BERTRAND RUSSELL

PERCHE' NON SONO CRISTIANO

TEA, Milano 1989

1.

La critica nei confronti della religione è stata uno dei fili conduttori del pensiero di Russell. Educato al protestantesimo in un'ottica puritana, egli se n'è affrancato piuttosto precocemente, utilizzando paradossalmente come leva proprio la libertà di pensiero contro i dogmi da cui è nato il protestantesimo.

L'affrancamento lo ha trasformato in un ateo convinto, che non ha mai avuto alcun ripensamento ed è riuscito a delineare un'etica laica estremamente dignitosa e aperta ad una dignità condivisa con gli altri.

Come molti altri libri di Russell, anche Perché non sono cristiano soffre del limite di essere una raccolta di articoli scritti in un arco di tempo che va dal 1925 al 1952. Quest'eterogeneità, riguardo all'argomento, ha una certa importanza perché pone in luce la saldezza delle convinzioni del filosofo gallese.

Tale saldezza si riconduce ad un presupposto razionalistico:

"Vi sono […] due elementi essenziali per definire un cristiano. Il primo, di natura dogmatica, è la sua fede in Dio e nell'immortalità. Il secondo, ancor più importante, è la necessità di credere in qualcosa che riguardi Cristo, com'è implicito nella parola stessa…

Non sono cristiano: in primo luogo, perché non credo in Dio e nell'immortalità; e in secondo luogo, perché Cristo, per me, non è stato altro che un uomo eccezionale." pp. 5 - 6)

"Dio e immortalità, dogmi basilari della religione cristiana, non hanno alcun fondamento scientifico" (p. 37)

Quel presupposto comporta un atteggiamento radicalmente antireligioso:

"Penso che tutte le grandi religioni del mondo: buddismo, induismo, cristianesimo, islamismo e comunismo, siano, ad un tempo, false e dannose." (p. 1)

"Nell'uomo c'è il desiderio ci credere in Dio per bisogno di sicurezza e di protezione" (p. 11)

"Il mio concetto di religione è simile a quello di Lucrezio: la considero una specie di malattia, frutto della paura e fonte di indicibile sofferenza per l'umanità" (p. 18)

Si tratta di asserzioni forti, senza sfumature, facilmente criticabili da parte della Chiesa e dei credenti in nome del riferimento alla fede come esperienza interiore, intuitiva ed emozionale più che logica.

Il fascino del libro non sta però nella sua impostazione razionalistica, che pone in dubbio tutto ciò che non può essere verificato scientificamente. In quest'ottica, numerosi aspetti dell'esperienza umana e della cultura risulterebbe invalidati. L'inconscio psicoanalitico non è stato dimostrato scientificamente, anche se la sua esistenza è indubbia. Le ricostruzioni avanzate dagli storici, pur fondandosi sui documenti, non possono essere sottoposte ad un criterio di convalidazione scientifica: esse sono semplicemente più o meno persuasive.

Quel fascino sta nella capacità di Russell di cogliere, nella religione cristiana, alcune contraddizioni clamorose e alcuni principi le cui conseguenze sono negative per l'umanità.

Le contraddizioni principali sono due. La prima riguarda l'origine del male. Russell scrive icasticamente:

"Se Dio creò l'uomo prevedendo i peccati che avrebbe commesso, Dio è il responsabile di quei peccati e delle loro conseguenze" (p. 22)

Certo, una frase del genere risolve spicciativamente il problema del libero arbitrio, che, peraltro, è ancora oggi teologicamente molto controverso. Secondo la teologia, l'uomo è stato creato da Dio come essere libero, capace dunque di operare una scelta tra il bene e il male. L'onnipotenza divina comporta la previsione dell'uso che farà della libertà il singolo soggetto, ma questo non contrasta con il fatto che quell'uso definisce una responsabilità soggettiva.

Libertario, Russell ironizza su quest'attribuzione all'uomo di un potere di scelta morale così elevato, che non tiene conto delle influenze dell'educazione e dell'ambiente. Un teologo potrebbe obbiettare che di esse terrà conto Dio nella valutazione finale, che sarà infinitamente più giusta di qualsivoglia tribunale umano. L'obiezione però porta direttamente all'altra contraddizione rilevata da Russell nella teologia cristiana:

"C'è un grave difetto nella morale di Cristo: Egli predicava l'inferno. A mio giudizio, chiunque abbia in sé un poco d'umanità non può credere nel castigo eterno" (p. 13)

E' difficile confutare la fondatezza della critica. Per quanto un uomo possa essere cattivo (fino ai limiti di Hitler e di Stalin, che Russell stesso ha identificato come geni del Male quand'ancora erano in vita), il suo potere malvagio non può essere infinito. Come s'accorda questa realtà con una pena infinita? Di fatto non si accorda né ragionevolmente né teologicamente. Non è certo per caso che alcuni teologi del nostro secolo hanno proposto l'ipotesi di un Inferno vuoto. La Chiesa cattolica, però, su questo punto, ha ribadito più volte, e con fermezza, la dottrina ortodossa a riguardo. Tale dottrina, secondo Russell, è disumana, e inquina il riferimento al Dio d'amore.

Il problema, che Russell sembra ignorare, è che la religione, almeno quella monoteistica in tutte le sue forme, si edifica non solo sul bisogno di sicurezza e di protezione degli esseri umani, ma anche sul loro viscerale senso di giustizia. Come ho cercato di documentare nel mio libro sulla Bibbia (Facci un dio…), quest'aspirazione sottende tutta la storia dell'ebraismo e la nascita del Cristianesimo. L'Inferno è l'unica risposta religiosa possibile ad una realtà storica caratterizzata dal fatto che gli empi godono la vita e i pii soffrono. Un collo di bottiglia teologico, insomma, che ancora oggi sembra irrinunciabile per la Chiesa.

Russell non si limita però a denunciare solo le contraddizioni intrinseche alla teologia ecclesiale. Egli contesta radicalmente il valore civilizzante attribuito alla religione cristiana. Scrive:

"Si dice che non bisogna combattere la religione perché questa rende l'uomo virtuoso. Io non la penso così…

Il cristianesimo, così com'è organizzato, è stato ed è tuttora il più grande nemico del progresso morale nel mondo" (pp. 14 - 15)

"Sono innumerevoli le sofferenze non necessarie e non meritate che la Chiesa provoca in nome della sua morale" (p. 16)

"La religione impedisce ai nostri figli di ricevere un'educazione razionale; la religione c'impedisce di rimuovere la causa fondamentale delle guerre; la religione c'impedisce ci impedisce d'insegnare l'etica della collaborazione scientifica in luogo delle vecchie, aberranti dottrine di colpa e castigo." (p. 35)

Soprattutto la seconda asserzione, oggi, avendo recuperato la Chiesa gran parte del prestigio che sembrava irreversibilmente compromesso appena trent'anni fa, grazie soprattutto al carisma del Papa, può suonare come ingiustificata. In realtà, non lo è affatto. Nonostante la sua straordinaria umanità, il Papa ha incessantemente riproposto dogmaticamente la dottrina morale sulla sessualità, che vincola il suo esercizio a valori che, virtuosi sulla carta quanto si voglia, di fatto comportano conseguenze disumane. A riguardo, Russell si è espresso con estrema lucidità:

"L'aspetto peggiore della religione cristiana è il suo atteggiamento riguardo al sesso: atteggiamento morboso e innaturale che può essere spiegato soltanto se messo in relazione con lo stato del mondo civile nel periodo della decadenza dell'impero romano" (p. 20)

L'intuizione di Russell sull'origine storica della morale sessuale cristiana è molto pregnante, e c'è solo da dolersi del fatto che nessuno studioso l'abbia approfondita. In realtà, lo sfacelo morale della Roma del I secolo dopo Cristo, che riconosceva il suo acme nella pratica di gettare per la strada, e quindi in pasto ai cani, i neonati non riconosciuti dal Pater familias, era tale che, in una religione incentrata sul valore della vita e dell'individuo creato da Dio, non poteva non produrre effetti d'irrigidimento e di estremismo morale. Il problema è che tali aspetti, storicamente spiegabili, sono stati incorporati dogmaticamente dalla Chiesa come verità rivelate.

Per quanto riguarda il mondo moderno, la conseguenza della morale sessuale della Chiesa è contestabile e disumana, secondo Russell, non solo perché essa può incidere sullo sviluppo della personalità, producendo nevrosi di ogni genere (pericolo del tutto reale all'epoca che si può ritenere, in rapporto ai cambiamenti di costume intervenuti, nettamente in fase di regressione, anche se non del tutto sormontato). Lo scandalo rilevato dal filosofo gallese, che è drammaticamente attuale, è il divieto della Chiesa nei confronti di qualsivoglia tecnica di controllo delle nascite non naturale, dalla contraccezione all'aborto. Questo significa votare alla miseria e alla morte milioni di bambini del Terzo Mondo.

La morale sessuale della Chiesa è l'aspetto residuo di un'intolleranza dogmatica che, in passato, ha prodotto anche effetti peggiori:

"La Chiesa ha fatto molto scalpore intorno alla persecuzione dei primi cristiani da parte dell'impero romano prima di Costantino, quantunque tali persecuzioni siano state piuttosto irrilevanti, discontinue e di carattere prettamente politico. Dal tempo di Costantino alla fine del secolo diciassettesimo, i cristiani furono molto più perseguitati da altri cristiani, che non all'epoca degli imperatori romani…

Il cristiano moderno è divenuto certamente più tollerante, ma non per merito del cristianesimo. Questo addolcimento del costume è dovuto a generazioni di liberi pensatori, che dal Rinascimento a oggi hanno provocato, nei cristiani, un senso di sacra vergogna per molti dei loro tradizionali pregiudizi. E' divertente udire il cristiano odierno esaltare la dolcezza e la ragionevolezza della sua religione, ignorando che questa dolcezza e questa ragionevolezza sono dovute all'insegnamento di uomini, un tempo perseguitati dai cristiani credenti e osservanti" (pp. 26 - 27)

A questo implacabile atto di accusa nei confronti della religione, Russell oppone un'etica fondata su una rettitudine che dia spazio anche agli impulsi vitali e ai desideri umani, sull'amore e sulla conoscenza: un'etica, dunque profondamente umanitaristica.

La vita retta si può definire facilmente. Essa:

"è quella ispirata dall'amore e guidata dalla conoscenza. Conoscenza e amore non hanno confini, cosicché una vita, per quanto retta, è sempre suscettibile di miglioramento. L'amore senza la conoscenza o la conoscenza senza l'amore, non possono maturare una vita retta…

Descrivendo gli aspetti della vita retta, dobbiamo presumere anche un certo fondo di vitalità e di istinto animali: senza di questi l'esistenza diventa scialba e priva d'interesse. Questo fondo dovrà essere affinato dalla civiltà ma non sostituito da essa" (p. 45)

"Gli impulsi e i desideri sono l'essenza di cui è fatta la nostra felicità." (p. 65)

La rettitudine però non è uno stile di vita che può essere raggiunto e praticato individualmente, senza che si diano, oltre all'impegno soggettivo, condizioni oggettive adeguate:

Per condurre una vita retta nel senso più ampio, un uomo deve possedere una buona educazione, amici, amore, figli (se li desidera), mezzi sufficienti che lo tengano lontano dal bisogno e dalle preoccupazioni, buona salute e un lavoro soddisfacente. Tutte queste cose, in gradi diversi, dipendono dalla comunità e sono ostacolate o favorite da fattori politici. La vita retta deve essere vissuta in una buona società, altrimenti non è pienamente realizzabile." (p. 37)

Un mondo fatto a misura d'uomo implica senz'altro delle regole morali. Queste però vanno valutate su di una base che prescinde da valori assoluti, se si fa eccezione per il divieto di uccidere:

"Il giudizio sulle regole morali deve essere dato esaminando se esse sono capaci di realizzare i fini che noi desideriamo. Dico fini che desideriamo, non fini che "dovremmo" desiderare. Ciò che "dovremmo desiderare" è semplicemente ciò che altri vogliono che noi desideriamo. Questi altri normalmente sono i genitori e gli insegnanti, i poliziotti e i giudici" (p. 46)

Vivere secondo un'etica laica comporta necessariamente, "oltre alle riforme utili alla sicurezza" (p. 61), una qualità particolare: il coraggio. Questa qualità non serve solo a lottare contro tutte le ingiustizie e i valori che opprimono l'uomo. Essa comporta anche il confronto con quel tanto d'infelicità che è proprio dell'esistenza umana, e che, in gran parte, è riconducibile all'angoscia della finitezza. Russell scrive:

"La felicità non è meno vera anche se deve finire. Il pensiero e l'amore non perdono il loro valore se non sono eterni. Parecchi uomini hanno affrontato il patibolo con fierezza; la stessa fierezza ci dovrebbe insegnare a riflettere senza tremare al destino dell'uomo nell'universo. Anche se le finestre spalancate dalla scienza al primo momento ci fanno rabbrividire, abituati come siamo al confortevole tepore casalingo dei miti tradizionali, alla fine l'aria fresca ci rinvigorirà" (p. 41)

La fiducia di Russell nella ragione e nella scienza è sconfinata. Non per caso il libro si conclude con un "atto di fede" nel libero pensiero:

"Il mondo non ha bisogno di dogmi, ha bisogno di libera ricerca" (p. 172)

2.

Al di là della critica della religione istituzionale, che, per molti aspetti, conserva intatto il suo valore, se non altro perché la Chiesa, pur tentando di aggiornarsi in rapporto all'evoluzione storica, non può prescindere dai dogmi, il libro è rilevante soprattutto perché esprime l'orgoglio di essere laico e abbozza le linee di fondo di un'etica fatta a misura d'uomo che recepisce i valori più profondi del Cristianesimo, in particolare l'amore per i propri simili, senza nulla concedere al ricatto della trascendenza.

A ben vedere, l'etica russelliana, eccezion fatta per il culto della scienza, non è fondamentalmente diversa da quella stoica. Identificata nella paura di morire la matrice primaria di ogni religione, essa non si rifugia in una dimensione strettamente privata e individualistica. Certo, ogni individuo deve affrontare in proprio il nodo del dolore, della malattia, della morte. Se egli però è inserito in un contesto sociale solidale, fondato sull'amore, tale confronto, secondo Russell, non è impossibile.

In quest'ottica, la critica alla religione diventa un richiamo rivolto all'uomo di farsi carico del suo destino. Tenendo conto di quante persone nel nostro mondo non credono, ma rifiutano di riconoscere la loro finitezza, e di come questo rifiuto incide a livello soprattutto di psicologia giovanile, il messaggio di Russell è ancora attuale.

Febbraio 2004