Luca e Francesco Cavalli-Sforza

La storia dell’evoluzione

 

Introduzione alla lettura

Luca e Francesco Cavalli-Sforza, di cui ho citato più volte Chi siamo, che risale ormai a venti anni fa, hanno pubblicato  su Repubblica una serie di articoli che sono una sintesi aggiornata del libro. Si tratta, come riesce evidente leggendoli, di una riproposizione dell’evoluzionismo come chiave di volta dell’interpretazione della genesi della specie umana, della sua diffusione sul pianeta e della sua capacità di adattamento legata allo sviluppo della cultura.

Scritti con un taglio giornalistico, gli articoli sono di cristallina chiarezza. Devo solo rilevare due lacune. La prima, che si può ritenere veniale, è il riferimento all’evoluzionismo nella cornice del neo-darwinismo, che, integrando i dati della genetica delle popolazioni, risolve alcuni problemi del darwinismo classico. Non li risolve, però, tutti poiché rimane fermo al principio della gradualità dell’evoluzione sancito da Darwin, che appare poco o punto compatibile con il numero troppo elevato di anelli paleontologici che mancano per convalidarlo. La lacuna consiste, dunque, nel non menzionare la teoria degli equilibri punteggiati di Gould: l’unica che sembra in grado di fornire una soluzione concettuale adeguata a quei problemi.

La seconda lacuna è, a mio avviso, un po’ più rilevante. Il salto dall’animale non umano all’uomo viene, infatti, ricondotto all’acquisizione del linguaggio e della capacità di astrazione. E’ vero che gli autori adottano un’ottica materialistica insistendo sul fatto che il linguaggio, per molteplici aspetti, mantiene le tracce del suo originario significato di utensile. Purtroppo, però, come accade di consueto, essi non fanno alcun cenno al ruolo svolto dalle emozioni nell’antropogenesi e nell’organizzazione della società umana. E’ evidente che ciò dipende dal fatto che le emozioni sono considerate un’eredità animale, che, a differenza del linguaggio, in sé e per sé non hanno alcunché di specifico. Su questo mi riesce difficile essere d’accordo perché ritengo che, se le emozioni di base sono state ereditate dagli animali (per quanto si debba ammettere che essi siano andate incontro ad una riorganizzazione profonda nell’apparato cerebrale umano), si dà un’emozionalità specificamente umana (la pietas, il senso di giustizia, l’intuizione emozionale dell’infinito) in difetto della quale non si sarebbe organizzata una società umana e non si sarebbe potuta avviare la produzione del linguaggio e della cultura.

Nonostante queste lacune, la sintesi dei Cavalli-Sforza è chiara, puntuale e suggestiva. Essa rende evidente che l’evoluzionismo ha l’ambizione di porsi come cornice di una panantropologia. Penso che tale ambizione sia giustificata a patto che esso accetti di integrarsi con le altre scienze umane e sociali.

 

LUCA E FRANCESCO CAVALLI-SFORZA

Storia dell’evoluzione

 

Storia dell’evoluzione/1

 

1.

 

C’è stato un tempo, nemmeno molto lontano, in cui era convinzione generale che tutto ciò che abbiamo intorno fosse esistito in forme fisse e immutabili da sempre: che le piante, gli animali, gli stessi esseri umani avessero avuto l’aspetto con cui li conosciamo fin dal momento della loro comparsa sulla Terra, per intervento divino. C’era stato anche chi, nell’antichità, come Lucrezio, aveva affermato che molte varietà di esseri viventi ormai scomparse dovevano avere abitato il mondo in tempi assai lontani, ma erano affermazioni guardate con sospetto. Come potevamo sapere? Dopotutto, le testimonianze delle civiltà del passato parlavano di uomini in tutto simili a noi e di animali ben noti. Il testo più antico che si conoscesse allora, la Bibbia, diceva che sette giorni erano stati sufficienti a dare forma al mondo e a tutto ciò che lo abita, compreso l'uomo. Per secoli e per millenni, gli esseri umani avevano continuato a costruire sulle rovine dei loro predecessori. In Europa, i borghi medievali erano sorti sulle rovine delle città romane, e le città moderne sui resti dei centri medievali. Poi giunse la rivoluzione industriale e si cominciò a scavare, per costruire ferrovie e strade, fabbriche e palazzi. Vennero così ritrovamenti imprevisti. Quando furono portate alla luce le prime ossa di dinosauri, chiaramente diverse da quelle di ogni animale conosciuto, si disse che non potevano appartenere ad animali esistiti un tempo e in seguito scomparsi, perché era impensabile che Dio avesse creato una specie vivente per poi scoprire di essersi sbagliato e portarla all’estinzione. Sempre ragionando in questo modo, quando furono ritrovate, nel 1856, le prime ossa di uomini di Neandertal, che sono molto più spesse e robuste delle nostre, furono attribuite a grandi scimmie o a patologie dell’apparato scheletrico umano. Ma le scoperte proseguirono, e col tempo divenne impossibile negare che il pianeta era stato abitato, in un lontano passato, da una miriade di piante e di animali parecchio diversi da quelli che abbiamo intorno oggi, e anche da uomini di aspetto profondamente diverso dal nostro.

Nel frattempo, i geologi si erano resi conto, seguendo altre vie, che la Terra doveva essere immensamente più antica dei seimila anni computabili in base alla Sacra Scrittura. Si trovarono altri testi, ben più vecchi della Bibbia. Nel '700 si cominciò a stimare, per il pianeta, un’età di quasi centomila anni, o maggiore ancora. Oggi parliamo di circa 4,5 miliardi di anni.

Fra il 1831 e il 1836, un giovane naturalista inglese, Charles Darwin, traversava il mondo su un brigantino della marina britannica diretto a effettuare rilievi cartografici dell’America meridionale. Nel corso del viaggio ebbe modo di osservare una molteplicità di piante e di animali: ne raccolse campioni, li analizzò e si rese conto che le stesse specie, vivendo in luoghi separati e lontani l’uno dall’altro, avevano assunto caratteri differenti, che variavano a seconda di ciò di cui si nutrivano e dell’ambiente in cui abitavano. Ne derivò l’idea che le specie viventi cambino nel corso del tempo, sviluppando caratteristiche diverse, e che sopravvivano gli individui e le popolazioni che meglio riescono a procurarsi il necessario nutrimento e a riprodursi, risultando così meglio adattate all’ambiente in cui vivono. All’opposto, gli individui e le popolazioni che hanno maggiori difficoltà a crescere e a riprodursi tenderanno a scomparire, nel volgere delle generazioni.

E’ l’ambiente, quindi, a compiere una selezione fra le diverse specie e fra le varie popolazioni e individui di una stessa specie. Poiché l’ambiente cambia di continuo, anche le caratteristiche dei viventi cambiano, nel corso del tempo. Darwin chiamò questo processo selezione naturale. Non era ancora chiaro come nascessero questi cambiamenti, ma si sapeva che gli agricoltori e gli allevatori di bestiame selezionavano e incrociavano fra loro le varietà più promettenti di piante e di animali, per migliorarne la produttività e altre caratteristiche, operando un processo di selezione artificiale per molti aspetti simile a quello che in natura avviene spontaneamente. In Inghilterra, i due secoli precedenti a Darwin avevano visto grandi progressi in agronomia e zootecnia.

Un altro naturalista inglese, Alfred Russell Wallace, che pure aveva lavorato a lungo in America meridionale, giungeva negli stessi anni a conclusioni analoghe a quelle di Darwin, benché, molto più giovane di lui, non le avesse sviluppate con ampiezza paragonabile.

I tempi erano ormai maturi per introdurre l’idea che le specie non sono immutabili, e quando Darwin pubblicò, nel 1859, il risultato dei suoi studi, con il titolo Sull’origine delle specie per selezione naturale, l’opera andò esaurita in un giorno. Era nata la scienza dell’evoluzione. Suscitò controversie così vivaci da non essersi ancora spente oggi. In cosa consiste l’evoluzione?

 Oggi la definiamo come il cambiamento continuo ed inevitabile delle specie nel corso del tempo. E bene chiarire subito che "evoluzione" non significa necessariamente né "miglioramento" né "progresso": si sono osservati parecchi casi di regressione pura e semplice, nel corso della storia, e deviazioni che hanno dato origine a rami nuovi, in seguito scomparsi, anche in popolazioni della linea umana. Evoluzione significa prima di tutto differenziazione progressiva. Gli esseri viventi cambiano nel corso del tempo: compaiono forme nuove che possono coesistere a lungo accanto alle più antiche e che a loro volta vanno incontro a nuovi cambiamenti. Basti pensare alla straordinaria varietà delle piante da fiore o degli uccelli, o dei dinosauri riportati alla luce negli ultimi duecento anni. L’evoluzione comporta quindi trasformazione e un aumento della varietà disponibile, a cui si accompagna spesso, ma non sempre, un aumento di complessità. Valga ad esempio l’estrema raffinatezza raggiunta da organi quali l’occhio o l’orecchio, nell’arco di centinaia di milioni di anni, o lo sviluppo del cervello umano, che ci rende capaci di pensieri e attività sconosciute ai tempi in cui i nostri antenati non avevano ancora imparato a usare il fuoco, o a rompere con pietre le ossa di animali per succhiarne il midollo. All’opposto, molti parassiti si specializzano assai, semplificando o perdendo le parti inutili e perfezionando quelle che permettono loro di attaccarsi ai loro ospiti e di penetrarvi. Una volta entrati, li costringono a moltiplicare i parassiti, a proprio danno, e a spargerne i figli all’esterno. Evoluzione significa, infine, sviluppo di capacità di interazione con l’ambiente. È questo, in definitiva, a decidere del successo di una specie o della sua scomparsa. I grandi uccelli senz’ali che abitavano la Nuova Guinea nella preistoria sono stati portati all’estinzione quando nel loro ambiente sono sbarcati uomini armati di lance di legno con la punta indurita al fuoco. Alla stessa stregua, intere popolazioni umane sono scomparse quando nel loro ambiente sono penetrati bacilli, come i virus dell’influenza o del morbillo, contro cui non erano in grado di difendersi.

Cosa rende possibile l’evoluzione? La risposta semplicissima è: la vita stessa. Qual è la caratteristica principale della vita? Non è il movimento: le piante sono vive ma non si muovono. Non è la complessità: un’auto è complessa e si muove, ma non è viva. Non è nemmeno la capacità di nascere, crescere e morire: anche una roccia "nasce", per esempio in un’eruzione vulcanica; un cristallo può crescere; e ogni cosa prima o poi ha fine. La caratteristica esclusiva della vita è l’autoriproduzione: la vita riproduce se stessa, se trova condizioni adeguate, e può assumere una enorme varietà di forme, come testimonia il mondo che abbiamo intorno. Anche un cristallo può formare copie di se stesso, in condizioni opportune, ma tutte avranno struttura identica al genitore. Un batterio ha struttura identica al genitore, ma nel corso delle generazioni può cambiare, e pur mostrando una complessità che nel cristallo non esiste continua a riprodursi quasi identico a se stesso, e simultaneamente ad evolvere. Lo studio della vita ha fatto passi da gigante dai tempi di Darwin, e le ragioni e i modi del cambiamento oggi sono ampiamente noti. Ne parleremo nei prossimi articoli, perché si tratta degli eventi che rappresentano il motore stesso dell’evoluzione.

Non sappiamo ancora come la vita abbia avuto origine, né se sia sorta sulla Terra o sia venuta dallo spazio su di un meteorite. Se è sorta sulla Terra, deve esserci voluto parecchio tempo perché potesse comparire, perché la nascita della vita deve essere un evento estremamente raro. Questo non significa che sia apparsa solo qui: vuole solo dire che c’è stato un luogo e un momento in cui una stringa di molecole è riuscita ad agganciare alcuni atomi, alcuni pezzi da costruzione, nell’ambiente circostante, e ad organizzarli intorno a sé in modo da formare una copia esatta, una sorta di carta carbone, di se stessa. C’è una riflessione che potrà disturbare chi non accetta che la vita possa avere davvero avuto origine da sola, ma vuole che sia sorta per un intervento esterno, extraterrestre, e che non abbia trovato da sé la sua strada, ma si sia sviluppata seguendo un piano preordinato, magari addirittura in vista di un finale già scritto. È una semplice considerazione: se davvero la vita «ha fatto tutto da sola», cosa che non è dimostrata e forse non è nemmeno dimostrabile, ma è perfettamente compatibile con ciò che sappiamo, allora non si sa dove stiamo andando, non si sa cosa potremo diventare, nessun piano guida la storia della vita, e ciò che sarà dell’umanità e del pianeta su cui si è imposta come specie dominante dipende in larga misura dalle scelte che faremo. Portiamo con noi nella vita, insomma, piena responsabilità per ciò che siamo e per ciò che diventeremo.

Questa incertezza disturba il senso di sicurezza di molti, e li spinge a cercare una figura paterna che insegni e diriga, e dicendo loro dove andare li sottragga a questa responsabilità. Ha fondamento questa aspirazione ad essere guidati? Nessuno può dimostrarlo, anche se molte menti eccelse ci hanno provato. Ciascuno deve scegliere a cosa prestare fede al riguardo, ma negare che vi sia evoluzione significa rinunciare alla nostra capacità di ragionamento, e a tutto quanto sappiamo.

 

Storia dell’evoluzione /2

 

Tutti abbiamo modo di osservare le grandi somiglianze, ma anche le differenze, fra genitori e figli. Non solo fra noi uomini, ma anche in ogni altro animale e fra le stesse piante. Riprodurre se stessi è anzi l’unica forma di immortalità virtualmente accessibile a chiunque, benché da questo punto di vista gli organismi più semplici, che si dividono in due e generano figli in tutto identici a se stessi, possano sembrare in vantaggio rispetto a chi, come noi, si riproduce per via sessuale. Nell’Ottocento, Darwin e Wallace (quest’ultimo con un lavoro non altrettanto imponente) dimostravano che le specie viventi cambiano nel corso del tempo. I figli, insomma, non sono sempre un semplice miscuglio dei caratteri dei genitori: si verifica ciò che Darwin definì "discendenza con modificazioni" e che noi oggi chiamiamo semplicemente "evoluzione". Nessuno, però, aveva capito ancora che cosa passasse da genitori a figli, rendendo questi ultimi così simili a chi li ha generati. Né si sapeva come funzionassero i meccanismi dell’eredità: perché a volte un figlio somiglia di più al padre e a volte di più alla madre, e altre volte a nessuno dei due?

I tempi erano maturi perché nascesse una scienza nuova, che rendesse conto della trasmissione dei caratteri attraverso le generazioni. Le sue basi furono poste da un contemporaneo di Darwin e Wallace: un monaco boemo, Gregor Johann Mendel, appassionato naturalista, che incrociò metodicamente per anni piante di pisello odoroso nell’orto del monastero di Brno, in Moravia, di cui sarebbe in seguito divenuto abate. Fra il 1856 e il 1863, Mendel sperimentò su circa 28.000 piante di pisello, osservando come i caratteri dei genitori si riproponessero nelle generazioni successive. Espose i suoi risultati in una conferenza scientifica nel 1865 e li pubblicò nel 1866 sulla rivista dell’Accademia delle Scienze di Brno, in un bellissimo articolo. Aveva scoperto le leggi che regolano la trasmissione dei caratteri ereditari e con i suoi esperimenti aveva fondato una nuova scienza, che avrebbe avuto enorme sviluppo nel secolo successivo. Ma nessuno, anche fra i maggiori scienziati del tempo, gli prestò attenzione.

Trascorsero alcuni decenni, e nel 1900 il suo lavoro fu riscoperto da tre botanici, in Olanda, Austria, Germania. Lavorando indipendentemente l’uno dall’altro, si resero conto che Mendel aveva ragione. Nel 1905, il biologo inglese William Bateson suggerì di chiamare "genetica" la nuova scienza dell’eredità (dalla radice greca ghen, presente anche in molte parole latine che significano "generare", "dare nascita"). Qualche anno dopo, le strutture responsabili della determinazione dei singoli caratteri ereditari, ancora ignote, furono battezzate "geni". La genetica era nata come scienza sperimentale, con le scoperte di Mendel. Una volta che queste furono confermate, ne derivò una straordinaria mole di ricerca di laboratorio su piante e animali.

L’americano Thomas Hunt Morgan fornì dimostrazioni rigorose che i caratteri ereditari hanno la loro sede fisica nei cromosomi, corpiccioli osservabili al microscopio nelle cellule che si stanno dividendo. Per quanto vagamente, era stato ipotizzato già in precedenza che fosse così, anche perché i cromosomi sono di forma e numero costanti e caratteristici in ogni specie (46 nella specie umana). Morgan riuscì a dimostrarlo concentrando i suoi studi su un minuscolo insetto, il moscerino della frutta o dell’aceto (Drosophila), che si trova sulla frutta in fermentazione e ha parte importante nella produzione del vino, in quanto trasporta sugli acini d’uva e sul mosto le cellule di lievito che causeranno la fermentazione alcolica. La Drosofila si riproduce rapidamente, è facile ed economica da allevare, e i suoi cromosomi sono ben visibili al microscopio ottico. Insieme con Morgan lavorò per venti e più anni, in una stanza dell’Università di Columbia a New York, un piccolo gruppo di genetisti validissimi. Essi poterono dimostrare che i singoli geni, come quelli che determinano, per esempio, il colore degli occhi, la forma delle ali e migliaia di altri caratteri nella drosofila, hanno ciascuno una posizione precisa sui cromosomi, come perle su una collana.

La scienza spesso procede a salti: magari si scopre, per puro caso, un’eccezione a una legge tenuta per vera, oppure accade che una teoria, sottoposta a controllo, si riveli errata. Pare che il detto "l’eccezione conferma la regola" risalga ad Aristotele, ma sembra una contraddizione, ed è più corretto dire che "l’eccezione saggia la regola". Fu così che uno dei primi esperimenti di Morgan (1910) fornì una delle dimostrazioni più belle della teoria cromosomica dell’eredità. Morgan trovò un maschio di Drosofila con gli occhi bianchi e lo incrociò con moscerini normali per controllare se seguiva le leggi di Mendel. I risultati furono sorprendenti. Nella prima generazione tutti i figli avevano occhi normali, di colore rosso: fin qui nulla di speciale, perché Mendel già aveva visto che nella prima generazione un carattere ereditario, che chiamò "recessivo", può non comparire affatto, ma si ripresenta nella seconda generazione se si fanno riprodurre fra loro gli individui della prima generazione. La parola recessivo ("che si ritira") era stata coniata, usando una parola latina, per indicare i geni che possono rimanere nascosti nei figli del primo incrocio ma che ricompaiono regolarmente in precise proporzioni nelle generazioni successive. Mendel non aveva usato la parola gene, che fu introdotta più avanti, ma aveva parlato di "elementi", sottolineando la natura di "unità elementare" della struttura, allora ignota, che trasmette i caratteri ereditari. È questa una proprietà che oggi riconosciamo ai geni. Nella seconda generazione dell’esperimento di Morgan, il carattere "occhi bianchi" effettivamente ricomparve, come ci si attendeva per un carattere recessivo, ma con una grossa sorpresa: solo i maschi, e solo il 50% dei maschi, avevano gli occhi bianchi, esattamente come il primo scoperto all’inizio. Poteva essere che il carattere fosse "limitato al sesso", cioè si manifestasse solo negli individui di sesso maschile; ma quando Morgan incrociò un maschio a occhi bianchi con una qualunque delle sorelle della prima generazione (una sua zia), che erano tutte a occhi rossi, metà delle figlie e metà dei figli risultarono con gli occhi bianchi, e l’altra metà con gli occhi rossi. Fece allora l’ipotesi che poi risultò giusta, cioè che il carattere occhi rossi o bianchi è determinato dal cromosoma X, uno dei due cromosomi sessuali X e Y.

Nella Drosofila, come nell’uomo e in molti altri organismi, vi è un paio di cromosomi che spiega questo strano comportamento: sono i cromosomi detti sessuali, X e Y. La femmina ha due cromosomi X, quindi è XX, il maschio un X e un cromosoma più piccino, detto Y, quindi è XY. È la presenza del cromosoma Y a determinare il sesso maschile. Il comportamento di un carattere portato dal cromosoma X ha proprio le caratteristiche osservate da Morgan per il carattere occhi rossi/bianchi. Possiamo rendercene conto, se abbiamo un po’di pazienza e di acume, tenendo presente che in qualunque cellula del nostro organismo, tranne quelle che permettono la riproduzione (spermatozoi e cellule-ovo), i cromosomi esistono in coppie: uno dei due membri della coppia è trasmesso dal padre, l’altro dalla madre. Tutte queste coppie sono formate da due cromosomi di forma identica, tranne una: quella dei cromosomi sessuali X e Y. Quando si formano le cellule riproduttive, cioè lo spermatozoo e la cellula-ovo, dalla cui unione avrà origine un nuovo individuo, in ognuna di esse entra un solo cromosoma di ogni paio, o l’uno o l’altro, a caso. Se non avvenisse questa riduzione numerica dei cromosomi all’atto della formazione di spermatozoi e cellule-ovo, non sarebbe possibile mantenere il loro numero costante in tutte le cellule di tutti gli individui. Le femmine generano le cellule-ovo, e poiché nelle cellule dell’organismo femminile entrambi i cromosomi sessuali sono X, ogni cellula-ovo ha un solo cromosoma X. I maschi generano gli spermatozoi, ma poiché nelle cellule dell’organismo maschile la coppia di cromosomi sessuali è formata da un X e da un Y, gli spermatozoi sono di due tipi: spermatozoi con X e spermatozoi con Y, in numero eguale. Il gene che determina il colore bianco degli occhi deve essere quindi nel cromosoma X, e manca nell’Y.

Per capire a fondo questa scoperta fondamentale basta fare un altro piccolo sforzo. Teniamo presente che, come appena detto, nelle cellule dell’organismo maschile i cromosomi sessuali sono l’uno X e l’altro Y. Chiamiamo X il cromosoma X del primo maschio con gli occhi bianchi trovato da Morgan. Incrociamolo a una femmina con gli occhi normali, i cui due cromosomi X non hanno il gene b, ma un suo equivalente che rende gli occhi rossi, come è normale nelle drosofile, per cui li chiameremo semplicemente X. I cromosomi del primo maschio sono XY, per cui il 50% degli spermatozoi che egli produce hanno un solo cromosoma Y, e l’altro 50% un solo X. La femmina con cui lo si incrocia è normale, XX, e tutte le sue cellule-ovo sono X. I figli maschi ricevono così dal padre l’Y e dalla madre l’X (normale): sono quindi XY, con i consueti occhi rossi. Le femmine invece ricevono dalla madre un X e dal padre un X, per cui sono XX: hanno anche loro gli occhi rossi, perché il gene per gli occhi bianchi è recessivo, cioè si nasconde dietro il gene normale. Nella prima generazione quindi gli occhi bianchi non ricompaiono. Tutte le femmine di questa generazione sono però XX, per cui producono metà cellule-ovo X e metà X. Incrociandole con maschi a occhi bianchi, come sono i loro padri, nei figli si trova esattamente il risultato che fu osservato da Morgan: metà dei moscerini hanno gli occhi bianchi e metà rossi, sia tra le femmine sia tra i maschi. Perché la metà esatta? perché ogni figlio può ricevere dal padre XY solo un Y o un X, e dalla madre XX solo un X o un X. Ora, YX è un maschio a occhi rossi e YX un maschio a occhi bianchi, mentre XX è una femmina a occhi rossi e XX una femmina a occhi bianchi.

In pratica, si trattava semplicemente di una estensione delle leggi di Mendel, relativa a un cromosoma speciale, che è diverso nei due sessi, a differenza degli altri cromosomi. Si può ben dire che si trattava di un’eccezione che "confermava" le leggi di Mendel, o meglio che ne ampliava l’applicazione. La successiva scoperta importante del gruppo di Morgan generò una nuova eccezione a una legge di Mendel, che fu nuovamente confermata, ma stavolta limitandola. Mendel aveva lavorato su sette caratteri diversi nei piselli (forma e colore del seme, del baccello e così via) e aveva concluso che caratteri diversi si ereditano indipendentemente l’uno dall’altro. Sperimentando con Drosofila si scoprirono molti altri caratteri portati dal cromosoma X e si vide che non venivano ereditati in modo del tutto indipendente dal colore bianco degli occhi. Uno di questi caratteri è il colore bruno piuttosto che giallo del corpo; altri arricciano o accorciano i peli del corpo, modificano la forma delle ali e così via. Risultò chiaro che caratteri portati dallo stesso cromosoma sono ereditati insieme, tanto più spesso quanto più sono vicini sul cromosoma. La relazione è così precisa che la si può usare per studiare l’ordine e la distanza dei geni sui cromosomi, cioè per costruire "mappe cromosomiche".

Era nata la teoria cromosomica dell’eredità. Oggi, lo studio del DNA conferma in pieno ciò che i genetisti avevano visto mediante i loro incroci, ma per comprenderlo sarebbe stato necessario parecchio altro lavoro.

 

Storia dell’evoluzione/3

 

Perché un organismo non si riproduce sempre uguale a se stesso? Che cosa introduce novità nella storia della vita? Un batterio si divide in due e genera due figli, che di solito sono identici al batterio che li ha generati: eppure qualche volta acquistano proprietà che questo non aveva, per cui risultano diversi dal genitore. Lo stesso fenomeno si verifica fra le piante e gli animali che si riproducono per via sessuale: maschio e femmina mescolano il proprio patrimonio ereditario, e il figlio porta un misto delle caratteristiche di padre e madre; ma a volte può capitare che presenti un carattere che non era presente né nei genitori, né nei loro antenati. Come mai?

Ben prima che Darwin aprisse la strada allo studio dell’evoluzione, ci si era accorti che possono comparire, nella storia della vita, caratteri che non erano presenti in precedenza: magari cambia leggermente la forma della foglia in una pianta di varietà ben nota; oppure cambia qualcosa nel piumaggio o nel becco di uccelli che hanno abitato per secoli una determinata zona. Gli agricoltori e gli allevatori sono stati attenti da sempre ad approfittarne: una spiga di frumento o di granturco che presentasse chicchi più abbondanti, o una mucca che fornisse più latte, venivano subito scelte per la riproduzione. Questi interventi umani hanno dato origine a molti miglioramenti delle piante coltivate e degli animali domestici, ma naturalmente potevano essere utili solo se i mutamenti osservati erano ereditari, cioè trasmissibili ai figli. Darwin notò che questa esperienza degli agricoltori ed allevatori poteva aiutarci a spiegare perché avviene l’evoluzione. Rendeva anche ragionevole pensare che le somiglianze osservate fra gli uomini e gli animali più simili a noi, gli scimpanzé, potessero derivare dal fatto che in origine erano la stessa specie, ma si erano formate due linee diverse che erano evolute in organismi differenti. è un’idea che poteva dispiacere a chi non ama gli animali, e addirittura essere ritenuta sacrilega da alcune religioni, mentre per altre era del tutto ovvio che discendiamo dagli animali. Però, se l’evoluzione è possibile perché almeno alcune delle differenze che nascono fra genitori e figli sono ereditate, questo significa che l’evoluzione può essere un fatto inevitabile. Così è, in effetti. Rimase a lungo un mistero, comunque, che cosa determinasse questi minuscoli cambiamenti. Ci volle più di un secolo di ricerche per arrivare a capirlo. Come sempre accade nella scienza, ci si riuscì in più tappe.

Con un lavoro pazientissimo proseguito per oltre vent’anni, allevando e incrociando milioni di drosofile in una stanzetta della Columbia University di New York, Thomas Hunt Morgan e i suoi collaboratori avevano raccolto moltissimi ceppi che portavano piccoli cambiamenti, tutti perfettamente ereditabili, nella forma o nel colore di occhi, zampe, ali, torace e altri parti del corpo degli insetti. La loro ricerca era stata facilitata dalla scelta di un organismo facile da allevare: il moscerino della frutta o Drosofila. Hermann Muller, un ricercatore del gruppo, poté dimostrare che ogni cambiamento si manifestava molto raramente ma con una frequenza particolare e riproducibile, e che veniva poi ereditato secondo le leggi formulate da Mendel, o che da queste potevano essere derivate in accordo con la teoria cromosomica dell’eredità, che ha valore più generale. Diciamo che, ad esempio, ogni duecentomila moscerini ne nasca uno con il corpo nero invece che giallo, e che uno su centomila possa nascere con gli occhi bianchi anziché rossi o di altro colore o forma. Questi numeri dipendono non solo dal tipo di cambiamento, ma anche dalla temperatura alla quale vengono allevati i moscerini: aumentano con la temperatura come in una normale reazione chimica. Muller dimostrò pure che la frequenza con cui appare una mutazione può essere aumentata di cento e più volte irradiando i genitori con raggi X o altre radiazioni, in un modo che ci dice (oggi) che la reazione chimica è influenzata da agenti ossidanti o che modificano altrimenti il DNA.

A cent’anni di distanza da quando ebbero inizio gli esperimenti di Muller, sappiamo molto sulla natura chimica e fisica del fenomeno, perché conosciamo la struttura della molecola del materiale ereditario, il DNA. Questi cambiamenti furono chiamati da Muller "mutazioni", un nome che già esisteva: era stato proposto al principio del secolo dal botanico olandese Hugo de Vries, uno dei riscopritori di Mendel, che però lo aveva impiegato per un fenomeno un po’diverso, che con la mutazione come la intendiamo oggi non ha niente a che vedere. Le osservazioni di Muller furono estese a moltissimi altri organismi e permisero di descrivere con esattezza in cosa consistano le mutazioni: si tratta di un cambiamento brusco, trasmissibile, casuale, spontaneo e raro del patrimonio ereditario. Brusco, perché si tratta di un cambiamento netto: per esempio, da genitori e antenati con le ali lisce nasce una drosofila con le ali arricciate. Fra i discendenti di quest’ultima compaiono moscerini con le ali arricciate allo stesso strano modo, per cui il cambiamento è trasmissibile. Una mutazione compare solo occasionalmente: è quindi un fenomeno raro. E’ anche spontaneo e casuale? E qual è la sostanza che si trasforma? Durante l’ultima guerra, due ricerche batteriologiche fecero luce sulla questione.

Nel 1943 un genetista italiano, Salvador Luria, e un tedesco, Max Delbruck, entrambi rifugiati negli Stati Uniti per sottrarsi alla dittatura nei rispettivi paesi, appurarono che la mutazione presenta queste identiche caratteristiche anche nei batteri. Con un esperimento molto brillante, coltivando batteri in provetta ed esponendoli all’azione del batteriofago (un virus che divora i batteri, come dice il nome), Luria e Delbruck riuscirono a dimostrare che se alcuni batteri sviluppano resistenza al virus, che perde così la sua efficacia, questo non avviene perché siano stimolati dalla presenza del batteriofago e stiano tentando di difendersene, come si credeva fino ad allora. La ragione è semplicemente che avvengono comunque di continuo mutazioni di resistenza, come di tutti i tipi, anche in totale assenza di batteriofago, con una frequenza caratteristica ma molto piccola, e alcune di queste rendono il batterio insensibile all’azione del virus. Le mutazioni, cioè, si verificano prima che il batterio venga a contatto con il batteriofago, del tutto indipendentemente dalla presenza del batteriofago, e gli permettono di sopravvivere. Il contatto con il batteriofago si limita a selezionare mutazioni già avvenute, cambiamenti spontanei che hanno una frequenza ben riproducibile, alterabile come se si trattasse di una reazione chimica. Queste conclusioni furono criticate perché tutti i batteriologi erano convinti che il cambiamento fosse indotto dal contatto con il batteriofago, ma furono confermate in seguito da altri esperimenti, che eliminarono ogni dubbio.

All’Istituto Rockefeller di New York tre americani, Oswald Avery, Colin MacLeod e Maclin McCarty, dimostrarono nel 1944 che cosa cambia materialmente in ogni mutazione: è la sostanza chimica responsabile dell’eredità, il DNA, un acido che si trova nei cromosomi. Sperimentando con batteri responsabili di numerose infezioni, gli pneumococchi, essi restituirono a un ceppo privo di virulenza la capacità di uccidere i topolini usati come cavie di laboratorio, mettendoli a contatto con il DNA, altamente purificato, estratto da un batterio virulento. Con un altro esperimento confermarono che la sostanza trasformante era proprio il DNA: trattandola con un enzima, anch’esso altamente purificato, che demolisce soltanto il DNA, dimostrarono che è effettivamente questa la sostanza che trasmette l’informazione ereditaria. Ma come può il DNA portare il materiale ereditario? Vi era una vecchia nozione chimica che sembrava rendere impossibile questa affermazione. La struttura del DNA era stata descritta nell’Ottocento da un chimico tedesco, Friedrich Miescher: una molecola piuttosto piccola, composta di quattro unità dette nucleotidi: A, C, G, T. Con una struttura così semplice, come era possibile spiegare l’estrema complessità dell’eredità biologica? Occorse più di mezzo secolo per capire: la struttura proposta da Miescher era sbagliata. Era stata suggerita dall’osservazione che queste quattro sostanze si trovano in quantità all’incirca eguali nelle cellule degli animali superiori. Più avanti, all’inizio degli anni Cinquanta, si sarebbe scoperto che nei batteri, invece, si trovano in quantità molto diverse. Vi è però una regola fissa: C e G sono presenti in quantità eguali; anche A e T lo sono, ma in quantità diverse da C e G. In realtà, nell’Ottocento non vi erano i mezzi per capire quanto grande fosse una molecola di DNA. Oggi sappiamo che è una molecola estremamente sottile ma lunghissima, lunga quanto un cromosoma srotolato. Il DNA ha forte tendenza a spiralizzarsi, formando spirali, spirali di spirali e gomitoli di spirali, che alla fine sono abbastanza spessi da divenire visibili al microscopio normale, ma sono a questo punto molto corti.

La struttura della molecola fu dimostrata nel 1953 da un batteriologo americano allievo di Luria, James Watson, e dal fisico britannico Francis Crick. Divenne chiaro che può bastare che cambi anche una sola di queste sostanze, A, C, G e T, in un punto qualunque del DNA, per osservare una mutazione nell’organismo che la porta. Questa scoperta ha cambiato radicalmente la biologia, e ci ha portato oggi ad una nuova era appena iniziata, quella del genoma. Che cosa ci attende in questo secolo? E come può essere che un minuscolo cambiamento chimico, spontaneo e casuale, la mutazione, sia responsabile di un fenomeno gigantesco come l’evoluzione di milioni di specie di organismi viventi? 

 

Storia dell’evoluzione/4

 

Jim Watson era uno studente americano molto brillante. Conseguì il Ph.D. in Genetica (il dottorato di ricerca) all’Università dell’Indiana e ricevette una borsa di studio per continuare la sua preparazione in laboratori europei. Ne girò più d’uno per qualche tempo. Alla fine riuscì a trovare un posto nel laboratorio di Cambridge ove era stato creato il metodo di studio della struttura dei cristalli mediante i raggi X. Sperava di capire la struttura del Dna, l’acido desossiribonucleico che forma i cromosomi, che era stato recentemente cristallizzato in laboratori inglesi. Il suo supervisore americano, convinto che fosse un’impresa impossibile, soppresse la borsa di studio, ma a Cambridge lo aiutarono a sopravvivere, benché nemmeno la direzione del laboratorio avesse fiducia nel progetto. Il successo venne grazie alla stretta collaborazione fra Watson e un fisico inglese, Francis Crick, che aveva una preparazione metodologica adatta: insieme inventarono una struttura che poteva spiegare le immagini di Dna ottenute a raggi X da un’altra ricercatrice inglese, Rosalind Franklin. La struttura ipotizzata sembrava anche permettere di capire perché gli organismi viventi possono riprodurre se stessi. Era vero: di fatto, spiegava il segreto stesso della vita.

Il Dna è una molecola doppia, formata da due lunghissimi filamenti molto sottili e attorcigliati l’uno all’altro in una doppia spirale, composti di un numero elevatissimo di unità, dette nucleotidi. I due filamenti sono appaiati strettamente, come può avvenire di due fili di lana appiccicati l’uno all’altro che formino una spirale. Ciascuno dei due è costituito di solo quattro nucleotidi, simboleggiati dalle lettere A, C, G e T, le iniziali del loro nome chimico. In ciascun filamento i quattro nucleotidi sono disposti in un ordine preciso, che ripete strettamente quello dell’altro filamento, con una regola stringente: dove il primo ha un A, l’altro ha un T, e viceversa (di fronte a un T del primo, cioè, c’è un A nel secondo). Dove il primo ha un C il secondo ha un G, e viceversa. Il Dna ha la capacità di autoduplicarsi nell’ambiente formato dalle cellule in cui è presente: è così che i genitori passano ai figli una copia identica del proprio corredo ereditario. Qualche anno fa è uscito un film, assai mediocre, GATTACA, che parlava di Dna. Se su un filamento di Dna c’è un segmento GATTACA, su quello opposto c’è la sequenza CTAATGT. Il filamento doppio di Dna è quindi: GATTACA; CTAATGT Il Dna che un genitore passa al figlio è un doppio filamento come questo. Un filamento singolo è sottilissimo, ma invece di sette nucleotidi come nell’esempio, nella specie umana ce ne sono più di tre miliardi, divisi in ventitré cromosomi, cioè in ventitré doppi filamenti di Dna di diversa lunghezza.

Ognuno di noi ha due doppi filamenti di Dna da tre miliardi di nucleotidi, uno di origine paterna, l’altro di origine materna, cioè, in tutto dodici miliardi di nucleotidi. I filamenti sono attorcigliati in modo così complesso che al momento della divisione cellulare si raccolgono in gomitoli corti e spessi, a forma di bastoncini, e si possono vedere facilmente al microscopio (i cromosomi, per l’appunto). Questo è il genoma umano: una doppia spirale di Dna. Come le lettere in un libro, nei cromosomi di ogni specie vivente i nucleotidi sono disposti in un ordine preciso, che decide cosa sarà un organismo, se un batterio o una mosca, una quercia o un elefante. Ogni essere vivente è costruito così.

La scoperta di Watson e Crick ha illuminato la natura della vita e trasformato la nostra visione del mondo. Tutta la ricerca successiva l’ha confermata, dimostrando che l’ordine dei nucleotidi nei cromosomi è ciò che permette ad ogni cellula di costruire se stessa. Ad ogni divisione delle cellule di un individuo, quando si forma un nuovo Dna che è un duplicato del vecchio, si hanno però rarissimi errori di copia.

Ogni mutazione è un errore che avviene all’atto del raddoppiamento: è raro, spontaneo e casuale, ma si verifica con una probabilità costante. Le mutazioni che avvengono nelle cellule germinali (spermatozoi e cellule uovo) sono trasmesse alla discendenza. Ne avviene una ogni trenta milioni di nucleotidi circa, in media, ad ogni generazione umana. Se consideriamo un solo individuo, il genoma paterno o materno di un figlio porta in media duecento mutazioni nuove di un singolo nucleotide l’una. Quattrocento in totale per individuo, poiché riceviamo un genoma completo dal padre e uno dalla madre. Usiamo questi numeri a titolo esemplificativo: non sono noti con precisione, e possono variare molto da un sito all’altro del Dna. C’è una piccola complicazione, che è bene spiegare per non essere fraintesi. La molecola è sì una doppia spirale, ma ognuna delle due determina l’altra, per cui parlando di mutazioni si considera il "paio di nucleotidi" di una molecola di Dna come una sola unità; per la stessa ragione si considera che il genoma sia formato da tre miliardi di nucleotidi, cioè da un singolo filamento. Da ciascuno dei genitori si riceve in realtà un doppio filamento, quindi sei miliardi di nucleotidi, ma ciascun filamento è complementare all’altro, e non introduce nessuna novità. La mutazione, quindi, insorge perché il processo di copiatura non è perfetto (nessun processo di copia è perfetto, anche i computer sbagliano).

Le mutazioni più frequenti comportano la sostituzione di un nucleotide con un altro, ma ve ne sono molti altri tipi, come lo spostamento, la perdita, il raddoppio di segmenti di cromosomi o di cromosomi interi. Sono tutti fenomeni di natura "casuale", cioè determinati da eventi imprevedibili, in quanto non conosciamo la ragione precisa per cui uno o più nucleotidi particolari in un punto della lunghissima molecola del Dna vengono sostituiti da altri. Sappiamo però che le mutazioni possono essere causate da perturbazioni locali che agiscono sul Dna, anche sui singoli nucleotidi; siamo in grado di misurare la frequenza con cui si verificano; e sappiamo che avvengono effettivamente molto di rado (anche per questo è difficile capire i motivi di ciascuna mutazione). Cominciamo anche a comprendere come aumentarne o diminuirne la frequenza, il che è desiderabile perché molte mutazioni sono dannose e vogliamo evitarle.

Essendo casuali, le mutazioni non sono necessariamente utili, anzi la maggioranza non ha alcun effetto visibile. Magari potranno essere utili domani, in nuove situazioni. Proprio perché casuali, però, possono essere anche nocive, e provocare malattie genetiche, cioè ereditarie. Perché la mutazione è fondamentale? Perché determina tutte le novità che compaiono negli organismi viventi. Perché è anche importante che sia casuale? Perché il fatto che avviene a caso fa sì che la vita esplori tutte le alternative possibili. Due individui differiscono in media per un nucleotide ogni 1000 o 2000, ma nella popolazione umana vi sono sei miliardi di individui, e nel corso delle generazioni ha avuto modo di accumularsi un grandissimo numero di novità. Le novità che funzionano meglio si affermeranno automaticamente, nel corso del tempo, divenendo sempre più frequenti, e alla fine sostituiranno il tipo precedente. Ogni essere vivente ha bisogno di nutrirsi e riprodursi, e nella ricerca e utilizzo di fonti di cibo ogni individuo può trovarsi in concorrenza con altri individui della stessa e di altre specie. L’ambiente cambia di continuo, e per sopravvivere i viventi devono adattarsi a questi cambiamenti. C’è concorrenza anche nella ricerca di un individuo della stessa specie come coniuge. Ogni organismo è esposto all’attacco di parassiti, che lo divorano dall’interno. Benché rare, vi sono mutazioni che portano vantaggio e permettono di bloccare l’attacco di un parassita, o di sfruttare una nuova fonte di cibo, o di utilizzarne meglio una già sfruttata. Queste mutazioni favoriscono chi le porta. Ne avvengono nella riproduzione del parassita, dell’ospite, di qualsiasi organismo vivente. Ognuno evolve come meglio può: l’ospite cambia per mutazione, e chi grazie a questa si difende meglio da un parassita lascia più figli, nella generazione successiva, rispetto a quelli che non hanno la mutazione. Il tipo nuovo prodotto dalla mutazione tende così ad aumentare continuamente nelle generazioni successive. Ma anche il parassita cambia per mutazione casuale, e se la mutazione migliora la sua capacità di attaccare l’ospite, riuscirà a mantenersi all’altezza della situazione e magari a provocare gravi epidemie. Questa è la selezione naturale, un meccanismo automatico ed inevitabile, che aiuta ogni specie a mantenersi e, se possibile, prosperare. è così che mutazione e selezione rendono l’evoluzione un processo che crea continuamente novità, senza scampo.

L’idea che la mutazione sia casuale urta contro grandi pregiudizi. Molti sono convinti che la nostra esistenza sia controllata dal fato, ovvero da un Dio onnisciente ed onnipotente, preferendo quindi una visione idealistica del mondo (il cosiddetto finalismo o teleologia). Vi sono anche biologi, sempre più rari, che credono che organi così complessi come l’orecchio e l’occhio siano troppo complicati per essersi sviluppati pezzetto per pezzetto in una lunga serie di mutazioni casuali. Altri desiderano vedere nella natura il segno sicuro di un ordine superiore. Per ragioni squisitamente religiose, il 50 per cento degli americani, il popolo la cui fiducia nella scienza e nella tecnica ha grandemente aiutato la rivoluzione scientifica, non crede all’evoluzione, perché le loro sette cristiane impongono di credere nelle parole esatte della Bibbia: il mondo è stato creato così com’è in sette giorni da un Dio, e non cambia mai. I biologi migliori hanno idee diverse.

La vita è un bricoleur, nelle parole del grande biologo francese Francois Jacob. La natura è un artigiano dilettante esperto nel fai da te, che opera piccole riparazioni e aggiustamenti, talora anche grandi, usando tutte le alternative disponibili, tiene quelle che funzionano e butta le altre. Non ha un progetto preciso, ma prova in tutte le direzioni, sbaglia, riprova e scopre quello che fa al caso suo. I meccanismi biologici sono capolavori dell’arte di arrangiarsi. Con buona pace di quanti, filosofi o credenti, hanno pensato che la storia della vita sia guidata in una precisa direzione da un’intelligenza suprema, l’"intelligenza suprema" è semplicemente la selezione naturale, che sceglie automaticamente le mutazioni utili, perché si riproducono più delle altre. Dal momento in cui ha avuto inizio, la vita è stata inevitabilmente diretta dalla selezione naturale, attraverso la quale il caso, rappresentato dalla mutazione, ha dimostrato di essere molto creativo. Vedremo che il caso agisce anche per altre vie. Che vi sono altre forze, accanto alla mutazione e alla selezione naturale. E che non vi è motivo di impensierirsi perché il caso è importante nella nostra evoluzione. Sarebbe comunque una preoccupazione futile, perché è così che vanno le cose.

 

Storia dell’evoluzione/5 

 

Tre anni orsono, il Ministero dell’Istruzione e della Ricerca decideva di escludere l’insegnamento dell’evoluzione dai programmi della scuola elementare e media, nella convinzione che la descrizione scientifica del mondo possa turbare le menti dei più giovani, cui sono più adatte le favole. A ripensarci sembra incredibile, ma andò proprio così. Il tentativo suscitò l’unanime protesta di ricercatori e insegnanti, ed è per fortuna fallito. Spinge però a riflettere sulle ragioni dell’accanimento che perdura contro la teoria dell’evoluzione, che pur essendo una semplice interpretazione dei fatti del mondo, come ogni teoria scientifica, non è però meno robusta di quelle che descrivono il movimento dei pianeti, cui nessuno sembra più obiettare. Vi sono alcuni fattori che spiegano in parte questa avversione, ad esempio l’influenza di alcuni filosofi postmoderni, che negano validità alle affermazioni della scienza. Vi è anche una confusione fra la teoria dell’evoluzione proposta da Darwin, basata sulla selezione naturale, e alcune deformazioni ottocentesche posteriori: una di queste è il darwinismo sociale, uno sviluppo politico cui Darwin non si associò mai e che contribuì ad alcune fra le peggiori forme di fascismo.

La principale ragione per cui la teoria dell’evoluzione continua a trovare ostinati nemici ci sembra però risiedere nella diffusa ignoranza di ciò che essa afferma. La teoria moderna dell’evoluzione comprende in realtà due sviluppi distinti, entrambi iniziati nel Novecento e tuttora fiorenti. Uno è la teoria matematica dell’evoluzione, creata negli anni Venti da tre genetisti, R.A. Fisher, J.B.S. Haldane e Sewall Wright. L’altro è lo studio del genoma, che è ora esteso a molti altri organismi oltre l’uomo. È un settore d’indagine assai giovane, ma chiaramente destinato a uno sviluppo gigantesco, grazie al progressivo abbassamento del costo dell’analisi chimica del Dna. Già i risultati finora ottenuti mostrano la straordinaria utilità di questo approccio anche per gli studi sull’evoluzione. Per questa strada infatti possiamo ricostruire in completo dettaglio tutti i passi della storia evolutiva, con limitazioni solo per gli organismi che sono da tempo estinti, di cui saremo forse costretti ad accontentarci di conoscenze parziali, perché il loro Dna è stato distrutto dal tempo. Quando Mendel scoprì le leggi della trasmissione ereditaria non si conosceva ancora l’esistenza dei cromosomi. Quando Thomas Hunt Morgan dimostrò che i geni sono fisicamente parte dei cromosomi, si era ancora lontani dal capire quale fosse la sostanza chimica che contiene e trasmette l’informazione ereditaria. La teoria matematica dell’evoluzione nacque mettendo in numeri le leggi dell’eredità e le osservazioni di laboratorio, ben prima che si sapesse che cosa passa, materialmente, dai genitori ai figli. Ora che lo sappiamo e che la lettura dei singoli nucleotidi del Dna nelle più diverse specie viventi ci mette davanti agli occhi, come in un libro stampato, la storia delle singole specie e della loro differenziazione da antenati comuni, la strada percorsa dalla vita si manifesta con tale potenza da rendere molto difficile negare la realtà dell’evoluzione.

Se fino a qualche tempo fa potevano rimanere dubbi, che spingevano molte autorità a parlare dell’evoluzione come di un’"ipotesi", oggi l’evoluzione è una certezza, e ci stiamo avvicinando ad una comprensione pressoché completa. Resta quindi necessario chiarire ai filosofi sprovveduti che cosa sia il darwinismo.

La teoria di Darwin pone l’importanza centrale della selezione naturale come forza e guida dell’evoluzione, ammesso che vi sia variazione genetica, cioè ereditabile. Darwin aveva le idee errate comuni al suo tempo sull’origine della variazione genetica, che è stata compresa solo nel secolo scorso. Come praticamente tutti i suoi contemporanei, purtroppo non aveva tagliato le pagine degli atti della società delle scienze di Brno, in cui nel 1866 Mendel aveva pubblicato le sue famose leggi, che avrebbero potuto essere di aiuto. Ma perché la teoria della selezione naturale funzioni basta che vi sia variazione ereditaria, e non importa molto quale ne sia la base, se mutazioni genetiche o altro. Anche se storicamente non è corretto, la cosa più semplice è pensare al darwinismo come "mutazione e selezione naturale".

La teoria matematica ha aggiunto altri due fattori fondamentali: drift e migrazione. Il "drift", parola inglese che in italiano si traduce "deriva", è in pratica un effetto del caso, di origine strettamente statistica (di nuovo il caso, non solo nella mutazione!), che riguarda il numero di individui di un certo tipo genetico che compongono una popolazione. È un effetto che si manifesta ad ogni generazione, perché il numero di figli varia di famiglia in famiglia, e il numero di "riproduttori", cioè di persone che si riproducono, varia ad ogni generazione. Una mutazione nuova si manifesta in un solo individuo: qual è la probabilità che sia ancora presente alla prossima generazione? Chiaramente, dipende dal numero di figli presente nella famiglia in cui la mutazione è comparsa, in uno dei genitori. Se i figli sono in numero di zero, la mutazione è perduta per sempre, o più esattamente fino a che non ricompaia in un altro individuo e in un altro tempo. Se la popolazione è stabile, cioè non aumenta né diminuisce, la mutazione viene perduta con una probabilità del 37%, secondo un teorema del calcolo delle probabilità. Con la stessa probabilità vi sarà un figlio che porta la mutazione, per cui la stessa situazione si ripeterà nella generazione successiva. Non vi è certezza, quindi, che una nuova mutazione si mantenga. Potrà però manifestarsi di nuovo nel futuro. È chiaro che quando una mutazione porta vantaggio tenderà a diffondersi nel corso delle generazioni, e viceversa quando reca danno, ma la maggior parte delle mutazioni non ha effetto ai fini della selezione naturale: per lo meno, non ne ha in ogni ambiente e in ogni tempo. Per esempio, una mutazione che migliora la resistenza a un parassita sarà ininfluente se e quando quel parassita non è presente nell’ambiente di vita. Tali mutazioni si trasmetteranno da una generazione all’altra in modo del tutto fortuito: la loro frequenza nella popolazione potrà aumentare come diminuire da una popolazione all’altra, variando sull’onda del caso, senza subire l’effetto della selezione naturale. Questo è il drift: la variazione casuale della frequenza di un gene in una popolazione. È un nome che può trarre in inganno, perché quando si parla di "deriva", nel linguaggio comune, ci si riferisce al movimento di un corpo sotto l’azione di una corrente, e le correnti marine, ad esempio, hanno di solito una direzione costante, mentre la frequenza di un gene può aumentate come diminuire, di generazione in generazione, sotto l’azione della deriva genetica. Per evitare ambiguità, si parla di "deriva genetica casuale". Generalizzando, l’effetto del drift sul lungo periodo è di ridurre la variazione genetica ad ogni generazione, fino a rendere una popolazione completamente omogenea, cioè fatta di individui tutti geneticamente eguali. Il primo gene scoperto nell’uomo fu quello che dà origine ai gruppi sanguigni AB0, che sono dovuti a tre forme di uno stesso gene, designate, per l’appunto, come A, B e 0. La loro frequenza media nel mondo è rispettivamente del 22%, 12%, 66%. Se l’effetto del drift proseguisse per tutto il tempo necessario, fino ad esaurirsi, la specie umana risulterebbe tutta formata da individui di gruppo A, oppure B, oppure 0, con una probabilità che dipende dalle cifre appena dette. Vi sono però due ragioni che rendono questo finale estremamente improbabile. La prima è che si tratta di un processo che in una specie delle dimensioni di quella umana richiede un tempo estremamente lungo per verificarsi. Infatti il tempo necessario è, in numero di generazioni, dell’ordine di grandezza del numero di individui che compongono la specie: si tratta quindi di miliardi di generazioni. Ma in una popolazione molto piccola, come quella di una colonia stabilita da un piccolo numero di fondatori e che magari abita un luogo isolato e non riceve più nuovi immigranti da fuori, un forte effetto del drift può manifestarsi in un numero di generazioni ben compatibile con la storia umana. Ve ne sono molti esempi, particolarmente chiari quando si tratta di malattie genetiche rare. L’altro motivo per cui ben raramente la deriva genetica porta all’estremo la sua azione è che le popolazioni umane non vivono di solito del tutto isolate, ma ricevono immigranti dall’esterno, e che nuove mutazioni o fenomeni di selezione naturale possono ridurre l’effetto del drift.

La migrazione è un’altra forza evolutiva importante, che può modificare gli effetti del drift in entrambi i sensi, riducendoli oppure rafforzandoli. Di recente si è scoperto un effetto curioso nella genesi della specie umana oggi vivente, che ha tutta origine dall’espansione demografica di una piccola popolazione dell’Africa orientale, formata forse solo di un migliaio o di poche migliaia di persone, che si sono diffuse all’Asia occidentale e di lì all’Australia come all’Europa e più avanti alle Americhe. Questa colonizzazione progressiva al di fuori del continente africano è avvenuta ad opera di piccoli gruppi di pionieri, che via via si distaccavano dalla periferia degli insediamenti umani e aumentavano di numero, fino a che nuovi piccoli gruppi di pionieri si distaccavano per colonizzare regioni sempre più distanti dall’origine. Il processo è durato 50.000 anni ed è stato una diffusione regolare, che ha visto ad ogni passo un modesto gruppo di fondatori colonizzare una regione sempre più lontana. Il risultato è ancora visibile a livello genetico: è stato una perdita progressiva di variazione genetica con l’aumento della distanza dall’origine. Questo processo non ha avuto conseguenze negative rilevabili, ma dimostra una regolarità quasi incredibile. La migrazione regolare di piccoli gruppi dal punto di partenza verso la periferia ha avuto come effetto la riduzione della variazione genetica all’interno dei singoli gruppi: questa è una conseguenza del drift, la cui forza si fa sentire appunto all’interno dei gruppi di piccole dimensioni. La migrazione ha più spesso però risultato opposto: riduce l’effetto del drift e tende a rendere omogenee popolazioni che si scambiano reciprocamente individui, e che se invece restassero isolate tenderebbero a differenziarsi le une dalle altre. Sarà questa la conseguenza della globalizzazione avviata dalle migrazioni planetarie verso i paesi di stato economico più elevato, che ridurrà la disparità genetica fra continenti prodotta dall’espansione umana degli ultimi 50.000 anni. 

 

Storia dell’evoluzione/6

 

Nel ricostruire la storia si incontra una grave difficoltà: spesso mancano elementi per decidere sui punti oscuri, e non c’è speranza di fare come lo scienziato sperimentatore, il quale, quando ha un dubbio su un esperimento, può ripeterlo quante volte vuole, e se ottiene lo stesso risultato può sentirsi tranquillo di non essere caduto in qualche errore. Ma non possiamo ripetere la storia, e non esiste (almeno per ora) una macchina del tempo che ci porti indietro e ci permetta di osservare quello che è effettivamente successo, e poi ci riporti al tempo di partenza, per poter raccontare ciò che abbiamo visto. Se non possiamo viaggiare di persona nel tempo, abbiamo un’altra possibilità di ricostruire la storia: sta nell’indagare le conoscenze acquisite da altre discipline sullo stesso periodo, luogo e personaggi, che abbiano qualche relazione con i fatti che ci interessano. La genetica può dire parecchio sul nostro passato, e in aggiunta possiamo ricavarne informazioni sul tempo in cui si sono verificati certi avvenimenti, per esempio la separazione fra due popolazioni o due specie. Ma anche l’archeologia può essere di aiuto. Estendendo lo studio della storia a più di una disciplina lo si facilita, e si è inevitabilmente condotti a concludere, come avremo occasione di mostrare, che un approccio multidisciplinare permette di realizzare una sorta di "ripetizione della storia". è un po’come se si ripetesse l’esperimento, come fa lo sperimentatore per convincersi di avere ottenuto il risultato giusto, perché uno stesso periodo viene considerato da più punti di vista indipendenti. Si giunge così anche allo scopo di ottenere maggiore credibilità nelle proprie conclusioni.

La paleontologia ha ricostruito negli ultimi centocinquant’anni la storia delle nostre origini a partire dalla separazione degli esseri umani dalla specie animale più vicina, lo scimpanzé, che attualmente si pensa sia avvenuta in Africa centrale, nel Ciad odierno, circa cinque-sei milioni di anni fa. Il primo passo fondamentale è stato il passaggio dalla camminata a quattro zampe alla stazione eretta, che ha aumentato la velocità nella corsa e ha liberato gli arti anteriori, permettendo di usare le mani per attività creative, quali l’impiego di strumenti. Dall’inizio della separazione vi è stato un aumento più o meno graduale delle dimensioni del cervello. A questo si devono probabilmente le due grandi qualità che ci distinguono dalle altre scimmie: la maggiore inventività e lo sviluppo di una comunicazione sempre più ricca, attraverso il linguaggio. Nella nostra specie, il cervello è quadruplicato di dimensione negli ultimi cinque milioni di anni. Anche i Primati odierni hanno un cervello di dimensioni superiori a quelle dell’antenato comune a loro e a noi, ma la differenza non è così marcata. Il lungo e lento cambiamento che ci contraddistingue è stato quindi limitato al genere umano.

Nella nostra specie, detta Homo sapiens, l’aumento di volume del cervello, o almeno del cranio, si è arrestato fra i trecentomila e i cinquecentomila anni fa, mentre è proseguito in modo lieve fra i nostri cugini più prossimi: i Neandertal. Li troviamo diffusi in Europa e nelle parti d’Asia più prossime all’incirca fra i 350.000 e i 30.000 anni fa, dopo di che scomparvero quasi all’improvviso. Per parecchio tempo gli archeologi li hanno visti come gli antenati diretti degli europei, semplicemente perché vivevano negli stessi luoghi che abitiamo oggi, poi un’analisi più accurata, condotta in parallelo da archeologi e genetisti, ha rivelato che gli antenati degli europei vivevano fuori del continente e che vi giunsero poco prima della scomparsa dei Neandertal. Chiamiamo questi nostri diretti antenati, e noi stessi, uomini anatomicamente moderni (o semplicemente moderni), in quanto siamo indistinguibili sul piano scheletrico. I reperti archeologici mostrano che i primi uomini di questo tipo sono comparsi in Africa orientale intorno ai 150.000 anni fa.

Nella classificazione scientifica, che discende dalla tassonomia proposta da Linneo alla fine del Settecento, il nostro nome è: Homo (genere) sapiens (specie) sapiens (sottospecie). I nostri cugini neandertaliani sono invece designati come Homo sapiens neanderthalensis. Molti oggi omettono la parola sapiens, cioè considerano Neandertal una specie diversa.

Riprendendo dall’inizio la storia del genere Homo, il suo primo rappresentante (specie detta habilis) compare, sempre in Africa orientale, intorno ai 2,7 milioni di anni fa: ha già un cervello almeno doppio di quello degli altri Primati e ha avuto molto tempo a disposizione per usare le mani. Forse i primi attrezzi che ha elaborato sono di legno e non si sono conservati, ma in quest’epoca si ha la prova sicura dell’impiego di strumenti, perché si trovano le prime pietre sbozzate, usate forse per aprire le ossa degli animali uccisi o trovati morti ed estrarne il midollo, già allora molto appetito.

In tappe posteriori dell’evoluzione, i nostri antenati diretti, che oggi alcuni chiamano Homo erectus, altri ergaster, fabbricano strumenti litici più raffinati e differenziati. Intorno a 1,7 milioni di anni fa ha inizio un’espansione demografica, seguita da un’espansione geografica, come è inevitabile che accada quando si cresce troppo di numero e si superano i limiti di saturazione locali. L’espansione demografica e quella geografica procedono fino ad occupare il Vecchio Mondo (Africa, Europa, Asia), arrestandosi solo agli oceani. Con ogni probabilità la conquista del fuoco era già avvenuta (il primo reperto archeologico è di 1,6 milioni di anni fa) e aveva contribuito a occupare regioni più fredde, a migliorare la qualità e l’igiene dell’alimentazione con la cottura del cibo, ad assicurare la protezione dalle fiere di notte e a produrre strumenti migliori.

La seconda grande espansione ha inizio molto più tardi. è di nuovo in scena l’Africa orientale, ma questa volta il protagonista è Homo sapiens sapiens, uno fra i più tipi umani che si sono andati sviluppando nel continente. Questa piccola popolazione si espande all’Africa negli ultimi centomila anni, e fra i 60.000 e i 50.000 anni fa comincia a diffondersi nel resto del mondo. In parte si muove verso est, lungo la costa meridionale dell’Asia, giungendo fino in Nuova Guinea e Australia almeno 40.000 anni fa. Procedendo in un’altra direzione, verso nord, forse per la valle del Nilo o lungo la costa del mar Rosso, arriva in Medio Oriente (ove già l’uomo moderno si era spinto, per un breve periodo, verso i 100.000 anni fa, per poi ritirarsi all’inizio dell’ultima glaciazione, circa 80.000 anni fa) e penetra fin nel cuore dell’Asia. Dall’Asia centrale si spinge sia verso ovest, raggiungendo l’Europa già 46.000 anni fa, sia verso est. Lo si trova in Siberia 30.000 anni fa. Di qui entra in Alaska, almeno 15.000 anni fa se non prima, e già 11.000 anni fa raggiunge l’estremo sud dell’America meridionale, procedendo lungo la costa pacifica.

Fin qui il racconto dell’archeologia, ma la genetica produce una genealogia ancor più precisa attraverso lo studio di molti geni, compresi quelli di due cromosomi speciali, il DNA mitocondriale e il cromosoma Y, che ci permettono di ricostruire rispettivamente l’albero genealogico femminile e maschile. Le numerose date prodotte dalla genetica si accordano bene con quelle archeologiche, ma hanno una genesi distinta: nascono dal conteggio delle mutazioni che separano individui diversi e dalla conoscenza della velocità con cui le mutazioni si producono (detta frequenza di mutazione).

Sorge naturalmente la domanda: perché questa grande espansione dell’uomo moderno? Un’espansione geografica è di solito dettata da una crescita demografica locale, che costringe a distribuirsi su un terreno più vasto. Le forze che hanno promosso l’incremento demografico e hanno cambiato la nostra sorte sono due, entrambe di natura culturale. Forse la più importante è lo sviluppo del linguaggio, che ha certamente avuto inizio in un lontano passato, ma può avere raggiunto il livello attuale poco prima di centomila anni fa. Il linguaggio permette di scambiarsi informazioni su qualunque argomento ed è quindi di grande aiuto allo sviluppo della società, anche se è accompagnato da una quasi inevitabile ambiguità, che talora ci tradisce. L’altra forza, forse di origine ancora più antica, è quella dell’inventività e della curiosità che hanno caratterizzato lo sviluppo di invenzioni e scoperte umane per alcuni milioni di anni. Non è necessario che siamo tutti inventori, ma basta che ve ne siano alcuni nella popolazione, anche se in piccola percentuale, perché la capacità di imitazione, e ancor più la comunicazione attraverso il linguaggio, possano generalizzare le invenzioni compiute da uno solo. La produzione di nuove invenzioni è poi aumentata con l’aumento del numero degli inventori, legato all’accrescimento della popolazione dell’uomo moderno, resa possibile prima dalla sua espansione a tutto il mondo, poi da ulteriori invenzioni, come la coltivazione di piante e l’allevamento di animali. Queste sono comparse intorno a diecimila anni fa per sovvenire all’incremento eccessivo della popolazione rispetto alle risorse disponibili in natura, e hanno a loro volta permesso una nuova fortissima crescita demografica. Nate in regioni a clima temperato, particolarmente favorevoli, si sono successivamente diffuse intorno ai punti di origine. Oggi, nell’era di internet, la velocità di comunicazione è aumentata a dismisura: siamo entrati in una nuova epoca, sul cui sviluppo è difficile fare previsioni. 

 

Storia dell’evoluzione /7

 

In latino, verbum è la parola, quindi l’elemento fondante del linguaggio, o il linguaggio stesso. In italiano ha conservato il significato di termine grammaticale per designare la parte del discorso che indica il divenire, l’azione o lo stato del soggetto. Nell’uso cristiano, indica la parola di Dio che crea il mondo, la seconda persona della Trinità, come nel Vangelo di Giovanni ("In principio era il Verbo"). L’equivalente greco, logos, sta per parola, discorso, l’idea espressa dalla parola, ma ha anche il significato di ragione, ragionamento. Queste estensioni del concetto non stupiscono, se consideriamo che la parola è l’unità basilare del linguaggio, la maggior differenza tra uomo e animali. Anche gli animali comunicano tra loro, alcuni, come le formiche, con messaggi chimici, altri, come le api, con danze elaborate, altri ancora con versi, suoni e canti, ma nessuno di questi sistemi di comunicazione ha raggiunto il grado di ricchezza e versatilità caratteristico del linguaggio umano.

L’analisi del linguaggio è forse la più astratta delle scienze, perché è del tutto autoreferenziale. Per spiegare il significato di una parola un dizionario impiega altre parole, impresa molto difficile, soprattutto quando si tratta di parole astratte. In realtà, la massima parte delle parole designa oggetti, azioni, fenomeni molto concreti, come è naturale per uno strumento nato per aiutare le persone a scambiarsi informazioni e ad operare insieme. Se confrontiamo la ricchezza e la precisione dei termini che descrivono la strumentazione e le attività di un’officina meccanica, ad esempio, con la relativa povertà e l’imprecisione dei termini che descrivono nozioni e operazioni astratte, per quanto universali (come "amore", "pensiero", "curiosità"), ci rendiamo conto di quanto il linguaggio sia sempre stato essenzialmente uno strumento pratico, volto a favorire lo sviluppo delle interazioni umane. Nell’antichità era diffusa la convinzione che la parola fosse in qualche modo compartecipe di ciò che essa designa, che ne condividesse la sostanza. Oggi si giudica che il significato delle parole sia arbitrario, cioè che una parola designi ciò che designa per semplice convenzione fra i parlanti. Sempre per ragioni pratiche, di economia delle parole, il linguaggio è ambiguo: una parola può avere parecchi significati, di solito abbastanza distanti fra loro perché non sia troppo difficile intuire, in base al contesto, in che senso una parola polisemica (cioè che ha molti significati, come è vero di molte parole) viene impiegata in una precisa circostanza. Se però si vuole eliminare qualsiasi errore di comprensione è necessario ricorrere ad un glossario tecnico specializzato, più ricco del solito, oppure alla logica o alla matematica. Anche per questo la scienza ha bisogno della matematica.

Non sappiamo quando e come sia comparso il linguaggio, ma deve essere passato per vari stadi e deve essersi trattato di un lungo processo, perché ha richiesto importanti cambiamenti biologici, che non compaiono dall’oggi all’indomani: la formazione dell’organo che permette di produrre la voce, dei centri nervosi capaci di dirigerlo ed anche di quegli organi e centri nervosi che ci mettono in grado di ascoltare e capire quanto ci viene detto. Si è riusciti a farsi capire dalle scimmie più vicine a noi, ma non a farle parlare se non attraverso simboli visivi e giochi, anche elettronici, tramite i quali ci comunicano i loro desideri e altri semplici sentimenti e informazioni. I risultati però rimangono solo molto lontanamente paragonabili all’uso che facciamo del linguaggio per comunicare tra uomini.

In realtà il linguaggio è il tratto culturale umano che meglio dimostra l’unità della nostra specie. Esistono almeno seimila lingue diverse - molte altre sono estinte - ma la traduzione dall’una all’altra è sempre possibile, con limiti dovuti soprattutto alle grandi diversità dei rispettivi stili di vita, per cui i linguaggi dei popoli che fanno una vita più semplice possono accontentarsi di non molte migliaia di parole, mentre le culture tecnicamente più avanzate ne richiedono centinaia di migliaia. Soprattutto, non vi è limitazione che impedisca ad alcun essere umano, che non soffra di gravi menomazioni innate o acquisite, di imparare perfettamente qualsiasi lingua esistente. L’apprendimento può essere imperfetto se non avviene nei primi anni di vita, perché il nostro cervello è fatto in modo che il linguaggio deve essere appreso nei primi tre o quattro anni di vita, in cui siamo predisposti a impadronirci rapidamente di quella che rimarrà poi sempre la nostra lingua materna. Nello sviluppo vi sono molti periodi critici, diversi per le diverse acquisizioni: per il linguaggio, un primo periodo critico è questo. Ve ne è poi un altro più avanti, o meglio un altro limite di età oltre il quale l’apprendimento non può più essere perfetto, che riguarda le lingue straniere e in particolare la loro pronuncia: durante la pubertà, quasi tutti perdono la capacità di apprendere correttamente i suoni di una lingua diversa dalla madrelingua. Purtroppo si direbbe che in genere i ministri dell’istruzione ignorino questa regola, per cui l’insegnamento delle lingue straniere inizia troppo tardi. Dovrebbe cominciare nella scuola elementare.

Le lingue evolvono rapidamente. Nel De vulgari eloquentia, Dante si mostra consapevole del fatto che il linguaggio evolve e che lingua madre e lingua figlia possono diventare reciprocamente incomprensibili in poco più di mille anni. Gli era ben chiara la differenza tra il latino e l’italiano che lui stesso parlava. Ma il primo studio sistematico delle lingue è stato compiuto alla fine del Settecento da un giudice inglese che viveva in India, Sir William Jones, che ebbe occasione di accorgersi della somiglianza tra sanscrito, greco, latino (comprese le lingue da questo derivate) e le lingue germaniche e slave. Cominciò così a prendere forma la prima famiglia linguistica, oggi chiamata indoeuropea, o indoittita poiché l’ittita è la lingua più antica del gruppo europeo. Nel 1865 il linguista tedesco August Schleicher ne diede un albero evolutivo, poco diverso da quello su cui vi è oggi un discreto consenso. L’estensione di questa analisi ad altre lingue ha visto formare parecchie altre famiglie, ma con poco accordo fra i linguisti.

Nel 1866, la Società di Linguistica di Parigi promulgava un tabù, vietando ufficialmente di occuparsi di evoluzione del linguaggio. Il divieto evidentemente ha avuto successo, perché solo nella seconda metà del secolo scorso vi è stato un progresso importante, grazie a Joseph Greenberg, dell’Università di Stanford, che giunse molto vicino a ricostruire un albero evolutivo completo delle lingue dell’umanità, ma disgraziatamente morì prima di avere completato il suo lavoro. Sfidando l’approccio più tradizionalista, il metodo sviluppato da Greenberg mette a confronto alcune centinaia di parole di uso molto comune in lingue diverse: termini che indicano parti del corpo, sostanze e fenomeni naturali universalmente presenti, pronomi personali, i numeri un due tre e così via: si tratta di parole che sono fra le prime che il bambino impara, e che meglio si conservano nel corso del tempo.

Il numero delle principali famiglie varia, a seconda dei tassonomi, da dodici a molte di più. Con il minor numero di famiglie formulate dai linguisti più avanzati, dodici, l’albero evolutivo delle lingue corrisponde molto bene all’albero genealogico delle popolazioni umane costruito in base ai dati genetici, con alcune eccezioni che hanno una chiara spiegazione storica. In genere il problema dell’origine del linguaggio riscuote poco interesse fra i linguisti, molti dei quali lo considerano un problema insolubile, e ritengono che la ricostruzione della storia evolutiva delle lingue possa difficilmente risalire più indietro dei seimila anni ritenuti data d’origine della famiglia indoeuropea (che probabilmente è coeva all’origine dell’agricoltura, intorno ai 10.000 anni fa, e quindi ha un’età quasi doppia).

La genetica ha dato un importante contributo a comprendere l’evoluzione delle lingue. Un gene chiamato FOXP2, responsabile di un difetto ereditario complesso, che riduce le capacità di articolazione e determina carenze grammaticali, fa pensare che vi siano stati cambiamenti recentissimi che hanno permesso di raggiungere il grado attuale di sviluppo delle capacità linguistiche. L’uomo anatomicamente moderno ha non più di 150.000 anni di vita, secondo gli archeologi, ma le prime modifiche del cervello che hanno portato a sviluppare i centri motori del linguaggio, ben noti agli anatomisti e ai patologi, che occupano le circonvoluzioni nella parte media sinistra del cervello umano, potrebbero avere una antichità assai maggiore, di due milioni di anni.

Come detto sopra, qualunque uomo vivente oggi può imparare qualunque lingua esistente, e i dati archeologici e genetici concordano nel mostrare che tutti gli uomini oggi viventi discendono da una piccola popolazione che viveva in Africa orientale, delle dimensioni di una tribù. Gli antropologi sanno bene che tribù e lingua sono quasi la stessa cosa, e questa tribù da cui tutti discendiamo doveva parlare una lingua sola, da cui devono essere derivate tutte quelle esistenti oggi. Già un famoso linguista italiano, Alfredo Trombetti, cento anni fa aveva proposto l’idea che tutte le lingue umane esistenti abbiano avuto origine da un’unica lingua. Il suo libro era stato ridicolizzato dai contemporanei, ma la genetica lo conferma in pieno. Vale la pena di ricordare che questa conclusione è in accordo con una profezia di Darwin (L’origine delle specie, seconda edizione, cap. XIV): "se possedessimo un albero genealogico perfetto dell’umanità, un ordinamento genealogico delle razze dell’uomo permetterebbe la miglior classificazione delle lingue che oggi si parlano nel mondo."

 

Storia dell’evoluzione/8

 

Cosa significa "evoluzione"? Prima di tutto, aumento di varietà, progressiva differenziazione e trasformazione. Questo comporta spesso, ma non sempre, un aumento di complessità. Significa infine - e questo punto è fondamentale - miglioramento della capacità di interagire con l’ambiente. La caratteristica principale della vita è la capacità di produrre copie di se stessi. Solo gli organismi che si riproducono continuano ad esistere nelle generazioni successive: gli altri sono destinati ad estinguersi. I batteri si dividono in due. Da una patata rotta in più pezzetti nascono altrettante patate. In questi casi i figli sono identici al genitore: se non fosse per le occasionali mutazioni, non ci sarebbe mai alcun cambiamento. Moltissime piante, e quasi tutti gli animali, si riproducono invece per via sessuale: per dare origine a un figlio sono necessari due genitori, che mescolano i propri patrimoni biologici. In questi casi i figli somigliano un po’all’uno e un po’all’altro dei genitori, ma sono diversi da entrambi e sono diversi tra di loro: ciascuno di noi ne avrà fatto esperienza, se ha più figli o più fratelli (che non siano gemelli identici). è facile capire perché la riproduzione sessuale abbia avuto tanto successo, nel corso della storia della vita: una certa varietà aiuta ad affrontare le sfide che l’ambiente pone.

Se l’ambiente fosse sempre lo stesso, non ci sarebbe bisogno di questa varietà: un batterio, una patata o un uomo, ben adattati all’ambiente in cui nascono, potrebbero in teoria riprodursi sempre uguali a se stessi; cambiare sarebbe inutile, anzi magari controproducente. Ma l’ambiente cambia di continuo, ed è così che diversi tipi hanno un successo maggiore o minore: alcuni crescono fino all’età adulta e si riproducono, altri hanno maggiore difficoltà a farlo. Di generazione in generazione, si affermano quindi gli organismi che riescono ad interagire con più efficacia con l’ambiente in cui vivono. Nel corso di questo processo, alcuni tipi prosperano, mentre altri scompaiono. Si tratta però di un processo lentissimo, che va avanti di un passo solo ad ogni cambio di generazione. Le mutazioni sono rare, e non hanno di solito un impatto particolarmente drammatico. Se un certo tipo di becco, per esempio, permette di nutrirsi di un certo tipo di seme, particolarmente abbondante e nutriente, nel corso del tempo si affermeranno gli uccelli muniti di quel tipo di becco, ma occorreranno parecchie generazioni.

La caratteristica che ha reso gli esseri umani così speciali e distinti dalle altre specie viventi è la nostra inventività, intesa come la capacità di costruire strumenti che ci permettono di interagire con particolare efficacia con il nostro ambiente. Nei luoghi abitati dai più lontani antenati cui diamo il nome di uomini è stata trovata una grande quantità di pietre lavorate: all’inizio si tratta di ciottoli rozzamente scheggiati, ma utili a procurarsi fonti di cibo altrimenti inaccessibili, come il midollo contenuto nelle ossa di animali morti (magari uccisi da predatori, le cui zanne non sono però in grado di rompere le ossa), oppure fonti di nutrimento sotterranee, come tuberi e radici, o frutti protetti da una dura scorza. Questi primi strumenti sono rozzi, ma efficaci, ed è significativo che accompagnino le ossa dei più antichi esseri umani: si direbbe che la comparsa del genere umano sia concomitante alla comparsa delle prime manifestazioni culturali. Gli uomini più antichi sono stati datati a quasi tre milioni di anni fa. Si pensa che i primissimi strumenti non fossero in realtà di pietra, ma di legno, che però non si conserva per un tempo così lungo.

Nei milioni di anni successivi e attraverso il susseguirsi di più tipi umani, con caratteristiche fisiche che mutano notevolmente nel tempo, la produzione di strumenti si fa via via più perfezionata; compaiono utensili destinati alle più diverse mansioni: spezzare, tagliare, raschiare, lisciare, forare e così via, in corrispondenza di una capacità sempre più articolata di intervento sull’ambiente naturale. Non sappiamo a quando risalga il controllo del fuoco: la testimonianza finora più antica è stata trovata in Kenya ed è datata a 1,6 milioni di anni fa. è un fuoco da campo che dev’essere rimasto acceso per più giorni consecutivi, attorniato da migliaia di frammenti di pietra lavorata e di ossa di animali. Sappiamo che a partire da poco meno di due milioni di anni fa l’uomo antico inizia a diffondersi dall’Africa orientale, dove è comparso: raggiungerà l’Europa meridionale, il Caucaso, l’Asia centrale, la Cina, l’Estremo Oriente, ed è facile immaginare che sia stata proprio la capacità di usare il fuoco a metterlo in grado di affrontare gli ambienti più diversi. La fiamma non solo fornisce calore, luce e protezione, ma permette di cuocere il cibo, uccidendo così la maggior parte dei parassiti e rendendolo molto più digeribile, oltre che più gustoso; è utile nella caccia; permette di intervenire sull’ambiente per liberarlo dalla vegetazione o per ripulire, ad esempio, una grotta. Al fuoco si lavorano il legno e la pietra, come la pelle e pressoché ogni altro materiale. è anche probabile che la scomparsa del pelo corporeo (siamo gli unici primati nudi) sia stata favorita dall’impiego del fuoco, che è un pericolo per un animale coperto di pelliccia. Alla perdita del pelo, come alla diffusione al Vecchio Mondo, avrà contribuito poi un’altra invenzione: la capacità di fabbricarsi abiti, utili a sottrarsi al rigore delle stagioni, lontano dall’Equatore.

L’invenzione di strumenti che permettono un migliore adattamento all’ambiente accompagna così il genere umano fin dalle origini, dandogli per così dire quella "marcia in più", rispetto agli altri animali, che gli permette non solo di adattarsi più velocemente al mondo che ha intorno ma anche di adattarlo, in qualche misura, alle proprie esigenze. E’ un’evoluzione squisitamente culturale, che da un lato permette un’accelerazione fortissima rispetto ai tempi dell’evoluzione biologica (che è di necessità piuttosto lenta in una specie che si riproduce solo ogni venti o trent’anni), e dall’altro ha probabilmente consentito di accelerare la nostra stessa evoluzione biologica.

Il succedersi dei diversi tipi umani è stato accompagnato da un rapido sviluppo del cervello. A cosa può essere stata dovuta questa rapidità? Può essere stata favorita proprio dal fatto che c’era modo di mettere a profitto un cervello più sviluppato: una volta liberate dalle necessità della deambulazione, le mani sono state messe in grado di "dialogare" col cervello e di dare origine ad invenzioni nuove, o di perfezionare quelle già esistenti. Un cervello più complesso, insomma, si sarebbe rivelato più utile alle specie umane che ad altre specie costrette ad impiegare tutti i propri arti negli spostamenti, e quindi di necessità meno capaci di utilizzare nuove tecnologie. Lo sviluppo della struttura ossea e del cranio - e probabilmente anche quello del cervello - raggiunge il grado attuale intorno ai 150.000 anni fa, con la comparsa dell’uomo moderno, cioè della specie umana che abita il mondo oggi (Homo sapiens sapiens). Se le invenzioni dei primi due milioni e mezzo o più di anni possono essere ricondotte direttamente all’impiego delle mani, con l’uomo moderno sono gli strumenti di comunicazione ad assumere un’importanza via via maggiore. Probabilmente, la sua invenzione fondamentale è stata un linguaggio perfezionato, tale da permettere un’eccellente comunicazione fra individui. Si pensa oggi che sia stato questo a rendere possibile la diffusione del nuovo tipo umano all’intero pianeta, a partire - di nuovo - dall’Africa orientale. Tutte le 5000 o 6000 lingue parlate oggi al mondo hanno analoga complessità, ed ogni bambino che nasce può imparare una qualsiasi di queste lingue: imparerà, semplicemente, quella che gli viene insegnata. Questi fatti ci suggeriscono che tutte le lingue esistenti siano derivate da quella che parlava l’unica piccola popolazione che a partire da 50.000 anni fa o poco più si è lasciata alle spalle l’Africa e ha colonizzato il mondo, rimpiazzando gli altri tipi umani che già ne abitavano buona parte e che sono invece scomparsi.

Nel corso di questa espansione, compiuta in parte per via di mare, assistiamo ad una straordinaria accelerazione nello sviluppo di nuove tecnologie, forse proprio grazie alla migliore comunicazione ora possibile all’interno dei gruppi umani. Si afferma una grande varietà di utensili di pietra, sempre più versatili e specializzati. Accanto alla pietra si lavorano il legno, il corno, l’osso, la corteccia e altre fibre vegetali. Si inventano strumenti fondamentali come l’ago per cucire e armi ingegnose ed efficaci per la caccia, come il propulsore, le bola, l’arco e le frecce. Compaiono le prime forme d’arte: pitture rupestri e piccole statue. Nasce senz’altro la navigazione, benché le prime imbarcazioni non si siano conservate. Si cominciano a trovare resti di abitazioni nelle regioni fredde: capanne costruite con le ossa dei grandi animali dell’epoca e ricoperte di pelli. Gli strumenti musicali potevano essere già stati inventati, in un tempo poco più antico. In centomila anni la popolazione umana aumenta di mille volte, da qualche migliaio a qualche milione di individui. Con l’aumento del numero di esseri umani aumenta il numero degli inventori. Poi, diecimila anni fa, ecco le invenzioni da cui nasce ciò che chiamiamo "civiltà": l’agricoltura e l’allevamento degli animali, che permettendo di produrre il proprio cibo, determineranno un nuovo aumento della popolazione umana, che salirà ancora di mille volte, da qualche milione a qualche miliardo di individui. Sorgono le città, e con esse si affermano forme di divisione del lavoro e le prime gerarchie. Le invenzioni degli ultimi millenni estendono la portata dell’azione umana sull’ambiente: i sistemi di irrigazione, i metalli, l’aratro, le prime macchine, come i mulini ad acqua. Compaiono sistemi di comunicazione e strumenti di trasporto: la scrittura, la ruota, il carro, imbarcazioni perfezionate. Poi, con l’età moderna, la bussola, le armi da fuoco, la stampa, la produzione in serie. La rivoluzione industriale trasforma la faccia del pianeta e genera una nuova ondata di mezzi di trasporto e di comunicazione: il treno, la nave a motore, l’auto, l’aereo, e in parallelo la trasmissione elettrica dei segnali: il telegrafo e il telefono, la radio e la televisione, il computer e internet. Il motore a scoppio e l’elettrificazione tendono a fare della società umana un unico spazio globale. L’accelerazione esponenziale di scoperte e invenzioni ci porta così alla domanda su cui si è aperto questo secolo: il controllo acquisito sull’ambiente ci porterà a distruggere le nostre basi di sopravvivenza? o saremo in grado di sopravvivere alle applicazioni delle nostre stesse tecnologie?

 

Storia dell’evoluzione/10

 

In Inghilterra, si sa, la guida è a sinistra, anziché a destra come nel resto d’Europa. Si dice che questo costume si sia tramandato dai tempi in cui si viaggiava a piedi o a cavallo: non si poteva sapere chi si sarebbe incontrato per strada, e nel dubbio ci si teneva pronti a incrociare, in caso di bisogno, la spada. Si sa che gli inglesi amano conservare le antiche tradizioni, ed è probabile che le cose siano andate proprio così. Per noi italiani, o europei "continentali", come gli inglesi amano definirci, guidare in Gran Bretagna o nei paesi dell’ex impero inglese, come l’India, richiede un piccolo aggiustamento delle nostre abitudini, o meglio di quel flusso di pensieri che ci permette di mantenerci in carreggiata evitando incidenti, quando siamo al volante. In fondo, come usa dire, "è lo stesso, soltanto che è al contrario". Ma a molti sarà capitato, in un momento di distrazione, di trovarsi improvvisamente, e paurosamente, a procedere contromano. Quando insegniamo a un bambino a traversare la strada, gli spieghiamo che deve guardare prima a sinistra e poi a destra (in Italia; in Inghilterra naturalmente gli si dice il contrario). All’inizio, il bambino potrà restare perplesso: perché questa prescrizione astrusa? le macchine vengono da tutte le parti; è ovvio che per traversare la strada bisogna guardare dappertutto. Poi, piano piano, la logica di questa prescrizione si farà strada nel suo cervello, fino a trasformarsi in una sorta di automatismo psichico, che lo aiuterà a sopravvivere al traffico cittadino. Un automatismo che dovrà imparare a rovesciare se vorrà sopravvivere, una volta cresciuto, ad una visita in Inghilterra.

Che si tratti di imparare a guidare su un lato o su un altro, o a guardare prima da una parte e poi da un’altra della strada, o di una qualsiasi delle centomila cose in cui veniamo istruiti vivendo, ciò che accade quando impariamo è che un’idea, una nozione, un’informazione presente nella mente di chi insegna si trasferisce nella mente di chi apprende: crea, insomma, una copia di se stessa, che continuerà ad esistere nella mente di chi impara anche quando chi insegna non è più presente. Di cosa sono fatte le nostre idee? non lo sappiamo, o meglio non lo sappiamo ancora bene, perché è chiaro che deve trattarsi di associazioni fra le cellule del sistema nervoso, i neuroni. Non si parla di un pugno di cellule: ciascuno di noi dispone di cento miliardi di neuroni, e ciascuno di questi è connesso in media con mille altri neuroni, per un totale di centomila miliardi di connessioni, un numero mille volte superiore a quello delle stelle nella nostra galassia. Non dovremmo correre il rischio di restare a corto di idee! Gli esseri viventi si riproducono perché il DNA forma copie di se stesso, quando trova le condizioni adatte all’interno della cellula. In modo analogo, anche le idee riproducono se stesse, quando trovano condizioni adatte all’interno di un altro cervello: semplicemente, si trasferiscono da un cervello a un altro. Come il genitore può trasmettere al figlio il proprio patrimonio biologico, così un individuo può trasferire a un altro il suo patrimonio di conoscenze, convinzioni, consuetudini: in una parola, la sua cultura, se con questo termine intendiamo tutto ciò che una persona può imparare e trasmettere a un’altra, quindi in generale ogni comportamento, informazione, creazione, credenza o attività umana. L’esistenza dei geni, che sono le unità minime del patrimonio biologico, è stata individuata quasi cent’anni prima che si scoprisse la loro natura chimica.

Sappiamo da sempre che esistono le idee: possiamo sperare che in questo secolo la ricerca neurobiologica ci illumini sulla loro natura. Forse si scoprirà che non sono, almeno non solo, un fatto chimico, come i geni, ma un fatto fisico. Forse ci renderemo anche conto che la nostra cultura è immensamente più complessa della nostra biologia: in fondo, un genoma umano si compone di poco più di tre miliardi di nucleotidi. Come i geni, anche le idee possono cambiare nel corso del tempo. Un’idea nuova può affiancare e poi sostituire un’idea precedente. Tutta la storia del pensiero umano è lì a dimostrarlo. Mentre le mutazioni biologiche, però, sono un fenomeno del tutto casuale, le idee nuove nascono di solito intenzionalmente, e in genere con l’obiettivo di risolvere un preciso problema pratico. Sono strumenti di sopravvivenza e di adattamento: non diversamente, in questo, dai geni. C’è poi un’altra differenza fondamentale. I geni possono essere trasmessi solo da genitori a figli, cioè in verticale (salvo eccezioni, specie nei batteri), per cui una novità può presentarsi solo al cambio di generazione. Di conseguenza, l’evoluzione biologica è lentissima. Anche le idee, e quindi la cultura in generale, vengono trasmesse in verticale, da genitori a figli, e passando di generazione in generazione si conservano per lunghi periodi di tempo senza subire mutamenti di rilievo, tanto che troviamo in popoli di tutto il mondo usanze, costumi, rituali che proseguono inalterati per secoli e millenni, anche quando più nessuno ne ricorda il senso. Le idee e la cultura, però, possono trasmettersi anche in orizzontale, cioè all’interno di una stessa generazione, e questo moltiplica la loro velocità di diffusione. Oggi, con le informazioni che viaggiano in tempo reale sulle reti informatiche che avvolgono il pianeta, è facile rendersene conto: basti pensare alla rapidissima diffusione di un’invenzione degli ultimi anni, il telefono cellulare. Ma anche in passato era così: la stampa a caratteri mobili, inventata in Germania a metà del Quattrocento, con la fine del secolo era già presente in tutta Europa. Tremila anni fa, vediamo l’alfabeto fonetico raggiungere in pochi secoli tutte le sponde del Mediterraneo. Ventimila anni fa, l’arco e le frecce si propagano in pochi millenni. Sono tempi brevi rispetto a quelli del cambiamento biologico.

Se la trasmissione verticale di idee e costumi è molto conservatrice, la trasmissione orizzontale può portare cambiamenti anche rapidissimi, ma solo nei casi in cui si diffonde da un unico trasmittente a molti riceventi, e quando il centro di trasmissione gode di particolare autorità o prestigio. Così, le decisioni dei sovrani del passato raggiungevano tutti i sudditi, come le leggi promulgate oggi dall’autorità centrale valgono per ogni cittadino; i pronunciamenti dei capi religiosi influiscono su milioni di fedeli; una nuova moda o canzonetta può diffondersi con velocità fulminea a un’intera nazione o continente; una barzelletta spiritosa si propaga in onde concentriche, come una malattia infettiva in un’epidemia. Quando, all’opposto, si verifica una trasmissione concertata da molti verso uno solo, la trasmissione della cultura è estremamente conservatrice e rafforza tradizioni e norme acquisite: così i genitori e gli insegnanti trasmettono ai ragazzi le norme del vivere civile; la società impone all’immigrato le proprie leggi; l’esercito le proprie regole alla recluta; la mafia ai suoi associati. In generale, il gruppo umano prescrive in questo modo ai suoi membri i modelli di comportamento collettivamente riconosciuti e accettati. Un padre e una madre possono trasmettere i loro geni a più figli, ma si tratterà sempre di uno stesso patrimonio biologico. Un figlio, per la sua parte, può ricevere solo una copia del genoma di due genitori. Anche nella trasmissione culturale i genitori sono i primi maestri, ma presto intervengono parecchi altri emittenti: insegnanti, coetanei (fratelli, amici, compagni di scuola), e tutti i mezzi di comunicazione oggi disponibili. A nostra volta, possiamo comunicare le nostre scoperte e intuizioni a un numero virtualmente elevatissimo di persone, anche a chi non parla la stessa lingua.

La circolazione delle idee e la disponibilità di informazioni, conoscenze, tecnologie, divengono un fenomeno di portata gigantesca. Si crea una grande varietà di atteggiamenti. La cultura batte sul tempo la natura, e il cambiamento culturale rende possibile in poche generazioni modifiche che in natura richiederebbero un numero enorme di generazioni, o non sarebbero possibili. è così che la cultura si è andata affermando, nel corso della storia, come lo strumento più potente a disposizione dell’umanità: ha permesso non solo un eccellente adattamento all’ambiente naturale, nelle mille forme praticate dalle diverse culture, ma ha consentito di modificare la natura stessa. è sufficiente uno sguardo dall’alto al nostro pianeta per rendersi conto della portata dell’intervento umano sulla superficie terrestre. L’allungamento della vita media e gli oltre sei miliardi di persone che vivono sulla Terra, sia pure nelle più miserabili condizioni, ne sono la più evidente testimonianza.

Se le idee sono il DNA della cultura, la comunicazione è il meccanismo che permette di riprodurle. Nella trasmissione della cultura ritroviamo, con alcune modifiche, gli stessi fattori di evoluzione che agiscono in biologia: la mutazione (idee e invenzioni nuove); la selezione, che qui naturalmente è selezione culturale (la comunità umana decide quali idee promuovere e quali rifiutare); il drift, per cui quelle manifestazioni culturali che non hanno un forte valore adattativo fluttuano in modo casuale di generazione in generazione nei diversi luoghi (così varia la pronuncia di una stessa lingua nelle varie regioni dove la si parla); la migrazione, che fa sì che credenze, lingue, tradizioni, stili di vita siano introdotte nei luoghi raggiunti dai migranti. Dell’evoluzione culturale si può dire, come dell’evoluzione biologica, che porta aumento di varietà, differenziazione e trasformazione, e in generale migliora la capacità di interagire con l’ambiente. Anche se la cultura è spesso in grado di esercitare vere e proprie forme di controllo sulla natura, come quando una terapia medica salva una persona altrimenti condannata a morire, è però pur sempre la selezione naturale, alla fine, a decidere del futuro delle nostre innovazioni. Così, per esempio, benché le nostre tecnologie ci permettano di produrre una straordinaria quantità di cibo, e benché il numero degli esseri umani sia cresciuto di un milione di volte in centomila anni, rimane comunque vero che nessuna popolazione può crescere al di là delle dimensioni consentite dal suo ambiente di vita: quando questo accade, entrano in opera meccanismi retroattivi di controllo, che per l’umanità si chiamano carestie, epidemie, guerre, come ogni giorno abbiamo modo di osservare.

Per quanto approfondite e potenti, le conoscenze e le tecnologie sviluppate nel corso di tante generazioni non forniscono alcune garanzia che le scelte via via compiute dalla collettività umana siano le più opportune per il futuro della specie: questo è molto evidente oggi, nel progressivo degrado dell’ambiente naturale da cui dipende la qualità delle nostre vite e la nostra stessa esistenza. Pure, la competenza collettiva che si è andata accumulando nel tempo fornisce tutti gli strumenti necessari per fare fronte alle sfide dell’oggi, se li si vorranno usare con saggezza, e l’era elettronica rende ormai possibile la trasmissione da molti verso molti, una novità assoluta nella storia umana. è una comunicazione fondamentalmente bidirezionale, dove ciascuno può essere al tempo stesso emittente e ricevente. Forse la migliore speranza per il nostro futuro è che sia questa modalità originale di scambio e confronto a permettere alle intelligenze individuali di coalizzarsi e a mobilitare le risorse dei singoli, scavalcando gerarchie consolidate, generando modelli di sviluppo praticabili e indirizzando in modo consapevole l’evoluzione delle società umane.

 

Storia dell’evoluzione /10

 

L’evoluzione biologica è lentissima, ma vi sono importanti eccezioni. La teoria moderna si basa su teoremi matematici, e data la nota avversione ai numeri della maggior parte delle persone, soprattutto di chi ha fatto solo studi classici e viene considerato, almeno in Italia, unico latore delle conoscenze che veramente contano, che speranza abbiamo noi di spiegare la teoria moderna dell’evoluzione sulle pagine della Cultura, pur sui migliori giornali italiani, partendo da teoremi matematici? Per fortuna vi sono strade più semplici: si possono usare, ad esempio, pochi numeri facilmente comprensibili a chiunque, perché si tratta solo di capire se sono grandi o piccoli. Per cominciare, diciamo subito che se l’evoluzione è lenta, vuole dire che la sua velocità è bassa. Tutti conosciamo almeno una velocità: quella dell’automobile, lo spazio percorso nell’unità di tempo. Nel caso dell’auto usiamo velocità misurate in chilometri all’ora, cioè ci serviamo dei chilometri come unità di spazio e dell’ora come unità di tempo. Studiando la velocità della luce, che è molto più rapida, usiamo di nuovo i chilometri come unità di spazio, ma la velocità è così elevata che di solito cambiamo unità di tempo e usiamo i secondi. Scopriamo che la luce è enormemente più veloce, perché copre 300.000 chilometri al secondo. Sappiamo che in un’ora vi sono 3600 secondi, per cui possiamo calcolare quanto la luce è più svelta di un automobile che viaggia a 120 chilometri all’ora. Risposta: nove milioni di volte. Ma nel caso che ci interessa qui vogliamo calcolare velocità di evoluzione.

Le velocità di evoluzione biologica di diversi organismi sono assai differenti. Per misurarle abbiamo bisogno di valutare il cambiamento che subisce una popolazione che evolve, e ci serve un’unità ragionevole per misurare il tempo in cui il cambiamento avviene. Si dà il caso che l’unità di tempo più utile non sia qui la scala del tempo astronomico, come l’ora o il secondo o l’anno luce, bensì la generazione. Il tempo biologico è quello necessario per riprodursi: un batterio può metterci venti minuti, anche dieci soltanto, mentre la nostra specie impiega in media venticinque o trent’anni, a seconda che si tratti di donne (25) o di uomini (30). Il tempo di generazione è l’unità che ci permette di misurare l’evoluzione biologica, e ci dice che il rapporto tra velocità di riproduzione, e quindi anche di evoluzione, di batteri e di uomini è come quello tra minuti ed anni. Grosso modo, quindi, un batterio può evolvere 500.000 volte più rapidamente di noi. Quale cambiamento evolutivo possiamo attenderci in una generazione? Anche qui, vediamo che la risposta cambia assai secondo la specie e il tipo di cambiamento che consideriamo, però alla fine del ragionamento ritroveremo alcune costanti: scopriremo, in particolare, che il cambiamento evolutivo fondamentale avviene in media con la stessa velocità per generazione nei batteri come negli uomini. Una popolazione di batteri del tifo o della polmonite può aumentare in meno di un giorno da un batterio a un miliardo di batteri, alla temperatura che trova nel corpo umano. Raggiunto quel numero, potrebbe avere prodotto abbastanza sostanze tossiche da provocare una rapida morte del malato. In realtà non succede, perché trova una grande resistenza in quasi qualunque organismo umano, e per ucciderlo può impiegare otto giorni per la polmonite, un mese per il tifo. Oltre a queste difese biologiche, l’uomo ha sviluppato, sempre per evoluzione biologica ma molto più di qualunque altro animale, una nuova arma, l’evoluzione culturale. Grazie a questa, il secolo scorso ha visto ridursi quasi a zero la probabilità di morire di tifo o di polmonite in un Paese con una struttura sanitaria moderna, mentre in precedenza la probabilità di sopravvivere a tifo o polmonite non era lontana dal 50%. Il merito spetta qui a chemioterapie e antibiotici. Ma anche i batteri hanno un’arma biologica per evolvere, la stessa di cui dispongono tutti gli organismi viventi, cioè la mutazione, per cui possono sviluppare resistenza ad ogni possibile antibiotico (benché con probabilità molto bassa, come è vero per tutte le mutazioni). Le mutazioni di resistenza batterica sono sufficienti ad annullare la difesa fornita dall’antibiotico, per cui dobbiamo continuare a produrne di nuovi, che ci difendano dai germi divenuti resistenti ad antibiotici più vecchi e ormai inutili. È una lotta tra la mutazione nei batteri e la nostra capacità inventiva. Esauriremo un giorno tutti i possibili antibiotici, correndo il rischio di non riuscire a mantenere il livello di protezione attuale? È difficile dare una risposta. Lo vedremo in questo secolo. Ma mentre i batteri possono lottare solo con l’arma biologica della mutazione, l’arma dell’evoluzione culturale può suggerirci nuove vie di difesa. La più grave malattia infettiva che ci minaccia oggi è l’AIDS. Abbiamo molti modi di difendercene, a partire dalla semplice prudenza. Ma anche se non vi fossero speranze di evitare il contagio, la natura avrebbe già provveduto: vi è una percentuale di europei, intorno a una media del 10%, che ha un gene che conferisce loro resistenza all’AIDS. È probabile che in passato vi siano state epidemie di virus simili all’AIDS, che hanno dato origine a questa percentuale di resistenti, e che non sia stato necessario che la percentuale dei resistenti salisse al 100% perché l’epidemia provocata da un virus simile all’AIDS si esaurisse. In modo simile, non è stato necessario vaccinare il 100% della popolazione contro il vaiolo o la difterite o altre epidemie per arrestarle. Vero è che l’evoluzione culturale (sempre lei!) potrebbe suggerire a qualche terrorista di reintrodurre vecchie epidemie. È stata la mutazione a creare i batteri pericolosi, come quelli resistenti a un dato antibiotico, o gli individui resistenti all’AIDS, o ancora gli individui dotati di maggior immaginazione, vuoi che la usino per difenderci dai germi patogeni o per diffondere il terrore; ed è stata la selezione naturale ad aumentare il numero dei batteri pericolosi come quello degli individui resistenti.

La vita è la capacità di riprodurre se stessi: mutazione e selezione naturale sono le due forze che l’hanno sostenuta e diffusa fin dai suoi inizi. Esse hanno anche reso inevitabile l’evoluzione dei primi organismi viventi, originati chissà come, portando col tempo alla comparsa dei molti milioni di specie diverse di piante, animali e microrganismi che convivono sul pianeta. La riproduzione di un organismo vivente richiede che sia trasmesso ai figli quel "libro di ricette" che ha permesso ai genitori di compiere tutte le reazioni chimiche necessarie per procurarsi il nutrimento e usarlo per crescere, duplicare se stessi e passare copia del ricettario ai propri figli. Il libro di ricette è il DNA, e la sua riproduzione richiede un processo di copiatura. Come in tutti i processi di copia vi sono errori casuali, cioè le mutazioni, che vengono passate ai discendenti quando un essere vivente riproduce se stesso. Ciò che muta è appunto il libro di ricette: se il figlio ne riceve una versione modificata, saranno le nuove ricette ad essere eseguite. Il processo di autoriproduzione premia chi si riproduce di più, e automaticamente favorisce, nei limiti del possibile, l’aumento numerico degli organismi viventi. È così che l’errore di copia, pur essendo casuale, fa sì che l’efficienza del sistema della vita migliori automaticamente. Vi è un limite, come è naturale, alla quantità di errori di copia compatibile con la vita. Gli errori, essendo casuali, non sono necessariamente buoni o cattivi, ed anzi la maggioranza non hanno alcun effetto, cioè non influenzano né positivamente né negativamente la capacità di riprodursi. Una parte delle mutazioni è vantaggiosa e gli individui che le portano aumentano di numero con le generazioni, mentre la parte che è svantaggiosa viene automaticamente eliminata quando passa al vaglio della selezione naturale, perché gli organismi che non si riproducono al livello della media dei loro simili tendono a scomparire nelle generazioni successive.

L’evoluzione, però, tende a produrre organismi di maggior complessità, provvisti di meccanismi di regolazione sempre più numerosi e complicati, un po’come le automobili di oggi sono piene di automatismi elettronici, mentre all’inizio la partenza si faceva a manovella e il motore era molto più semplice. Con l’aumento di complessità sono aumentati i rischi di compromettere, con nuove mutazioni, questi meccanismi di regolazione. In quasi tutti gli organismi, tranne alcuni virus che si riproducono a grande velocità e possono quindi permettersi di perdere una frazione elevata di discendenti, la mutazione deve venir mantenuta entro limiti ristretti. Non stupisce quindi che la velocità di mutazione, calcolata per unità di generazione, sia bassa, e che sia costante anche in organismi assai diversi. La frazione di nucleotidi (le unità di struttura del DNA) che mostrano errori di copia è all’incirca la stessa nei batteri e nell’uomo: si tratta in media di una mutazione per nucleotide su qualche decina di milioni di individui per generazione. Se un organismo fosse perfetto, gli converrebbe non avere affatto mutazioni, restando sempre uguale a se stesso. Sarebbe possibile? Per un po’di tempo si credette che la frequenza di mutazione dovesse essere la più bassa possibile. Invece non può essere così, perché l’ambiente intorno a noi cambia continuamente, che ci piaccia o meno, sotto l’influenza di fattori cosmici, di altri organismi, e di noi stessi. Cambiano anche i nostri concorrenti (come i parassiti che si nutrono di noi). La mutazione è quindi necessaria, e l’ideale dovrebbe essere mantenerla a un livello di frequenza ottimale, non troppo alto e non troppo basso. Possono esistere situazioni in cui è vantaggioso aumentarne la frequenza, per esempio se un cambiamento ambientale drastico rende più difficile sopravvivere e riprodursi. In effetti, vi sono mutazioni che provocano cambiamenti nella velocità di mutazione di molti geni. Sottoponendo batteri ad ambienti insoliti e difficili, si è osservato un aumento fino a 100 volte della frequenza di mutazione. C’è un bell’esempio che ci viene dalla Dafnia, un microscopico crostaceo che abita in acqua dolce. Dà bene l’idea di come un organismo può superare le difficoltà che nascono nel suo ambiente. Di solito le Dafnie sono solo femmine, non vi sono maschi. Come è naturale, nascono solo figlie femmine, per partenogenesi, in tutto uguali alle madri. Ma quando qualcosa cambia nell’ambiente, magari una variazione di temperatura, o un inquinante che minaccia la sopravvivenza della popolazione, le Dafnie rispondono cominciando a generare figli dei due sessi, maschi e femmine, che si incrociano tra loro, generando una notevole diversità nelle generazioni successive. Qualcuno dei nuovi tipi riesce a superare la crisi ambientale, se questa non è troppo grave. Quando il pericolo è passato, le Dafnie riprendono a generare solo figlie femmine, uguali alla madre e quindi ben adattate all’ambiente in cui sono nate. Cosa ci insegna questo? che anche la velocità di mutazione è un fenomeno automaticamente controllato dalla selezione naturale. Nei batteri questo avviene in modo particolarmente semplice. Nell’evoluzione umana avviene in modo particolarmente efficiente grazie alle innovazioni (culturali) che ci aiutano a misurarci con i cambiamenti che si verificano intorno a noi.

L’evoluzione culturale è uno splendido strumento per far fronte all’ignoto, ma ha i suoi limiti e i suoi pericoli, e anch’essa comunque sottostà alle leggi dell’evoluzione biologica, quindi alla selezione naturale.

 

Appendice

IL GENOMA DELL´UOMO E I SUOI SEGRETI

 

 Oggi si parla molto di genoma, e la parola «genomica» tende a sostituire la parola «genetica». Non sono esattamente la stessa cosa, ma «genomica» indica l´uso di un approccio particolare nella ricerca genetica, reso possibile dallo sviluppo di tecnologie che permettono studi molto più generali di quelli che erano possibili fino a pochi anni orsono. Il termine «genoma» designa l´intero patrimonio ereditario di un individuo. In passato si tendeva a studiare il materiale ereditario gene per gene, mentre oggi è possibile studiare una frazione del genoma ben superiore. Il potere dell´indagine genetica ne risulta così moltiplicato.

La vita è l´insieme degli organismi viventi, che esistono in un grandissimo numero di forme differenti. La proprietà fondamentale della vita è la capacità di ogni organismo di riprodursi, cioè di dare origine ad altri esseri viventi molto simili a se stesso. Ogni organismo ha un corpo, di dimensioni diverse secondo le «specie», dal virus all´elefante, e una struttura interna di complessità notevole, che gli permette di svolgere parecchie funzioni, volte ad assimilare materiale dall´ambiente circostante e a trasformarlo, così da generare, con grande efficienza, altri individui quasi identici a se stesso e capaci a loro volta di riprodursi. Noi e tutti i viventi siamo come orologi - ben più complicati di qualunque orologio o di ogni macchina esistente - capaci di produrre altri orologi praticamente identici a se stessi, purché posti in un ambiente adatto.

Negli ultimi cinquant´anni è stato possibile comprendere cosa sia la materia capace di effettuare questa notevole operazione: è una sostanza chimica detta DNA, una molecola lunghissima formata da quattro tipi diversi di piccole molecole simili fra loro, ordinate in filamenti. Diamo a tutte e quattro queste molecole un nome comune, nucleotidi, e per semplificare ci limitiamo a distinguerle con quattro lettere: A, C, G e T. L´uso della parola «lettere» è opportuno, perché il modo più semplice di spiegare cosa sia una molecola di DNA è di paragonarla a un libro, un manuale di istruzioni che permette di costruire un nuovo individuo, simile a quello di partenza. La complessità è determinata dal numero di istruzioni specifiche necessarie a costruirlo, che devono tutte funzionare con pochissimi errori. Come in un libro, essa si esprime nell´ordine delle lettere che lo formano, cioè nel DNA di ogni individuo.

Vi sono organismi molto semplici, come certi virus, il cui DNA è formato da qualche migliaio di nucleotidi. Possono permettersi di essere così semplici perché sono parassiti di qualche altro organismo vivente e hanno imparato a sfruttare il genoma del loro ospite, costringendolo a fabbricare genomi eguali a quello del virus. Gli basta entrare dentro l´ospite e fornirgli il loro genoma da copiare. A partire da trent´anni fa sono state sviluppate macchine chimiche capaci di «leggere» il DNA, lettera per lettera. (...)

Il passo successivo ha portato a studiare un organismo non parassita ma capace di vita indipendente, un batterio che vive anche nel nostro intestino, composto di pochi milioni di nucleotidi. Poi ci si è proposti di leggere il genoma di un intero organismo, come il nostro, per determinare l´ordine (o, come si dice in gergo, la sequenza) dei circa tre miliardi di nucleotidi che lo formano. Questa ricerca ambiziosa fu affrontata circa venti anni fa, quando il governo degli Stati Uniti finanziò un nutrito gruppo di laboratori per sequenziare il genoma umano. Nel 2000 si erano già spesi due miliardi di dollari, ma l´organizzazione messa insieme allo scopo non era ancora arrivata a concludere il suo lavoro. Era chiaro, anzi, che sarebbe arrivato prima un laboratorio privato partito molto dopo, finanziato da un´industria americana: il suo direttore, Craig Venter, aveva inventato un metodo più efficiente di quello usato dagli scienziati designati dal governo per ricostruire una sequenza complessa di DNA. Il presidente degli Stati Uniti decise di evitare la brutta figura e dichiarò ufficialmente che il progetto si era concluso e che la corsa era stata vinta alla pari dal direttore del progetto governativo e da Craig Venter: furono premiati entrambi in una cerimonia alla Casa Bianca. (...)

Il genoma di Craig Venter (proprio il suo personale) è stato reso pubblico per intero. Si tratta, per la precisione, di due genomi completi, perché ognuno di noi riceve un filamento completo di DNA dal padre e uno dalla madre, con poche differenze fra i due tranne una che riguarda il sesso.

Il genoma umano è composto di 23 cromosomi, cioè di 23 filamenti di DNA diversi (che diventano 46 se comprendiamo sia quelli trasmessi dal padre sia quelli trasmessi dalla madre). Uno di questi, molto piccolo, è presente solo nei maschi ed è chiamato Y. C´è poi un altro cromosoma ancora, piccolissimo, che non fa parte dei 23, ed è quello di un antico batterio, entrato circa un miliardo di anni fa a far parte integrante del patrimonio ereditario di tutti gli organismi più complicati dei batteri. Si chiama «mitocondrio» e ci aiuta a ricavare dall´ossigeno l´energia necessaria per vivere.

Per molti scopi pratici è sufficiente conoscere una parte relativamente piccola del genoma, quella che più spesso è diversa da un individuo all´altro. Si tratta di poco più dell´uno per mille dei tre miliardi di nucleotidi che formano uno di noi (sei miliardi, per l´esattezza, calcolando entrambi i genomi).

Quali scopi pratici? L´unico oggi sicuro e veramente importante è l´impiego in medicina. Vi sono decine di migliaia di malattie dovute a piccoli cambiamenti casuali del genoma, che chiamiamo mutazioni, le più frequenti delle quali consistono nella semplice sostituzione di un nucleotide con un altro. Altre malattie ereditarie assai comuni sono più complicate. La gran maggioranza delle mutazioni non hanno un effetto visibile, alcune possono avere effetto benefico, altre provocano malattie ereditarie anche gravissime.

Industrie nate per sviluppare indagini tanto di genetica medica quanto su organismi diversi da noi ma importanti per l´economia e l´epidemiologia hanno messo a punto metodi che permettono un´analisi parziale della variabilità genomica, concentrando l´attenzione sui nucleotidi che presentano una maggior variazione fra individui. (...)

Genetica ed archeologia, con l´aiuto della linguistica, stanno ricostruendo brillantemente la storia dell´espansione dell´uomo moderno, avvenuta negli ultimi 50.000-60.000 anni, che aiuta a comprendere la variazione genetica. Un contributo fondamentale viene da un principio che le ricerche genomiche hanno stabilito con chiarezza: la differenza genetica fra due popolazioni umane dipende in modo molto preciso dalla loro distanza geografica, che determina, insieme ad altri fattori di ordine socioeconomico, l´entità degli scambi genetici fra le popolazioni. (...)

Con la collaborazione di vari genetisti è stato possibile creare una collezione di DNA di tutto il mondo, formata da circa 1000 individui e limitata alle popolazioni indigene (quelle che erano sul luogo prima dello sviluppo della navigazione oceanica, convenzionalmente il 1492, data della scoperta dell´America). Questa collezione è depositata a Parigi in un laboratorio fondato dal premio Nobel francese Jean Dausset, il Centro di Studi dei Polimorfismi Umani (in francese, CEPH), e i DNA che contiene sono già stati distribuiti a 93 laboratori. «Polimorfismo» è il nome scientifico della variazione individuale di una unità ereditaria, molto sovente un solo nucleotide. L´iniziativa prende il nome di HGDP (Human Genetic Diversity Project, o anche Panel). Al Dipartimento di Genetica dell´Università di Stanford, in California, ove il più anziano di noi due lavora dal 1971, con un gruppo di dieci ricercatori è stata compiuta un´analisi estesa a 650.000 nucleotidi del genoma degli oltre 1000 individui dell´HGDP-CEPH.

Una regola dell´HGDP-CEPH è che tutti i risultati dell´analisi genetica della collezione devono essere resi pubblici prima della pubblicazione ufficiale delle conclusioni su una rivista scientifica. In omaggio a questa regola, il 15 settembre il nostro gruppo ha reso pubblici tutti i dati su siti Internet del dipartimento di Genetica di Stanford e del CEPH. Le conclusioni scritte dovrebbero essere pubblicate quanto prima. Sono risultati in ottimo accordo con l´analisi genetica dell´evoluzione dell´uomo moderno, ma hanno una precisione talora 1000 volte superiore a quelle finora esistenti, e includono numerose novità di preciso interesse.