cui sorgente (come abbiamo visto) è la compassione.

Se risaliamo al tratto essenziale di un carattere di questo tipo scopriremo facilmente che esso fa minore differenza tra sé e gli altri di quanto si suol comunemente fare. Agli occhi di un uomo dal carattere malvagio, invece, la differenza tra sé e gli altri è così grande, che per lui la sofferenza degli altri è un piacere immediato a cui ambire anche senza alcun ulteriore vantaggio personale, anzi a volte addirittura a proprio svantaggio.

Agli occhi di un egoista quella differenza è ancora abbastanza grande, poiché l’egoista, pur di procurarsi un piccolo vantaggio, è disposto a utilizzare mezzi che causano anche grandi danni agli altri.

Quindi, per il malvagio e per l’egoista esiste un ampio fossato, un’enorme differenza tra l’Io circoscritto alla propria persona e il non-Io esteso al resto del mondo. Pereat mundus, dum ego salvus sim [crolli pure il mondo, purché rimanga salvo io], è la loro massima.

Per l’uomo ‘buono’, invece, questa differenza non è così grande. Anzi, nelle azioni di un animo nobile questa differenza sembra addirittura cancellata, poiché egli promuove il bene degli altri a proprie spese e pone l’Io degli altri sullo stesso piano del proprio Io. Se poi ci fossero più persone da salvare, il proprio Io verrebbe completamente sacrificato e il singolo offrirebbe la propria vita per gli altri.

Sorge allora il seguente interrogativo: questa nobile concezione del nesso tra il proprio e l’altrui Io, che sta alla base delle azioni di una persona dal carattere buono, è forse sbagliata o fondata su un auto-inganno? O piuttosto è sbagliata la concezione opposta, sulla quale poggiano l’egoismo e la malvagità?

Dal punto di vista empirico, la concezione che sta alla base dell’egoismo è fortemente legittimata. Infatti, dal punto di vista dell’esperienza, la differenza tra la propria e l’altrui persona sembra essere assoluta. La differenza dello spazio che separa me dagli altri, mi separa anche dalle loro vicissitudini.

Tuttavia bisogna innanzitutto osservare che la conoscenza che abbiamo del nostro Io non è affatto completa, non è ben chiara fino in fondo.

Tramite l’intuizione ad opera del cervello, sulla base dei dati forniti dai sensi (quindi mediata), noi conosciamo il nostro corpo come un oggetto nello spazio. Tramite il senso interno conosciamo la sequenza continua delle nostre aspirazioni e degli atti della volontà che avvengono quando si presentano i motivi esterni, e infine gli svariati moti, più deboli o più forti, della nostra volontà, ai quali fanno riferimento tutti i sentimenti interni. Questo è tutto, poiché il conoscere stesso non viene affatto conosciuto.

Il vero e proprio substrato di tutto il nostro ‘fenomeno’ - ossia, la nostra intima ‘essenza in sé’, che vuole e che conosce - ci è inaccessibile. Noi vediamo solo verso l’esterno: verso l’interno è buio completo.

Quindi la conoscenza che abbiamo di noi stessi non è per nulla completa ed esauriente, bensì è molto superficiale. Addirittura, riguardo alla nostra parte più grande e importante, noi siamo degli sconosciuti a noi stessi, siamo un enigma. Come dice Kant:

“L’Io conosce sé stesso solo come fenomeno, non come ciò che l’Io può essere in sé”.

Riguardo all’altra parte [il fenomeno], quella che cade nell’ambito della nostra conoscenza, ognuno è completamente diverso dagli altri. Ma questo non implica che lo stesso valga riguardo alla parte più grande e importante, quella che a ognuno rimane nascosta e sconosciuta [la ‘cosa in sé’]. Riguardo a questa parte rimane perlomeno la possibilità che essa sia per tutti una sola e identica cosa.

Su cosa poggia la molteplicità e la sequenzialità degli esseri? Sullo spazio e sul tempo. Solo tramite questi sono possibili, poiché la molteplicità si lascia pensare e configurare solo nell’uno accanto all’altro o nell’uno dopo l’altro. Dal momento che l’insieme degli individui è costituito da una molteplicità di fenomeni dello stesso tipo, poichè essi rendono possibile questa molteplicità, io definisco lo spazio e il tempo come principium individuationis [principio di individuazione], senza preoccuparmi se fosse proprio questo il significato che gli scolastici attribuivano a questa espressione.

Se c’è qualcosa di assolutamente vero nelle conclusioni che il profondo e mirabile pensiero di Kant ha regalato all’umanità, questa è proprio l’estetica trascendentale, ossia la dottrina dell’idealità dello spazio e del tempo242. La motivazione fornita da Kant è talmente chiara, che nessuna plausibile obiezione ha mai potuto esserle mossa contro. Essa è il trionfo di Kant. È una delle rarissime dottrine metafisiche che si possono ritenere realmente dimostrate, una vera conquista nel campo della metafisica.

Secondo questa dottrina lo spazio e il tempo sono forme della nostra facoltà intuitiva: esse appartengono a questa facoltà, non alle cose conosciute tramite essa. [Kant ha dimostrato che] lo spazio e il tempo non possono essere determinazioni delle cose in sé, ma spettano solo al loro fenomeno, così come esso è possibile solo nella nostra coscienza del mondo esterno, la quale dipende da determinate condizioni fisiologiche.

Ma se lo spazio e il tempo sono estranei alla ‘cosa in sé’ - ossia alla vera essenza del mondo - estranea a essa è anche la molteplicità.

Quindi la ‘cosa in sé’ non può che essere una sola negli innumerevoli fenomeni di questo mondo dei sensi, cosicché in tutti i fenomeni si manifesta una sola e identica essenza. E viceversa: ciò che si configura come molteplice - quindi, nello spazio e nel tempo - non può essere ‘cosa in sé’, bensì solo fenomeno. Il fenomeno, come tale, è qualcosa che esiste solo per la nostra coscienza - la quale è limitata da molteplici condizioni e addirittura dipende da una funzione organica - e non può esistere al di fuori di essa.

Questa dottrina - che ogni molteplicità è solo apparente e che in tutti gli individui al mondo, anche se si presentano in numero infinito, in sequenza temporale e in distribuzione spaziale, si manifesta un unico e medesimo essere, presente, identico e veramente esistente in tutti loro - è apparsa molto tempo prima di Kant. Anzi, si potrebbe dire che è sempre esistita.

Innanzitutto è la dottrina principale e fondamentale del libro più antico del mondo, i sacri Veda, la cui parte dogmatica - o meglio, la cui dottrina esoterica - è esposta nelle Upanishad243. In quasi ogni pagina di questo libro troviamo questa grande dottrina. Essa viene instancabilmente ripetuta in innumerevoli modi e illustrata con diverse immagini e similitudini.

Senza dubbio questa dottrina stava anche alla base del pensiero di Pitagora (nonostante le scarse informazioni che ci sono giunte sulla sua filosofia). È risaputo che esclusivamente in questa dottrina era contenuta quasi tutta la filosofia della scuola eleatica. In seguito fu fatta propria dai neo-platonici, i quali insegnavano che:

“... data l’unità dell’universo, tutte quante le anime costituiscono una sola anima”.244

Nel secolo IX la vediamo sorprendentemente apparire in Europa ad opera di Scoto Eriugena, il quale, entusiasta di questa dottrina, si preoccupò di adornarla con le forme e le espressioni della religione cristiana. Tra i maomettani la ritroviamo come mistica ispirata dei Sufi. In occidente Giordano Bruno ha dovuto pagare con una morte straziante il fatto di non aver resistito all’impulso di affermare quella verità. Vediamo anche che i mistici cristiani - senza volerlo e senza alcun proposito - vengono irretiti da questa dottrina quando e dove la incontrano. Il nome di Spinoza poi si identifica con la dottrina stessa.

Finalmente ai nostri giorni, dopo che Kant ha distrutto il vecchio dogmatismo e ha lasciato il mondo sconvolto di fronte alle macerie fumanti, quella dottrina è stata di nuovo ridestata dalla filosofia eclettica [che segue principi o metodi di varia provenienza] di Schelling. Amalgamando le dottrine di Plotino, Spinoza, Kant e Böhme con i risultati della nuova scienza della natura, Schelling ha messo rapidamente insieme un tutto che potesse soddisfare temporaneamente le impellenti esigenze dei suoi contemporanei, rielaborandolo in seguito con alcune varianti. Grazie alla sua opera questa dottrina ha acquisito credito negli ambienti culturali tedeschi e si è diffusa quasi dappertutto, anche tra le persone di semplice istruzione.245

Unica eccezione sono gli attuali professori di filosofia, ai quali è stato assegnato il difficile compito di remare contro il cosiddetto panteismo. Trovandosi peró in grave difficoltà e imbarazzo, questi professori, nella loro angustia, fanno ricorso ai più penosi sofismi e alle frasi più roboanti per cucire insieme un decoroso costume carnevalesco, con il quale rivestire la loro prediletta filosofia da donnicciole.

In breve: lo ˜n kaˆ p©n [en kài pan: l’uno e il tutto] è stato in ogni tempo oggetto di scherno da parte degli stolti, ma di costante meditazione da parte dei saggi.

Eppure la rigorosa dimostrazione di questa dottrina si trova esclusivamente in Kant. Tuttavia Kant non l’ha esplicitamente formulata, ma - come sogliono fare gli esperti oratori - si è limitato a gettare le premesse, lasciando poi all’ascoltatore la soddisfazione di trarre personalmente le conclusioni. Secondo la dottrina di Kant la molteplicità e la diversità appartengono solo all’apparenza, mentre una sola, e la medesima, è l’essenza che si manifesta in ogni essere che vive.

Quindi la concezione che rimuove la differenza tra l’Io e il non-Io non è quella sbagliata. Sbagliata è la concezione opposta. Quest’ultima viene denominata dagli hindu con il nome di Maja, ossia: parvenza, inganno, miraggio.

La prima concezione è quella che - come abbiamo dimostrato - sta alla base del fenomeno della compassione, la quale è la sua espressione reale. La concezione secondo cui un individuo riconosce nell’altro immediatamente sé stesso, e la propria vera essenza, costituisce quindi la base metafisica dell’etica.

Pertanto la saggezza pratica, ossia il praticare la giustizia e l’amore verso il prossimo, si accorda perfettamente nel risultato con la più profonda dottrina del più avanzato sapere teoretico.

Il filosofo pratico - ossia il giusto, il benefattore dal nobile animo - esprime semplicemente nei fatti la medesima nozione che costituisce il risultato della massima profondità di pensiero e della più travagliata ricerca del filosofo teoretico. Oltretutto la sua perfezione morale è superiore a ogni sapienza teoretica. Quest’ultima infatti è sempre solo un’attività isolata, la quale, attraverso il lento cammino delle deduzioni, giunge al medesimo traguardo che il filosofo pratico invece raggiunge in un colpo solo.

L’uomo moralmente nobile, anche se spesso non molto dotato intellettualmente, dimostra con le proprie azioni di possedere la più profonda conoscenza e la somma saggezza, e riesce così a umiliare l’uomo più geniale e dotto, quando questi, nelle sue azioni, lascia intravedere che quella grande verità è rimasta estranea al suo cuore.

“L’individuazione è reale; il principium individuationis e la diversità degli individui, che da esso consegue, costituisce l’ordinamento delle cose in sé. Ogni individuo è un essere fondamentalmente diverso da tutti gli altri. Solo nel mio Io sta il mio vero essere. Tutti gli altri sono un non-Io e mi sono estranei”.

Questa è la nozione, la cui verità è testimoniata dalla carne e ossa, che sta alla base dell’egoismo e che si manifesta in pratica nel comportamento senza amore, ingiusto e malvagio.

“L’individuazione è solo un fenomeno che sorge dallo spazio e dal tempo, i quali non sono altro che le forme - condizionate dalla mia facoltà conoscitiva cerebrale - di tutti gli oggetti della conoscenza. Pertanto anche la molteplicità e la diversità degli individui sono solo apparenti, ossia sono presenti solo nella mia rappresentazione. La mia vera intima essenza esiste in ogni cosa che vive esattamente come essa si manifesta immediatamente nella mia autocoscienza solo a me stesso”.

Questa seconda nozione, invece - che in sanscrito viene continuamente ribadita con la formula tat-twam asi, ossia: ‘questo sei tu’ - è quella che si manifesta nella compassione, dalla quale nascono poi tutte le virtù autentiche, ossia disinteressate, e che si traduce in realtà tramite ogni buona azione.

A questa nozione, in ultima istanza, fa riferimento ogni appello alla mitezza, all’amore del prossimo e alla grazia, per ottenere giustizia, poiché essa è il monito a tener sempre presente che tutti gli esseri sono una sola e la medesima cosa.

Invece l’egoismo, l’invidia, l’odio, la persecuzione, la durezza di cuore, la vendetta, il compiacimento delle disgrazie degli altri e la crudeltà, derivano dalla prima nozione e lì si fermano.

La commozione e la gioia che proviamo nel sapere, ancor più nel vedere, ma soprattutto nel compiere noi stessi una nobile azione, si basa in fondo sul fatto che un simile evento ci dà la certezza che, al di là di ogni molteplicità e diversità tra gli individui (in conformità al principium individuationis) esiste realmente una loro unità, la quale è addirittura accessibile a noi, poiché si è concretizzata di fatto.

A seconda di possedere, o meno, una delle due opposte nozioni, tra un essere e l’altro si instaurano la fil…a [filìa: amore, affezione], oppure il ne‹koj [néikos: ostilità] di cui parla Empedocle.

Tuttavia chi, animato dal ne‹koj [néikos: ostilità], irrompesse fino nell’intimo più profondo del suo odiato nemico, vi scoprirebbe - con grande sorpresa - proprio sé stesso. Infatti, esattamente come noi stessi stiamo dentro tutte le persone che ci compaiono nel sogno, così pure succede da svegli, anche se questa non è una cosa altrettanto facile da capire. Eppure, tat-twam asi [questo sei tu].

Il prevalere di una, o l’altra, di quelle opposte nozioni non si manifesta solo nelle singole azioni, ma anche nel tipo di coscienza e nello stato d’animo, che per una persona dal buon carattere sono così radicalmente diversi da quelli di un cattivo carattere.

Un cattivo carattere avverte ovunque la presenza di un rigido muro che lo separa da tutto quanto sta fuori. Per lui il mondo è un assoluto non-Io e il suo rapporto con il mondo è di natura ostile, cosicché il tono fondamentale del suo stato d’animo è l’odio, la diffidenza, l’invidia e il compiacimento per le disgrazie altrui.

Il carattere buono, invece, vive in un mondo esterno omogeneo al proprio essere. Per lui gli altri non sono un non-Io, bensì un ulteriore Io. Il suo rapporto con gli altri è amichevole per natura. Egli si sente intimamente imparentato con tutti gli esseri, solidarizza immediatamente con le loro vicissitudini, dando per scontato che anche gli altri solidarizzino a loro volta come lui. Da qui sorge la profonda pace nel proprio intimo e quello stato d’animo fiducioso, tranquillo e soddisfatto, grazie al quale chiunque si sente bene vicino a lui.

Il cattivo carattere, quando si trova nel bisogno, non confida minimamente sull’assistenza degli altri. Se vi fa appello, lo fa senza contarci molto. Se la ottiene, la accoglie senza vera gratitudine, poiché non può concepirla in altro modo che come l’effetto della stupidità degli altri. È incapace di riconoscere la propria essenza in quella degli altri, anche dopo che questi gli hanno lanciato un segnale inequivocabile (questo è ciò che urta maggiormente dell’ingratitudine). L’isolamento morale in cui lui essenzialmente e inevitabilmente si trova, lo getta anche facilmente nella disperazione.

Il carattere buono, invece, farà appello con tanta sicurezza al soccorso da parte degli altri, quanto lui stesso è consapevole della propria disponibilità a offrirlo. Infatti, il mondo degli altri è per il malvagio un non-Io, mentre per il buono è un ulteriore Io. Il magnanimo che perdona il nemico e che ricambia il male con il bene è una persona sublime, degna della massima lode, perché ha saputo riconoscere il proprio stesso essere anche là, dove veniva decisamente negato.

Se esaminiamo bene a fondo, ogni azione veramente buona e ogni aiuto completamente disinteressato, motivati esclusivamente, in quanto tali, dal bisogno degli altri, sono davvero qualcosa di misterioso, un misticismo pratico, poiché scaturisce dalla medesima intuizione che costituisce l’essenza di ogni misticismo, impossibile da spiegare compiutamente in nessun altro modo.

Che uno faccia anche solo un’elemosina, senza minimamente mirare ad altro che alleviare il bisogno che opprime il prossimo, è un gesto possibile solo fintanto che uno intuisce di essere lui stesso colui che ora gli appare in quel penoso stato, quindi fintanto che uno riconosce il proprio essere anche in quel fenomeno estraneo.

Per questo, nel precedente paragrafo ho definito la compassione: il grande mistero dell’etica. Chi muore per la propria patria si è liberato dall’illusione che la propria esistenza sia limitata alla propria persona. Egli estende il proprio essere a tutti i suoi compatrioti e continua a vivere in loro, anche nelle future generazioni, per le quali egli si sacrifica. Così facendo egli considera la morte come un battito di ciglia, che tuttavia non interrompe la visione complessiva.

Chi, invece, ha sempre considerato gli altri come un non-Io, ritenendo che in fondo solo la sua persona fosse veramente reale, considerando gli altri solo come fantasmi, riconoscendo loro solo un’esistenza relativa, a seconda del fatto di assecondare o di contrastare i suoi fini, facendo una incommensurabile differenza e ponendo un profondo fossato tra la sua persona e tutto il non-Io, chi quindi è esistito esclusivamente per sé, con la morte vede affondare sé stesso, ogni realtà e il mondo intero.

Ma chi ha scorto in tutti gli altri - addirittura in ogni essere vivente - il proprio stesso essere, la cui esistenza è trascorsa assieme all’esistenza di ogni altro essere vivente, con la morte perde solo una piccola parte della propria esistenza. Egli continua ad esistere negli altri, nei quali ha sempre riconosciuto e amato sé stesso, facendo così svanire l’illusione che separava la propria coscienza da quella degli altri.

Da qui forse può sorgere - se non tutta, almeno in gran parte - la differenza nel modo in cui persone particolarmente buone, o prevalentemente malvagie, affrontano l’ora della morte.

In tutti i secoli questa semplice verità ha dovuto arrossire di vergogna - pur senza colpa - poiché era considerata un paradosso. Ma la verità non può assumere l’atteggiamento trionfante dell’errore universale, e allora guarda sospirando il suo divino protettore - il tempo - il quale le fa cenno che sarà proprio lei a vincere e a diventare famosa. Ma il battito delle ali del tempo è talmente grande e lento, che nel frattempo i suoi sostenitori sono morti.

Mi rendo perfettamente conto del paradosso che questa spiegazione metafisica del fondamento primordiale dell’etica deve rappresentare per le persone con una cultura occidentale, abituate a ben altri fondamenti dell’etica. Tuttavia non posso tacere la verità.

A questo proposito, posso comprovare con una citazione che questa metafisica dell’etica già da migliaia di anni costituiva la visione fondamentale della saggezza indiana, alla quale io mi riaggancio, come Copernico si è riagganciato al sistema cosmico dei Pitagorici, respinto da Aristotele e da Tolomeo. Nello Bhagavad Gita, infatti, si dice:

“Chi percepisce la presenza in tutte le creature viventi di uno stesso sommo Signore, che non perisce quando quelle periscono, percepisce il vero. Dunque, vedendo presente ovunque il medesimo Signore, evita di fare del male a sé stesso per propria colpa: e in questo modo prende la via del cielo”.246

Mi debbo accontentare di fare questi accenni riguardo alla metafisica dell’etica, sebbene rimanga da fare un passo ancora più significativo nella metafisica. Ma questo passo presuppone che anche nell’etica stessa si sia andati un passo avanti. Purtroppo così non è. In Europa il traguardo più alto dell’etica è rimasto confinato alla dottrina della giustizia e della virtù, e tutto quanto esce da questo ambito o è sconosciuto o non viene accettato. A questa necessaria omissione va quindi attribuito il fatto che il breve cenno, che abbiamo fatto riguardo alla metafisica dell’etica, non permette di scorgere neppure lontanamente la chiave di volta dell’intero edificio della metafisica, né il vero e proprio nesso della ‘divina commedia’.

Ma questo non rientrava nel compito assegnato e neppure nei miei piani. Non si può dire tutto in una sola volta e non bisogna neppure dare una risposta a ciò che non è stato richiesto.

Mentre si cerca di promuovere la conoscenza e la comprensione umana, si percepisce costantemente la resistenza opposta dalle epoche precedenti, esattamente come quando si deve trascinare un carico che grava pesantemente al suolo e ostacola ogni sforzo. Eppure ci si può consolare con la certezza di avere non solo i pregiudizi contro, ma anche la verità a favore, la quale, appena sarà raggiunta dal suo alleato - il tempo - sarà perfettamente sicura della vittoria, se non oggi, certamente domani.

Giudizio della Società Reale Danese delle Scienze

Quaestionem anno 1837 propositam, ‘utrum philosophiae moralis fons et fundamentum in idea moralitatis, quae immediate conscientia contineatur, et ceteris notionibus fundamentalibus, quae ex illa prodeant, explicandis quaerenda sint, an in alio cognoscendi principio, unus tantum scriptor explicare conatus est, cujus commentationem, germanico sermone compositam et his verbis notatam: ‘Moral predigen ist leicht, Moral begründen ist schwer’, praemio dignam judicare nequivimus.

Omisso enim eo, quod potissimum postulabatur, hoc expeti putavit, ut principium aliquod ethicae conderetur, itaque eam partem commentationis suae, in qua principii ethicae a se propositi et metaphysicae suae nexum exponit, appendicis loco habuit, in qua plus quam postulatum esset praestaret, quum tamen ipsum thema ejusmodi disputationem  flagitaret, in qua vel praecipuo loco metaphysicae et ethicae nexus consideraretur.

Quod autem scriptor in sympathia fundamentum ethicae constituere conatus est, neque ipsa disserendi forma nobis satisfecit, neque reapse, hoc fundamentum sufficere, evicit; quin ipse contra esse confiteri coactus est.

Neque reticendum videtur, plures recentioris aetatis summos philosophos tam indecenter commemorari, ut justam et gravem offensionem habeat.

Traduzione

Il tema proposto nel 1837: «L’origine e il fondamento della filosofia morale devono essere ricercati in un’idea di moralità che sia naturalmente radicata nella coscienza, e in altri principi fondamentali che derivano da questa idea, oppure in un diverso elemento di conoscenza?»  è stato affrontato da un solo concorrente.

Il suo scritto, composto in tedesco e contraddistinto dal seguente motto: “Predicare la morale è facile; fondare la morale è247 difficile”, è a nostro giudizio immeritevole del premio.

L’estensore infatti, trascurando l’essenza del problema, ha ritenuto che gli venisse richiesto di individuare un fondamento della morale, quale che sia. Di conseguenza, quella sezione del suo scritto in cui spiega il nesso tra il principio etico da lui definito e la sua metafisica, è relegata a rango di appendice, quasi superflua rispetto al tema proposto. Invece, proprio questo era richiesto dal tema, ossia una discussione in particolare sul rapporto tra metafisica e etica.

Dal momento poi che l’estensore ha tentato di individuare il fondamento dell’etica nella compassione, il suo lavoro risulta insoddisfacente non solo sul piano formale, ma anche su quello sostanziale. Tale fondamento infatti non basta, come egli stesso è costretto a riconoscere.

Non si deve tacere, infine, che molti sommi filosofi della nostra epoca sono trattati con un disprezzo che si traduce in offesa aperta e grave.





Cronologia
della vita e
delle opere di
Arthur Schopenhauer

1788 - Arthur Schopenhauer nasce il 22 febbraio a Danzica. Il padre Heinrich è un agiato commerciante. La madre Johanna Henriette Trosiener diverrà più tardi una nota scrittrice di romanzi.

1793 - In seguito all’annessione della città libera di Danzica alla Prussia, la famiglia Schopenhauer, fedele ai propri sentimenti liberali, si trasferisce ad Amburgo.

1797 - Arthur soggiorna per due anni a Le Havre, a casa di un amico d’affari del padre, dove impara il francese e i primi rudimenti di latino.

1799 - Ritorna ad Amburgo e compie studi a indirizzo prevalentemente commerciale. Ma questi non lo soddisfano e vorrebbe frequentare il ginnasio. Il padre si oppone e in alternativa al ginnasio gli propone un lungo soggiorno all'estero.

1803/04 - Gli Schopenhauer sono in viaggio per l’Europa: Inghilterra (dove il giovane Arthur soggiorna qualche tempo a Wimbledon e ha così modo di approfondire la conoscenza della lingua e della letteratura inglese) poi Olanda, Belgio, Francia, Svizzera, Austria.

1805 - Ad Amburgo inizia l’apprendistato presso una ditta di commercio. Il 20 aprile, incidente mortale (suicidio?) del padre.

1806 - La madre e la sorella si trasferiscono a Weimar. Qui Johanna Schopenhauer apre un salotto letterario che avrà tra i suoi ospiti le più illustri personalità del tempo, tra i quali anche Goethe. Arthur rimane ad Amburgo, in dubbio tra proseguire l’apprendistato commerciale o coltivare i suoi interessi intellettuali.

1807/09 - Decide per la cultura umanistica. Frequenta il ginnasio a Gotha e poi a Weimar, dedicandosi soprattutto all’antichità classica. A ventuno anni, maggiorenne, riceve il suo terzo dell’eredità paterna. Grazie a questa eredità, può vivere di rendita e dedicarsi completamente allo studio e alla ricerca.

1809/11 - Ultimato in soli due anni il ginnasio, entra nella facoltà di medicina dell’università di Gottinga, dove si dedica a diversi studi scientifici (fisiologia, anatomia, matematica, fisica, chimica). Parallelamente segue anche le lezioni di psicologia e di metafisica di G.E. Schulze, che frequenta con tale entusiasmo, da abbandonare la facoltà di medicina e passare a filosofia. Si immerge soprattutto nello studio di Platone e di Kant.

1811/13 - Si trasferisce all’università di Berlino dove prosegue gli studi in filosofia. Segue le lezioni di Fichte (che in quel tempo gode fama di grande pensatore) e ne studia accuratamente il pensiero filosofico, ma proprio per questo finisce con il disprezzarlo.

1813/14 - Breve soggiorno in Weimar. Si trasferisce poi a Rudolstadt, dove redige la dissertazione su “La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente”. Con questa tesi, il 18 ottobre 1813 riceve la laurea di filosofia nell’università di Jena. A fine anno la pubblica e ritorna a Weimar, dove ha modo di incontrarsi più volte con Goethe, per il quale nutre la massima ammirazione.

1814/18 - Si trasferisce a Dresda. Frequenta gli ambienti letterari e si dedica a molteplici studi. Nel 1815 scrive “La vista e i colori”, pubblicato nel 1816. Nel 1816 comincia la stesura della sua opera principale: “Il mondo come volontà e rappresentazione”. Il libro viene completato nel 1818 e pubblicato dall’editore Brockhaus, ottenendo però un fiasco commerciale.

1818/19 - Viaggio in Italia: Venezia, Roma, Napoli, Paestum, Milano, durante il quale scrive il “Diario di viaggio”, pubblicato postumo. Nel giugno 1819 a Milano riceve la notizia del fallimento della banca Muhl di Danzica, presso la quale era depositato parte del suo patrimonio.

1820 - Le prospettive economiche divenute incerte lo inducono a cercare un lavoro come libero docente. Sceglie proprio l’università di Berlino, dove ‘imperversa’ Hegel. Durante il primo semestre ha un pubblico esiguo. In seguito rinnova spesso il tentativo di tenere lezione in concomitanza con quelle di Hegel (disprezzato ancora più di Fichte) ma le sue lezioni vengono disertate.

1821 - Dopo lunghe trattative, riesce a recuperare dalla banca Muhl buona parte del suo patrimonio.

1822 - Secondo viaggio in Italia: Milano, Firenze e Trento. Scrive il “Taccuino” di viaggio.

1823/24 - Ritorno in Germania. Rimane per quasi un anno a Monaco, poi a Dresda. Le condizioni di salute non sono le migliori.

1825/31- Di nuovo a Berlino, dove tenta di riprendere la carriera universitaria, ma continua a essere ignorato. Traduce lo “Oracolo manuale e arte di prudenza” di Baltasar Gracian, pubblicato postumo. Progetti di matrimonio, fatti e rigettati. Nell’agosto 1831 abbandona Berlino a causa di una epidemia di colera (che avrà tra le sue vittime anche Hegel). Passa l’inverno a Francoforte.

1832/33 - Dopo la permanenza di un anno a Mannheim, prende definitivamente residenza a Francoforte.

1835/36 - Stesura e pubblicazione de “La volontà nella natura”, una “esposizione delle conferme che la filosofia dell’autore ha ricevuto da parte delle scienze empiriche”.

1838/41 - Scrive il “Trattato sulla libertà di volere”, premiato nel 1939 dalla Regia Società Norvegese delle Scienze. È il primo riconoscimento ufficiale. Scrive poi il “Trattato sul Fondamento della morale”, non premiato nel 1840 dalla Regia Società Danese delle Scienze. Nel 1841 pubblica entrambi i trattati con il titolo “I due problemi fondamentali dell’etica”.

1843/44 - Redazione del secondo volume de “Il mondo come volontà e rappresentazione”, a commento e sviluppo dei temi già trattati nel primo volume (1819). I due volumi riuniti vengono pubblicati (senza onorario) in seconda edizione dall’editore Brockhaus. L’accoglienza è, come al solito, fredda: il libro non si vende.

1847 - Seconda e rivista edizione de “La quadruplice radice del principio di ragione sufficiente”.

1851 - Pubblica, a Berlino, i “Parerga e Paralipomena” (una raccolta di saggi il cui titolo significa ‘cose marginali, trascurabili’) l’opera alla quale lavora dal 1845. Arriva finalmente il successo. I riconoscimenti gli giungono soprattutto dall’estero.

1854 - Esce a Francoforte la seconda edizione di “La volontà nella natura”.

1858 - Schopenhauer compie settant’anni. La sua vita è, come al solito, molto ritirata: lunghe passeggiate solitarie con il cane, pranzo in un ristorante inglese, lavoro e letture. Legge regolarmente il Times e riviste letterarie, francesi, inglesi e tedesche. In questo periodo scopre Leopardi, immergendosi “con molto diletto” nella lettura delle “Operette morali” e dei “Pensieri”.

1859 - In seguito al successo destato, anche la seconda edizione della sua opera principale è ormai esaurita. Terza edizione de “Il mondo come volontà e rappresentazione”.

1860 - Nel mese di aprile si manifestano problemi di salute (difficoltà respiratorie e tachicardia). All’inizio di settembre si ammala di polmonite. Il 21 settembre muore. Viene seppellito nel cimitero di Francoforte alla presenza di pochi fedelissimi. Sulla pietra tombale non vi sono epigrafi, ma solo il nome: Arthur Schopenhauer.