Introduzione all Äôeconomia

1

La recensione della Storia dell'economia di Galbraith si pu""d ritenere gi" un'introduzione alla sezione. Preferisco per""d completarla aggiungendo qualcosa che in essa manca e aggiornandola, in maniera tale da chiarire meglio il nodo conflittuale su cui si "® articolato lo sviluppo dell'economia: il conflitto tra interesse privato e interesse generale.

Un prospetto elementare e semplificato della storia dell Äôeconomia "® il seguente:

Economia prescientifica

Mercantilismo

Fisiocrazia

Fran"ßois Quesnay

Il periodo classico

Adam Smith

David Ricardo

Thomas R. Malthus

Nassau W. Senior

John Stuart Mill

Karl Marx

Marginalismo e teoria dell Äôequilibrio

Carl Menger

Jevons

L"©on Walras

Alfred Marshall

Eugen Bohm-Bawerk

Vilfredo Pareto

John Bates Clark

Irving Fisher

Knut Wicksell

J. Von Neumann

W. Leontiev

L. Robbins

V. Pareto

Teoria del benessere

A. C. Pigou

N. Kaldor

P.Samuelson

Joseph A. Schumpeter

John Maynard Keynes

Teorie delle forme di mercato

J. Robinson

E. Chamberlin

Liberismo e pianificazione

F. von Hayek

O. Lange

M. Dobb

P. Sraffa

Milton Friedman e il monetarismo

Sviluppi recenti dell ÄôEconomia

Teoria dell Äôinformazione

Scuola delle aspettative razionali

Neoistituzionalismo

Teoria delle scelte pubbliche

Nuova teoria del benessere

Amartya Sen

Neokeynesismo

Joseph Stiglitz


2.

Si pu""d dare credito o meno a Marx il quale sostiene che l Äôeconomia, vale a dire la necessit" di produrre beni di sussistenza, segna il passaggio dallo stato di natura a quello di cultura. E Äô un fatto che non si d" societ" umana senza un Äôorganizzazione economica. Anche le poche societ" primitive attualmente esistenti che vivono di caccia e di raccolta, proseguendo una tradizione ancestrale che privilegia il consumo immediato di ci""d che la natura produce spontaneamente, usano delle tecniche produttive (per esempio la costruzione di archi e frecce, lenze, vasi per contenere i semi, ecc), riconoscono una divisione dei ruoli (gli uomini cacciano, le donne raccolgono) e adottano criteri di distribuzione dei beni.

Se questo "® vero, ogni societ" ha e non pu""d non avere una "teoria" economica che presiede alla produzione e alla distribuzione dei beni.

Nel tentativo di universalizzare le leggi del sistema di mercato che caratterizza il mondo occidentale da pi"À di due secoli Äî il liberismo -, alcuni storici hanno tentato di interpretare i modelli economici primitivi alla luce di esse. Questi tentativi, avvenuti nel contesto dell Äôantropologia economica, sono caduti nel vuoto. Il problema, come ha rilevato Polany, "® che, fino ad epoca recente, l Äôattivit" economica "® stata strettamente intrecciata con la vita sociale: essa esprimeva le relazioni concrete che gli individui intrattenevano all'interno del gruppo.

Ci""d giustifica il fatto che, prima della nascita dell Äôeconomia moderna, il pensiero economico, peraltro scarso e non sistematico, "® stato retaggio della filosofia, e in particolare della filosofia morale che verte sulle regole che presiedono le relazioni umane.

Questa premessa "® importante per capire che la nascita dell Äôeconomia avviene nel momento in cui i fatti economici si oggettivano in rapporto al contesto socioculturale in cui si esprimono, separandosi da esso e ponendosi come fenomeni da interpretare scientificamente.

Se si pone tra parentesi il mercantilismo e la fisiocrazia, che si limitano a prendere atto rispettivamente dell Äôimportanza crescente del commercio e del peso ancora notevole dell Äôagricoltura, la nascita dell Äôeconomia coincide con la pubblicazione di un testo (La ricchezza delle nazioni) il cui autore Äî Adam Smith Äî, prima di interessarsi del mercato, insegna filosofia morale.

La contraddizione intrinseca nel pensiero smithiano tra filosofo ed economista va rilevata con attenzione, perch"©, mutatis mutandis, essa segna lo sviluppo della scienza economica fino ad oggi.

Ne La teoria dei sentimenti morali, pubblicato prima de La ricchezza delle nazioni, Smith scrive: "Per quanto l Äôuomo possa esser supposto egoista, vi sono evidentemente alcuni principi, nella sua natura, che lo inducono ad interessarsi della sorte altrui e gli rendono necessaria l Äôaltrui felicit" , sebbene egli non ne ricavi alcunch"©, eccetto il piacere di costatarla. Di questo genere "® la piet" o compassione, l Äôemozione che sentiamo per le miserie degli altri, quando le vediamo o siamo indotti a concepirle in modo molto vivido. Che noi spesso ricaviamo dispiacere dal dispiacere altrui "® un dato di fatto fin troppo ovvio per richiedere esemplificazioni che lo provino Ķ"

Dedicandosi all Äôanalisi dell Äôeconomia, che si sta organizzando sul piano della manifattura, Smith "® spinto invece a privilegiare, come motivazione fondamentale dell Äôagire economico, l Äôinteresse individuale egoistico. Sulla base della divisione del lavoro, che rende il lavoratore poco pi"À che un appendice della macchina, si realizza un Äôenorme produzione di ricchezza, incommensurabile a quella del passato. Ma come pu""d l Äôinteresse individuale egoistico dar luogo ad una ricchezza che, per quanto on equamente distribuita, "® un bene collettivo? Memore dei suoi trascorsi filosofici, Smith avanza a riguardo la celebre ipotesi della mano invisibile, secondo la quale il perseguimento dell Äôinteresse privato non solo "® compatibile, ma "® necessario per la realizzazione del bene comune.

Non "® azzardato sostenere che tutta la storia dell Äôeconomia verte sulla contraddizione presente nel pensiero di Smith. L Äôhomo oeconomicus non pu""d n"© deve dare spazio alla sollecitudine nei confronti degli altri. Egli deve perseguire i suoi interessi privati liberamente, senza dunque remore morali e, ancor pi"À, senza l Äôinterferenza di un potere statale che, in qualche misura, li vincoli o li contrasti. Solo questo assicura l Äôefficienza economica, vale a dire l Äôuso ottimale di risorse scarse, e dunque la produzione della ricchezza. La distribuzione di questa, poi, va affidata alle leggi di mercato, che provvedono a ripartirla, sotto forma di salari, profitti e rendite, a seconda dei meriti.

Il liberismo di Smith nega dunque la sua filosofia morale, che comporta un istinto sociale, in nome dell Äôaccettazione di un Äôantropologia hobbesiana. L Äôhomo homini lupus, che "® l Äôespressione di un egoismo primario, non comporta per""d, sul piano economico, effetti catastrofici perch"© la mano invisibile provvede in qualche modo a tutelare il bene comune.

Nella sua coerenza intrinseca, che dar" luogo al dogma del libero mercato autoregolato, che oggi "® giunto porsi in una versione fondamentalista (quella del neoliberismo), il sistema smithiano contiene almeno un elemento potenzialmente autodisgregativo. Affrontando il problema del valore, Smith ipotizza che il valore di un bene sia null Äôaltro che l Äôespressione della quantit" del lavoro che serve a produrlo.

David Ricardo, che prosegue l Äôopera di Smith tentando di dare al modello liberista uno statuto pi"À rigoroso, riprende la teoria del valore-lavoro e la applica, senza remore, alla forza-lavoro, la merce di cui ha bisogno il sistema capitalistico per funzionare. La conclusione cui egli giunge "® che il salario non pu""d eccedere la sussistenza dei lavoratori, che "® il presupposto per cui la merce possa continuare ad essere utilizzata. E Äô la legge bronzea dei salari, che destina gli operai, cui si attribuisce la produzione della ricchezza, ad accontentarsi delle briciole, se ne restano dopo che il capitale ha soddisfatto la sua brama di crescita illimitata, appropriandosi dei profitti.

3.

Se Karl Marx, nell Äôavviare la critica del modello classico dell Äôeconomia, quello, appunto, messo a fuoco da Smith e da Ricardo, fosse rimasto, nel solco della sua preparazione filosofica, egli non avrebbe avuto difficolt" , come fa nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, ad identificare nell Äôantropologia hobbesiana sottostante quel modello il suo punto debole. Se ci""d fosse avvenuto, il marxismo si sarebbe configurato come un umanitarismo rivolto a ricondurre l Äôeconomia sul piano di un Äôattivit" strettamente intrecciata alla vita sociale, ad invalidare l Äôassunzione dell Äôuomo in quanto lavoratore come una merce, e a promuovere una rivoluzione in nome della dignit" umana e della giustizia sociale, assunti come valori morali imprescindibili.

Purtroppo, Marx ha inteso dare una veste scientifica alla sua critica del capitalismo. Egli, dunque, ha fatto propria la teoria del valore-lavoro smithiana e ricardiana, portandola alle estreme conseguenze. Se la ricchezza "® solo l Äôespressione della quantit" di lavoro che la produce, non si vede alcun motivo per cui essa debba essere alienata ai produttori e acquisita dai capitalisti che non lavorano. Il problema centrale, da questo punto di vista, sta nel restituire agli operai ci""d che essi producono e, soprattutto, gli strumenti di produzione per mezzo dei quali si realizza la ricchezza.

Per porre fine allo sfruttamento, cos"¨ bene illustrato da Ricardo con la sue legge bronzea dei salari, si tratta dunque di collettivizzare gli strumenti di produzione, considerandoli espressione di lavoro passato sfruttato, oggettivato e alienato.

A tal fine, per""d, occorre un potere che ponga fine al mito del mercato autoregolato e che pianifichi l Äôeconomia in maniera tale da renderla funzionale non gi" agli interessi privati ma ai bisogni sociali, vale a dire ai bisogni di coloro che lavorano. Comunque inteso dunque (in Marx le ambiguit" a riguardo sono molteplici), lo Stato inteso come rappresentante della maggioranza della popolazione Äî i lavoratori Äî "® essenziale per rimediare alle sregolatezze del mercato liberistico.

Il modello socialista dell Äôeconomia, nella sua versione comunista, si contrappone pertanto radicalmente al modello liberistico, riconosciuto come non scientifico ma ideologico: atto, in ultima analisi, a difendere e privilegiare le ragioni dei capitalisti.

Purtroppo, nella sua pretesa di scientificit" , Marx costruisce un sistema complesso sulla base di un presupposto errato: la teoria del plusvalore, che "® la conseguenza della teoria del valore-lavoro. Nel momento in cui, egli cerca di far quadrare il cerchio definendo la trasformazione dei valori in prezzi scopre che questo non "® possibile. La teoria dello sfruttamento, attestata univocamente dallo sviluppo della societ" industriale, "® fondata, ma fa capo alla soggettivit" della forza-lavoro, che non pu""d essere equiparata ad una merce. E Äô di ordine morale, dunque, prima ancora che strettamente economico. Pur conscio del problema irrisolto della trasformazione dei valori in prezzi, Marx questo non riuscir" mai ad ammetterlo. Ci""d rende il socialismo "scientifico" (il comunismo) facilmente attaccabile sul piano economico, e ne invalida le ragioni di fondo: l Äôaspirazione dell Äôumanit" alla giustizia sociale e ad un mondo nel quale il rapporto tra gli esseri umani mantenga il suo originario significato sociale, non mercificato.

4.

Il problema dei prezzi viene risolto tecnicamente dai marginalisti. Essi scoprono che la categoria che governa l Äôattivit" economica "® l Äôutilit" , vale a dire il rapporto tra costi e benefici. Tutti gli agenti economici Äî lo sappiano o meno Äî si muovono sulla base di tale categoria. Ancora pi"À importante "® il concetto, che da essa discende, di utilit" marginale, che vale sia per il produttore che per il consumatore. Il produttore incrementa la produzione fino ad un limite raggiunto il quale il costo di un Äôunit" aggiuntiva (per esempio di una macchina o di un lavoratore) non eccede il beneficio che ne ricava in termini di guadagno. Il consumatore, a sua volta, incrementa il consumo finch"© il costo di un Äôunit" aggiuntiva del bene risulta maggiore del beneficio soggettivo che ne trae.

Sulla base del principio dell'utilit" marginale, "® agevole costruire una curva dell'offerta, che ha una pendenza positiva, poich"© le quantit" offerte dei beni aumentano con l'aumento dei prezzi, e una curva della domanda, che ha una pendenza negativa, poich"© le quantit" richieste dai consumatori diminuiscono via via che i prezzi aumentano. Costruendo un diagramma con le due curve, entrambe riferite al rapporto tra quantit" e prezzo dei beni, tra esse si d" un punto di intersezione. Tale punto determina il prezzo e l'equilibrio di mercato, poich"© definisce l'equivalenza tra la quantit" offerta dal produttore e la quantit" domandata dal consumatore.

In virt"À della legge della domanda e dell'offerta, la mano invisibile di Smith viene riabilitata e l'economia, avendo risolto il problema dei prezzi, si pone come una scienza in senso proprio: una scienza positiva, in quanto essa descrive il mercato come una realt" oggettiva, dotata di un potere di autoregolazione.

Con il marginalismo, il modello classico di Smith e Ricardo viene consolidato e diventa neoclassico. Esso si fonda sul presupposto che il sistema economico liberistico, posto che nessun produttore abbia il potere di influenzare i prezzi e che lo Stato non interferisca sull'attivit" economica, tende verso l'equilibrio, vale a dire l'uso migliore delle risorse scarse: in breve, l'efficienza.

Tra il modello neoclassico e la realt" si danno per""d non pochi punti di contrasto. Tre in particolare sembrano rilevanti. Per un verso, lo sviluppo dell'economia capitalistica nella seconda met" dell'Ottocento pone di fronte al fatto che la libera concorrenza, costringendo i produttori a competere tra loro in maniera tale da far diminuire i profitti, d" luogo ad alleanze tra essi (i cartelli o trust) che mirano a definire, in determinati ambiti, situazioni di monopolio, che consentono ai produttori di influenzare (a loro vantaggio) i prezzi. Per un altro verso, il modello di mercato viene ad urtare contro quelli che si delineano come suoi fallimenti. Il monopolio, provocando un uso distorto delle risorse, gi" rientra tra questi. Ma se ne danno altri, due dei quali assumono particolare importanza. Il primo "® l'assenza del mercato in rapporto a bisogni sociali (istruzione, sanit" , trasporto, assicurazione, previdenza, ecc.) la risposta ai quali non assicura necessariamente margini di profitto. Il secondo "® la diseconomia esterna negativa, per cui l'influenza di un agente economico a danno del benessere generale (per esempio l'inquinamento) non "® mediata dal sistema di mercato: essa, in breve, non ha un prezzo, anche se di fatto "® "pagata" da chi subisce e non da chi fa il danno.

I fallimenti del mercato denunciano che la teoria dell'equilibrio economico generale, formalizzata matematicamente da Walras, "® scientifica ma astratta. Per sopperire a quei fallimenti, l'intervento dello Stato "® necessario.

Di fatto, nel periodo stesso in cui il modello neoclassico viene consolidato, tra il 1870 e 1l 1900, la realt" , in conseguenza dell'avanzata del movimento socialista, ne impone una correzione. Nasce infatti lo Stato sociale sotto l'egida di Bismarck, un politico conservatore il quale per""d intuisce che lo sviluppo del capitalismo postula una qualche tutela delle classi lavoratici.

Il terzo punto di contrasto tra il modello neoclassico e la realt" sociale "® da ricondursi al problema dei cicli economici, vale a dire delle fasi ricorrenti di espansione e di recessione. Il riferimento al mercato autoregolato, capace cio"® di mantenere in equilibrio la domanda e l'offerta, non "® in grado di spiegare le ricorrenti depressioni del sistema economico, nel corso delle quali risorse pi"À o meno rilevanti rimangono inutilizzate.

Il problema "® che il modello neoclassico "® un modello microeconomico. Esso considera il sistema economico come una semplice somma dei mercati che lo compongono. Dato che ciascun mercato parziale non pu""d non tendere verso l'equilibrio, in nome del convergere degli interessi dei produttori e dei consumatori, lo squilibrio del sistema globale, che comporta rallentamento o ristagno della crescita, inflazione, disoccupazione, viene ricondotto a cause esogene: aumento del costo delle materie prime, eccesso o difetto di liquidit" monetaria, politiche fiscali errate, ecc.

Il tentativo di rimediare alle lacune del modello neoclassico avviene, nei primi decenni del Novecento, sulla base di una radicalizzazione epistemologica. L Robbins, definendo l'economia come la scienza che "studia la condotta umana come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi", ne rivendica per un verso il carattere sostanzialmente deduttivo e, per un altro, la neutralit" rispetto ai fini. In quest'ottica, l'economia si pone come una scienza positiva in grado di dare un giudizio sui pi"À convenienti usi dei mezzi per pervenire ai fini dell'impiego ottimale delle risorse scarse, vale a dire all'efficienza del sistema economico, ma non di fornire un giudizio di valore sui fini stessi. Con quest'impostazione avviene il definitivo distacco dell'economia dalla morale e dalla realt" sociale, e l'assunzione dell'efficienza del sistema economico come valore prioritario e assoluto.

A tale mito provvede a dare una sistemazione teorica V. Pareto che, sulla base del principio per cui la configurazione ottimale di un sistema economico "® quella caratterizzata dal fatto che, dato un insieme di grandezze, non si pu""d aumentare una di esse senza diminuirne qualcun'altra, giunge alla conclusione che solo il mercato concorrenziale coincide con una configurazione ottimale.

5.

La realt" storica provvede a porre in crisi il modello neoclassico nonostante la sua apparente compiutezza.

La grande crisi del 1929, intervenuta inopinatamente negli Stati Uniti dopo un periodo di grande espansione che sembrava attestare il trionfo del liberismo, segna un punto di svolta nell'economia.

Il problema del ciclo economico, vale a dire dell'alternanza di fasi di espansione e di depressione o recessione, si "® sempre posto sul piano reale dall'avvio del capitalismo industriale. Nessun economista "® mai riuscito a darne una spiegazione attendibile. Il modello neoclassico, addirittura, lo ha posto tra parentesi. Esso infatti ammetteva piccoli spostamenti temporanei dalla condizione di pieno impiego, ma entro lo schema di un meccanismo di mercato reattivo che, attraverso la variazione di prezzi, salari, saggi di interesse, avrebbe rapidamente ristabilito l'equilibrio in modo da riportare in breve tempo i livelli di occupazione e di produzione in una posizione di pieno utilizzo della capacit" produttiva. In quest'ottica, la crisi del 1929, con la recessione e una disoccupazione di massa, semplicemente non si sarebbe dovuta verificare

Keynes, con la Teoria generale dell'occupazione, interesse e moneta (1936) smantella l'assunto di base del modello neoclassico, vale a dire la tendenza del mercato all'autoregolazione e all'efficienza. I presupposti da cui muove l'analisi keynesiana sono piuttosto semplici. Il modello classico "® rimasto agganciato alla cosiddetta legge di Say, secondo la quale l'offerta crea la domanda, ovvero "l'offerta desiderata "® sempre uguale alla domanda aggregata desiderata". Su questa legge, la quale implica da ultimo che il reddito in parte viene consumato e in parte risparmiato, e che il risparmio si traduca univocamente in investimenti, si regge la teoria del mercato autoregolato. Keynes dimostra invece: primo, che non tutti i risparmi si traducono in investimenti, perch"© per vati motivi essi possono detenuti dagli agenti economici sotto forma di liquidit" ; secondo, che gli investimenti dipendono dalla massimizzazione del profitto, che "® agevolata dalla diminuzione del tasso di interesse, ma talora richiede un tasso cos"¨ basso, letteralmente impossibile, per cui gli investimenti non si realizzano. In conseguenza di ci""d, uno degli equilibri possibili in termini di mercato "® un equilibrio di sottocupazione. Si tratta di una condizione tutt'altro che ipotetica, essendosi realizzata secondo Keynes nel 1929 ed essendo intrinseca alla logica di mercato: una condizione strutturale che il mercato non pu""d risolvere perch"© la diminuzione del reddito determina un persistente difetto di domanda.

Questo significa n"© pi"À n"© meno che il mercato capitalistico non "® autoregolato e che, a differenza di quanto assunto dal modello neoclassico, esso pu""d comportare una conseguenza che si pu""d ritenere, non solo economicamente ma anche eticamente, la pi"À grave: il non utilizzo di una quota di capitale umano. Date determinate circostanze, in breve, il mercato, affidato a se stesso, pu""d andare in crisi per difetto di domanda, dovuta alla contrazione del reddito e del consumo conseguenti alla disoccupazione.

La fuoriuscita dalla crisi necessita, in altri termini, l'intervento dello Stato a sostegno della domanda. La spesa pubblica, nonostante possa produrre un transitorio deficit di bilancio, determina un aumento del reddito e dell'occupazione, quindi della domanda che stimola gli investimenti.

L'adozione dei principi economici keynesiani permette all'Occidente di sormontare la grave depressione inauguratasi nel 1929 e durata alcuni anni. Al di l" della sua efficacia pratica, il keynesismo comporta una rivoluzione rispetto al modello neoclassico. Esso, infatti, non solo riabilita lo Stato nella sua indispensabilit" ai fini del mantenimento dell'equilibrio generale, ma postula anche una distribuzione del reddito che, per alimentare la domanda, deve evitare la concentrazione dei capitali verso l'alto della scala sociale, che "® una conseguenza quasi inevitabile del liberismo.

Per svolgere la sua funzione di correzione del mercato, quando esso diventa inefficiente, lo Stato ha bisogno di denaro per colmare, attraverso l spesa pubblica, la differenza tra il reddito di piena occupazione e quello generato autonomamente dal mercato. Esso pu""d prenderlo in prestito, accettando un disavanzo del bilancio pur di rilanciare la crescita. Perch"© il disavanzo non produca effetti negativi sulla crescita, esso per""d non deve superare un determinato limite. Il modello keynesiano implica, ovviamente, uno Stato efficiente nell'uso delle risorse di cui dispone.

Keynes, dunque, non mette in discussione il modello di mercato, vale a dire il capitalismo. Si limita a rilevare, in opposizione al liberismo, che il mercato ha degli aspetti intrinseci per cui esso pu""d fallire sul piano dell'efficienza, e che per sopperire ai fallimenti del mercato l'intervento economico dello Stato "® necessario.

6.

I sostenitori del modello neoclassico hanno reagito all'attacco keynesiano sostenendo, all'epoca, che egli ha scambiato per strutturale un fenomeno congiunturale. La crisi del 1929, dal loro punto di vista, non "® riconducibile al fallimento del mercato, bens"¨ alla sua immaturit" , e in particolare ad un regime concorrenziale imperfetto. Lo sviluppo del capitalismo avrebbe provveduto a porre rimedio alle cause della crisi senza o con un minimo intervento dello Stato, che non deve intervenire sul piano economico, bens"¨ solo fissare le regole entro le quali si svolge l'attivit" di mercato.

Di fatto, Keynes afferma il ruolo indispensabile dello Stato nel sopperire ai fallimenti del mercato, ma non lo quantifica. Quanto Stato "® necessario per svolgere tale ruolo e mirare alla piena occupazione? Quanto basta, "® la sua risposta. Si tratta di una posizione tutt'altro che radicale nella quale i liberisti intravedono un pericolo. In realt" lo intravedono leggendo Keynes alla luce del pensiero di un altro grande economista contemporaneo, Schumpeter. Nel 1943, questi ha pubblicato un'opera eretica - Capitalismo, socialismo e democrazia - nella quale sostiene, rievocando Marx senza essere marxista e senza alcun riferimento ad una rivoluzione violenta, che l'economia capitalistica "® destinata a subire un periodo di crisi finale che richiede il passaggio a forme diverse di organizzazione economica, vale a dire al socialismo democratico.

L'argomentazione fondamentale di Schumpeter si fonda sui lunghi studi che egli ha dedicato al problema dei cicli economici. Tali studi lo hanno convinto che la tendenza al ristagno, alla crisi "® intrinseca all'economia capitalistica. Per rimediare a questa tendenza, destinata ad amplificarsi piuttosto che a ridursi, sar" necessario un aumento progressivo dell'investimento pubblico, con interventi mirati a distribuire il reddito a favore dei consumi. In conseguenza di questo, l'accumulazione di capitale, nell'ambito dell'attivit" economica privata, diventer" sempre meno importante. Indebolendosi la componente borghese-capitalistica, il sistema economico si avviciner" sempre pi"À a forme di pianificazione socialiste.

Schumpeter, insomma, va ben oltre Keynes, il cui unico intento "® di far funzionare il sistema capitalistico minimizzando l'impatto sociale delle crisi ricorrenti.

Nell'immediato, il modello keynesiano risulta vincente su quello neoclassico e conquista una posizione egemone dal dopoguerra sino alla fine degli anni '60. Ad esso si attribuisce il boom prolungato che, soprattutto negli anni '60, riguarda tutti i paesi occidentali.

I sostenitori del liberismo trovano difficolt" a rivitalizzare il modello neoclassico, a sostenere la teoria del mercato autoregolato e della concorrenza pura. Essi, in un certo senso, giacciono in quarantena, ma alimentano una rivincita muovendo dal piano ideologico. Quest'aspetto risulta chiaro soprattutto tenendo conto del pensiero di F. Hayek. Aspramente critico nei confronti di Keynes, egli scrive due libri (La via della servit"À, 1944, e Individualismo e ordine economico, 1948) che diventano il manifesto del pi"À intransigente liberalesimo antistatalista. Hayek in breve sostiene che il liberalesimo politico "® imprescindibile dal liberismo economico puro, il cui fondamento "® l'individuo che persegue l'obiettivo dell'autorealizzazione senza trovare alcun impedimento da parte dello Stato. Ogni intervento del pubblico in tema di economia "® pertanto una minaccia alla salute del sistema e, al limite, alla stessa democrazia.

Si danno, insomma, gi" tutti gli elementi di un conflitto tra modello liberista e modello socialdemocratico, destinati ad esplodere successivamente.

7.

Le cause che hanno determinato la crisi del keynesismo e della socialdemocrazia sono complesse e, in parte, oscure. Tutti gli economisti concordano che il fenomeno decisivo nel farla precipitare "® da ricondurre all Äôinflazione, vale a dire al rialzo dei prezzi che si "® verificato a partire dalla fine degli anni Äô60 e nel successivo decennio ha raggiunto, in quasi tutti i paesi occidentali, una configurazione a due cifre (dal 14% negli Stati Uniti al 22% in Italia).  

Considerato oggettivamente, il fenomeno inflativo era l Äôulteriore sintomo di un conflitto tra capitale e lavoro. I prezzi dei beni dipendono infatti da tre variabili: il costo di produzione, che comprende quello delle materie prime, dei macchinari e del lavoro, il saggio del profitto, che corrisponde alle esigenze del capitale, e il rapporto tra domanda e offerta. Negli anni Settanta, sull Äôonda del boom del decennio precedente, che aveva migliorato il reddito complessivo della popolazione, la domanda era di sicuro elevata. Essa si manteneva sulla base del fatto che, anche in paesi come gli Stati Uniti tradizionalmente liberisti, i sindacati erano riusciti ad agganciare i salari al costo della vita. In conseguenza di questo i lavoratori potevano spendere il loro reddito senza alcuna preoccupazione per il futuro.

Se questo "® vero, non "® meno vero che i capitali non manifestavano alcuna propensione a rinunciare al margine di profitto ritenuto essenziale per la loro riproduzione, crescita e investimento.

Ci si trovava di fronte ad un bivio. Occorreva scegliere tra privilegiare la domanda o l Äôofferta, vale a dire il consumo o la produzione. La prima alternativa, keynesiana, comportava necessariamente la ridistribuzione della ricchezza a vantaggio della fascia la pi"À larga possibile della popolazione e dei bisogni sociali, e dunque l Äôesigenza da parte dello Stato di intervenire su di un mercato privo di capacit" di autoregolazione. La seconda alternativa, viceversa, puntava sul libero gioco dei capitali, sul favorire la loro accumulazione e la loro concentrazione al fine di mantenere la produzione su di una frontiera elevata. In questa seconda ottica, il ruolo dello Stato era secondario se non addirittura negativo. Si dava per scontato infatti che l Äôinvestimento produttivo dei capitali avrebbe concorso a distribuire la ricchezza creando il lavoro, e che la ricchezza, una volta prodotta, avrebbe avuto l Äôeffetto di sgocciolare naturalmente verso gli strati meno abbienti della popolazione.

La teoria keynesiana della domanda non comportava strumenti adeguati di interpretazione del fenomeno inflattivo. Nonostante fosse stato accusato di essere un criptocomunista, Keynes era troppo liberale per poter prendere in considerazione un conflitto strutturale tra capitale e lavoro, vale a dire tra il benessere di molti e quello di pochi. Egli pensava che tale conflitto potesse essere mediato e ammortizzato dallo Stato attraverso il fisco e la spesa sociale.

La ricetta keynesiana aveva consentito agli Stati Uniti il superamento della crisi del Äô29, era sembrata funzionare nel corso della Seconda guerra mondiale, dalla quale la nazione americana era uscita con una salda leadership economica e era stata adottata da gran parte dei paesi europei. Essa, per""d. Secondo gli economisti liberisti stava avviando il mondo occidentale verso un Äôinflazione incontrollabile, che avrebbe inciso sulle fasce alte e basse di reddito salvaguardando solo, relativamente, i salari operai agganciati ad essa.

Come accennato, i teorici e gli ideologi liberisti, nonostante fossero stati messi in un angolo dal successo del keynesismo, non avevano mai cessato di criticarlo. Un tema portante della critica, controcorrente rispetto a quello del fallimento dei mercati da cui era partito Keynes, era centrato sui fallimenti dello Stato, vale a dire sullo spreco di risorse dovute alla burocrazia, all Äôinefficienza delle strutture pubbliche e ai sussidi per gli indigenti e i disoccupati. Tale tema, nei critici pi"À estremisti, giungeva addirittura a configurare il pericolo di uno stato socialista che violasse il diritto supremo alla propriet" . In questa ottica, la libert" del mercato veniva considerata come una salvaguardia essenziale della libert" individuale.

Su questo sfondo ideologico, occorreva solo mettere a fuoco una teoria che contestasse il keynesismo alla radice e avesse almeno la stessa coerenza dell Äôedificio keynesiano. Tale teoria, che va sotto il nome di monetarismo, "® dovuta a Friedman e alla scuola di Chicago che egli ha fondato.

Secondo Friedman, la teoria del mercato concorrenziale autoregolato, o comunque dotato di qualche capacit" di autoregolazione "® una verit" fattuale che pu""d essere compromessa solo dall Äôinterferenza dello Stato con esiti negativi o addirittura catastrofici. Tra questi, egli annovera sia la recessione che l Äôinflazione, entrambi riconducibili a variazioni della liquidit" monetaria. Posto che si dia una liquidit" monetaria adeguata alle richieste del sistema capitalistico, i prezzi, sulla base della teoria della concorrenza, non possono che stabilizzarsi. Se questo "® vero, l Äôintervento dello Stato in materia economica "® sempre e comunque negativo, tranne che esso non si eserciti indirettamente attraverso l Äôazione della banca centrale.

In questa ottica, l Äôinflazione viene interpretata come espressione di un eccesso di liquidit" , e la cura diventa una restrizione della massa monetaria attraverso l Äôaumento dei tassi di interesse.

Adottata anzitutto dagli Stati Uniti, nel corso degli anni Äô80, la cura ha funzionato. L Äôinflazione si "® ridotta nettamente, anche se associata ad una rilevante diminuzione della crescita e dell Äôoccupazione, e i prezzi si sono stabilizzati.

L Äôaffermazione del modello monetarista, oltre a inibire l Äôintervento dello Stato sia sul piano fiscale che su quello della spesa sociale, ha conseguito altri due effetti rilevanti, destinati ad incidere ulteriormente. Il primo "® la concentrazione dei capitali. In un regime economico caratterizzato da alti tassi di interesse, coloro che hanno denaro da prestare sono favoriti rispetto a coloro che non ne hanno o hanno bisogno di prenderlo in prestito. In virt"À degli interessi, il capitale accresce il suo valore e si concentra nelle mani di coloro che lo hanno prestato, vale a dire dei ricchi che lo diventano sempre pi"À.

Il secondo effetto "® che la disoccupazione riduce il peso dei sindacati, il loro potere contrattuale e liberalizza il mercato del lavoro.

Avendo conseguito questo duplice effetto, il monetarismo ha aperto la strada alla rinascita del modello classico concorrenziale sotto la nuova veste del neoliberismo.

8.

Solo apparentemente il neoliberismo comporta la restaurazione del libero mercato concorrenziale e l Äôassunzione da parte dello Stato di un atteggiamento neutrale, rispettoso dell Äôautoregolazione. In realt" il neoliberismo postula che lo Stato faccia il possibile, per un verso, per favorire la concentrazione e gli investimenti del capitale, e, per un altro, per impedire che i lavoratori siano tutelati dalle leggi o dai sindacati. Il primo obiettivo viene perseguito attraverso la diminuzione del prelievo fiscale e la messa in discussione del principio di tassazione progressiva; il secondo, attraverso una legislazione che favorisce al massimo grado, in nome della valorizzazione delle risorse del singolo lavoratore, la libera contrattazione tra lo stesso e il datore di lavoro.

Come se questo non bastasse, il neoliberismo propugna anche la libera fluttuazione dei capitali sulla faccia del pianeta alla ricerca delle occasioni migliori per investirsi e crescere.

Il modello neoliberista punta sull Äôassunto per cui l Äôestensione su base planetaria del modello di sviluppo capitalistico "® destinato, nei tempi lunghi, a risolvere il problema del sottosviluppo e a portare tutti i popoli ad un tenore di vita simile se non identico a quello occidentale.

L Äôarricchimento, considerato come un miraggio raggiungibile da tutti i paesi, a patto che essi accettino la ricetta del libero mercato, "® il verbo del neoliberismo.

Dagli anni Novanta in poi, insomma, si "® riproposto il conflitto tra il modello del libero mercato concorrenziale, che si "® affermato definitivamente negli Stati Uniti, e quello assistenziale, socialdemocratico, ancora attivo in molti paesi europei.

Tale conflitto "® sembrato e ancora oggi sembra volgere a favore del neoliberismo, sostenuto ormai da una quota rilevante di economisti. Il modello americano con la sua flessibilit" e la capacit" di ristrutturarsi periodicamente mantenendo elevati tassi di crescita appare vincente, in rapporto all ÄôEuropa che, sia pure non nella stessa misura per tutti i paesi, arranca.

Si danno per""d delle ombre che diminuiscono il fascino di quel modello. Intanto esso "® impuro: dopo l Äô11 settembre, il governo statunitense "® intervenuto con grande energia a sostegno della Borsa e delle industrie andate repentinamente in crisi (come quella aerea). In secondo luogo, esso, attraverso provvedimenti sistematicamente rivolti a privilegiare la concentrazione della ricchezza, ha creato squilibri inauditi nella distribuzione del reddito, con una massa di poveri ormai giunta a coinvolgere un sesto della popolazione (41 milioni e mezzo). In terzo luogo, esso, piuttosto che all Äôintrinseca efficienza del libero mercato, sembra fondarsi sul ruolo privilegiato economicamente degli Stati Uniti a livello mondiale, che consente ad essi di sostenere i consumi in virt"À di un deficit pubblico e della bilancia commerciale che nessun altro paese potrebbe tollerare e che non sarebbe tollerato dai creditori nei confronti di nessun altro paese. In quarto luogo, occorre considerare che l Äôeconomia americana si "® riavviata dopo l Äô11 settembre sulla base di una spesa crescente da parte dello Stato negli armamenti.

L ÄôEuropa non pu""d seguire il modello americano perch"© non si d" nessuna condizione che le consenta di adottarlo, e perch"© un tentativo del genere, estraneo alla tradizione europea, determinerebbe un aumento netto delle tensioni sociali. Essa, dunque, deve continuare a puntare sul modello socialdemocratico, sia pure aggiornato e riformato, migliorando la qualit" dello Stato sociale e concedendo pi"À spazio alle leggi di mercato.

E Äô assurdo sostenere che il modello neoliberista e quello socialdemocratico sono orami quasi indistinguibili. Per quanto l Äôuno abbia attinto dall Äôaltro, al punto tale che l Äôequit" socialdemocratica "® mutuata dal neoliberismo sotto forma di compassione e l Äôefficienza liberista "® mutuata dalla socialdemocrazia sotto forma di uso ottimale delle risorse produttive, rimane uno scarto evidente. Il neoliberismo considera la parte Äì l Äôindividuo Äì pi"À importante della totalit" Äì la societ" -, la socialdemocrazia non pu""d rinunciare ad un Äôottica globale incentrata sul bene comune. Il primo ritiene che il bene comune sia assicurato dalla mano invisibile di Smith, il secondo ritiene che esso possa e debba essere perseguito dallo Stato, come rappresentante di tutti i cittadini.

Dove andr" a parare il conflitto tra questi modelli, nessuno lo sa. Quello che "® o dovrebbe essere chiaro alla conclusione di questo articolo "® che l Äôeconomia non "® n"© pu""d essere una scienza neutrale. Essa non pu""d prescindere da presupposti antropologici e ideologici che sono di natura filosofica.

In breve, i problemi sono questi. Se il sistema capitalistico viene assunto come corrispondente a leggi oggettive contro le quali nulla pu""d la volont" umana, occorre piegarsi al fatto che esso non pu""d produrre la piena occupazione n"© una distribuzione equa dei redditi. La sua efficienza, insomma, va in qualche misura pagata in termini sociali. I poveri devono accettare la loro condizione e rimettersi, per sopravvivere, alla carit" pubblica. I lavoratori non possono pretendere che i loro salari rimangano agganciati al costo della vita, ignorando che essi devono, almeno periodicamente, sacrificarsi per consentire ai capitali di crescere e di essere utilizzati sotto forma di investimenti. Una quota di potenziali lavoratori, dal 3 al 12% a seconda delle circostanze, deve accettare la disoccupazione fisiologica, necessaria a scongiurare fenomeni inflattivi. Lo stato non deve interferire sull Äôattivit" economica, se non in circostanze del tutto eccezionali, limitandosi a fornire al mercato la quota di liquidit" di cui esso ha bisogno. Anche i ricchi hanno il loro dovere: in particolare quello di investire le loro ricchezze in attivit" produttive. Posato che lo assolvano, nulla osta al fatto che una quota delle ricchezze possa essere investita a fini meramente speculativi.

Se il sistema capitalistico, viceversa, viene assunto come un prodotto storico, e se le sue leggi vengono assunte come espressione di una pretesa capacit" di autoregolazione smentita dai fatti, si danno due prospettive. La prima, che si pu""d definire post-keynesiana, assegna allo Stato un ruolo cauto ma decisivo nel funzionare come volano delle crisi periodiche in cui il sistema incorre. Tramontato il sogno della piena occupazione, si tratta di limitare i danni che i fallimenti del mercato fanno incombere sulle fasce pi"À deboli della popolazione, e di mantenere una domanda compatibile con il controllo dell Äôinflazione.

La seconda prospettiva riconosce due obiettivi. Il primo, comune al post-keynesismo, consiste nel mantenere da parte dello Stato un orientamento riformista, che corregga, nella misura in cui "® possibile, gli squilibri sociali sempre maggiori indotti dallo sviluppo del capitalismo globalizzato.

Il secondo "® progettare un lento e graduale superamento del capitalismo nella direzione di un modello di sviluppo socioeconomico che sia, nello stesso tempo, efficiente ed equo. In questa ottica, si tratta di privilegiare i bisogni sociali rispetto a quelli del capitale. L Äôobiettivo "® affascinante, ma il problema "® che, ad oggi, nessuno sa come realizzarlo.

Forse, un punto possibile di partenza per procedere in questa direzione "® la critica dell Äôeconomia capitalistica come ideologia Ķ

Aprile 2005