Il problema Pascal

1.

Su Pascal è praticamente impossibile dire qualcosa di nuovo. Il suo genio matematico è stato acquisito come espressione di un’attitudine precoce che si è sviluppata rigogliosamente finché egli non ha deciso di abbandonare la scienza per la filosofia e la teologia. I suoi Pensieri, nonostante rappresentino un’opera incompiuta, hanno influenzato una schiera indefinita di pensatori sino ad oggi (compreso Nietzsche, che ne aborriva l’orientamento metafisico e ascetico), dando luogo a interpretazioni, commenti ed esegesi le più diverse accomunate dal riconoscimento di un pensiero profondo, benché frammentario, che si esalta in lampi aforistici divenuti ormai proverbiali.

Con questa riflessione, di fatto, non intendo dire alcunché di nuovo, bensì focalizzare tre aspetti significativi: il primo verte sul rapporto tra Pascal e la sua epoca storica; il secondo sull’incidenza della sua biografia interiore sulla vita e sulle opere; il terzo sulla concezione pascaliana della natura e della condizione umana.

A lungo considerato un secolo oscuro a confronto di quello rinascimentale che lo precede e di quello illuministico che lo segue, il Seicento è contrassegnato dall’assolutismo regio, da una grave depressione economica, con fenomeni di pauperismo drammatici, da devastanti epidemie che provocano una diminuzione critica della popolazione, dal persistente conflitto tra Chiesa cattolica e Protestantesimo e dall’avvio (con Copernico, Tycho Brahe e Galileo Galilei) della rivoluzione scientifica.

Tra questi fattori è difficile minimizzare l’impatto sulle masse popolari della povertà e delle epidemie che, sommandosi tra loro, fanno sì che il tema della caducità umana e del senso dell’esistenza affiorino prepotentemente.

Su questo sfondo, il conflitto tra Chiesa cattolica e Protestantesimo si accentua perché la soluzione che essi offrono alla speranza di una vita oltremondana nel regno della Giustizia è radicalmente diverso. La Chiesa chiede ai credenti di rispettare i suoi principi per acquisire il paradiso attraverso il merito personale. Il Protestantesimo, soprattutto con Calvino, accentua il riferimento alla volontà imperscrutabile di Dio e, pur non riconoscendo agli uomini la possibilità di meritare la grazia, li impegna sul registro di una vita eticamente rigorosa e strenuamente rivolta alla lotta contro il Male.

Un qualunque spirito raffinato avrebbe visto nelle vicissitudini del Seicento lo spettacolo di un’umanità miserabile e abietta, incline a livello dei Potenti a perseguire folli disegni di guerra che esaurivano le risorse dello Stato, sottraendole alla popolazione, e a livello del popolo ad uno sbandamento verso forme di distrazione e di devianza (vagabondaggio, criminalità, follia). Il Rinascimento, però, ha restituito all’uomo anche una dimensione di nobiltà e di grandezza, che persiste ed è attestata dallo sviluppo delle arti, del pensiero e dalla nascita della scienza.

In qualunque periodo della storia umana si danno prove evidenti della grandezza e della miseria umana, che sono riconducibili alla difficoltà dell'uomo di padroneggiare un congegno – il cervello – troppo complesso, troppo ricettivo e troppo inquietato dal caos su cui galleggia e in cui è immerso. In alcuni periodi storici, queste due dimensioni sono più divaricate e scisse tra loro. Uno di questi periodi è, per l'appunto, il Seicento europeo. Di questa scissione Pascal è un testimone.

Pascal appartiene per elezione agli spiriti raffinati, ma il suo sguardo è molto influenzato dalla sua biografia interiore. La sorella Gilberte Périer ne ha fornito una versione agiografica (cfr. appendice ai Pensieri), ma densa di indizi psicologici.

Educato dal padre severamente, Pascal è un genio precoce, che si dedica anima e corpo alla matematica, alla geometria e alla costruzione della “macchina aritmetica”. La passione scientifica si associa ad un’esperienza sottesa da un rigore morale assoluto. Pascal è perfezionista nel lavoro di ricerca, ma lo è anche in un rapporto con il mondo, che non concede spazio ad alcuna distrazione. Il disagio psicosomatijco è inevitabile. Scrive la sorella Gilberte intorno al 1650:

“La fatica e la fragilità in cui si trovava la sua salute da qualche anno, gli procurarono dei mali che non lo hanno più lasciato; al punto che qualche volta ci diceva che, dall'età di diciotto anni, non aveva trascorso un solo giorno senza dolore. I suoi mali non avevano sempre la stessa violenza, e appena lo lasciavano un po' respirare, la sua mente si lanciava subito a cercare qualcosa di nuovo.”

I medici gli consigliano di rinunziare ad ogni applicazione intellettuale e a svagarsi. Il consiglio è eccessivo. Per circa un anno Pascal si apre al mondo e, anche senza praticare vizi (come specifica la sorella), si concede delle distrazioni sotto forma di frequentazione di ambienti nobiliari. Tanto basta a convincerlo, su influenza della sorella Jacqueline, già entrata nel convento di Port Royal, a lasciare il mondo sull’onda di un vissuto inequivocabile sulle cose che in esso si svolgevano: “un gran disprezzo per esse e un disgusto quasi intollerabile per le persone che vi vivono.”

Sullo sfondo di questa protesta, sostanzialmente moralistica, tipica dei soggetti introversi che sviluppano un orientamento rupofobico, sopravviene la folgorante illuminazione della notte del 23 novembre del 1654, quando Pascal ha poco più di trent’anni, nella quale si accusa di avere “fuggito, rinnegato, crocifisso” Gesù e di volersi ricongiungere a Lui per sempre all’insegna dell’ “oblio del mondo e di tutto, fuorché di Dio”.

La promessa viene rigorosamente mantenuta. In virtù, anzi, dell’adesione al giansenismo, il regime di vita di Pascal tende progressivamente verso una forma sempre più marcata di ascetismo mistico. La descrizione che la sorella fa di questo regime è inquietante. Pascal si impone di non godere in alcun modo dei sensi: mangia per puro dovere senza gustare i cibi, restringe al massimo l’alimentazione, elimina ogni tappezzeria nella sua camera, giunge addirittura a mettersi una cintura di ferro sulla carne che stimolava con il gomito ogni volta che sentiva la tentazione di abbandonarsi ad una qualche fatuità.

Naturalmente, l’effetto di questo regime di vita è di aumentare a dismisura i sintomi psicosomatici, che Pascal non solo accetta ma utilizza per mettere alla prova la sua virtù. Scrive addirittura una Preghiera per domandare a Dio il buon uso delle malattie, in cui si legge: “fate, o mio Dio, che adori in silenzio le disposizioni della vostra provvidenza adorabile sulla condotta della mia vita, che il vostro flagello mi consoli; e che, avendo vissuto nell’amarezza dei miei peccati durante la pace, io gusti le dolcezze celesti della vostra grazia durante i mali salutari con cui mi affliggete.”

Quali peccati mai commette Pascal nei momenti in cui i sintomi gli danno tregua? E’ intuitivo che si tratti di peccati di pensiero, legate alle fantasie parassitarie che percorrono incessantemente la mente di coloro che imboccano la via dell’ascetismo mortificante, tentando di compensare, in maniera ridondante, gli eccessi di un ipercontrollo che non lascia spazio alcuno all’umano bisogno di piacere.

Scrive la sorella: “In verità non ho mai visto un'anima più naturalmente superiore della sua a tutti gli impulsi umani dovuti alla corruzione naturale.”

La corruzione naturale di cui essa parla è, in realtà, il prodotto di una fede religiosa terribilmente severa nei confronti di qualsivoglia debolezza umana o, ancora meglio, di un’inequivocabile “nevrosi” religiosa.

Il termine "corruzione", peraltro, non è suo ma di Pascal stesso, e spiega perché egli, pur autenticamente cristiano, abbia aderito al Giansenismo, secondo il quale l'uomo, in conseguenza del peccato originale, che si trasmette ereditariamente, è corrotto dalla concupiscenza e quindi destinato a fare il male.

L’attecchimento di questa terribile ideologia in un’anima già gravata per conto suo di una estrema scrupolosità morale spiega la vicenda soggettivamente tormentosa di Pascal, riscattata da un’opera (i Pensieri, appunto) che conserva il suo fascino nel tempo.

E’ fuor di dubbio che si tratta di un’opera contraddittoria. Nell’intento originario di Pascal essa doveva costituire una sorta di Summa apologetica del Cristianesimo, atta a suffragare l’affermazione secondo la quale: “Gli uomini disprezzano la religione. La odiano e hanno paura che sia vera. Per rimediare a ciò bisogna mostrare come la religione non sia affatto contraria alla ragione, come sia venerabile e incuterne rispetto.” (10)

In realtà, quasi tutto ciò che è dedicato, nel libro, esplicitamente alla religione, è caduco. Non si può imputare, certo, a Pascal di avere assunto le Scritture come testi rivelati, dato che all’epoca l’analisi critica dei documenti biblici non era ancora nata. Non si può, però, non rimanere perplessi allorché egli, il cui spirito sottile è fuori di discussione, formula principi interpretativi del genere seguente:

Non si può fare un buon ritratto se non accordando tutte le nostre contraddizioni, e non è sufficiente mettere insieme le caratteristiche che hanno affinità tra loro senza connetterle con quelle contrarie. Per comprendere il significato di un autore, bisogna saper accordare tutti i passaggi contraddittori.

Così, per capire le Scritture, è necessario un senso in cui tutti i passaggi contraddittori si accordino. Non è sufficiente trovarne uno conforme a più passaggi affini tra loro, ma deve essercene uno capace di accordare anche i passaggi contraddittori.

Ogni autore ha un senso in cui tutti i passaggi contraddittori si accordano, o è del tutto sprovvisto di significato. Questo non si può dire delle Scritture e dei profeti: sicuramente avevano troppo buon senso. Bisogna dunque cercarne uno che accordi tutte le contraddizioni.(241)

Se si dà per scontato che le Scritture, essendo rivelate, non possono essere criticate, ma comprese superando le loro apparenti contraddizioni, tutto di fatto finisce con il quadrare. Così per esempio le discordanze tra i Vangeli e soprattutto tra i sinottici e quello giovanneo si possono risolvere nel seguente modo:

L'ipotesi degli apostoli che ingannano è davvero assurda. Seguiamola fino in fondo, immaginiamo questi dodici uomini riuniti dopo la morte di Gesù Cristo per tessere il complotto della sua resurrezione. Con ciò si oppongono a tutti i poteri. Il cuore degli uomini è strettamente incline alla leggerezza, alla mutevolezza, alle promesse, alla ricchezza. Per poco che uno di loro avesse tradito, attratto da tutte queste cose, e inoltre sotto la minaccia della prigione, delle torture e della morte, essi erano perduti. Lo si pensi fino in fondo.“ (292)

O gli apostoli sono stati ingannati o sono ingannatori. Le due cose insieme sono difficili. Non è possibile scambiare un uomo per un resuscitato. Finché Gesù Cristo era con loro, poteva sostenerli, ma dopo, se non è apparso loro, chi li ha fatti agire?” (303)

Riguardo alle profezie, poi, che oscillano tra l’aspettativa di un re davidico (Condottiero) e di un santo disarmato, Pascal scrive:

Anche se un solo uomo avesse scritto un libro di predizioni riguardanti il tempo e le circostanze della venuta di Gesù Cristo, e Gesù Cristo fosse venuto in modo conforme a quelle profezie, ciò sarebbe di una forza infinita.

Ma qui c'è ben di più. Si tratta di un corteo di uomini che per quattromila anni, senza soluzione di continuità, si succedono l'un l'altro e predicono questa venuta. Si tratta di un popolo intero che l'annuncia e che dura da quattromila anni per rendere fisicamente testimonianza delle promesse ricevute, e che non può essere distolto da ciò per quante minacce e persecuzioni subisca. Questo deve avere ben altra considerazione.” (313)

Ossessionato dalle prove dell’esistenza di Dio, Pascal, quasi rinnegando il suo spirito scientifico, le vede ovunque:

Dio è nascosto. Ma si lascia trovare da quelli che lo cercano.

Ci sono sempre state tracce visibili di lui in ogni tempo. Le nostre sono le profezie. Altri tempi ne hanno avute altre.

Tutte queste prove hanno legami fra loro. Se una è vera, anche l'altra lo è. Così ogni epoca, avendo avuto quelle che le erano proprie, attraverso loro ha conosciuto le altre.

Quelli che hanno visto il diluvio hanno creduto nella creazione e nel Messia che sarebbe venuto. Quelli che hanno visto Mosè, hanno creduto nel diluvio e nel compiersi delle profezie. E noi che vediamo il compiersi delle profezie dobbiamo credere nel diluvio e nella creazione.“ (781)

Se avesse portato a termine l’impresa di scrivere, come si era prefisso, L’Apologia del Cristianesimo, Pascal avrebbe probabilmente subordinato ulteriormente le sue intuizioni filosofiche sulla natura e sulla condizione umana all’intento apologetico togliendo ad esse senso.

La sua fede si cristallizza nell’opposizione tra Dio Salvatore e Uomo peccatore:

Tutta la fede si riduce a Gesù Cristo e ad Adamo, e tutta la morale alla concupiscenza e alla grazia.” (211)

Tale opposizione implica che l’uomo è indegno di Dio, e che solo la magnanimità divina può salvarlo:

L'uomo non è degno di Dio ma non è incapace di venirne reso degno. È indegno di Dio unirsi alla miseria umana, ma non è indegno di Dio sottrarre l'uomo alla miseria.” (224)

Il prezzo di questo aiuto misericordioso, però, è pesante:

Gesù Cristo non ha fatto altro che ammaestrare gli uomini che amavano se stessi, dicendo loro che erano schiavi, ciechi, malati, infelici e peccatori; che doveva liberarli, illuminarli, beatificarli e guarirli, e che ciò si sarebbe realizzato se avessero odiato se stessi, e lo avessero seguito nella miseria e nella morte sulla croce.” (254)

La morte prematura, probabilmente influenzata dal regime ascetico, ha impedito a Pascal di portare a termine il suo progetto consegnando ai posteri un “brogliaccio” dal quale si possono estrapolare folgoranti intuizioni assunte, però, sistematicamente come presupposti che rendono necessaria la fede. Esse, invece, a mio avviso, attestano che, in un’anima dotata, i pensieri e le emozioni scorrono liberamente senza lasciarsi irretire dalla gabbia ideologica della ragione e del cuore devoto.

2.

La più famosa delle intuizioni pascaliane distingue l’ésprit de géometrie (Ragione) e l’ésprit de finesse (Cuore):

Noi conosciamo la verità non solo con la ragione ma anche con il cuore. È in quest'ultimo modo che conosciamo i primi princìpi, e invano il ragionamento, che non vi svolge alcun ruolo, cerca di opporvisi. Gli scettici, che non hanno altro scopo, ci provano inutilmente. Sappiamo di non sognare, per quanto ci sia impossibile dimostrarlo con la ragione; questa impossibilità significa che la nostra ragione è debole, non che tutte le nostre conoscenze sono incerte, come essi pretendono. Perché la conoscenza dei primi princìpi, come l'esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri, è salda come nessuna di quelle che ci danno i ragionamenti, ed è su queste conoscenze del cuore e dell'istinto che la ragione deve appoggiarsi, fondandovi ogni suo ragionamento. Il cuore sente che lo spazio ha tre dimensioni e che i numeri sono infiniti, la ragione dimostra in seguito che non esistono due numeri quadrati uno dei quali sia doppio dell'altro. I princìpi si sentono, le preposizioni si deducono, e in entrambi i casi con certezza, sebbene per vie diverse. Ed è inutile e ridicolo che la ragione domandi al cuore le prove di quei primi princìpi per voler dare il suo assenso, così come sarebbe ridicolo che il cuore domandasse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni che dimostra di volerle accettare.

Questa impossibilità non deve servire dunque che a umiliare la ragione, che vorrebbe giudicare di tutto, non a negare la certezza, come se non ci fosse che la ragione capace di istruirci. Volesse Dio, al contrario, che non ne avessimo mai bisogno, e che noi conoscessimo ogni cosa con l'istinto e il sentimento! Ma la natura ci ha rifiutato questo bene; al contrario non ci ha dato che pochissime conoscenze di questo tipo; tutte le altre non possono essere acquisite che per mezzo del ragionamento.

Questo è il motivo per cui quelli a cui Dio ha dato la religione per sentimento del cuore sono ben fortunati e ben legittimamente persuasi; ma a quelli che non l'hanno, noi possiamo darla solo per ragionamento, in attesa che Dio la doni loro per il sentimento del cuore, senza di che la fede non è che un fatto umano e inutile per la salvezza.” (101)

Differenza tra lo spirito geometrico e l'intuizione concreta.

In uno i princìpi sono palpabili, ma lontani dall'uso comune, così che è difficile volgere la testa da quella parte, per mancanza di famigliarità; ma per poco che ci si volti, i princìpi sono chiaramente visibili; e solo una mente del tutto alterata potrebbe ragionare male su princìpi così evidenti che è quasi impossibile che sfuggano.

Ma nell'intuizione concreta i princìpi sono d'uso comune e stanno davanti agli occhi di tutti. Non c'è bisogno di girare la testa, né di farsi violenza; basta avere una buona vista, ma bisogna averla davvero buona; perché i princìpi sono così sottili e in così grande numero che è quasi impossibile che non ne sfugga qualcuno. Ora, omettere un principio conduce all'errore; così bisogna avere la vista ben acuta per vedere tutti i princìpi, e poi una mente rigorosa per non ragionare in modo falso su princìpi noti.

Tutti i geometri dunque sarebbero intuitivi se avessero una buona vista, perché essi non ragionano male partendo dai princìpi che conoscono. E gli spiriti intuitivi sarebbero geometri se potessero piegare la loro vista verso i princìpi inconsueti della geometria.

Ciò che fa sì dunque che certi spiriti intuitivi non siano geometri, è che essi non possono volgersi del tutto verso i princìpi della geometria, ma ciò che fa sì che i geometri non siano intuitivi è che essi non vedono ciò che sta loro davanti, e che, essendo abituati ai princìpi netti ed evidenti della geometria, e a non ragionare che dopo aver ben visto e maneggiato i loro princìpi, essi si perdono nelle cose concrete, dove i princìpi non si lasciano maneggiare a quel modo. Li si vede appena, si sentono piuttosto che vederli, e si fa una fatica infinita a farli sentire a coloro che non li sentono da sé. Sono cose talmente delicate e così numerose, che è necessaria una sensibilità molto delicata e precisa per sentirle e giudicare in modo rigoroso e giusto secondo questo sentire, senza poterlo dimostrare, solitamente, con la consequenzialità della geometria, poiché non così si possiedono i princìpi, e l'operazione sarebbe infinita. Bisogna vedere la cosa in un colpo solo, con un solo sguardo, non nella successione del ragionamento, almeno fino a un certo punto. Così è raro che i geometri siano intuitivi, e gli intuitivi siano geometri, perché i geometri vogliono trattare in modo geometrico le cose intuitive, rendendosi ridicoli, e vogliono iniziare con le definizioni e poi con i princìpi, ma non è questo il modo d'agire in questo tipo di ragionamenti. Non che lo spirito non lo faccia, ma lo fa tacitamente, in modo naturale e senza artificio. L'espressione di ciò supera le capacità di tutti gli uomini, e pochi l'avvertono. Gli spiriti intuitivi, al contrario, essendo abituati a giudicare con un solo sguardo, sono così stupiti quando si presentano loro delle proposizioni di cui non comprendono niente e per entrare nelle quali occorre passare attraverso le definizioni, e dei princìpi così sterili che essi non sono abituati a prendere in considerazione in modo così dettagliato, che si scoraggiano e si disgustano.

Ma gli spiriti falsi non sono mai né intuitivi né geometri. I geometri che sono solo geometri hanno una mente rigorosa, ma a patto che si spieghi loro ogni cosa per mezzo di definizioni e princìpi; altrimenti sono falsi e insopportabili, perché essi sono rigorosi solo sui princìpi ben chiariti.

Ma gli intuitivi, che sono solo intuitivi, non possono avere la pazienza di scendere fino ai primi princìpi delle cose speculative e d'immaginazione, cose che non hanno mai visto al mondo, che sono del tutto fuori da ogni esperienza.” (466)

Il cuore ha il suo ordine, la ragione il suo, che consiste nei princìpi e nelle dimostrazioni. Quello del cuore è diverso.” (280)

La distinzione tra Ragione e Cuore implica due diversi modi di conoscenza: quella razionale e quella intuitiva. Pascal ha scoperto con grande anticipo che la mente umana è dotata di un’intelligenza emozionale (in gran parte inconscia) che ha un significato diverso da quella razionale, ma non è meno profonda e importante.

Questo merito è innegabile, ma sarebbe ingenuo non aggiungere che il termine “cuore”, ripetuto decine di volte nei Pensieri, ha due diverse accezioni. La più ricorrente è quella che identifica in esso la capacità immediata di aprirsi a Dio e alla sua verità: è dunque il cuore puro, innocente, semplice. Se non funziona a tal fine, esso può avere un effetto di pervertimento:

Com'è profondo il cuore dell'uomo e pieno di abiezione!” (129)

Il cuore degli uomini è strettamente incline alla leggerezza, alla mutevolezza, alle promesse, alla ricchezza.” (292)

L'uomo dunque non è che maschera, menzogna e ipocrisia, per se stesso e riguardo agli altri. Non vuole che gli si dica la verità. Evita di dirla agli altri; e tutte queste inclinazioni, così lontane dal giusto e dalla ragione, hanno una radice naturale nel suo cuore.” (758)

Quest’ultimo pensiero è particolarmente importante. Né la ragione né il cuore tengono l’uomo al riparo da ciò che oggi definiremmo mistificazione (inganno inconsapevole). Occorre considerare, infatti, un altro aspetto del funzionamento mentale umano, che Pascal riconduce all’immaginazione:

Immaginazione.

È la parte dominante dell'uomo, maestra di errori e di falsità, tanto più infida in quanto non sempre lo è, perché se fosse una regola infallibile della menzogna, lo sarebbe anche della verità. Ma, pur essendo il più delle volte falsa, non lascia alcuna traccia di questa sua qualità, indicando indifferentemente il vero e il falso. Non parlo dei folli, parlo di quelli più saggi, perché proprio presso di loro l'immaginazione si arroga il diritto di persuadere gli uomini. La ragione ha un bel reclamare, essa non può conferire valore alle cose.

Questa superba potenza, nemica della ragione, che si diverte a controllarla e a dominarla per mostrare il suo potere su ogni cosa, ha posto nell'uomo una seconda natura. Essa ha i suoi felici e infelici, i suoi sani, malati, ricchi e poveri. Essa spinge la ragione a credere, a dubitare, a negare. Essa ottunde i sensi e li fa sentire. Ha i suoi pazzi e i suoi saggi. E niente ci indispettisce maggiormente che vedere come soddisfa i suoi ospiti in modo ben più completo della ragione. Chi ha una fervida immaginazione si valuta in modo ben diverso da quanto, ragionevolmente, possono fare i più prudenti. Guarda in modo altezzoso la servitù, discute con impetuosa disinvoltura (gli altri sono timorosi e incerti), così che con il volto allegro conquista il favore di chi ascolta. Ecco come questi saggi immaginari godono la stima di giudici della stessa tempra. Pur non potendo far rinsavire i folli, essa li rende felici, mentre la ragione fa miserabili i suoi amici, e una li copre di gloria, l'altra di vergogna...

Chi volesse seguire solo la ragione, secondo il giudizio della maggior parte degli uomini, sarebbe completamente pazzo. Poiché così è piaciuto, dobbiamo lavorare tutto il giorno e affannarci per dei beni palesemente immaginari. E dopo che il sonno ci ha riposato dalle fatiche imposte dalla nostra ragione immaginaria e messo in un'ammirevole calma, bisogna subito distruggerla, alzarsi di corsa per correre dietro alle chimere, piegandosi alle suggestioni di questa padrona del mondo...

L'uomo non è che un soggetto pieno di un errore naturale e incancellabile senza la grazia. Niente gli indica la verità. Tutto lo inganna. Le due fonti di verità, la ragione e i sensi, oltre al fatto che mancano di sincerità, s'ingannano reciprocamente; i sensi sviano la ragione con false apparenze, ma l'inganno con cui raggiungono l'anima, torna a loro. È la sua vendetta. Sono turbati dalle passioni dell'anima che alterano le impressioni. Mentono ingannandosi a vicenda.” (41)

Oggi possiamo dare un senso compiuto all’intuizione di Pascal. La coscienza ha bisogno di mantenere uno statuto unitario e continuo nel tempo. Il cervello pare già organizzato per produrre spontaneamente un’immagine di sé che rimuove le infinite contraddizioni che fanno parte di ogni personalità. A questo meccanismo naturale di salvaguardia della coerenza, si aggiunge spesso un’identificazione immaginaria con ciò che il soggetto desidera o ritiene di essere, che produce ulteriori rimozioni. nemica della ragione, la tendenza all’identificazione immaginaria è nemica anche del cuore perché essa comporta la repressione di indefinite intuizioni che mirano a restaurare una certa verità.

Pascal ha dunque intuito, precedendo di secoli la psicoanalisi, che l’uomo ha una tendenza incoercibile a ingannare se stesso e si è posto la domanda conseguente a questa scoperta: perché?

Egli ha fornito due risposte. La prima, fortemente influenzata dalla concezione cristiana e giansenista della natura umana, fa capo alla compresenza nell’uomo della grandezza e della bassezza:

La grandezza dell'uomo.

La grandezza dell'uomo è così evidente che si ricava perfino dalla sua miseria, perché quello che per gli animali è la natura, nell'uomo lo chiamiamo miseria; da ciò riconosciamo che, se oggi la sua natura è simile a quella degli animali, egli è decaduto da una natura migliore che un tempo era la sua.“ (108)

Contraddizioni.

Dopo aver mostrato la bassezza e la grandezza dell'uomo.

Che ora l'uomo si stimi per quello che vale. Che si ami, perché c'è in lui una natura capace di bene; ma che non per questo ami le bassezze che vi sono in essa. Che si disprezzi, perché questa capacità è vuota; ma non per questo disprezzi questa originaria capacità. Che si odii, che si ami: ha in sé la capacità di conoscere la verità e di essere felice; ma non possiede la verità, né in modo costante, né soddisfacente.

Per questo vorrei portare l'uomo a desiderare di trovarla, a essere pronto e libero dalle passioni, per seguirla dove l'avrà trovata, consapevole di come le passioni hanno offuscato la conoscenza; vorrei che odiasse davvero la concupiscenza che ha in sé e che lo muove, così da impedirle di accecarlo quando deve fare la sua scelta, e di fermarlo quando avrà scelto.(110)

È pericoloso esagerare nel far credere all'uomo quanto è uguale agli animali, senza mostrargli la sua grandezza. Ed è pericoloso anche fargli vedere la sua grandezza senza la bassezza. Ma è ancora più pericoloso lasciargli ignorare sia l'una che l'altra, mentre è utile ricordargliele entrambe.

L'uomo non deve credere di essere come le bestie, né come gli angeli, non deve ignorare le due cose, ma conoscerle.“ (112)

Grandezza e miseria.

Poiché la miseria si deduce dalla grandezza e la grandezza dalla miseria, alcuni hanno affermato la miseria quanto più hanno preso come prova la grandezza, altri hanno affermato la grandezza con tanta più forza in quanto l'hanno dedotta dalla miseria stessa. Tutto quello che gli uni hanno potuto dire per mostrare la grandezza è servito agli altri come argomento per dedurre la miseria, perché quanto più si cade dall'alto, tanto più si è miserabili, mentre per gli altri è il contrario. Si sono rincorsi l'un l'altro in un cerchio senza fine, essendo certo che nella misura in cui gli uomini posseggono la ragione, essi trovano nell'uomo miseria e grandezza. In una parola: l'uomo sa di essere miserabile. Egli è dunque miserabile, poiché lo è, ma dal momento in cui lo sa è davvero grande.” (113)

Che chimera è dunque l'uomo? Quale novità, quale mostro, quale caos, quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio? Giudice di tutte le cose, ottuso lombrico, depositario del vero, cloaca d'incertezza e d'errore, gloria e rifiuto dell'universo.” (121)

La seconda risposta, più pregnante, fa riferimento al fatto che l’uomo è incapace, in genere, di tollerare la verità su se stesso, che è di essere infelice per lo scarto che si dà tra la sua finitezza e l’infinito.

Su questa dimensione esistenziale, Pascal ha scritto le sue cose migliori:

Condizione dell'uomo.

Incostanza, noia, inquietudine.” (22)

Ciascuno esamini i propri pensieri. Troverà che sono tutti concentrati nel passato o nell'avvenire. Non pensiamo quasi per niente al presente, e se ci pensiamo è solo in funzione di predisporre il futuro. Il presente non costituisce mai il nostro fine. Passato e presente sono mezzi, solo l'avvenire è il nostro fine. Così non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e preparandoci sempre a essere felici è inevitabile che non lo siamo mai.” (43)

Se la nostra condizione fosse veramente felice, non ci sarebbe bisogno di fare di tutto per non pensarci.“ (66)

Corriamo spensieratamente verso l'abisso, non prima di aver messo qualcosa tra noi e lui per impedirci di vederlo.“ (155)

Per quanto la commedia sia stata bella in ogni sua parte, l'ultimo atto è insanguinato. Alla fine ci gettano un po' di terra sulla testa ed eccoci sistemati per sempre.” (154)

Quando considero la breve durata della mia vita, assorbita dall'eternità che la precede e da quella che la segue («memoria hospitis unius diei praetereuntis»), il piccolo spazio che occupo e che vedo, inabissato nell'infinita immensità di spazi che ignoro e che mi ignorano, mi spavento e mi stupisco di vedermi qui piuttosto che là, perché non c'è motivo che sia qui piuttosto che là, ora piuttosto che un tempo. Chi mi ci ha messo? Per ordine e volontà di chi questo luogo e questo tempo sono stati destinati a me?“ (64)

“Spartizioni.

Nel mondo, a seconda delle diverse ipotesi, si deve vivere diversamente:

1. se è sicuro che ci saremo sempre se potessimo esserci sempre.

2. se è incerto se ci saremo sempre o no,

3. se è sicuro che non ci saremo sempre, ma ci venga assicurato che ci saremo per molto tempo,

4. se è sicuro che non ci saremo sempre, e incerto se ci saremo per molto tempo,

5. se è sicuro che non ci saremo per molto tempo, e incerto se ci saremo anche solo un'ora.

L'ultima ipotesi è la nostra.” (144)

Dopo aver fatto ritorno a sé, l'uomo consideri ciò che è rispetto a ciò che esiste, si veda smarrito in un angolo dimenticato della natura, e da questa piccola cella dove si trova, cioè l'universo, impari a dare il giusto valore alla terra, ai regni, alle città e a se stesso.

Cos'è un uomo nell'infinito?..

Ma alla fine, cos'è un uomo nella natura? Un nulla davanti all'infinito, un tutto davanti al nulla, qualcosa di mezzo tra il nulla e il tutto, infinitamente lontano dal comprendere gli estremi. Il fine e il principio delle cose gli sono inesorabilmente nascosti da un segreto impenetrabile...

Navighiamo nella vastità, sempre incerti e fluttuanti, spinti da un estremo all'altro. Qualunque appiglio a cui pensiamo di attaccarci per essere sicuri, viene meno e ci abbandona, e se lo seguiamo si sottrae alla nostra presa, scivola e fugge in una fuga eterna. Niente per noi è solido. È la nostra condizione naturale eppure la più contraria alle nostre inclinazioni. Ci brucia un desiderio di trovare un fondamento sicuro, e come una base ferma per costruirvi una torre che si alzi verso l'infinito, ma ogni fondamento si spezza e la terra si apre fino agli abissi.” (185)

L'eterno silenzio di questi spazi infiniti mi atterrisce.” (187)

L'uomo non sa a quale livello mettersi, egli è visibilmente smarrito e decaduto dal suo vero posto senza poterlo ritrovare. Lo cerca dovunque, inquieto e frustrato in mezzo a tenebre impenetrabili.” (379)

Non è certo necessario avere un animo molto elevato per capire che quaggiù non c'è vera e durevole soddisfazione, che tutti i nostri piaceri sono solo vanità, che i nostri mali sono infiniti e che da ultimo la morte, che ci minaccia ad ogni istante, nel giro di pochi anni ci porrà nell'orribile necessità di essere per sempre annientati o infelici.” (398)

Ignoro chi mi ha messo al mondo e cosa sia il mondo, e cosa io stesso. Mi trovo in una terribile ignoranza di tutte le cose, non so cosa siano il mio corpo, i miei sensi, la mia anima e quella stessa parte di me che pensa ciò che dico, che riflette su tutto e su se stessa, e non si conosce più di quanto conosca il resto. Io vedo questi spaventosi spazi dell'universo dentro cui sono rinchiuso, mi trovo come afferrato a un angolo di questa vasta estensione, senza sapere perché io mi trovi qui piuttosto che altrove, né perché quel poco di tempo che mi è stato concesso di vivere sia in un punto piuttosto che in un altro di tutta quell'eternità che mi ha preceduto e che mi seguirà.

Non vedo che infinità da ogni parte, che mi rinchiude come un atomo e come un'ombra che dura un solo istante.

Tutto ciò che so è che tra breve dovrò morire, ma ciò che maggiormente ignoro è proprio quella morte che posso evitare.” (398)

Ci si immagini una gran quantità di uomini in catene, tutti condannati a morte, alcuni dei quali vengono sgozzati ogni giorno davanti agli altri, e quelli che sopravvivono vedono la propria condizione in quella dei loro simili, e, guardandosi l'un l'altro dolorosamente e senza speranza attendono il loro turno.” (405)

Noia.

Niente è tanto insopportabile per l'uomo come il rimanere in un riposo assoluto, senza passione, senza affari, senza divertimento, senza applicarsi. Allora avverte il proprio nulla, l'abbandono, l'insufficienza, la dipendenza, l'impotenza, il vuoto. Dal fondo della sua anima uscirà quanto prima la noia, l'orrore, la tristezza, il dolore, il dispetto, la disperazione.” (529)

Il rimedio “volgare” all’angoscia esistenziale è il non pensarci, la distrazione:

Chi non vede la vanità del mondo è vano a sua volta. Ma poi, chi non la vede, tranne i giovani immersi nel frastuono, nel divertimento e nel pensiero dell'avvenire?

Ma togliete loro ciò che li distrae, li vedrete inaridire nella noia. Allora, pur senza conoscerlo, sentono il nulla, ed è davvero una disgrazia essere tristi a tal punto quando si riflette su se stessi, e non potersi distrarre.” (33)

Divertimento.

Quelle volte in cui mi sono messo a considerare le diverse forme d'inquietudine degli uomini, i pericoli e i dolori a cui si espongono, a Corte, in guerra, e da cui sorgono tante liti, passioni, imprese audaci e spesso malvagie, mi sono detto che tutta l'infelicità degli uomini viene da una sola cosa, non sapersene stare in pace in una camera. Un uomo che abbia abbastanza da vivere, se provasse piacere a restare in casa, non ne uscirebbe certo per andare in mare o all'assedio di una cittadella; e se non trovasse insopportabile rimanere in città, mai più si comprerebbe a caro prezzo una carica nell'esercito; e si cercano le conversazioni e gli svaghi del gioco perché non si sa rimanere piacevolmente a casa.

Ma quando, avendoci riflettuto maggiormente, ho trovato la causa di tutte le nostre disgrazie, ho pensato che ce n'è una davvero autentica, che consiste nell'infelicità naturale della nostra condizione debole, mortale e così miserabile che niente ci può consolare quando ci pensiamo seriamente...

Così scorre tutta la vita; si cerca la quiete affrontando gli ostacoli ma, quando li abbiamo superati, il riposo diventa insopportabile per la noia che procura; dobbiamo uscirne mendicando un po' di agitazione...

L'uomo è così infelice che per annoiarsi non ha bisogno di motivi, gli basta la condizione della sua natura. Ed è così fragile che pur essendo pieno di mille motivi validi per annoiarsi, è sufficiente una piccolissima cosa, come un biliardo e una palla, per distrarlo.” (126)

“Divertimento.

È più facile sopportare la morte senza pensarvi che il pensiero della morte senza pericolo.” (128)

Siamo pieno di cose che ci gettano fuori di noi.

L'istinto ci dice che dobbiamo cercare la felicità fuori di noi. Le passioni ci spingono fuori di noi, anche quando non ci fossero stimoli per eccitarle. Gli oggetti esterni ci tentano per se stessi e ci attirano anche quando non ci pensiamo. Hanno un bel dire i filosofi. «rientrate in voi stessi, lì troverete il vostro bene», nessuno crede loro, e quelli che ci credono sono i più vuoti e i più sciocchi.” (133)

Tutti gli uomini cercano di essere felici. Per quanto i mezzi possano differire, ciò si verifica senza eccezione. Tutti tendono a questo fine. Chi va in guerra e chi non ci va sono spinti dallo stesso desiderio, anche se con idee diverse. La volontà non si muove di un passo se non in questa direzione. È la causa di tutte le azioni di tutti gli uomini, anche di quelli che vanno a impiccarsi.

E tuttavia, dopo tanto tempo, non c'è mai stato qualcuno che, senza la fede, abbia raggiunto quello che tutti vogliono continuamente. Tutti si lamentano, principi, sudditi, nobili, plebei, vecchi, giovani, forti, deboli, dotti, ignoranti, sani, malati, di ogni paese, in tutti i tempi, a ogni età e di tutte le condizioni.

Una testimonianza così prolungata, continua e uniforme dovrebbe assolutamente convincerci della nostra incapacità ad arrivare al bene con le sole nostre forze. Ma l'esempio ci è servito poco. Non ci sembra mai così perfettamente adeguato da escludere una sottile differenza, e proprio da questi ci ripromettiamo, in un caso e nell'altro, il soddisfacimento delle nostre attese; e così, con un presente che sempre ci delude, l'esperienza ci inganna, e di sventura in sventura ci conduce fino alla morte, che ne costituisce l'eterno suggello.

Cosa ci gridano dunque l'avidità e l'impotenza se non che un tempo nell'uomo c'è stata un'autentica felicità, di cui ora gli rimangono il segno e l'impronta vuota, che egli tenta invano di riempire con tutto quanto lo circonda, ripromettendosi dalle cose assenti l'aiuto che non ottiene da quelle presenti, ma invano, perché questo abisso infinito non può essere colmato che da un'infinita e immutabile realtà, cioè Dio stesso.” (139)

Siamo ben ridicoli a cercar conforto nella compagnia dei nostri simili, miserabili come noi, come noi impotenti; non ci saranno d'aiuto: moriremo soli.

Dobbiamo dunque comportarci come se fossimo soli. Si costruirebbero allora palazzi superbi? ecc., cercheremmo senza esitazione la verità. Se ci rifiutiamo vuol dire che per noi vale più la stima degli uomini che la ricerca della verità.” (141)

Divertimento.

Poiché gli uomini non sono riusciti a guarire dalla morte, dalla miseria e dall'ignoranza, hanno deciso di essere felici non pensandoci.” (124)

Distrarci è la sola cosa che ci consola delle nostre miserie. Eppure si tratta della nostra miseria più grande. Perché proprio questo ci impedisce di pensare a noi, e insensibilmente ci perde. Senza di esso saremmo nella noia, e la noia ci spingerebbe a cercare un mezzo più solido per uscirne, mentre distrarci ci svaga e insensibilmente ci fa arrivare alla morte.(393)

Cosa riscatta, infine, l’uomo dalla perpetua fuga che opera rispetto alla sua realtà? Il confronto a viso aperto con la sua miseria e finitezza, vale a dire la rivendicazione di poterle oggettivare e riflettere su di esse:

Ciò che fa grande la grandezza umana è che si riconosce miserabile; un albero non si riconosce miserabile. Riconoscersi miserabili significa dunque essere miserabili, ma riconoscersi miserabili significa essere grandi.” (105)

“Canna pensante.

Non è nello spazio che devo cercare la mia dignità, ma nell'ordine dei miei pensieri. Non avrei alcuna superiorità possedendo terre. Nello spazio, l'universo mi comprende e m'inghiotte come un punto; nel pensiero, io lo comprendo.” (104)

Posso ben concepire un uomo senza mani, piedi, testa, perché solo l'esperienza ci insegna che la testa è più necessaria dei piedi. Ma non posso concepire l'uomo senza pensiero. Sarebbe una pietra o un bruto.” (102)

L'uomo non è che un fuscello, il più debole della natura, ma è un fuscello che pensa. Non è necessario che l'universo intero si armi per spezzarlo, bastano un po' di vapore, una goccia d'acqua, per ucciderlo. Ma anche quando l'universo lo spezzasse, l'uomo rimarrebbe ancora più nobile di ciò che lo uccide, poiché sa di morire, mentre del vantaggio che l'universo ha su di lui, l'universo stesso non sa niente.

Ogni nostra dignità consiste dunque nel pensare. Su ciò dobbiamo far leva, non sullo spazio e sulla durata, che non sapremmo colmare.” (186)

L'uomo è chiaramente fatto per pensare. In ciò sta tutta la sua dignità e il suo merito; e il suo dovere consiste nel pensare in modo giusto. Ora, l'ordine del pensiero è di cominciare da sé, e dal proprio creatore e dal suo scopo.

Ora, a che pensa il mondo? Mai a questo, ma a danzare, a suonare il liuto, a cantare, a fare versi, a infilare l'anello con la lancia, ecc., a battersi, a diventare re, senza pensare a cosa significa essere re e essere uomo.” (527)

La “canna pensante”, dunque, si riscatta dalla sua miseria costitutiva solo a patto che la riflessione sia incentrata quasi ossessivamente sulla precarietà e sulla morte e orientata verso l’unica soluzione possibile per non rimanere nell’infelicità e non cadere nell’angoscia infinita del vuoto.

Su questo sfondo, per quanto paradossale, la celebre scommessa di Pascal appare del tutto giustificata:

Se c'è un Dio, egli è infinitamente incomprensibile, poiché, non avendo parti né limiti, non ha alcun rapporto con noi. Noi siamo dunque incapaci di conoscere ciò che è, e se è. Stando così le cose, chi oserà risolvere questo problema? Non certo noi, che non abbiamo alcun rapporto con lui.

Chi rimprovererà dunque i cristiani di non saper render ragione della loro fede, proprio loro che professano una religione di cui non possono rendere ragione? Rivelandola al mondo, essi affermano che è stoltezza, stultitiam, e voi vi lamentate del fatto che non la provano. Se la provassero, non manterrebbero la parola. La mancanza della prova permette loro di non mancare di senso.

- Sì, ma anche se questo giustifica coloro che la espongono a quel modo e li sottrae al biasimo di presentarla senza ragione, ciò non giustifica coloro che la accolgono.

- Esaminiamo dunque questo punto, e diciamo: o Dio esiste o non esiste; ma da che parte staremo? La ragione non può decidere niente. C'è un abisso infinito che ci separa. In capo a questa infinita distanza si gioca un gioco in cui uscirà testa o croce. Su cosa scommetterete? Con la ragione non potete scegliere né l'uno né l'altro, con la ragione non potete negare nessuno dei due.

Non accusate d'errore dunque quelli che hanno fatto una scelta, perché non ne sapete niente.

- No, ma io li biasimo non per aver fatto una scelta piuttosto che un'altra, ma per avere scelto, sebbene sia quello che sceglie croce e sia l'altro commettano errori opposti, sbagliando entrambi. Giusto è non scommettere.

- Sì, ma bisogna scommettere. Non dipende dalla volontà, ormai siete imbarcato. Cosa scegliete dunque? Vediamo, dal momento che bisogna scegliere, vediamo ciò che vi interessa meno. Avete due cose da perdere, il vero e il bene, e due cose da impegnare, la vostra ragione e la vostra volontà, la vostro conoscenza e la vostra beatitudine, mentre la vostra natura ha due cose da fuggire, l'errore e la miseria. La ragione, poiché è necessario scegliere, non viene maggiormente offesa scegliendo uno piuttosto che l'altro. Ecco un punto accertato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita puntando su croce, cioè che Dio esiste. Valutiamo i due casi: se vincete, vincete tutto, ma se perdete, non perdete niente. Scommettete dunque che Dio esiste senza esitare. È ammirevole. - Sì, bisogna scommettere, ma forse scommetto troppo. - Vediamo, poiché vi è un rischio reciproco di guadagno e di perdita, se non aveste che due vite da guadagnare contro una, potreste ancora scommettere, ma se ce ne fossero tre da guadagnare, bisognerebbe giocare (dal momento che è necessario giocare) e, se foste costretto a giocare, sarebbe imprudente non scommettere la vostra vita per guadagnarne tre a un gioco dove c'è uguale possibilità di perdita e di guadagno. Ma c'è un'eternità di vita e di felicità. Stando così le cose, anche se ci fosse un'infinità di casi di cui uno solo a vostro favore, avreste ancora ragione a scommettere uno per avere due, e sarebbe illogico, essendo obbligati a giocare, rifiutare di giocare una vita contro tre a un gioco dove, su un'infinità di casi, ce n'è uno per voi, qualora ci fosse da vincere una vita infinita e infinitamente felice. Ma qui abbiamo una vita infinita e infinitamente felice da vincere, una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdere, e ciò che scommettete è finito. Dove c'è l'infinito e non ci sono infinite probabilità di perdere contro una sola di vincere, non c'è discussione. Non si deve esitare, bisogna impegnare tutto. E così, se si è costretti a giocare, si deve rinunciare alla ragione per salvare la vita, piuttosto che rischiarla per un guadagno infinito, facile a venire quanto la perdita del nulla.

Perché non serve a niente dire che è incerto se si vincerà, mentre è certo che si rischia, e che l'infinita distanza che c'è tra la certezza di ciò che si rischia e l'incertezza di ciò che si vincerà mette sullo stesso piano il bene finito che si rischia con certezza e quello infinito che rimane incerto. Le cose non stanno così. Ogni giocatore ha la certezza del rischio e l'incertezza del guadagno, e tuttavia egli rischia un finito certo per vincere un finito incerto, senza per questo peccare contro la ragione. Non esiste distanza infinita tra la certezza del rischio e l'incertezza del guadagno, ciò è falso. C'è infinità, a dire il vero, tra la certezza della vincita e la certezza della perdita, ma l'incertezza di vincere è proporzionata alla certezza di ciò che si rischia secondo la proporzione dei casi di vincita e di perdita. Da questo deriva che se ci sono uguali possibilità da una parte come dall'altra, la scommessa è alla pari. E allora la certezza di ciò che si rischia è uguale all'incertezza del guadagno, altro che esserne infinitamente distante. E così la nostra proposta ha una forza infinita, quando c'è da rischiare il finito in un gioco dove ci sono uguali possibilità di vincere o di perdere e l'infinito come posta.

Questo è dimostrato, e se gli uomini sono capaci di qualche verità, eccone una.

- Lo confesso, l'ammetto, ma non si può vedere anche il rovescio della medaglia? - Sì, la Scrittura e il resto, ecc. - D'accordo, ma ho le mani legate e la bocca chiusa, vengo costretto a scommettere ma non sono libero, non mi si lascia un istante, e sono fatto in un modo tale che non posso credere. Cosa volete dunque che faccia? - È vero, ma sappiate almeno che la vostra incapacità a credere deriva dalle vostre passioni, dal momento che la ragione vi ci porta ma non lo potete fare. Sforzatevi dunque, non a convincervi con maggiori prove di Dio, ma col diminuire le vostre passioni. Volete andare verso la fede ma non ne conoscete il cammino. Volete guarire della incredulità e ne chiedete i rimedi, imparate da quelli, ecc., che sono stati legati come voi, ma che ora scommettono ogni loro bene. È gente che conosce il cammino che voi vorreste seguire, e che è guarita da un male da cui anche voi volete guarire; imparate da loro come hanno incominciato. E facendo tutto come se credessero, prendendo l'acqua benedetta, facendo dire messe, ecc. Naturalmente ciò vi farà credere e vi abbrutirà. - Ma è appunto ciò che temo. - E perché? Cosa avete da perdere? Ma per mostrarvi che è questa la via, sappiate che ciò diminuisce le passioni, che sono i vostri grandi ostacoli, ecc.

Fine di questo discorso.

Che male può mai capitarvi facendo questa scelta? Sarete fedele, onesto, umile, riconoscente, benefico, amico, sincero, veritiero... Certo non vivrete nei piaceri infetti, nella gloria, nel lusso, ma non ne avrete forse altri?

Vi assicuro che ci guadagnerete anche in questa vita, e che a ogni passo che farete su questa via sarà tale la certezza della vincita e del nulla che rischiate, da farvi capire alla fine che avete scommesso per una cosa certa e infinita, rispetto alla quale non avete dato nulla.

- Oh, questo discorso mi esalta, mi rapisce, ecc. - Se questo discorso vi piace e vi convince, sappiate che chi lo fa è un uomo che si è messo in ginocchio prima e dopo, per pregare questo essere infinito e senza parti al quale sottomette tutto il proprio essere, sottomettete dunque anche il vostro per il vostro bene e per la sua gloria, così che la forza si accordi con questo abbassarsi.” (397)

3.

Dall’ordinamento delle citazioni, risulta sufficientemente chiaro che, pure ammirando le sottili intuizioni che Pascal ha avuto sulla mente (le ragioni del “cuore”) e sulla condizione umana (la finitezza), il suo intento evidente di utilizzarle e di piegarle a fini apologetici sino al punto di proporre come del tutto ragionevole una “scommessa” sull’esistenza di Dio mi sembra una sorta di coercizione ideologica che mortifica uno spirito inquieto e vivacissimo.

Nietzsche è giunto (non ricordo in quale opera) ad una conclusione del genere chiedendosi dove sarebbe potuto arrivare filosoficamente Pascal se la fede non lo avesse ingabbiato.

Dato che la storia non si fa con i se, occorre prendere atto di dove è arrivato: ad illustrare in una maniera singolarmente efficace la vulnerabilità, la precarietà e la finitezza dell'essere umano e lo stato di angoscia che, in conseguenza di questo, sottende la soggettività.

Fin troppi autori si sono soffermati su questo aspetto identificando in Pascal un precursore dell’esistenzialismo mediato da Kierkegaard.

A me interessa spostare il discorso su di un altro terreno.

Le intuizioni esistenziali di Pascal risuonano dentro di noi perché apparteniamo alla stessa civiltà. Quanto però in esse c’è di universale in rapporto alla natura umana?

Non ci può essere ombra di dubbio sul fatto che l’acquisizione della coscienza ha coinciso con la consapevolezza della vulnerabilità e della precarietà, ma non necessariamente della finitezza e dell’angoscia.

La vulnerabilità e la precarietà sono, infatti, le caratteristiche di un organismo biologico esposto al rischio di soffrire e di scomparire da un momento all’altro, e dotato della capacità di rendersi conto di questo. Molti indizi antropologici inducono, però, a pensare che l’ansia prodotta dalla consapevolezza esistenziale abbia riconosciuto per un lungo periodo di tempo una soluzione alquanto efficace: l’appartenenza e la partecipazione ad un gruppo coeso e solidale. Questa soluzione, identificando nella persistenza del gruppo stesso nel tempo una continuità affrancata dall’estinzione, deve avere ammortizzato anche il riferimento alla finitezza. La morte dell’individuo, infatti, data la sopravvivenza del gruppo, si è configurata per un lungo periodo di tempo come un’altra forma di appartenenza ad esso. L’angoscia della morte individuale, dunque, non deve avere fatto parte della psicologia degli uomini primitivi se non sotto forma di separazione o di esclusione dal gruppo.

I contenuti dell’ansia esistenziale - vale a dire la consapevolezza della vulnerabilità e della precarietà - si possono ritenere, dunque, universali, mentre l’angoscia esistenziale va riferita alla nascita dell’individuo come ente autonomo e differenziato da tutti gli altri, un addendo, insomma, non una funzione del gruppo sociale.

Se ci si chiede dove sia collocabile storicamente la nascita dell’individuo, la risposta non è affatto semplice. Essa, infatti, è stata a lungo preparata da una serie di eventi storici e culturali. Non si va lontano dal vero, però, identificando nel Cinquecento e nel Seicento una cerniera di particolare importanza. Nel Cinquecento l’uomo comincia ad affrancarsi dall’ordinamento feudale, riscopre il suo valore e comincia da avere consapevolezza della sua intraprendenza. Nel Seicento nasce con Hobbes l’antropologia borghese e la civiltà dei diritti individuali e, con Galileo Galilei, la scienza, vale a dire la rivendicazione dell’uomo di potere approdare alla verità con la sua intelligenza.

Questo salto di qualità è pagato, però, ad un durissimo prezzo in termini di depressione economica, miseria, flagelli pestilenziali.

Nel momento stesso in cui, insomma, l’uomo si avvia verso uno statuto identitario meno centrato sul gruppo e più sull’individuo stesso, egli scopre la finitezza e l’angoscia in una dimensione che, in precedenza, è stata in qualche misura arginata dall'appartenenza al gruppo e alla comunità.

Pascal è uno dei testimoni di questo passaggio, ma egli non è in grado di interpretarlo storicamente. Lo descrive, dunque, come una dimensione esistenziale inerente la natura umana, e non vede altro rimedio che la fede religiosa.

Anche in questo, però, egli cade in una contraddizione.

Il Cristianesimo è originariamente una religione comunitaristica, che, in nome della comune fratellanza, tende a trascendere le differenze di genere, di nascita e di status. Il Giansenismo, cui aderisce Pascal, è invece una dottrina soteriologica che riguarda il rapporto dell’individuo con Dio. Esso implica la desolata solitudine dell’individuo che drammatizza la sua morte e, drammatizzandola, non si accorge neppure di assegnare ad essa, vissuta nell'angoscia della finitezza, un infinito valore.

In questo senso, Pascal si può ritenere veramente un precursore dell'esistenzialismo in ciò che esso ha di perenne e di caduco: la scoperta della finitezza umana, che esiste da sempre ma diviene angosciosa nel momento in cui l'individuo perde il contatto con la storia nella quale la sua esperienza fluisce e il mondo sociale cui appartiene, e il tentativo di riscattarsi da essa assegnandole un significato improprio per cui l'esistente – l'io – è la rivelazione dell'Essere (Dio o Tutto).


APPENDICE


VITA DI PASCAL scritta dalla sorella Gilberte Périer

Mio fratello nacque a Clermont il 19 giugno dell'anno 1623. Mio padre si chiamava Étienne Pascal, presidente alla Corte delle Imposte; mia madre si chiamava Antoinette Begon. Da quando ebbe l'età per potergli parlare, mio fratello dette segni di un'intelligenza assolutamente straordinaria, a causa delle piccole risposte molto pertinenti che dava, ma ancor di più per le domande sui fenomeni naturali che stupivano tutti. Tali speranze iniziali così belle non vennero mai smentite; perché quanto più cresceva negli anni, tanto più aumentava la forza della sua ragione, così che era molto al di sopra della sua età.

Nel frattempo, essendo mia madre morta nel 1626, quando mio fratello aveva appena tre anni, mio padre, vedendosi solo, si dedicò ancor di più alla famiglia; e dal momento che non aveva altro figlio maschio che lui, questa e le altre doti che trovava nel bambino ingenerarono un affetto così grande per lui, che decise di non affidare la sua educazione ad un altro, e da allora prese la risoluzione di educarlo egli stesso, come ha fatto, così che mio fratello non è mai stato in un collegio, e non ha mai avuto altri maestri all'infuori di mio padre.

Nell'anno 1631, mio padre si ritirò a Parigi, ci portò tutti con sé e vi fissò la propria dimora. Mio fratello, che aveva solo otto anni, trasse un gran vantaggio da questo ritiro, nella prospettiva che mio padre non avrebbe potuto dedicarvisi allo stesso modo rimanendo in provincia, dove le funzioni della sua carica e la gente che lo andava a trovare in continuazione, l'avrebbero distratto. Ma a Parigi era completamente libero; si dedicò senza risparmio, ottenendo tutto il successo che poteva venire dalle cure di un padre tra i più intelligenti e affezionati che ci possano essere.

La regola principale nel corso della sua attività educativa era di tenere il bambino al di sopra della sua opera; per questo motivo non volle insegnargli il latino prima dei dodici anni, così che potesse impararlo più facilmente. In questo intervallo di tempo non lo lasciò inoperoso, lo metteva al corrente di tutto ciò di cui lo vedeva capace. Gli faceva vedere in generale cos'erano le lingue; gli mostrò come fossero state ridotte sotto certe regole grammaticali; come queste regole avevano però delle eccezioni che ci si era preoccupati di mettere in evidenza; e come in questo modo si fosse riusciti a rendere ogni lingua comunicabile da un paese all'altro. Questa idea generale gli schiuse la mente, facendogli comprendere la ragione delle regole grammaticali; così che, quando le imparò, seppe perché lo faceva, e si applicava con ordine alle cose che richiedevano maggior impegno.

Oltre a questi insegnamenti, mio padre gliene dette altri. Spesso gli parlava di effetti straordinari della natura, come la polvere da cannone e altre cose che, se ci si pensa, sorprendono. Mio fratello partecipava con grande piacere a queste conversazioni, ma voleva conoscere le ragioni di ogni cosa; e dal momento che non tutte sono note, quando mio padre non le diceva, o gli diceva quelle che si riportano comunemente, che a dire il vero sono solo delle scappatoie, questo non gli bastava: perché egli ha sempre avuto un'ammirevole chiarezza intellettuale per discernere il falso; e si può dire che sempre e in tutte le cose il solo oggetto del suo spirito sia stata la verità, perché mai niente ha potuto soddisfarlo all'infuori della conoscenza. Così, fin dall'infanzia, non sapeva decidersi se non verso ciò che gli appariva evidentemente vero; al punto che, se non gli si davano delle buone spiegazioni, le cercava da sé; e quando si era fissato su qualche cosa, non l'abbandonava fino a che non trovava una spiegazione soddisfacente. Una volta che, per caso, qualcuno a tavola aveva colpito con il coltello un piatto di faenza, fece attenzione al gran rumore che ne era venuto fuori ma anche al fatto che, appena vi si posò una mano, questo cessò. Volle subito conoscerne il motivo, e questa esperienza lo spinse a farne molte altre sui suoni. Tali furono le sue osservazioni che, a dodici anni, ne ricavò un trattato che venne ritenuto molto ben studiato.

Aveva solo dodici anni quando iniziò a manifestare il suo talento per la geometria, in una circostanza così straordinaria che merita davvero di essere raccontata. Mio padre era uno studioso di matematica e frequentava gli altri studiosi di questa disciplina, che spesso si trovavano in casa sua. Ma poiché aveva deciso d'istruire mio fratello nelle lingue, e ben sapendo che la matematica è cosa che riempie e soddisfa la mente, non volle che mio fratello ne avesse alcuna conoscenza, nel timore che ciò lo distogliesse dal latino e dalle altre lingue in cui voleva si perfezionasse. Per questo motivo, aveva messo sotto chiave tutti i libri che ne trattavano. In sua presenza si asteneva dal parlarne con gli amici. Queste precauzioni non impedirono di suscitare la curiosità del ragazzo, così che spesso pregava mio padre d'insegnargli la matematica. Ma egli si rifiutava, presentandola come una ricompensa. Prometteva che, appena avesse saputo il latino e il greco, gliel'avrebbe insegnata.

Mio fratello, vedendo questa resistenza, un giorno gli chiese cosa fosse questa scienza, e di cose si occupasse. Mio padre gli disse genericamente che era un modo per comporre le figure in modo giusto, e di trovare le proporzioni che ci sono tra loro, ma al tempo stesso gli proibì di parlarne ancora e di pensarvi. Ma la sua mente, che non poteva rimanere dentro a quei limiti, da quando ebbe quel semplice spiraglio, che la matematica dà il modo di comporre figure assolutamente giuste, si mise a sognare e, nei periodi di ricreazione, rimanendo solo in una stanza dove di solito si divertiva, prendeva un carboncino e tracciava delle figure sulle mattonelle, cercando, ad esempio, di fare un cerchio perfettamente rotondo, un triangolo con i lati e gli angoli uguali, e altre cose simili. Riuscì in tutto ciò da solo e senza fatica; in seguito cercò le proporzioni delle figure tra loro. Ma poiché mio padre si era preoccupato a tal punto di tenergli nascosta ogni cosa che non ne conosceva neppure i nomi, fu costretto a inventarseli da solo. Chiamò il cerchio un rotondo, la linea asta, e così via. Dopo aver dato i nomi, si fece degli assiomi, e quindi delle dimostrazioni perfette; e siccome in queste cose una tira l'altra, spinse così avanti le sue ricerche da arrivare fino alla trentaduesima proposizione del primo libro di Euclide. Proprio mentre era intento a ciò, mio padre entrò per caso nella stanza dove si trovava senza che mio fratello se ne accorgesse. Lo trovò così concentrato, che per un bel po' di tempo non si accorse della sua venuta. Non si può dire chi dei due rimase più sorpreso; se il figlio nel vedere il padre, a causa dell'esplicita proibizione che gli aveva fatto; o il padre nel vedere il figlio in mezzo a tutte quelle cose. Ma la sorpresa del padre fu ben più grande quando, avendogli chiesto cosa facesse, gli rispose che cercava quella cosa, cioè la trentaduesima proposizione del primo libro di Euclide.

Mio padre gli domandò cosa lo avesse fatto pensare a ciò. Rispose che l'aveva trovato. E avendogli chiesto come l'avesse trovato, gli mostrò delle dimostrazioni che aveva fatto; e infine, andando all'indietro, sempre servendosi dei nomi di rotondi e aste, arrivò alle definizioni e agli assiomi. Mio padre si spaventò a tal punto della grandezza e della potenza del suo genio che, senza dirgli niente, lo lasciò e si recò a casa di Le Pailleur, suo intimo amico, che era a sua volta un grande studioso. Quando fu arrivato, rimase immobile e come in trance. Le Pailleur, vedendo le sue condizioni, e vedendo anche che versava qualche lacrima, si spaventò a sua volta, e lo pregò di non tenergli celata a lungo la causa del suo dispiacere. Mio padre gli disse: «Non sono lacrime di dolore, ma di gioia. Voi sapete la cura che ho messo nel distogliere mio figlio dallo studio della geometria, nel timore di allontanarlo dagli altri studi: eppure guardate ciò che ha fatto». E gli mostrò quello che aveva trovato, da cui si poteva concludere, in qualche modo, che avesse trovato la matematica.

Le Pailleur non rimase meno stupito di mio padre; e gli disse che non riteneva giusto tenere ancora a lungo prigioniera quella mente, nascondendole quella conoscenza; che bisognava lasciargli vedere i libri senza più trattenerlo.

Mio padre, concordando con lui, dette a mio fratello gli Elementi di Euclide da leggere nelle ore di ricreazione. Egli li lesse e li capì da solo, senza mai avere avuto bisogno di spiegazioni; e mentre li leggeva, scriveva, spingendosi così avanti da frequentare regolarmente le conferenze che si tenevano ogni settimana, dove si trovavano i maggiori studiosi di Parigi per portare le proprie opere e per esaminare quelle degli altri.

Mio fratello era sempre all'altezza, sia nell'esaminare che nel produrre; ed era uno di quelli che portava più spesso cose nuove. In quelle riunioni si esaminavano molto frequentemente relazioni provenienti dalla Germania o da altri paesi stranieri, e su ogni cosa veniva ascoltato il suo parere e con maggiore attenzione di chiunque altro; perché la sua intelligenza era così viva, che capitava scoprisse degli errori di cui gli altri non si erano accorti. Tuttavia impegnava nello studio solo le ore di ricreazione; perché a quel tempo studiava il latino su appunti che mio padre gli aveva preparato appositamente. Ma dal momento che in quella scienza egli trovava la verità che aveva sempre cercato con tanto ardore, era così contento che vi metteva tutta la sua intelligenza, al punto che, per poco se ne occupasse, progredì fino a comporre, all'età di sedici anni, un Trattato delle coniche che passò per una prova di tale altezza d'ingegno da far dire che, dopo Archimede, non si era mai visto niente di simile.

Tutti gli studiosi furono dell'avviso che dovesse venire pubblicato, sostenendo che, benché fosse un'opera il cui valore sarebbe rimasto intatto, tuttavia, se fosse stata pubblicata quando l'autore aveva solo sedici anni, la circostanza avrebbe accresciuto la sua bellezza. Ma poiché mio fratello non ha mai pensato alla sua reputazione, non prese in considerazione la cosa; e così quest'opera non è mai stata pubblicata.

Durante tutto questo tempo, continuò a imparare il latino e il greco; e oltre a ciò, durante e dopo i pasti, mio padre gli parlava a volte della logica, a volte della fisica e delle altre parti della filosofia; ed è tutto quanto ne ha saputo, non essendo mai stato in un collegio, né avendo mai avuto altri maestri in ciò più che nelle altre cose.

Mio padre era così contento, come si può immaginare, dei progressi che mio fratello faceva in ogni scienza, che non si accorse come queste grandi e continue applicazioni della mente in un'età così fragile, potessero incrinare la sua salute; e in effetti, essa iniziò ad alterarsi da quando ebbe diciotto anni. Ma poiché i disturbi che sentiva allora non erano molto forti, non gli impedirono di proseguire in tutte le sue occupazioni; così che fu a quel tempo, all'età di diciannove anni, che inventò quella macchina aritmetica con cui, non solo si fanno senza penna e senza gettoni ogni sorta di operazioni, ma li si fa anche senza conoscere alcuna regola di aritmetica, e con un'infallibile sicurezza. Quest'opera è stata considerata come qualcosa di nuovo nella natura, avendo ridotto in macchina una scienza che risiede interamente nell'intelletto, e avendo il modo di farvi ogni operazione con assoluta certezza, senza bisogno di ragionamento. Questo lavoro lo affaticò parecchio, non per la teoria e gli ingranaggi, che trovò senza difficoltà, ma perché doveva far comprendere tutte quelle cose agli operai. Così che impiegò due anni per perfezionarla al punto in cui è.

Ma la fatica e la fragilità in cui si trovava la sua salute da qualche anno, gli procurarono dei mali che non lo hanno più lasciato; al punto che qualche volta ci diceva che, dall'età di diciotto anni, non aveva trascorso un solo giorno senza dolore. I suoi mali non avevano sempre la stessa violenza, e appena lo lasciavano un po' respirare, la sua mente si lanciava subito a cercare qualcosa di nuovo.

Fu in quell'occasione di uno di quei momenti, a ventitrè anni, che avendo appreso dell'esperimento di Torricelli, inventò e mise in atto quello che viene chiamato l'esperimento del vuoto, che prova in modo chiarissimo come tutte le conseguenze che fino ad allora erano state attribuite all'orrore del vuoto, sono causate dal peso dell'aria. Questo fu l'ultimo lavoro che lo impegnò nelle scienze; e benché dopo abbia inventato la cicloide, ciò non contraddice affatto quello che ho affermato, perché la trovò senza pensarvi, e in un modo che mostra bene come non ci fu applicazione, come dirò in seguito. Immediatamente dopo, quando non aveva ancora ventiquattro anni, avendolo messo la Provvidenza divina in una circostanza in cui dovette leggere dei libri di pietà, Dio lo illuminò a tal punto per mezzo di quella santa lettura, che egli comprese perfettamente che la religione cristiana ci obbliga a vivere solo per Dio, e a non avere altro oggetto che lui; e questa verità gli parve così evidente, così necessaria e utile, da porre fine a tutte le sue ricerche: così che a quel tempo rinunciò ad ogni altra conoscenza, per applicarsi all'unica cosa che Gesù Cristo chiama necessaria.

Una particolare protezione della Provvidenza lo aveva fino a quel momento preservato da tutti i vizi della gioventù; e, cosa ancora più strana in uno spirito di quella tempra e di quel carattere, non aveva mai inclinato al libertinaggio, per quanto riguarda la religione, avendo sempre limitato la sua curiosità all'ambito dei fenomeni naturali; e più volte mi ha detto che doveva questo ed altri doveri morali a mio padre, che aveva a sua volta un grande rispetto per la religione, e glielo aveva trasmesso fin dall'infanzia, dandogli per norma che tutto ciò che è oggetto di fede non potrebbe esserlo per la ragione.

Queste regole, che spesso gli venivano ripetute da un padre per cui aveva una grande stima, e nel quale vedeva una grandissima cultura accompagnata da una ragione acutissima e fortissima, avevano prodotto una tale impressione sulla sua mente che, quali che fossero i ragionamenti che udiva fare ai libertini, non ne era per niente scosso; e benché fosse molto giovane, pensava loro come a gente che sbagliava ponendo la ragione umana al di sopra di tutto, e non conosceva la natura della fede. Così, questo spirito così grande, così vasto e pieno di curiosità, che cercava con tanto impegno la causa e la ragione di tutto, si sottometteva al tempo stesso a tutte le cose della religione come un bambino; e questa semplicità è rimasta in lui tutta la vita: così che, anche dopo che decise di non dedicarsi ad altro studio se non a quello della religione, non si è mai interessato ai problemi sottili della teologia, e ha messo ogni forza del suo animo a conoscere e a praticare la perfezione della morale cristiana, a cui ha consacrato tutti i talenti che Dio gli aveva dato, non facendo altro per tutto il resto della sua vita che meditare giorno e notte la legge di Dio. Ma, benché non avesse seguito degli studi particolari sulla scolastica, tuttavia non ignorava le decisioni della Chiesa contro le eresie che sono state inventate dalla ingannevole sottigliezza dello spirito umano; ed è proprio questo tipo di ricerche che avversò maggiormente; e a quel tempo Dio gli concesse l'occasione di rivelare lo zelo che professava per la religione.

Proprio allora si trovava a Rouen, dove mio padre prestava servizio per il re, e dove c'era un uomo che insegnava una nuova filosofia che attirava tutti i curiosi. Mio fratello, spinto da due suoi giovani amici, andò con loro; ma rimasero molto sorpresi dal colloquio che ebbero con l'uomo, perché, esponendo i princìpi della sua filosofia, ne tirava conseguenze su punti della fede contrarie alle decisioni della Chiesa. Provava per mezzo di ragionamenti che il corpo di Gesù Cristo non era fatto con il sangue della Vergine, e altre cose simili. Tentarono di fargli delle obiezioni, ma rimase fermo nelle sue idee, così che, riflettendo tra loro sul pericolo che consisteva nel permettere a un uomo che aveva idee tanto sbagliate di educare la gioventù, decisero prima di avvertirlo, e poi di denunciarlo, se avesse resistito al loro avvertimento. Avendo disprezzato l'avvertimento, le cose andarono in questo modo: essi credettero loro dovere denunciarlo al Signore di Bellay, che allora esercitava le funzioni episcopali nella diocesi di Rouen, su incarico dell'Arcivescovo. Il Signore di Bellay convocò l'uomo e, dopo averlo interrogato, fu ingannato da una professione di fede ambigua che egli scrisse e firmò di sua mano, non dando eccessivo peso alla denuncia di tre giovani. Tuttavia, appena vennero a conoscenza della professione di fede, scoprirono l'inganno, questo li spinse a recarsi dall'Arcivescovo di Rouen a Gaillon che, esaminata ogni cosa, trovò il caso così importante da scrivere una lettera patente al suo Consiglio, ordinando espressamente al Signore di Bellay di far ritrattare quell'uomo su tutti i punti di cui era accusato, e di non ricevere niente da lui se non per mezzo di coloro che lo avevano denunciato. L'ordine venne eseguito e l'uomo comparve davanti al Consiglio dell'Arcivescovo, dove rinunciò a tutte le sue idee; e si può dire che lo fece sinceramente, perché non ha mai dimostrato rancore nei confronti di quelli che gli avevano causato il procedimento; ciò fa credere che egli stesso si fosse lasciato ingannare dalle false conseguenze che tirava da falsi princìpi. È altrettanto vero che nella vicenda non c'era stato alcuno scopo di nuocergli, né altro intendimento se non quello di disingannarlo e impedirgli di sedurre i giovani, che non avrebbero saputo distinguere in problemi così sottili il vero dal falso. Così la faccenda si concluse serenamente; e mio fratello continuava sempre di più a cercare i mezzi per piacere a Dio, il suo amore per la perfezione si accese a tal punto, all'età di ventiquattro anni, da propagarsi a tutta la casa. Mio padre, non vergognandosi di seguire l'insegnamento del figlio, abbracciò da allora una vita più conforme, con una quotidiana pratica delle virtù fino alla sua morte, che è stata pienamente cristiana.

Mia sorella, che aveva talenti intellettuali straordinari e che, fin dall'infanzia, godeva di una reputazione a cui poche donne arrivano in età più avanzata, fu anch'essa a tal punto toccata dai discorsi di mio fratello che decise di rinunciare a tutti i privilegi che aveva tanto amato fino ad allora e di consacrarsi interamente a Dio. Essendo molto intelligente, dal momento in cui Dio le toccò il cuore, comprese come mio fratello tutto quello che diceva sulla santità della religione cristiana; e, non sopportando l'imperfezione con cui pensava di vivere nel mondo, si fece religiosa in un convento molto austero, a Port-Royal des Champs, dove è morta a soli trentadue anni, dopo essere passata attraverso i compiti più difficili ed essersi consumata in così poco tempo, acquistando meriti che gli altri acquisirono solo dopo molti anni.

Mio fratello aveva allora ventiquattro anni; i suoi mali erano incessantemente aumentati, ed arrivarono al punto che non poteva inghiottire liquidi se non caldi, e anche in questo caso goccia a goccia. Ma poiché, oltre a questo, aveva molti altri mali, i medici gli ordinarono di purgarsi ogni due giorni per tre mesi, così che dovette assumere le medicine nell'unico modo in cui poteva, cioè scaldandole e inghiottendole goccia a goccia. Era un vero supplizio, e quelli che gli stavano vicino provavano orrore solo a vedere; ma mio fratello non se ne lamentò mai. Guardava a tutto questo come a un guadagno. Perché, non riconoscendo più altre scienze oltre la virtù, e sapendo che ci si perfeziona nelle infermità, con gioia offriva in sacrificio tutti i suoi dolori, come una penitenza, scorgendo in ogni cosa i vantaggi del cristianesimo. Spesso diceva che un tempo i suoi mali lo distoglievano dagli studi, e che ne soffriva molto; ma che un cristiano trovava un senso a tutto, e in modo particolare alle sofferenze, perché vi riconosceva Gesù Cristo crocifisso, che deve essere tutta la scienza di un cristiano e l'unica gloria della sua vita.

La continuazione di questi rimedi, insieme agli altri praticati, gli dette qualche sollievo, ma non una salute perfetta; così i medici pensarono che, per ristabilirlo completamente, fosse necessario che rinunciasse ad ogni attività intellettuale di qualche impegno, e che cercasse, per quanto possibile, ogni occasione per distrarre la mente con qualche cosa che lo tenesse piacevolmente occupato, cioè, in una parola, con le relazioni mondane; poiché per mio fratello non c'erano altri divertimenti accettabili. Ma come fare per convincere un uomo occupato come lui? All'inizio, in effetti, fu molto difficile; ma furono tante e tali le pressioni che alla fine si arrese alla speciosa ragione di rimettersi in salute; venne persuaso che la salute è un bene di cui Dio vuole che abbiamo cura.

Eccolo dunque in società. Più volte si trovò a Corte, dove persone che vi erano di casa notarono come ne avesse preso l'aria e le maniere, con tanta grazia che se ne fosse nutrito da una vita intera. È vero che, parlando del mondo, ne svelava così bene tutti i meccanismi che era facile prevedere che fosse abilissimo a muoverli e a utilizzare tutto quello che era necessario per accomodarvisi, solo che lo trovasse ragionevole.

Fu il tempo della sua vita peggio impiegato; perché, anche se la misericordia di Dio lo preservò dai vizi, era pur sempre l'aria del mondo, che è ben diversa da quella del Vangelo. Dio, che attendeva da lui una perfezione più grande, non volle lasciarvelo a lungo, e per sottrarlo si servì di mia sorella, come un tempo si era servito di mio fratello per sottrarre mia sorella agli impegni mondani.

Da quando era entrata in religione, ogni giorno il suo fervore cresceva, e da ogni suo pensiero emanava una santità incondizionata. Per questo non sopportava che proprio la persona verso cui era debitrice presso Dio delle grazie di cui gioiva, non godesse di quelle stesse grazie; e, poiché mio fratello la vedeva frequentemente, altrettanto frequentemente gliene parlava, e alla fine lo fece con tanta forza che lo persuase a fare ciò a cui lui per primo l'aveva persuasa, lasciare la società e tutti i suoi intrattenimenti, i più innocenti dei quali non sono che perdite di tempo continue, del tutto indegne della santità del cristianesimo a cui tutti siamo chiamati, e di cui Gesù Cristo ci ha dato l'esempio.

Quei motivi di salute, che prima l'avevano convinto, gli parvero così miserabili che se ne vergognò. La luce della vera sapienza gli rivelò che la salvezza doveva essere preferita a qualsiasi cosa, e che era un sofisma fermarsi al bene caduco del nostro corpo quando si trattava del bene eterno della nostra anima.

Aveva trent'anni quando decise di abbandonare i nuovi impegni che aveva in società; cominciò con il cambiare casa, ruppe poi con tutte le sue abitudini e andò in campagna, da dove, di ritorno da un lungo ritiro, annunciò con tanta chiarezza di voler abbandonare la società, che la società alla fine lo abbandonò.

Agiva sempre, infine, in ogni cosa, secondo princìpi; la sua mente e il suo cuore, fatti com'erano, non potevano comportarsi diversamente. Quelli che si propose durante il suo ritiro furono improntati solo a un'autentica pietà, il primo fu la rinuncia ad ogni piacere, l'altro la rinuncia alle cose superflue.

Iniziò subito a mettere in pratica il primo principio, rinunciando da allora, per quanto possibile, e come poi ha sempre fatto, ad essere servito da domestici. Si faceva il letto da solo, andava a prendere il pasto in cucina, vi riportava le stoviglie, e infine si serviva della servitù solo per le cose che non poteva assolutamente fare da solo.

Non era possibile fare a meno dei sensi; ma, quando era costretto a dare loro qualche piacere, aveva una meravigliosa abilità per distoglierne lo spirito, affinché non vi prendesse parte. Mentre mangiava, non gli abbiamo mai sentito lodare il cibo che gli veniva servito; e a volte, se ci si era preoccupati di fargli qualcosa di più delicato, alla domanda se lo aveva trovato buono, diceva semplicemente: «Dovevate dirmelo prima, perché ora non me ne ricordo, e confesso che non ci ho fatto caso». E quando qualcuno, come capita normalmente, lodava la bontà di un cibo, non lo tollerava e lo accusava di sensualità, per quanto fossero le cose più comuni, «perché», diceva, «era segno che si mangiava per soddisfare il proprio gusto, e questo era sempre un male; o comunque che si usava lo stesso linguaggio degli uomini sensuali, cosa che non si addiceva a un cristiano, che non deve mai dire niente che non ispiri un'aria di santità». Non permetteva che si facessero salse o ragout, né che gli si dessero succhi d'arancia o d'agresto, né niente che stimolasse l'appetito, per quanto queste cose gli piacessero naturalmente. Dall'inizio del ritiro aveva stabilito la quantità di cibo necessaria al suo stomaco; e da allora, per quanto appetito avesse, non superava quella misura, ma anche se non ne aveva voglia, mangiava quello che aveva stabilito. Quando gli si chiedeva il motivo di questo comportamento, rispondeva che bisognava soddisfare il bisogno dello stomaco, non quello dell'appetito.

Ma la mortificazione dei sensi non si limitava ad astenersi da tutto ciò che poteva essere piacevole, sia nel cibo, sia nelle cure. Per quattro anni di seguito ha preso certi brodini senza manifestare il minimo disgusto. Bastava che gli venisse prescritto qualcosa, lo prendeva senza problemi; e quando mi stupivo che non provasse ripugnanza a prendere alcune medicine terribili, mi prendeva in giro, dicendo che non riusciva a capire come si potesse mostrare ripugnanza se si prendeva qualcosa volontariamente, e dopo che si era stati avvisati che era cattiva; che solo la violenza e la sorpresa potevano produrre simili effetti. In seguito vedremo facilmente la cure che metteva nel rinunciare a ogni sorta di piacere intellettuale, dove poteva entrare l'amor proprio.

Non si è meno curato di mettere in atto l'altra norma che si era prefisso, di rinunciare a ogni tipo di cose superflue, che è poi una conseguenza della prima. Poco a poco si era ridotto a non aver più tappezzerie nella sua camere, perché non lo riteneva necessario, e d'altra parte non era costretto da alcuna convenienza sociale, perché non vedeva altro che persone a cui raccomandava senza tregua la rinuncia, e che dunque non erano sorprese di vedere che viveva proprio come consigliava agli altri. Abbiamo già osservato che si era sottratto alla superfluità delle visite, e giunse a non voler vedere più nessuno del tutto.

Ma poiché si cerca sempre un tesoro, dovunque sia, e Dio non permette che una luce accesa per illuminare sia nascosta sotto il moggio, un certo numero di persone di condizione e d'intelletto elevati, che aveva conosciute precedentemente, lo cercavano nel suo ritiro e chiedevano i suoi consigli; altri, che avevano dubbi in materia di fede, e che sapevano quale fosse la sua saggezza a tal proposito, ricorrevano a lui; e gli uni e gli altri, molti dei quali sono ancora vivi, ne ritornavano molto contenti, e ancor oggi, ad ogni occasione, testimoniano che è grazie alle sue illuminazioni e ai suoi consigli che gli sono debitori del bene che fanno e conoscono.

Benché s'impegnasse in queste conversazioni solo per motivi di carità, e vigilasse attentamente su se stesso per non perdere niente di ciò che si sforzava di ottenere dal suo ritiro, tuttavia non smetteva di crucciarsene, temendo che l'amor proprio gli facesse prendere piacere da quelle conversazioni; la sua regola era di non prenderne affatto dove fosse presente, anche in minima parte, quel principio. D'altronde non credeva di poter rifiutare a quelle persone il soccorso di cui avevano bisogno. Era una specie di guerra. Ma lo spirito di mortificazione, che è lo spirito stesso della carità che accomoda ogni cosa, gli venne in aiuto, e gli suggerì di mettersi una cintura di ferro piena di punte, che indossava direttamente sulla carne ogni volta che lo avvertivano che sarebbero venute quelle persone. Lo fece, e quando si manifestava in lui qualche intenzione vanitosa, o si sentiva toccato dal piacere della conversazione, si dava dei colpi di gomito per raddoppiare la violenza delle trafitture, così da ricordarsi dei doveri. Questa pratica gli parve così utile, che la usò a scopo preventivo anche durante l'inattività degli ultimi anni della sua vita. Poiché in quelle condizioni non poteva né leggere né scrivere, era costretto a restare senza far niente e a passeggiare, senza poter pensare a niente d'impegnativo. A ragione temeva che questa inattività, che è la radice di ogni male, lo distogliesse dai suoi princìpi; e per rimanere sempre all'erta, si era come incorporato questo nemico volontario che, pungendo il corpo, eccitava senza tregua la sua anima a mantenersi nel fervore, procurandogli il modo per ottenere una vittoria sicura. Ma tutto questo era così segreto che non ne sapevamo niente, e lo abbiamo appreso solo dopo la sua morte da una persona di grande virtù che egli amava e che aveva obbligato a rivelare questo fatto per motivi che la riguardavano.

Tutto il tempo non occupato dalle opere di carità di cui abbiamo parlato, era impegnato nella preghiera e nella lettura della Sacra Scrittura. Quello era come il centro del suo cuore, dove trovava la sua gioia e tutto il riposo del suo ritiro. Aveva davvero un dono tutto particolare per assaporare i benefici di queste due attività così preziose e sante. Si poteva anche dire che non fossero differenti in lui; perché meditava sulla Sacra Scrittura pregando. Diceva spesso che la Sacra Scrittura non era una scienza dell'intelletto, ma del cuore, e che era comprensibile solo a quelli che hanno il cuore retto, e che tutti gli altri non vi trovavano che oscurità, e il velo che copre la Scrittura agli ebrei è lì anche per i cattivi cristiani; che la carità non era solo l'oggetto della Scrittura, ma anche la porta d'accesso. Ma andava oltre, e diceva che si è ben disposti a capire le Scritture quando si odia se stessi e si ama la vita mortificata di Gesù Cristo. Era in questa disposizione d'animo che leggeva la Sacra Scrittura, e vi si era dedicato con tanta forza che la conosceva quasi tutta a memoria, così che non gliela si poteva citare a sproposito; e diceva con sicurezza: «Questo nella Scrittura non c'è», o: «Questo sì», e diceva esattamente il passo, e in genere tutto ciò che poteva servirgli per dare una comprensione perfetta di ogni verità riguardante sia la fede che la morale.

Aveva un tipo d'intelligenza così ammirevole, che rendeva bello tutto ciò che diceva, e benché apprendesse molte cose dai libri, quando le aveva assimilate alla sua maniera, sembravano del tutto diverse, perché egli sapeva sempre come esprimerle per farle entrare nell'anima di un uomo.

Egli aveva naturalmente i modi di una mente straordinaria; ma si era fatte delle regole d'eloquenza molto particolari, che aumentavano ancora il suo talento. Non si trattava di quelle che si chiamano belle trovate, che brillano in modo falso e non significano niente; ma paroloni, poche espressioni metaforiche, niente di oscuro e di rozzo, né di vistoso, né di sciatto, né di superfluo. Concepiva l'eloquenza come il mezzo per dire le cose in modo che tutti quelli a cui si parla le possano capire facilmente e con piacere, e riteneva che quest'arte consistesse in un certo accordo che ci deve essere tra la mente e il cuore di coloro a cui si parla, e i pensieri e le espressioni di cui ci si serve; e che questo accordo si realizza solo con la forma che gli si dà. Per questo aveva studiato molto il cuore e la mente dell'uomo; ne conosceva perfettamente bene i meccanismi. Quando pensava qualche cosa, si metteva nella disposizione di quelli che la dovevano capire; e dopo aver esaminato se tutte le proporzioni erano al loro posto, si preoccupava che forma bisognasse dargli, e non era contento finché non vedeva chiaramente che uno era talmente fatto per l'altro, cioè quello che aveva pensato per la mente di chi doveva capire, che, quando ciò si realizzava per la cura che vi aveva messo, sarebbe stato impossibile per la mente di un uomo non abbandonarvisi con piacere. Se qualcosa era piccolo, non lo faceva grande, e ciò che era grande non lo faceva piccolo. Non gli bastava che una cosa sembrasse bella; era necessario che fosse adatta al soggetto, che non ci fosse niente di superfluo, ma anche che non mancasse niente. Era infine così padrone del suo stile che diceva tutto quello che voleva, e le sue parole avevano sempre l'effetto che si era riproposto. Questo modo di scrivere genuino, appropriato, piacevole, forte e naturale al tempo stesso, gli era così connaturato e originale, che appena uscirono le Lettere a un provinciale, si disse che erano sue, per quante precauzioni avesse preso di nasconderlo anche ai suoi famigliari.

Fu in quel tempo che piacque a Dio di guarire mia figlia da una fistola lacrimale, da cui era afflitta da tre anni e mezzo. La fistola era tanto grave che i più bravi chirurghi di Parigi l'avevano giudicata incurabile. Ma alla fine Dio si era riservato di guarirla con il tocco di una santa spina che si trova a Port-Royal; e il miracolo fu attestato da molti chirurghi e medici, e confermato da una solenne professione della Chiesa.

Mio fratello era il padrino di mia figlia; ma egli venne con maggior forza toccato da questo miracolo, per il fatto che rendeva gloria a Dio, e che arrivava in un momento in cui la fede della maggior parte della società era debole. La sua gioia fu talmente grande che ne fu tutto penetrato; e poiché la sua mente non si occupava mai di nulla senza rifletterci molto, concepì, in occasione del miracolo, molti pensieri di grande importanza sui miracoli in generale, sia nell'Antico che nel Nuovo Testamento. Se ci sono dei miracoli, allora ci deve essere qualcosa al di sopra di tutto quello che chiamiamo natura. È una conseguenza di buon senso: non resta che accertare la veridicità dei miracoli. Ci sono delle regole per questo, che vengono ancora dal buon senso, e queste regole sono confermate dai miracoli che si trovano nell'Antico Testamento. Questi miracoli sono dunque veri. Dunque esiste qualcosa al di sopra della natura.

Ma questi miracoli portano i segni che vengono da Dio; e quelli del Nuovo Testamento, in particolare, portano il segno che colui che li operava era il Messia che gli uomini dovevano attendere. Dunque, come i miracoli sia dell'Antico Testamento che del Nuovo, provano che c'è un Dio, quelli del Nuovo, in particolare, provano che Gesù Cristo era il vero Messia.

Si districava in tutto ciò con un'acutezza ammirevole, e sentendolo parlare, mentre elencava tutte le circostanze dell'Antico e del Nuovo Testamento dove venivano riportati questi miracoli, ci sembravano chiari. Non era possibile negare la verità di quei miracoli, né le conseguenze che ne ricavava per provare Dio e il Messia, senza urtare contro princìpi più comuni su cui si fondano tutte le cose che passano per indubitabili. Si è conservato qualcosa dei suoi pensieri a tal proposito, ma è poco, e mi sentirei in dovere di dilungarmi maggiormente per fare più luce, secondo tutto quello che gli abbiamo udito dire, se un suo amico non ci avesse dato una dissertazione sui libri di Mosè, dove tutto ciò è ammirevolmente analizzato, e in un modo non indegno di mio fratello. Vi rinvio dunque a quest'opera, e aggiungo solo, è importante qui riferirlo, che tutte le diverse riflessioni fatte da mio fratello sui miracoli gli aprirono molte nuove vedute sulla religione. Poiché tutte le verità sono concatenate una all'altra, era sufficiente che si concentrasse su una, le altre gli si presentavano in folla, chiarendosi alla sua mente in modo da esaltarlo, come spesso ci ha detto. E fu in questa occasione che si sentì talmente animoso nei confronti degli atei che, vedendo nell'intelligenza che Dio gli aveva dato di che convincerli e confonderli senza rimedio, si concentrò su quest'opera, e le parti che se ne sono racimolate, ci procurano il rammarico che non le abbia potute ordinare egli stesso, e, con tutto quello che avrebbe potuto ancora aggiungervi, farne un lavoro definito di una bellezza compiuta. Ne era assolutamente capace; ma Dio, che gli aveva dato tutta l'intelligenza necessaria per un disegno così grande, non gli dette una salute sufficiente per realizzarlo.

La sua intenzione era di far vedere che la religione cristiana poteva vantare gli stessi segni di certezza delle cose che vengono ritenute più indubitabili. Per far questo non si servì di prove metafisiche: non che le disprezzasse, una volta messe nella giusta luce; ma diceva che erano molto distanti dal modo di ragionare comune degli uomini; che non tutti ne erano all'altezza, e che a quelli che ne erano capaci servivano per un istante, perché l'ora dopo non sapevano cosa pensarne e temevano di essersi sbagliati. Diceva inoltre che questo tipo di prove ci può condurre solo a una conoscenza speculativa di Dio, e che conoscere Dio in questo modo significava non conoscerlo. Questo non vuol dire che si servisse dei ragionamenti usuali tratti dalla natura; pur rispettandoli, perché erano consacrati dalla Sacra Scrittura e conformi alla ragione, pensava che non fossero abbastanza adatti alla mente e alla disposizione di cuore di coloro che aveva in animo di convincere. Per esperienza aveva osservato che, lungi dall'entusiasmarli in questo modo, niente era più adatto, al contrario, per respingerli e togliere loro la speranza di trovare la verità, che pretendere di convincerli con quei tipi di ragionamenti, contro i quali si sono così spesso irrigiditi, dal momento che la durezza del loro cuore li ha resi sordi alla voce della natura; e che infine si trovavano in un accecamento da cui potevano uscire solo grazie a Gesù Cristo, al di fuori del quale ogni rapporto con Dio ci è precluso, perché è scritto che nessuno conosce il Padre tranne il Figlio, e colui a cui il Figlio vuole rivelarlo.

La divinità dei cristiani non consiste solo in un Dio semplice autore delle verità geometriche e dell'ordine degli elementi: questa è una concezione pagana. Essa non consiste in un Dio che esercita la sua Provvidenza sulla vita e sui beni degli uomini per concedere un felice seguito d'anni: questa è una concezione ebraica. Ma il Dio di Abramo e di Giacobbe, il Dio dei cristiani è un Dio di amore e di consolazione: è un Dio che riempie l'anima e il cuore di coloro che lo possiedono. È un Dio che fa sentire interiormente la loro miseria e la sua infinita misericordia; che li raggiunge in fondo alla loro anima; che li riempie di umiltà, di fede, di fiducia e di amore; che li rende incapaci di un altro scopo oltre se stesso.

Il Dio dei cristiani è un Dio che fa sentire all'anima che egli è il suo unico bene; che il suo riposo è in lui, che proverà gioia solo ad amarlo; e che, al tempo stesso, le fa aborrire gli ostacoli che la trattengono e le impediscono di amarlo con tutte le sue forze. L'amor proprio e la concupiscenza che la fermano gli sono insopportabili, e Dio le fa sentire che essa ha questo fondo di amor proprio e che lui solo può guarirla.

Ecco cosa significa conoscere Dio da cristiani. Ma per conoscere in questo modo bisogna al tempo stesso conoscere la propria miseria e la propria indegnità, e il bisogno di un mediatore per avvicinarsi e per unirsi a Dio. Non bisogna separare queste conoscenze; e, poiché separate sono non solo inutili, ma nocive, la conoscenza di Dio senza quella della nostra miseria fa nascere l'orgoglio, quella della nostra miseria senza quella di Gesù Cristo, fa nascere la disperazione. Ma la conoscenza di Gesù Cristo ci sottrae all'orgoglio e alla disperazione, perché vi troviamo Dio, unico consolatore della nostra miseria, unica via per porvi rimedio.

Possiamo conoscere Dio senza conoscere la nostra miseria, o la nostra miseria senza conoscere Dio, o anche Dio e la nostra miseria senza conoscere il mezzo per liberarci dalle miserie che ci opprimono. Ma non possiamo conoscere Gesù Cristo senza conoscere insieme Dio e la nostra miseria, perché egli non è solo Dio, ma il Dio che pone rimedio alle nostre miserie.

Così, tutti quelli che cercano Dio senza Gesù Cristo, non trovano alcun chiarimento che li soddisfi, o che sia loro veramente utile; o perché non arrivano a conoscere l'esistenza di un Dio, o, se vi arrivano, è inutile per loro, perché si formano un mezzo per comunicare senza mediatore con quel Dio che hanno conosciuto senza mediatore; così cadono nell'ateismo e nel teismo, che sono due cose che la religione cristiana aborre quasi allo stesso modo.

Bisogna dunque tendere unicamente a conoscere Gesù Cristo, perché solo attraverso lui possiamo arrivare a conoscere Dio in modo utile per noi. È lui il vero Dio degli uomini, dei miserabili e dei peccatori. Egli è il centro e l'oggetto di tutto; e chi non lo conosce non conosce niente riguardo all'ordine naturale del mondo, né riguardo a se stesso; perché, non solo conosciamo Dio solo attraverso Gesù Cristo, ma conosciamo noi stessi solo attraverso Gesù Cristo.

Senza Gesù Cristo, è necessario che l'uomo sia nel vizio e nella miseria; con Gesù Cristo, l'uomo è al riparo dal vizio e dalla miseria. In lui è tutta la nostra felicità, la nostra virtù, la nostra vita, la nostra luce, la nostra speranza; fuori di lui non ci sono che vizi, miserie, tenebre e disperazione, e vediamo solo oscurità e confusione nella natura divina e nella nostra. Queste sono sue parole, una per una, e ho creduto di doverle riportare perché ci fanno vedere in modo ammirevole quale fosse lo spirito della sua opera, e come la forma che voleva impiegare fosse senza dubbio la più adatta a convincere il cuore dell'uomo.

Uno dei punti principali della sua eloquenza era non solo di non dire niente che fosse incomprensibile, o che si capisse a fatica, ma anche di dire cose interessanti per quelli che ascoltano, perché è certo che allora l'amor proprio non mancherebbe di farci riflettere, inoltre, essendo due gli atteggiamenti che possiamo prendere verso le cose (perché o ci affliggono o ci consolano), pensava non bisognasse mai affliggere senza consolare, e che il segreto dell'eloquenza era di ben condurre tutto ciò.

Così, dunque, nelle prove che doveva dare di Dio e della religione cristiana, non voleva dire niente che non fosse alla portata di tutti quelli a cui erano destinate, e in cui l'uomo non si sentisse coinvolto, o sentendo in se stesso tutte le cose che gli venivano fatte notare, buone o cattive, o vedendo chiaramente l'impossibilità di prendere un partito migliore di quello di credere che esiste un Dio di cui possiamo gioire e un mediatore che, essendo venuto per farci meritare la grazia, comincia fin da questa vita a renderci felici con le virtù che ci ispira, molto più di quanto sapremmo con tutto quello che il mondo ci promette, e ci dà la sicurezza che lo saremo perfettamente in cielo, se lo meritiamo nel modo che ci ha indicato egli stesso con l'esempio.

Ma benché fosse convinto che tutto ciò che aveva da dire sulla religione sarebbe stato chiarissimo e convincente, non pensava tuttavia che avrebbe dovuto esserlo per coloro che si trovavano nell'indifferenza e che, non trovando in se stessi motivi di persuasione, trascuravano di cercarne altrove, soprattutto nella Chiesa, dove s'impongono in maggior quantità. Per lui queste due verità erano certe: che Dio ha messo dei segni visibili, soprattutto nella Chiesa, per farsi riconoscere da quelli che lo cercano con sincerità, e che tuttavia li ha nascosti in modo tale da venire scoperti solo da chi lo cerca con tutto il cuore.

Per questo, quando doveva discutere con degli atei, non iniziava mai dalla contesa, né definendo i princìpi che voleva esprimere; prima voleva sapere se cercavano la verità con tutto il loro cuore; ed egli si comportava con loro conformemente a ciò, o per aiutarli a trovare la verità che non avevano, se la cercavano sinceramente, o per metterli in condizione di cercarla e farne la loro più seria occupazione, prima di istruirli, se volevano che le sue parole fossero utili. Furono le sue malattie ad impedirgli di lavorare maggiormente al suo progetto. Aveva circa trentaquattro anni quando iniziò ad applicarvisi. Impiegò un anno intero a prepararsi, per quanto le altre occupazioni glielo permettevano, raccogliendo cioè i diversi pensieri che gli venivano a tal proposito; e alla fine dell'anno, quando ne aveva trentacinque, ricadde nei suoi malanni in modo così tremendo che non poté più fare niente nei quattro anni che gli rimasero ancora da vivere, se si può chiamare vita la penosa prostrazione in cui li trascorse.

Non si può pensare a quest'opera senza la vivissima afflizione di vedere come il lavoro più bello e forse il più utile di questo secolo non sia stato ultimato. Non oserò dire che non ne eravamo degni. Sia quel che sia, Dio ha voluto far vedere con un abbozzo, per così dire, di cosa fosse capace mio fratello grazie alla grandezza della sua intelligenza e ai talenti che gli aveva dato; e se questo lavoro potesse essere realizzato da un altro, penso che Dio renderebbe possibile un tale bene solo tramite molte nuove preghiere.

Questa ripresa dei malanni di mio fratello iniziò con un mal di denti che gli tolse assolutamente il sonno. Ma com'era possibile che un'intelligenza come la sua rimanesse sveglia senza pensare a niente? Per questo, durante le insonnie, così frequenti e stancanti, una notte gli vennero in mente alcune idee sulla cicloide. Alla prima ne seguì una seconda, alla seconda una terza, e infine una quantità di pensieri uno dopo l'altro che, quasi suo malgrado, gli svelarono quella dimostrazione della cicloide di cui lui per primo fu stupito. Ma, poiché da molto tempo aveva rinunciato a questo tipo di cose, pensò di non scrivere niente. Tuttavia, avendone parlato a una persona a cui era molto obbligato, per rispetto al suo merito e per riconoscenza verso l'affetto di cui era onorato, questa persona concepì sull'invenzione un progetto che riguardava solo la gloria di Dio, e spinse mio fratello a scrivere tutto quello che aveva pensato e a farlo pubblicare.

È incredibile con che velocità egli mise ciò sulla carta. Non faceva che scrivere, fino a quando la sua mano lo portava, e terminò in pochissimi giorni. Non ne fece copia, ma consegnava i fogli a mano a mano che li riempiva. Intanto si stava pubblicando un'altra sua cosa che consegnava mentre componeva, così che riforniva gli stampatori di due diversi lavori. Non era troppo per la sua mente; ma il suo corpo non resistette, perché proprio quest'ultima fatica finì col rovinare del tutto la sua salute e lo ridusse in quello stato così penoso, come abbiamo detto, da non poter lavorare.

Ma se le malattie lo resero incapace di servire gli altri, non furono inutili per lui; perché le sopportò con tanta pazienza che c'è motivo di credere, consolandosi con questo pensiero, che Dio abbia voluto con ciò renderlo tale quale voleva che gli si presentasse davanti. In effetti non pensò più che a questo, e tenendo sempre davanti agli occhi le due massime che si era prefissato, cioè di rinunciare ad ogni piacere e ad ogni cosa superflua, le mise in atto con rinnovato fervore, come se fosse istigato dal peso della carità che lo sentiva avvicinarsi al centro dove avrebbe goduto del riposo eterno.

Ma per conoscere lo stato d'animo particolare con cui sopportava ogni nuovo male negli ultimi quattro anni della sua vita, non c'è niente di meglio che la preghiera, composta a quel tempo, per chiedere a Dio il buon uso delle malattie. Perché non si può dubitare che egli avesse nel cuore tutte queste cose, dal momento che si trovavano nella sua mente, e che le ha scritte solo perché le ha messe in pratica. Possiamo comunque assicurare che ne siamo stati testimoni, e che nessuno ha scritto meglio sul buon uso delle malattie, nessuno di tutti quelli che lo vedevano l'ha mai praticato con più edificazione.

Qualche anno prima aveva scritto una lettera sulla morte di mio padre, da cui si vede come comprendesse che un cristiano deve guardare a questa vita come a un sacrificio, e come le diverse disgrazie che ci capitano non devono colpirci se non nella misura in cui interrompono o realizzano questo sacrificio. Guardava alla sua prostrazione con gioia, e vedevamo che ogni giorno benediva Dio con tutta la sua riconoscenza. Quando ci parlava della morte, che credeva più vicina di quanto poi non fu, ci parlava al tempo stesso di Gesù Cristo, e ci diceva che senza Gesù Cristo la morte è orribile, ma in Gesù Cristo è desiderabile, santa, gioia per il credente, e che in verità, se fossimo innocenti, l'orrore della morte sarebbe ragionevole, perché è contro l'ordine naturale che l'innocente sia punito; che in quel caso sarebbe giusto odiarla, se potesse separare un'anima santa da un corpo santo; ma che nel tempo presente era giusto amarla, perché separava un'anima santa da un corpo impuro; che sarebbe stato giusto odiarla se rompesse la pace tra anima e corpo, ma non ora, perché ne acquieta l'insanabile dissenso; che essa toglie al corpo la sventurata libertà di peccare, che mette nell'anima la felice necessità di poter solo lodare Dio e di essere in un'eterna unione con lui; che tuttavia non dobbiamo condannare l'amore per la vita che ci ha dato la natura, perché viene da Dio stesso, che dobbiamo sfruttarlo per quella vita che Dio ci ha dato, che è una vita innocente e felice, e non per un fine opposto; che Gesù Cristo aveva amato la sua vita perché era innocente, che aveva temuto la morte perché lo colpiva in un corpo gradito a Dio, ma che, stando le cose diversamente riguardo alla nostra vita, che è una vita di peccato, dovevamo metterci a odiare una vita opposta a quella di Gesù Cristo, ad amare e non a temere una morte che, ponendo fine in noi a una vita di peccato e piena di miserie, ci dà la libertà di andare a vedere Dio con Gesù Cristo, faccia a faccia, e di adorarlo, benedirlo e amarlo senza riserve per l'eternità.

Sempre per questi motivi amava tanto la penitenza; perché diceva che bisogna punire un corpo peccatore, e punirlo senza remore con una continua penitenza, perché continuamente si ribellava allo spirito, contrastando ogni pensiero di salvezza; ma siccome noi non abbiamo il coraggio di punirci da soli, dovremmo essere grati a Dio quando è lui a volerlo fare; per questo lo benediceva incessantemente per le sofferenze che gli aveva inviato, a cui guardava come a una fiamma che bruciasse, poco a poco, i suoi peccati, con un sacrificio quotidiano, e così si preparava, in attesa che piacesse a Dio inviargli la morte che portasse a compimento il sacrifico perfetto.

Aveva sempre avuto un amore così grande per la povertà, che gli era continuamente presente; al punto che, sia che volesse intraprendere qualcosa o che qualcuno gli domandasse consiglio, il primo pensiero che gli saliva dal cuore alla mente, era il vedere se si poteva praticare la povertà. Ma l'amore per questa virtù crebbe a tal punto verso la fine della sua vita, che non potevo soddisfarlo in modo maggiore se non parlandogli di ciò, e ascoltando quello che a tal proposito egli era sempre pronto a dirci.

A nessuno ha mai rifiutato l'elemosina, benché avesse pochi beni, e le spese a cui era costretto dalla malattia eccedessero le sue rendite. La fece sempre ricavandola dal necessario. Ma quando glielo si ricordava, soprattutto se faceva un'elemosina considerevole, ne soffriva e ci diceva: «Ho notato una cosa, che per quanto si sia poveri, si lascia sempre qualcosa morendo». Qualche volta si era spinto così avanti che, per vivere, era stato costretto a chiedere denaro in prestito, dopo aver dato ai poveri tutto quello che aveva, ma non voleva ricorrere agli amici, perché aveva come regola di non ritenere mai importuni i bisogni di nessuno, ma di temere sempre d'importunare gli altri con i propri. Da quando fu avviato l'affare delle carrozze, mi disse che voleva chiedere un anticipo di mille lire sulla sua parte per inviarle ai poveri di Blois e dintorni, che si trovavano allora in grandi ristrettezze; e poiché gli dicevo che l'affare non era ancora sicuro, e che si doveva attendere un altro anno, mi rispose che non ci vedeva un grande inconveniente, perché, se i soci ci avessero perso, li avrebbe risarciti con i suoi beni, e non poteva aspettare un altro anno perché il bisogno era troppo pressante. Tuttavia, poiché le cose non si fanno da un giorno all'altro, i poveri di Blois furono soccorsi in altro modo, e mio fratello vi partecipò solo con la sua buona volontà, che ci mostra la verità di quello che ci aveva detto tante volte, cioè che si augurava di avere delle ricchezze solo per assistere i poveri; per questo, appena pensava di poterne avere, iniziava a distribuirle in anticipo, ancor prima che ne fosse sicuro.

Non bisogna stupirsi se colui che conosceva così bene Gesù Cristo amava tanto i poveri, e che il discepolo donasse anche il necessario, perché portava nel cuore l'esempio del Maestro che si era donato egli stesso. Ma la regola che si era dato, di rinunciare al superfluo, era in lui il grande fondamento dell'amore che aveva per la povertà. Perché una delle cose su cui si esaminava maggiormente in vista di questa regola riguardava il comune eccesso di voler eccellere in tutto, che, in particolare nell'uso delle cose del mondo, ci porta a volerne sempre di migliori, di più belle e di più comode. Per questo non sopportava che ci si volesse servire degli operai migliori; ci diceva che bisognava cercare sempre i più poveri e più buoni, rinunciando a quell'eccellenza che non è mai necessaria; e biasimava molto anche che si cercasse con tanta cura di avere ogni tipo di comodità, come tenere ogni cosa presso di sé, una camera che non mancasse di niente e altre cose simili che non ci procurano scrupoli; perché, regolandosi su quello spirito di povertà che deve trovarsi in ogni cristiano, egli pensava che tutto quello che era contrario a questo spirito, anche se autorizzato dalle consuetudini della società, fosse sempre un eccesso, perché vi abbiamo rinunciato con il battesimo. A volte esclamava: «Sarei molto felice se avessi il cuore povero come la mente; perché sono meravigliosamente persuaso dello spirito di povertà e che la pratica di questa virtù è un gran mezzo per ottenere la propria salvezza».

Tutti questi discorsi ci facevano rientrare in noi stessi, e a volte ci spingevano a cercare delle regole generali che servissero per ogni necessità, e gliene facevamo richiesta. Ma non era d'accordo, ci diceva che non eravamo chiamati al generale ma al particolare; e che il modo più gradito a Dio era di servire poveramente i poveri, cioè come era possibile, senza riempirsi con quei grandi progetti che hanno a che fare con quella eccellenza di cui biasimava la ricerca in ogni cosa, sia in teoria che in pratica. Non che rifiutasse la creazione di ospedali generali; ma diceva che quelle grandi imprese erano riservate a quelli che Dio destinava e che vi conduceva in modo quasi visibile; ma che non era una vocazione comune a tutti, come l'assistenza privata e quotidiana ai poveri.

Avrebbe voluto che io mi consacrassi a render loro un servizio quotidiano, imposto come penitenza della mia vita. Mi esortava con grande sollecitudine, e mi esortava anche a portarvi i miei figli. E quando gli dicevo che temevo di venire distratta dai miei impegni famigliari, mi rispondeva che era solo mancanza di buona volontà e che, dal momento che vi sono diversi gradi nell'esercizio di questa virtù, si può ben trovare del tempo per praticarla senza nuocere alle occupazioni domestiche, che la carità stessa ne dà lo spirito e non c'è che seguirlo. Diceva che non ci vogliono segni particolari per sapere se vi si è chiamati, che era la vocazione comune a tutti i cristiani, perché da ciò Gesù Cristo giudicherà il mondo; che era sufficiente che si conoscessero i bisogni per spingerci a soddisfarli con tutti i mezzi in nostro potere, e che, dal momento che si vedeva nel Vangelo come la sola omissione di questo dovere fosse motivo di dannazione eterna, questo solo pensiero doveva essere capace di indurci a spogliarci di tutto e a donare noi stessi cento volte, se avessimo fede. Spesso diceva che la frequentazione dei poveri era estremamente utile perché, vedendo continuamente la miseria da cui sono oppressi, e che sovente mancano anche delle cose necessarie, bisognerebbe essere ben duri per non privarsi volontariamente di inutili comodità e abbigliamento superfluo. Ecco una delle istruzioni che ci dava per spingerci all'amore della povertà, che occupava un posto così grande nel suo cuore.

La sua purezza non era inferiore; aveva un rispetto così grande per questa virtù che stava continuamente attento a che non venisse offesa neppure in minima parte, sia in lui, sia negli altri. Non si può credere quanto fosse puntuale a questo proposito. Agli inizi ne ero persino imbarazzata; perché trovava da dire su quasi tutti i discorsi che si facevano in società e che credevamo i più innocenti. Se, per esempio, dicevo per caso di aver visto una bella donna, mi riprendeva, dicendomi che non bisognava mai tenere certi discorsi davanti alla servitù e ai giovani, perché non sapevo quali pensieri potevo eccitare in loro. Quasi non oso dire che non tollerava neppure le carezze che mi facevano i miei figli; sosteneva che ciò non poteva che nuocere loro, che si poteva testimoniare la tenerezza in mille modi. Feci più fatica ad accettare quest'ultimo consiglio; ma in seguito trovai che su ciò aveva ragione come sul resto, e riconobbi per esperienza che facevo bene a sottomettermi.

Tutto questo accadeva nella vita famigliare; ma, circa tre mesi prima della sua morte, Dio volle concedergli un'occasione perché apparisse pubblicamente lo zelo per la purezza che gli aveva ispirato. Così, tornando un giorno da Saint-Sulpice, dove aveva assistito alla santa messa, gli venne incontro una ragazza di circa quindici anni, per chiedergli la carità. Subito pensò ai pericoli ai quali era esposta; e avendo saputo da lei che veniva dalla campagna, che suo padre era morto, che in quello stesso giorno sua madre era stata portata all'ospedale, così che quella povera ragazza era rimasta sola e non sapeva cosa fare, credette che gliela avesse inviata Dio, e la condusse immediatamente in seminario, dove l'affidò alle cure di un bravo sacerdote a cui dette del denaro, pregandolo anche di trovarle una sistemazione sicura. E per alleviargli l'incombenza, gli disse che il giorno dopo gli avrebbe mandato una donna con degli abiti per la ragazza, e tutto quello che sarebbe stato necessario per trovarle una sistemazione. In effetti, gli inviò una donna che lavorò così bene con quel buon sacerdote, che in poco tempo le trovarono una buona sistemazione. Quell'ecclesiastico non conosceva il nome di mio fratello, e non pensò subito di domandarglielo, tanto era preoccupato per la giovane. Ma, una volta sistemata, ci rifletté, trovò quel gesto così bello che volle conoscere il nome di chi lo aveva fatto. S'informò dalla donna, ma quella rispose che le avevano ingiunto di non rivelarlo: «Chiedere il permesso di farlo», le disse, «vi prego; vi prometto che non ne parlerò mai per tutta la vita, ma se Dio volesse che egli muoia prima di me, proverei una grande consolazione a rendere pubblico questo gesto; perché lo trovo così bello e degno di essere saputo, che non sopporterei di lasciarlo nell'oblio». Ma non ottenne niente, e in questo modo capì che quella persona, che voleva rimanere nascosta, non era meno modesta che caritatevole, e che se manifestava zelo per conservare la purezza negli altri, non ne aveva meno nel conservare in se stessa l'umiltà.

Era molto affettuoso con gli amici e con quelli che credeva essere di Dio; e si può dire che, se mai nessuno è stato più degno di essere amato, mai nessuno ha saputo amare meglio di lui, e ha messo meglio in pratica questo amore. Ma la sua dolcezza non era solo un effetto del carattere; perché, benché il suo cuore fosse sempre pronto a intenerirsi per i bisogni degli amici, tuttavia lo faceva sempre e solo secondo le massime del cristianesimo, che fede e ragione gli mettevano davanti agli occhi. Per questo l'affetto non si spingeva fino all'attaccamento, ed era sempre mondo di compiacimento.

Non c'era nessuno che potesse amare più di mia sorella, e a ragione. La vedeva spesso, le parlava di ogni cosa senza riserve, e da lei riceveva soddisfazione su tutto senza eccezione; tra i loro pensieri c'era una corrispondenza così grande che erano d'accordo su tutto; e i loro cuori erano un cuore solo, e le consolazioni che trovavano uno nell'altro possono essere capite solo da coloro che hanno provato la stessa gioia e sanno cosa significa amare ed essere amati con fiducia e senza temere niente che possa dividere, e dove tutto soddisfi.

Tuttavia, alla morte di mia sorella, che precedette la sua di dieci mesi, quando ne ricevette la notizia, disse solo: «Dio ci faccia la grazia di morire in modo così cristiano». E in seguito non ci parlò che delle grazie fatte da Dio a mia sorella durante la vita, e delle circostanze del tempo della sua morte; e poi alzando il suo cuore al cielo, dove la credeva felice, ci diceva, non senza trasporto: «Felici quelli che muoiono e che muoiono così nel Signore». E quando me ne vedeva afflitta (perché in realtà soffrivo molto per la sua perdita) si addolorava, e mi diceva che non era bene, e che non bisognava avere simili sentimenti per la morte dei giusti; ma che al contrario dovevamo lodare Dio per il fatto di aver ricompensato così presto i piccoli servigi che lei gli aveva reso.

In questo modo faceva vedere come amasse senza attaccamento, ma noi ne avevamo avuto ancora una prova alla morte di mio padre, verso il quale egli provava senza dubbio tutti i sentimenti che un figlio riconoscente deve provare verso un padre tanto affettuoso; perché nella lettera che scrisse in occasione della sua morte, noi vediamo come, se la natura ne fu toccata, la ragione prese ben presto il sopravvento; e come, considerando questo avvenimento alla luce della fede, la sua anima ne fu intenerita, ma non piangendo mio padre perso al mondo, bensì considerandolo in Gesù Cristo, colui che lo aveva guadagnato al cielo.

Distingueva due tipi di affetti, uno legato alla sensibilità, l'altro alla ragione, ammettendo che il primo presentava qualche vantaggio nelle consuetudini del mondo. Diceva che il merito tuttavia non c'entrava e che la gente per bene deve tener conto solo dell'affetto legato alla ragione, che faceva consistere nel prendere parte a tutto ciò che capita ai nostri amici nei modi in cui la ragione vuole che vi prendiamo parte, a scapito della nostra ricchezza, della nostra comodità, della nostra libertà, e anche della nostra vita, se ne vale la pena, e ne vale sempre la pena, se si tratta di rendere un servizio a Dio, che deve essere l'unico fine di ogni affetto cristiano.

«Un cuore», diceva, «è duro se, conoscendo i problemi del prossimo, resiste al dovere che lo spinge a prendervi parte; mentre al contrario un cuore è tenero quando tutti i problemi del prossimo entrano in lui facilmente, con tutti i sentimenti, per così dire, che la ragione vuole che si abbia gli uni per gli altri in simili circostanze, che gioisce quando occorre gioire, che si affligge quando occorre affliggersi». Ma aggiungeva che un affetto perfetto non può esserci se non quando la ragione è illuminata dalla fede e ci fa agire secondo le regole della carità. Ecco perché non faceva una grande differenza tra affetto e carità, non più che tra carità e amicizia. Pensava solo che, come l'amicizia presuppone un legame più stretto, e questo legame un'intensità particolare, ciò fa sì che resista meno alle esigenze degli amici, perché le conosciamo prima e ne veniamo più facilmente persuasi.

Ecco come concepiva l'affetto, che in lui non comportava attaccamento e piacere, perché non avendo la carità altro fine che Dio, non poteva attaccarsi che a lui, né poteva fermarsi ad alcun pacere; perché essa sa che non c'è tempo da perdere e che Dio, che vede e giudica tutto, ci chiederà conto di tutto quanto nella vita non sarà stato un nuovo passo per avanzare nell'unica via permessa, quella della perfezione.

Ma non solo non manifestava attaccamento nei confronti degli altri; non voleva neppure che gli altri ne provassero per lui. Non parlo certo degli attaccamenti criminali e pericolosi, perché sono una cosa rozza e chiunque lo capisce; parlo delle più innocenti amicizie, i cui piaceri rendono dolce la comune società umana. Era una delle cose alle quali faceva maggiore attenzione, per non lasciarle spazio e impedirne lo sviluppo quando ne scorgeva qualche traccia. Essendo io molto lontana da una simile perfezione, e pensando che non avrei potuto avere troppa cura di un fratello come lui che era la felicità della famiglia, non mi sottraevo a nessuna di tutte le premure che erano necessarie per accudirlo, testimoniandogli in tutto ciò che potevo la mia amicizia. Riconosco infine che gli ero attaccata e che mi vantavo di sbrigare tutte quelle cure che per me erano un dovere; ma egli era di parere diverso, e poiché esteriormente non corrispondeva abbastanza, o così mi sembrava, ai miei sentimenti, non ero contenta, e di quando in quando andavo da mia sorella per aprirle il mio cuore, e poco mancò che scoppiassi in lacrime. Mia sorella mi confortava meglio che poteva, ricordandomi le occasioni in cui avevo avuto bisogno di mio fratello ed egli si era prodigato con tanta cura e in modo così affettuoso, che non dovevo dubitare per niente che egli non mi amasse molto. Ma il mistero di questa riservatezza nei miei confronti mi è stato svelato solo il giorno della sua morte, quando una persona tra le più considerevoli per altezza d'ingegno e di pietà, con cui aveva avuto molti scambi sulla pratica della virtù, mi disse che gli aveva fatto comprendere come una massima fondamentale della sua pietà consisteva nel non permettere mai che lo si amasse con attaccamento, e che questa era una colpa su cui non ci si esamina mai abbastanza, che comportava delle grandi conseguenze, e che era da temere maggiormente proprio perché spesso ci sembra poco pericolosa.

Dopo la sua morte abbiamo avuto un'ulteriore prova che questo principio era ben radicato nel suo cuore, perché, per averlo sempre presente, l'aveva messo di sua mano su un pezzetto di carta staccato che gli abbiamo trovato addosso, e che ricordavamo di avergli visto leggere spesso. Ecco il testo che portava: «non è giusto che qualcuno si attacchi a me, per quanto lo faccia con piacere e volontariamente. Ingannerei coloro nei quali facessi nascere il desiderio, perché io non sono il fine di nessuno e non ho di che soddisfarlo. Non sono forse prossimo a morire? Così l'oggetto del loro attaccamento morirà. Sarei dunque davvero colpevole se inducessi a credere in qualcosa di falso, anche se questo avvenisse nella dolcezza, e lo si credesse con piacere, e mi procurasse piacere, dunque sono colpevole se mi faccio amare e se spingo gli altri ad attaccarsi a me. Ho il dovere di mettere in guardia quelli che vi si accingono dall'acconsentire alla menzogna, qualunque vantaggio me ne derivi, e dall'attaccarsi a me, perché la loro vita e ogni loro preoccupazione devono tendere a piacere a Dio o a cercarlo».

Si educava dunque da solo mettendo in pratica così bene i suoi precetti. Così mi ero ingannata giudicando il suo modo di fare nei miei confronti, perché attribuivo a una mancanza di affetto ciò che in lui era una perfezione della carità.

Ma, se non voleva che le creature, le quali oggi ci sono ma forse domani non ci saranno più, e che dunque sono così poco capaci di rendersi felici, si attaccassero le une alle altre, noi sappiamo che era solo perché si attaccassero unicamente a Dio; e in effetti questo è l'ordine, e se ci si fa seriamente attenzione e si vuole seguire la vera ragione non si può pensare diversamente. Per questo non bisogna stupirsi che un uomo così intelligente e dal cuore così ben ordinato si fosse dato regole tanto giuste e le praticasse con tanta costanza.

Non solo riguardo a questo primo principio, che è il fondamento della morale cristiana; egli aveva uno zelo così grande verso l'ordine di Dio in tutte le altre conseguenze, che non sopportava venisse minimamente violato: ciò lo rendeva così deciso nel servire il re, che al tempo dei disordini di Parigi si opponeva a tutti. Chiamava pretesti le ragioni che venivano portate per autorizzare la ribellione. Diceva che era un gran male voler mettere un re e togliere la libertà ai popoli a cui Dio l'ha data, come a Venezia, uno stato fondato sulla repubblica; ma che in uno stato fondato sul potere reale, non si poteva violare il rispetto che gli si doveva senza una specie di sacrilegio, perché la potenza che Dio vi ha annesso, essendo non solo un'immagine, ma una partecipazione alla potenza divina, non ci si poteva opporre senza opporsi manifestamente all'ordine divino; e inoltre diceva che, essendone la guerra civile, che è il male più grande che si possa commettere contro la carità, una conseguenza, non si poteva mai esagerare abbastanza l'importanza di questa colpa; che i primi cristiani, quando i principi non facevano il loro dovere, non ci avevano insegnato la ribellione, ma la pazienza. Diceva sempre che verso questo peccato provava una ripugnanza uguale a quella verso l'assassinio e la rapina sulle grandi strade; e che infine non c'era niente che fosse più contrario alla sua natura, e dal quale fosse meno tentato; ciò lo portò a rifiutare considerevoli vantaggi per non aver preso parte ai disordini.

Questo pensava a proposito di servire il re: ed era irriconciliabile con tutti quelli che vi si opponevano. E ciò che fa vedere che non era per carattere né per attaccamento alle proprie idee, è che mostrava una dolcezza meravigliosa con quelli che l'offendevano personalmente; in modo tale che non ha mai fatto differenza tra questi e gli altri, e dimenticava a tal punto ciò che riguardava solo la sua persona, che si faceva fatica a farglielo ricordare; bisognava scendere nei particolari. E poiché a volte veniva ammirato per questo, diceva: «Non stupitevi; non è per virtù, è un vero oblio, non me ne ricordo più del tutto». E tuttavia aveva una memoria così eccezionale che non dimenticava mai niente delle cose che voleva ricordare. In realtà le offese che riguardavano solo la sua persona non lasciavano alcuna traccia su un'anima grande come la sua, che non poteva più essere toccata se non da cose che avevano un rapporto con l'ordine eminente della carità, tutto il resto gli era come estraneo e non lo riguardava.

In verità non ho mai visto un'anima più naturalmente superiore della sua a tutti gli impulsi umani dovuti alla corruzione naturale; ma non era insensibile solo riguardo alle offese, ma anche riguardo a tutto ciò che ferisce tutti gli altri uomini, e che provoca in loro le passioni più grandi. Egli aveva certamente un'anima grande, ma priva d'ambizione, non desiderando essere grande né potente, né onorato dalla società, anzi guardando a tutto ciò come più ricco di miseria che di felicità. Desiderava beni solo per darne agli altri, ricavava piacere dalla ragione, dall'ordine, dalla giustizia, e infine da tutto quello che poteva nutrire l'anima, poco dalle cose sensibili.

Non era senza difetti; ma c'era piena libertà di farglieli notare, e quando era giusto si sottometteva al parere degli amici con grandissima docilità; ma anche quando non era giusto lo accettava sempre con dolcezza. L'estrema vivacità della sua mente lo rendeva qualche volta così impaziente che si faceva fatica a soddisfarlo; ma appena lo si avvertiva o si accorgeva da solo di avere offeso qualcuno per via di questa impazienza intellettuale, rimediava subito al suo errore con modi così civili che per questo motivo non ha mai perso l'amicizia di nessuno.

Non urtava mai l'amor proprio degli altri con il suo, e si sarebbe perfino detto che non ne avesse, dal momento che non parlava mai di sé, né di niente che avesse qualche rapporto con lui; è noto che non voleva che un gentiluomo si nominasse, e neanche usasse la parola io. A questo proposito era solito dire che «la pietà cristiana annienta l'io umano, e la civiltà umana lo nasconde e lo sopprime». La riteneva una regola e la metteva perfettamente in atto.

Non era scostante con nessuno a causa dei suoi difetti; ma quando doveva parlare, parlava sempre senza nascondere niente e come se non sapesse nemmeno cosa volesse dire piacere per mezzo dell'adulazione, era inoltre incapace di non dire la verità quando era costretto a farlo. Quelli che non lo conoscevano, all'inizio si stupivano sentendolo parlare, perché sembrava sempre che esercitasse una qualche forma di dominio; la causa era invece la sua vivacità intellettuale, e bastava rimanere un po' con lui per accorgersi che anche in questo c'era qualcosa di amabile, e alla fine si era contenti del suo modo di parlare come delle cose che diceva. Del resto provava orrore per ogni tipo di menzogna, e il minimo inganno gli era insopportabile; così che, essendo la sua mente di una tempra giusta e penetrante, e il suo cuore retto e austero, le sue azioni e la sua condotta erano sincere e fedeli.

Abbiamo trovato un suo biglietto dove si era certamente ritratto, così che, tenendo continuamente davanti agli occhi la via per cui Dio lo conduceva, non potesse mai allontanarsene. Ecco il contenuto del biglietto: «Amo la povertà perché Gesù Cristo l'ha amata. Amo le ricchezze perché danno modo di aiutare i miserabili. Son fedele a tutti. Non ricambio il male a coloro che me ne fanno, ma auguro loro una condizione simile alla mia, in cui non si ricevono né male né bene da parte degli uomini. Mi sforzo di essere sempre veritiero, sincero e fedele con tutti gli uomini, e sono affettuoso con quelli a cui Dio mi ha unito più strettamente; e sia quando sono solo, sia quando sono davanti agli uomini, le mie azioni stanno al cospetto di Dio che le deve giudicare e a cui le ho consacrate tutte. Ecco i miei sentimenti, e ogni giorno della mia vita benedico il mio Redentore che lo ha messo in me e che, di un uomo pieno di debolezze, di miserie, di concupiscenza, di orgoglio e di ambizione, ha fatto un uomo esente da tutti questi mali, in forza della grazia a cui è dovuta ogni gloria, non possedendo di mio che miseria ed errore».

Si potrebbero certamente aggiungere molte cose a questo ritratto, se lo si volesse completare fino in fondo; ma lasciando ad altri, più capaci di me, di aggiungere quelle rifinizioni che appartengono solo ai maestri, dirò soltanto che questo uomo così grande in tutte le cose, riguardo alla pietà era semplice come un bambino. Quelli che lo vedevano, di solito ne rimanevano sorpresi. non solo nel suo modo d'agire non c'erano affettazione né ipocrisia; ma, come egli sapeva elevarsi nella penetrazione delle più alte virtù, così sapeva abbassarsi nella pratica a quelle più comuni, che costituiscono l'edificazione della pietà. Tutte le cose che servono per onorare Dio erano grandi nel suo cuore. Le metteva in atto come un fanciullo. Il suo principale divertimento, soprattutto negli ultimi anni quando non poteva più lavorare, era di andare a visitare le chiese dove c'erano delle reliquie esposte, o qualcos'altro di solenne; e si era procurato, proprio per questo, un almanacco spirituale che informava dei luoghi in cui tenevano cerimonie religiose; ma tutto in modo così devoto e semplice che coloro che lo vedevano ne rimanevano stupiti; una persona tra le altre, molto virtuosa e illuminata, se ne fece una ragione con queste belle parole: che la grazia di Dio si fa conoscere nelle anime grandi attraverso le piccole cose, e nelle anime comuni attraverso le grandi.

Portava un amore sensibile per tutto l'Ufficio (cioè le preghiere del breviario) e si assoggettava a dirlo ogni qual volta poteva; ma soprattutto le Piccole Ore, che sono composte del salmo centodiciotto, nel quale egli trovava tante di quelle cose ammirevoli che ogni volta provava una gioia nuova a recitarlo; e, quando conversava con gli amici sulla bellezza di questo salmo, ne era come trasportato, e trasportava tutti quelli a cui ne parlava. Quando, ogni mese, gli inviavano un biglietto, com'è usanza in molti luoghi, lo leggeva e lo accoglieva con molto rispetto, non mancando tutti i giorni di leggere la sentenza. E così era per tutte le cose che avevano qualche rapporto con la pietà e che potevano edificare.

Il curato di Saint-Étienne, che lo ha visto durante la sua malattia, ammirò anche questa semplicità, e diceva sempre: «È un fanciullo, è umile e sottomesso come un fanciullo». E, alla vigilia della sua morte, un ecclesiastico, che era uomo di grande scienza e di grandissima virtù, essendo venuto a trovarlo, ed essendo rimasto un'ora con lui, ne uscì così edificato che mi disse: «Su, consolatevi, se Dio lo chiama, avete ben motivo di lodarlo per le grazie che gli ha concesso. Muore nella semplcità di un fanciullo. È un fatto eccezionale per uno spirito come il suo; con tutto il cuore vorrei essere al suo posto; non vedo niente di più bello».

L'ultima malattia iniziò con uno strano rifiuto del cibo che lo prese due mesi prima di morire. Teneva in casa un brav'uomo con tutta la famiglia e le loro cose, che non svolgeva alcun lavoro per lui, ma che egli custodiva come un pegno della Provvidenza di Dio, e di cui aveva grande cura. Uno dei figli di quest'uomo si ammalò di vaiolo, così che in casa di mio fratello ci furono due malati, lui e il bambino. La mia presenza presso di lui era necessaria e, poiché c'era pericolo che mi contagiassi con il vaiolo e lo comunicassi ai miei figli, si pensò di allontanare il bambino, ma la carità di mio fratello decise ben diversamente, perché gli fece prendere la risoluzione di lasciare lui stesso la casa per venire nella mia. Era già molto malato; ma diceva che c'era meno pericolo per lui ad essere trasportato che per quel fanciullo; e così toccò a lui e non al fanciullo. Si fece dunque trasportare a casa nostra. Questo gesto di carità era stato preceduto dal perdono di un'offesa ricevuta da una persona che gli era obbligata, in una questione molto delicata. Mio fratello risolse il problema come al solito, non solo senza il minimo risentimento, ma con una dolcezza accompagnata da tutte quelle accortezze che sono indispensabili per guadagnare una persona. E fu certo per una particolare provvidenza divina che, in quegli ultimi tempi in cui era così vicino a comparire davanti a Dio, abbia avuto occasione di realizzare queste due opere di misericordia, che sono segni della predestinazione evangelica così che, in punto di morte, queste due azioni caritatevoli testimoniassero il perdono da parte di Dio delle sue colpe, e la sua volontà di concedergli quel regno che gli aveva preparato, dal momento che gli faceva la grazia di perdonare le colpe degli altri e di assisterli nel bisogno con tanta facilità. Ma vedremo come Dio lo abbia preparato alla morte di un vero predestinato con altre azioni che non sono meno consolatorie.

Tre giorni dopo il suo arrivo a casa nostra ebbe una colica molto violenta che gli tolse del tutto il sonno; ma poiché aveva una grande forza d'animo e un grande coraggio, non rinunciava ad alzarsi tutti i giorni per prendere lui stesso le medicine, rifiutando di venire minimamente servito.

I medici che lo vedevano trovavano grave la malattia; ma, non avendo febbre, non pensarono tuttavia che vi fosse pericolo. Ma mio fratello, che non voleva rischiare, fin dal quarto giorno della colica, e prima ancora di non potersi muovere dal letto, mandò a chiamare il curato di Saint-Étienne, e si confessò; ma era ancora troppo presto per comunicarsi. Tuttavia, poiché il curato di quando in quando lo andava a trovare come di consuetudine, mio fratello non perse nessuna di quelle occasioni per confessarsi nuovamente; ma non ce lo diceva, per paura di spaventarci. Qualche volta stava un po' meglio; approfittò allora per fare il suo testamento, in cui non si dimenticò dei poveri, e si fece violenza per non dare loro di più. Mi disse che se il signor Périer fosse stato a Parigi e avesse acconsentito, avrebbe disposto in modo tale da lasciare ogni suo bene in favore dei poveri.

Alla fine nel cuore e nella mente non aveva che i poveri, e qualche volta mi diceva: «Perché non ho ancora fatto niente per i poveri, benché abbia sempre avuto un amore così grande per loro?». E poiché gli rispondevo: «Perché non avete mai abbastanza beni», «Dovevo dar loro il mio tempo», mi diceva, «e il mio dolore; a questo sono venuto meno. E se i medici dicono il vero, e Dio permette che mi riabbia da questa malattia, ho deciso che per il resto dei miei giorni non mi occuperò d'altro se non di servire i poveri». Dio lo prese intento a questi pensieri.

La sua pazienza non era minore della sua carità; e quelli che erano accanto a lui ne rimanevano così edificati da dire tutti che non avevano mai visto niente di simile. Quando a volte qualcuno gli diceva che lo compiangeva, rispondeva che nelle condizioni in cui si trovava non soffriva affatto, che temeva perfino la guarigione, e quando gli domandavano la ragione di ciò, diceva: «Conosco i pericoli della salute e i vantaggi della malattia». E poiché non potevamo impedirci di compiangerlo, soprattutto quando i dolori erano più forti: «Non compiangetemi», diceva, «la malattia è la condizione naturale dei cristiani, perché in quel caso ci si trova come dovremmo essere sempre, cioè sofferenti, ammalati, privati di ogni bene e piacere dei sensi, esenti da ogni passione, senza ambizione, senza avarizia, e nell'attesa continua della morte. Non è così che un cristiano deve trascorrere la sua vita? E non è una grande fortuna quando ci si trova obbligati ad essere là dove dobbiamo essere?». E in effetti egli amava visibilmente il suo stato, una cosa che poche persone sarebbero capaci di fare; perché non c'è altro da fare che sottomettervisi con umiltà e docilità. Per questo non ci chiedeva altro che di pregare Dio che gli facesse questa grazia. È vero che dopo averlo udito non si poteva più dirgli niente, al contrario ci si sentiva animati dal suo stesso spirito, cioè voler soffrire pensando che quella era la condizione in cui dovrebbero trovarsi sempre i cristiani.

Desiderava ardentemente fare la comunione; ma i medici vi si opponevano sempre perché non lo credevano abbastanza malato da ricevere la comunione come viatico, e non trovavano opportuno che il fatto si verificasse di notte, così da trovarlo a digiuno, senza una gravissima necessità. Tuttavia, poiché la colica non cessava, gli ordinarono le acque, che gli diedero un po' di sollievo per qualche giorno, ma al sesto giorno di acque, provò un grande stordimento con un gran mal di testa. Benché i medici non si stupissero di questo fatto, e dicessero che si trattava del vapore delle acque, non smise di confessarsi, e chiese con insistenze incredibili di poter fare la comunione, e che in nome di Dio trovassero il modo di superare tutti gli ostacoli che gli avevano frapposto; e fu tanto insistente, che una persona presente gli disse che non era bene, che doveva rimettersi al giudizio degli amici, che non aveva quasi più febbre, e che lui stesso poteva giudicare se era giusto far venire il Santo Sacramento in casa dal momento che era migliorato; e se non era più appropriato fare la comunione in chiesa, dove c'era speranza che presto sarebbe stato in grado di recarsi. Egli rispose: «Nessuno sente il mio dolore, vi sarete sbagliati; il mio mal di testa è qualcosa di straordinario». Tuttavia, vedendo un'opposizione così grande al suo desiderio, non osò più parlare; ma mi disse: «Dal momento che non mi si vuole concedere questa grazia, vorrei supplirvi con un'opera buona, e non potendo comunicarmi con il Capo, vorrei comunicarmi con le membra, e per questo ho pensato di avere qui un povero malato a cui vengano dedicate le stesse attenzioni che a me. Perché sono addolorato e confuso di essere così bene assistito, mentre un'infinità di poveri, che stanno peggio di me, mancano del necessario. Che si ponga una cura estrema, e che infine non vi sia alcuna differenza tra lui e me. Ciò diminuirà il dolore che provo per il fatto che non mi manca niente, e che non posso più sopportare, a meno che non mi si dia la consolazione di sapere che qui c'è un povero trattato bene come me; andate a cercarne uno dal curato, vi prego».

Mandai subito la richiesta al curato che mi fece rispondere che non ne aveva in grado di essere trasportati; ma che, una volta guarito, gli avrebbe dato modo di esercitare la carità, mettendogli a carico un vecchio di cui si sarebbe preso cura fino alla fine dei suoi giorni; il curato non dubitava che sarebbe guarito.

Quando vide che non poteva tenere un povero in casa con sé, mi pregò di trasportarlo agli Incurabili, perché aveva un gran desiderio di morire insieme ai poveri. Dissi che i medici non avrebbero trovato opportuno trasportarlo nelle condizioni in cui si trovava. La risposta lo afflisse visibilmente, e mi fece promettere almeno che, se avesse avuto un po' di tregua, gli avrei dato quella soddisfazione.

Ma non ebbi questo dolore, perché il suo mal di testa aumentò al punto che, al colmo del dolore, mi pregò di chiedere un consulto; ma subito preso dagli scrupoli: «Temo», mi disse, «che ci sia troppa ricercatezza in questa domanda». Tuttavia lo feci. I medici gli ordinarono di rallegrarsi, assicurandogli che non c'era alcun pericolo, che si trattava solo di emicrania mescolata al vapore delle acque. Tuttavia, qualunque cosa dicessero, non vi credette mai. Mi pregò di procurargli un ecclesiastico che trascorresse la notte con lui; e io stessa lo trovai così male che ordinai, senza dire altro, di preparare dei ceri e tutto quanto era necessario per somministrargli la comunione il mattino seguente.

Questi preparativi non si rivelarono inutili; ma servirono molto prima di quanto non pensassimo: infatti, verso mezzanotte, lo prese una convulsione così violenta che, quando fu passata, credemmo fosse morto. E avevamo questo estremo dispiacere, insieme agli altri, di vederlo morire senza comunione, dopo che aveva chiesto questa grazia così spesso e con tanta insistenza.

Ma Dio, che voleva ricompensare un desiderio così giusto e fervente, sospese come per miracolo la convulsione, e gli rese piena facoltà di giudizio, come quando era perfettamente sano; così che quando il curato, entrato nella camera con Nostro Signore, esclamò: «Vi porto colui che avete tanto desiderato», queste parole finirono col svegliarlo del tutto e, mentre il curato si avvicinava a lui per porgergli la comunione, fece uno sforzo e si alzò da solo a metà, per riceverla con più rispetto; avendolo il curato interrogato, come sempre, sui principali misteri della fede, rispose devotamente a tutto: «Sì, signore, credo a tutto ciò e con tutto il cuore». In seguito ricevette il Santo Viatico e l'Estrema Unzione, con una disposizione così tenera che gli sgorgarono delle lacrime. Rispose a tutto e alla fine ringraziò il curato, e quando alla fine il curato lo benedì con il Santo Sacramento, disse: «Che Dio non mi abbandoni mai!», che furono le sue ultime parole. Perché dopo aver reso grazie, un istante dopo le convulsioni lo ripresero per non lasciarlo più, e non gli concedettero un solo attimo di libertà di spirito. Durarono fino alla sua morte, che avvenne ventiquattro ore più tardi, vale a dire il diciannove agosto 1662 all'una del mattino, quando aveva trentanove anni e due mesi.

Gilberte Périer