Il disagio femminile e la dipendenza patologica

Introduzione alla lettura

In questo file ho raccolto gran parte degli scritti dedicati al disagio psichico femminile, che, per la sua incidenza statistica (65% delle esperienze psicopatologiche), continua a porsi come un problema non solo sotto il profilo preventivo e terapeutico ma anche teorico.

Alcuni neopsichiatri sostengono che la donna sia psicobiologicamente più vulnerabile dell’uomo agli stress. Posto che, secondo loro, la patologia psichiatrica è sempre riferibile ad una vulnerabilità che riduce la capacità di adattamento alle normali richieste della vita, la donna sarebbe penalizzata dall’incidenza sul cervello degli ormoni. La prova, empirica non scientifica, di questa ipotesi sarebbe legata ai disturbi dell’umore ciclici (o bipolari), che prevalgono nella donna in un rapporto di 2 a 1 rispetto all’uomo.

E’ facile ironizzare su di un’ipotesi del genere. Purtroppo, però, essa si fonda su di una convinzione che, esplicitamente o implicitamente, fa ancora parte del senso comune, ed è, peraltro, condivisa da non poche donne, soprattutto da quelle che diventano “isteriche” nel periodo premestruale.

Pongo tra parentesi il fatto che la sindrome premestruale, subclinica o clinica, è scarsamente rappresentata in contesti culturali non occidentali.

La contestazione dell’ipotesi neopsichiatria si fonda su una considerazione ben più importante.

Nella storia dell’umanità, il genere femminile, eccezion fatta per la guerra, che è stata inventata e praticata dagli uomini, si è sobbarcata doveri e responsabilità di enorme portata: dai primordi, quando la sopravvivenza del gruppo dipendeva dalla riproduzione e dalla raccolta dei semi, ad oggi, dato che la sopravvivenza di numerosi gruppi familiari si fonda sul doppio lavoro femminile (in casa e fuori casa). Se fosse vera l’ipotesi di una labilità costituzionale, non si vede donde le donne abbiano attinto energie smisurate e una capacità di sacrificio che non ha riscontro (se non raramente) a livello maschile.

E’ evidente, dunque, che la prevalenza statistica del disagio psichico femminile implica un peso rilevante dei fattori storico-sociali e culturali.

Tutti gli articoli affrontano questo problema, tentando di evitare i pericoli del sociologismo e dello psicologismo. 

L’eterogeneità del materiale, scritto tra il 1986 e il 2005, comporta, come risulterà chiaro dalla lettura, un filo rosso interpretativo che, nel corso degli anni, ha ricevuto dalla pratica clinica e dalla riflessione, numerose conferme.

Il primo articolo ha per me un particolare significato, perché la drammatica storia di Paola, anche se all’epoca non ero riuscito ancora a  concettualizzare l’esistenza dell’Io antitetico, mi ha posto di fronte per la prima volta ad una scissione tra due diversi orientamenti psicologici e ideologici, che è divenuta poi il nucleo centrale della teoria struttural-dialettica.

Data l’importanza che questa esperienza, durata poco e peraltro fallimentare sotto il profilo terapeutico, ha avuto nella costruzione di un nuovo modello psicopatologico, ho pensato che fosse giusto riportare anche la versione fornita  ne La Politica del Super-Io.

 Il nucleo cui facevo cenno – vale a dire il conflitto tra una tradizione culturale che sotterraneamente persiste e istanze di cambiamento che non hanno ancora trovato la via di configurare un nuovo modo di essere integrato  - è il leit-motiv di tutti gli scritti. Esso raggiunge la massima evidenza nelle storie cliniche tratte dai Seminari e dal saggio sulla schizofrenia.

Ho aggiunto  anche due recensioni letterarie (Carmen e Madame Bovary) in riconoscimento del fatto che gli scrittori hanno avuto, in rapporto alla psicologia femminile, delle intuizioni tipologiche straordinarie. Merimée e Flaubert, ovviamente, non sono i soli autori dotati di tale capacità. Altre recensioni, dunque, arricchiranno questa area tematica in futuro.

L’articolo conclusivo, sulla struttura isterica, tratto da Appartenenza e Individuazione – nuova edizione de La Politica del Super-Io, non ancora pubblicata -, si può ritenere una sintesi teorica delle riflessioni sul disagio femminile.

Il capitolo Lui, tratto da Star Male di Testa, dice pressappoco le stesse cose, ma in una forma più provocatoriamente divulgativa.

Ho riprodotto, infine, in appendice, alcuni frammenti da Dis-Umanità, opera (per ora) incompiuta nella quale il dramma femminile, colto nei suoi diversi aspetti e restituito in una forma chiaramente derivata da Lee Masters, assume anche un valenza letteraria.

Da Seminari 1982 -1983

Il disagio psichico come vicolo cieco ideologico

Quadri mentali collettivi ed esperienza delirante

1) Dell’esser donna

A diciotto anni Paola, uscendo di chiesa a testa bassa, passa accanto ad una macchina in sosta. Il suo sguardo incontra quello del ragazzo al volante, e, rimovendo ogni castigatezza, saetta un fuoco di seduzione. P. si riprende e si allontana con la consapevolezza di aver commesso una colpa. Il ragazzo, in effetti, ha perduto la testa per lei. Ovunque vada, il ragazzo la segue con la muta devozione di un cagnolino. A qualunque ora del giorno, se solleva le tendine della finestra, lo vede passare più volte. Esaltata per questa cattura, nonostante il cuore le rimorda, P. sta al gioco, facendo finta di non accorgersi di nulla: la sua ritrosia ha, però, lo scopo di alimentare la passione del ragazzo. Dopo circa un anno, si decide infine a guardarlo: si accorge che è brutto e intuisce di non ricambiare il suo sentimento. Lo ha dunque preso in giro. Sentendosi in colpa, P. si risolve ad affrontare il ragazzo per dirgli la verità e risolvere la questione. Ed è a questo punto che scopre, con sgomento, di non riconoscerlo. Più precisamente: quand’egli passa in macchina, e dunque a distanza, P. ne identifica infallibilmente il ‘tipo’ – la sagoma un po’ massiccia, i capelli neri e ricci, e, soprattutto, lo sguardo da innamorato – , ma, se gli si avvicina, l’identificazione diventa incerta. P. teme di sbagliare, di fermare un altro ragazzo, di salire, per inganno, sulla macchina e di fare la fine che merita una che abborda uno sconosciuto: di essere, insomma, violentata. Questa circostanza non la terrorizza tanto per sé, quanto per le conseguenze che potrebbe avere: P. sa che il suo ragazzo la pensa in maniera tradizionale e che mai le perdonerebbe uno sbaglio del genere.

Avendo scoperto la difficoltà di identificazione, P. comincia a lanciare dei messaggi al ragazzo, per fargli capire che deve essere lui a prendere l’iniziativa. Ma quegli, evidentemente ferito nell’orgoglio dell’atteggiamento altezzoso avuto fino a quel momento da P. e, probabilmente, incredulo, continua a seguirla con la stessa costanza ma persistendo nella sua passività. Il problema appare,dunque, insolubile. A questo punto entrano in scena i parenti e gli amici del ragazzo, sdegnati per la presa in giro. Dapprima con velate allusioni poi con messaggi inequivocabili, essi lasciano intendere che non credono alla ‘storia’ del mancato riconoscimento, e che concedono a P. una sola possibilità di scampo alla loro persecuzione: un matrimonio riparatore. Attendono –ovviamente - che sia lei a fare il primo passo. Per sollecitarla, la sottopongono quotidianamente, persino tra le mura della sua casa, ad un fuoco di fila accuse infamanti.

Come un puzzle incomponibile, l’esperienza di P. si cristallizza: dopo dieci anni nulla è mutato. Il ragazzo continua ad essere perdutamente innamorato di lei, ma non fa un solo cenno che agevoli il riconoscimento. I suoi parenti ed amici sottopongono P. ad un vero e proprio assedio, col duplice scopo di tenerla sotto controllo e di indurla, schiacciandola sotto il peso della colpa, a riparare. P. vive nell’isolamento più completo. Esce di rado, quando la disperazione la spinge a cercare in qualunque modo la soluzione finale: ma ogni qualvolta la distanza con il ragazzo si riduce, essa è preda della paura paralizzante di sbagliare, e di offrirsi ad un altro.

Sarebbe vano tentare di illustrare la raffinatezza logica con cui il delirio, nel corso di dieci anni, è stato razionalizzato, fino al punto di configurarsi come un gioco delle parti in cui tutti hanno le loro buone ragioni, che risultano però o non comunicabili o non credute.

P. ammette la sua originaria colpa, lo sguardo di seduzione che ha fatto perdere la testa al ragazzo e l’indifferenza apparente in virtù della quale, nel corso del primo anno, ha alimentato la passione di quello. Essa è disposta a riparare, anzi, nonostante l’aspetto non attraente del partner, non desidera altro: ma, stante la difficoltà di riconoscimento, essa non può permettersi di rischiare l’irreparabile. Ciò che è incredibile per gli altri, il fatto che, dopo dieci anni, essa non riesca, da vicino, a riconoscere bene il ragazzo, P. lo spiega con estrema semplicità: maliziosa ma non sfrenata, essa si è sempre limitata a fuggevoli sguardi. Oltre le caratteristiche generali della sagoma, essa, in realtà, non conosce del ragazzo che lo sguardo d’amore: il riconoscimento è, dunque, empatico, e non fisionomico. Nel corso degli anni, la passione del ragazzo non ha mai mostrato nessun segno di affievolimento: a qualunque ora del giorno, sollevi P. le tendine della finestra o scenda per la strada, egli è lì nella macchina. Solo se P. si avvicina, egli si avvia per indurla a precipitarsi. La sua aspettativa passiva, che non si traduce in un minimo segno di incoraggiamento rivolto a P., esprime uno straordinario orgoglio: ma è l’orgoglio comprensibile di un uomo ferito.

Quanto ai parenti e agli amici, la loro persecuzione, spietata nella forma e nei contenuti, ha, in ultima analisi, un fine buono: essa mira infatti a colpevolizzare P. per indurla a riparare.

La struttura di questo delirio è, quant’ altri mai, definito da un confine morale, che ha una precisa definizione spaziale: al di qua, P. è oggetto di un amore perenne che attesta, sì, la sua capacità di seduzione, ma la vincola pure ad un rapporto ‘pulito’ di assoluta fedeltà e destinato a concludersi con il matrimonio; al di là, P. è esposta al rischio di perdersi tra le braccia di uno sconosciuto. Al di qua, P. attende che sia l’uomo a prendere l’iniziativa, al di là è lei a doversi lanciare tra le sue braccia.

Se si valorizza adeguatamente il confine simbolico, riesce chiaro ch’esso definisce due ambiti culturali, due codici mentali inerenti il rapporto uomo-donna. La struttura mentale al di qua si fonda sul contratto monogamo e assegna alla verginità della donna il significato di una garanzia: se essa giunge vergine al matrimonio, ciò significa che non è stata di nessun altro, e che, vincolandosi, sarà per sempre di un solo uomo. La struttura mentale al di là è invece la struttura del desiderio cieco, che può portare alla perdizione, se la donna si abbandona ad esso.

E’ importante rilevare un elemento comune alle due strutture: è la verginità della donna nella prima, così come la sua resistenza alla cecità del desiderio a mantenere la moralità. L’uomo, viceversa, può godere della sua immoralità, sia perché, nell’ambito della prima struttura, nulla lo impegna a non avere esperienze prima di vincolarsi monogamicamente, sia perché, nella seconda, gli è manifestamente riconosciuto il diritto di profittare di ogni occasione che gli si offra.

E’ superfluo, forse, dire che P. è stata educata al rigido rispetto della prima struttura mentale. Convinta, fin dall’adolescenza, che gli uomini, nonostante la loro immoralità, sono tremendamente tradizionalisti, e che pertanto, se una ragazza giunge deflorata al matrimonio, questa colpa le viene rimproverata per tutta la vita, essa si è comportata di conseguenza nell’unico modo atto a scongiurare tale pericolo: si è tenuta bene a distanza da ogni occasione di incontro. Ha pagato, per ciò, il prezzo di una radicale solitudine affettiva, esasperata da un cambiamento di costumi che l’ha, poco alla volta, indotta a vivere la sua moralità come fuori del tempo: come una camicia di forza, piuttosto che come un velo protettivo. Uscendo dalla chiesa, una ribellione covata a lungo affiora repentinamente nella sua mente sotto forma di desiderio: “come sarebbe bello sedurre un ragazzo e fargli perdere la testa”. In questo desiderio, non si potrebbe riconoscere altro che il riscatto di una giovane graziosa e vitale rispetto a una mortificazione giunta all’estremo dell’avvilimento. Ma il tribunale della mente di P., espressione di una struttura mentale assolutamente coerente, lo assume come capo d’accusa di una ‘natura’, nonostante le apparenze, non doma. Sedurre il ragazzo, e dunque un qualsiasi ragazzo, non significa forse sedurre tutti? Da timorata che era uscendo di chiesa, P. diventa una pericolosa maliarda. E se sedurre non le bastasse, se oltre a sedurre desiderasse anche di possedere e di essere posseduta? Se, infine, si abbandonasse totalmente alla cecità dei desideri, cosa diventerebbe se non una puttana o, peggio ancora, una ‘ninfomane’ che insegue gli uomini?

Queste possibilità sono latenti all’interno della prima struttura mentale, edificata per scongiurarle: la verginità della donna, barriera fisica che comprova e preserva la moralità, non è forse valorizzata al massimo perché, una volta caduta, non si vede quale freno possa porsi ad un desiderio ‘svergognato’?

Ciò che il tribunale della mente di P. assume come capi d’imputazione sono le ovvie conseguenze di un recinto mentale che impone una moralità sottesa da infinite paure. Ma, nel momento in cui P. si ribella alla costrizione, essa si destina a soffrire. Desiderando, semplicemente, di catturare un ragazzo, con l’unico strumento di cui dispone la sua inesperienza, lo sguardo, è come se essa si abbandonasse alla cecità dei desideri. La punizione scatta in tutta la sua severità: ha osato sedurre e, dunque, le piaccia o no, quel ragazzo, il primo, dovrà essere anche l’ultimo della sua vita, il suo sposo. Nel momento in cui accetta questa condizione, P. è soggetta ad un’altra punizione: non riconoscendolo, infatti, può solo rischiare di sbagliare. La difesa della verginità le impone di rifuggire dall’errore, ma, con ciò stesso, dalla possibilità di consumare il matrimonio. E infine, siccome non si può avere più fiducia nelle sue capacità di autocontrollo, è giusto che essa sia controllata dall’esterno, dai parenti e dagli amici del ragazzo, che, al tempo stesso, tutelano la sua fedeltà nel mentre le rivolgono le accuse più ignobili di immoralità.

Come in ogni delirio, anche in quello di P. c’è la soluzione di una condizione invivibile: per quanto debba scontare con l’isolamento e con le rampogne la colpa di aver tentato di infrangere un codice morale, che le impediva di nutrire la speranza di amare e di poter essere amata, essa, in virtù di quella colpa, non è più sola: c’è un ragazzo che la ama perdutamente da dieci anni e la cui passione, se mai si realizzerà, è già sentita come inestinguibile…

L’analisi strutturale, sincronica di un delirio, la cui caratteristica essenziale sembra essere quella di un‘organizzazione inerte dal punto di vista evolutivo, non deve misconoscere la dinamica genetica. Ma - e si assuma pure questo assunto come provocazione - il metodo biografico, sia esso rivolto all’esplorazione della vita intrapsichica che alla ricostruzione delle transazioni intersoggettive, urta contro un limite insormontabile, che si può assumere come ostacolo epistemologico. Esso infatti, pur ponendo in luce fissazioni a stadi di sviluppo infantili o paradossi comunicativi, non può permettere mai di ricostruire la genesi della struttura mentale inerente la moralità all’interno della quale si articola il discorso del soggetto, nei suoi momenti fondamentali di ribellione e di autopunizione. Esso può, tutt’al più, aiutarci a comprendere perché quel soggetto piuttosto che un altro ha preso tanto sul serio quella struttura da non poter vivere dentro di essa e da non poter evadere se non a un duro prezzo. Ciò è senz’altro importante, ma, per quanto il metodo biografico possa essere approfondito, esso non può andare al di là dei motivi che hanno indotto un soggetto a prestar fede ad una struttura mentale che sembra far capo a dei principi naturali, e che, invece, si articola come un discorso culturale sulla natura umana, sul desiderio, sul rapporto uomo-donna, sul matrimonio, sul libero amore, ecc…Questo discorso culturale non è, né può essere, un prodotto soggettivo o intersoggettivo, bensì una struttura mentale normativa: la faccia di una medaglia il cui verso è una certa normalità, il cui retro è una qualche follia.


Da SEMINARI 1983 – 1984

STRUTTURE PSICOPATOLOGICHE

Tragitti esperienziali nell’universo delle strutture psicopatologiche


3) Caterina

A 13 anni, Caterina, un’adolescente precoce e molto graziosa, studiosa e socievole, consulta uno psichiatra perché si sente oppressa dal padre, che non le lascia molta libertà. La accompagna o la fa accompagnare a scuola, in palestra, alle feste e vigila su di lei con un interesse che Caterina ritiene ‘morboso’. Alle sue rimostranze, per altro molto misurate, il padre risponde che è piccola, ingenua e inesperta del mondo. Un mondo del quale egli, imprenditore e uomo d’affari, ha una visione tragica e disincantata.

A 14 anni, frugando nel portafoglio del padre, Caterina scopre la fotografia di una donna con una dedica d’amore inequivocabile. Esplode in una crisi d'agitazione psicomotoria nel corso della quale devasta l’arredo prezioso del salotto. Manifesta un’aperta ostilità nei confronti del padre, e la volontà di allontanarsi da una famiglia che giudica un 'nido di vipere'. Ricoverata in una clinica privata, si esibisce per due settimane in un rrepertorio di comportamenti disinibiti, volgari e osceni.

La crisi di Caterina, che scopre gli ‘altarini’ del padre, avvia un "processo" familiare. I genitori non hanno rapporti da oltre 10 anni. Con la donna della fotografia il padre ha intrattenuto una lunga relazione, finita, da alcuni mesi, in seguito alla morte per cancro. E’ un uomo affranto, che protesta di non aver trascurato la famiglia. Si fa una sola colpa: di aver creduto che il benessere economico rappresentasse la felicità, e di aver lavorato come una bestia per raggiungere quest'obiettivo. La madre è una donna fredda e implacabile nel giudizio: la malattia della figlia, dal suo punto di vista, non fa che mettere in luce la natura corrotta ch’essa ha ereditato dal padre, definito con disprezzo un ‘puttaniere’. Il processo si conclude con un’apparente pacificazione, votata alla guarigione della figlia.

Superata la crisi, la vitalità di Caterina sembra spenta. Sviluppa una depressione inibita con forti componenti di vergogna sociale, che la isola dalla cerchia degli amici. Il rendimento a scuola diminuisce paurosamente. Caterina comincia ad essere angosciata dall’aspetto fisico: frequenta assiduamente un salone di bellezza. Ciononostante, continua a vedersi brutta.

A 16 anni, nel corso di una vacanza trascorsa con i genitori, fa per la prima volta l’amore con un fidanzato ufficiale. Scopre di essere frigida. La scoperta attiva una crisi di eccitamento maniacale nel corso della quale seduce molti uomini e si lascia possedere. Viene ricoverata nuovamente in clinica e continua a vivere il suo ruolo di donna fatale e disinibita. Il leit-motiv dell’esperienza interiore si chiarisce: frigida con il fidanzato, Caterina ha scoperto di essere invece ‘calda’ nei rapporti trasgressivi. La sua libertà si identifica con l’infrangere le norme e i valori tradizionali. Quest'esperienza viene ideologizzata: al conformismo alto-borghese della famiglia, Caterina oppone un progetto di vita incentrato sulla liberazione sessuale, che giunge aconfigurarsi come il cardine di un cambiamento che vede nella normalità repressione, grigiore e ipocrisia.

I limiti di questo progetto sono due, uno soggettivo e uno sociale. Sul piano soggettivo, esso comporta anziché un lento lavoro di critica e di elaborazione dei valori tradizionali interiorizzati, una brusca rottura con la moralità intesa come costrizione, e dunque il passaggio "rivoluzionario" dalla moralità tradizionale all’immoralità. Sul piano sociale, il progetto, poi, per risultare significativo nel suo carattere di contestazione, non può realizzarsi in privato: la liberazione sessuale deve essere, insomma, esibita, e cioè sfidare il giudizio della gente. Questi due limiti, sommandosi, definiscono un circolo vizioso nel quale l’esperienza di Caterina finisce con l’intrappolarsi.

Impattando in una struttura fin troppo precocemente ordinata, e votata a rispondere alle aspettative paterne, il comportamento immorale produce una negativizzazione estrema dell’immagine interna, alla quale corrisponde un’elevata angoscia sociale. Per lunghi periodi Caterina vive in una condizione depressiva strisciante, che affiora sotto forma di angoscia estetica. Si vede brutta, tende alternativamente a trascurarsi, mimetizzandosi in abiti piuttosto infantili, o a curarsi eccessivamente, ponendo agli estetisti una serie di problemi insolubili. Si chiude in rapporti di fidanzamento ufficiali all’interno dei quali sperimenta la frigidità e una certa avversione alla sessualità.

Quando giunge al fondo di questa depressione, e si sente ‘morta’ e bloccata, si avvia quasi repentinamente – una due volte l’anno - una crisi di eccitamento. Caterina si veste e si trucca da donna fatale, sta fuori casa tutto il giorno, seduce con facilità gli uomini, scoprendo che la sua sessualità è tutt’altro che frigida, si comporta in pubblico senza ritegno, spende grosse cifre di denaro. Ma – quel che è peggio - non può fare a meno di raccontare ai suoi, con abbondanza di particolari, le avventure cui si abbandona, suscitando il disgusto di entrambi, fino a far scattare l’inevitabile repressione e l’internamento in clinica. Anche in clinica, nonostante i massicci dosaggi farmacologici, il suo atteggiamento rimane provocatorio, sfidante e disinibito. Subentrano poi l’angoscia di colpa, la vergogna e la depressione, che la restituiscono ai suoi come una bambina malata. Per anni, l’esperienza di Caterina si svolge su questo duplice registro di una dipendenza penosa e di una guerra d'indipendenza votata allo scacco.

I mezzi ingenti della famiglia sono posti al servizio di una causa sbagliata. Sia i ricoveri in clinica che un lungo periodo di soggiorno in una comunità svizzera non conseguono altro effetto che di reprimere una rivoluzione che rimane latente.

Periodicamente, anche sotto trattamento farmacologico, Caterina esplode e con rischi sociali sempre più rilevanti. A 17 anni, durante una gita in Inghilterra, viene incarcerata per cleptomania, dopo essere uscita senza pagare da un grande magazzino con una busta piena di capi d’abbigliamento. A 20 anni è di nuovo in carcere per aver insultato degli agenti di polizia che l’avevano fermata per un controllo, e viene condannata con la condizionale. A 21 anni rimane incinta ( non si saprà mai di chi) e, solo dopo lunghe esitazioni, si decide ad abortire. A 22 anni fa un viaggio in Sud-America e rimane di nuovo incinta. Il partner, giovane come lei, le si affeziona e decidono di sposarsi. Il mantenimento della famiglia è assicurato dal padre. Ma i problemi restano: Caterina rifiuta di calarsi nel ruolo di madre e di casalinga, continua a sperimentare, nel matrimonio, la frigidità, e, all’interno del rapporto, tenta di assicurarsi una posizione di dominio maltrattando il marito. Nonostante abbia un profondo bisogno di dipendere, s’impegna in nuove guerre di indipendenza, che culminano in un tradimento clamoroso: rientrando a casa, il marito la trova a letto con il cugino di soli 17 anni. Caterina viene nuovamente ricoverata, anche perché la ‘malattia’ serve a giustificare il comportamento inqualificabile. Tra l’altro, non si pente: parla del tradimento come affermazione della sua libertà, sembra ancora votata a trasgredire e a scandalizzare.

La famigliola si trasferisce a Roma. I genitori, da qualche anno, si sono separati. Il padre assicura il mantenimento, ma vivendo nell’ombra: ufficialmente, vive fuori dall’Italia per motivi di lavoro. E’ chiaro che le crisi di Caterina hanno come referenti i genitori e i valori che le sono stati imposti: l’immagine di brava bambina che il padre ha coltivato per anni, e il perbenismo ottuso della madre.

Caterina avvia un processo psicoterapico, ma non accetta di criticare la sua ideologia libertaria e anticonformista. La sua vita si svolge sul consueto registro di accettazione passiva dei ruoli familiari e domestici e di aspettative delle crisi, nel corso delle quali si sente viva e libera. La frequenza delle crisi, nel corso delle quali si sente viva e libera. La frequenza delle crisi diminuisce, ma conservando sempre le stesse caratteristiche: ostilità aperta e cinica nei confronti di tutte le persone cui è legata – genitori, marito, figlio e analista -, fantasia di liberazione dai legami e di disinibizione erotica. Caterina continua a vivere decentrata in questo progetto, il cui prezzo è l’inibizione della vita sociale, la frigidità e la persistenza di un’angoscia estetica che pone in luce un’immagine interna negativa. Cosa c’è dietro questo sacrificio di sé in nome di una causa perduta in partenza? Perché Caterina si affanna a distruggere legami in difetto dei quali sarebbe perduta? Perché non può vivere la libertà se non in termini di trasgressione delle norme, e cioè nei termini di una costrizione ad esser libera che coincide con un’alienazione della libertà?

Il duplice registro su cui si svolge la sua esperienza, che sembra riconoscere solo i ruoli di bambina innocente e incapace e di una donna corrotta e cinica, è sufficientemente indicativo. Ma si tratta di spiegare la drammaticità con cui queste categorie impregnano l'esperienza di Caterina, fino a strutturarla e a mortificare altri possibili modi di essere ch’essa contiene. Quel registro infatti corrisponde ad un codice mentale così diffuso, che rende impossibile qualificarlo immediatamente patogeno. Esso, che comporta il passaggio alla vita adulta e all’autonomia come una colpa, produce pseudonormalità e disagio psichico manifesto. Ciò impone di rintracciare nell’esperienza di Caterina le variabili che hanno reso patogeno quel codice. Variabili familiari e, ovviamente, soggettive.

I genitori di Caterina sono entrambi impregnati del mito dell’innocenza: da non perdere, per quanto riguarda la madre: da recuperare, per quanto riguarda il padre.

La madre di Caterina si fa vanto di essere rimasta sempre onesta prima, durante e dopo il matrimonio. Nella sua mentalità, ciò significa essere rimasta fedele ai valori tradizionali inculcati severamente dai suoi. E’ giunta vergine al matrimonio, e l’offerta della verginità, dal suo punto di vista, ha rappresentato un dono tale da giustificare una gratitudine perenne da parte del marito. Non lo ha mai tradito e, dopo la separazione, si è chiusa in un totale isolamento. Questa fedeltà ai valori tradizionali è stata pagata al prezzo di un ipercontrollo sulle emozioni e sui desideri, che l’ha resa una donna frigida e anafettiva. A suo modo, si è anche ribellata alla tradizione, realizzandosi solo sul piano lavorativo (è maestra di scuola) e rifiutando, con l’alibi di una costante neurastenia, i ruoli domestici. La casa è stata portata avanti dalla cameriera, Caterina è stata allevata da governanti, e, negli studi, da ragazze universitarie. L’onestà che essa incarna, insomma, è una commistione d'infantilismo e di ribellione vissuta sul registro della passività.

Il padre di Caterina è di umili origini ed ha avuto un’infanzia disagiata. Di carattere buono e generoso, ma impulsivo, si è lanciato nella vita con grande ingenuità. Ha subito una serie di delusioni affettive e sociali (era un sindacalista comunista degli anni ’50) tanto gravi da indurlo ad incattivarsi. Ha sviluppato un atteggiamento cinico e disincantato nei confronti delle donne (paradossalmente, da quando ha preso a trattenerle come oggetti di piacere, ne ha avute tante!), e, con espedienti leciti, si è lanciato nel mondo degli affari, divenendo un imprenditore di successo. Il danaro ha finito per stravolgere i suoi valori originari, dando luogo ad una visione del mondo totalmente dominata dall’avidità umana e dall’interesse. La moglie l’ha sposata perché, in virtù dell’educazione da essa ricevuta, vedeva in lei una sorta di donna angelicata, ingenua e pulita. Deluso dalle sue freddezze, ha continuato a coltivare i suoi sogni: la relazione che ha avuto - l’unica dopo il matrimonio - sembrava realizzarli. Ma, al di là di questo, la visione tragica di un mondo fondato sulla legge dell’homo homini lupus non ha mai soffocato il sogno di un mondo innocente e incorrotto. Nostalgicamente, questo sogno ha individuato nell’infanzia il paradiso terrestre perduto: paradiso terrestre ove non esistono la bramosia del denaro e del sesso che tutto corrompono e sporcano.

Caterina è stata investita dal sogno d’un’innocenza, minacciata o perduta nella vita adulta, ch’essa doveva incarnare.

C’è un episodio familiare che vale come prova. Mentre la madre era incinta, il padre mostrò la foto di una bambina angelicata, dal visino pulito, bionda e con gli occhi azzurri, chiedendole di darle una figlia come quella. Caterina, purtroppo, è nata bella, bionda e con gli occhi celesti! Con il sogno parentale essa ha interagito calandosi nel ruolo di bambina brava, affettuosa, diligente, senza malizia. E’ vissuta, cioè, come un angelo, fino a 13 anni, occultando accortamente i suoi desideri, le curiosità, le malizie infantili ed adolescenziali. Era già sdoppiata nell’immagine sociale di angelo e in quella interna di ‘diavolo’, quando ha intuito che l’organizzazione della sua vita, vigilata e seguita passa passo dal padre, dall’autista, dalla governante, dalla ripetritice mirava sì a proteggerla da un mondo cattivo, ma al prezzo della sua rinuncia a crescere e ad affermare i suoi bisogni di libertà personale. L’autoinganno in cui è caduta, comprensibile ma fatale, è stato quello di squalificare del tutto la sua immagine sociale, ritenendola falsa e frutto solo di condizionamenti esterni, e di assumere come vera quella interna, carica sì di bisogni personali ma, nella sua negatività perversa, non meno condizionata dall’esterno di quella sociale. Da qui prende origine il vissuto di oppressione e di limitazione della libertà personale che affiora a 13 anni come primo segno di disagio.

La scoperta del tradimento paterno assume però un valore precipitante a livello strutturale poiché essa, smascherando la doppiezza del padre, è come se rendesse lecito l’affrancamento dall’immagine sociale buona e la disinibizione della libertà personale sul piano dell’erotismo. La reazione dei genitori in rapporto ai suoi comportamenti osceni non fa che avvalorare la convinzione ch’essi vogliono che rimanga una bambina innocente, dipendente e sorda ad ogni bisogno di crescita e di realizzazione personale. Non insignificante è, infine, l’atteggiamento dei medici, che restituiscono a Caterina le crisi nei termini di una malattia dovuta ad uno squilibrio umorale, curare il quale significa tornare ad essere quello che era prima.

Nel momento in cui Caterina, ricusando l’immagine sociale nella quale è stata costretta a calarsi e identificando la libertà con la trasgressione erotica, butta via l’acqua sporca dei condizionamenti con la sua sensibilità, si chiude, senza sapere, in una struttura senza scampo. I suoi bisogni di dipendenza, infatti, non possono più evolvere, perché vengono identificati con una debolezza che espone alle manipolazioni, e non possono essere vissuti che sotto forma di accettazione passiva di un ruolo intimamente rifiutato: quello della bambina che non intende più essere brava, e rifiuta pertanto lo studio, la casa, il marito, il figlio, regredendo nell’apatia e nella depressione. I bisogni di libertà non possono essere vissuti che sotto forma di trasgressione, in virtù di una costrizione ad essere libera dai legami e dai valori che coincide con le crisi.

Il sovrapporsi a questa struttura di un’ideologia libertaria e avversa alle regole del buon vivere civile borghese non fa che drammatizzare la dinamica, rendendo comprensibile quel crescendo di trasgressioni che sembra rivolto a sfidare tutte le leggi civili e penali. Ad ogni crisi fa seguito una depressione più profonda, pervasa di sensi di colpa: ma in questi Caterina non vede che condizionamenti esterni da cui non riesce ad affrancarsi. Condizionamenti sono anche i legami affettivi con il padre, la madre, il marito e il figlio: per negare che essi esprimano suoi bisogni, Caterina è spinta ad assumere atteggiamenti di freddezza, che, nel corso della crisi, diventano brutali e cinici. L’angelo, insomma, finisce per trasformarsi in un ‘mostro’, secondo una logica dei contrari che, adottata dal soggetto come soluzione dei problemi, lo allontana dalla verità, esaltando bisogni autentici ma degradati nella forma, e misconoscendone altri.


 6) Rita

A 56 anni, dopo 25 anni di carriera psichiatrica, caratterizzata da numerosi ricoveri in clinica e prolungati trattamenti con psicofarmaci maggiori, Rita viene affidata ai familiari da un augusto docente romano con la diagnosi di paranoia cronica che comporta solo la possibilità di un progressivo peggioramento fino alla fine. La ‘paranoia’ di Rita consiste nel fatto che essa, quando esce di casa, sente che tutti parlano di lei, rievocano gli sbagli del passato, la giudicano negativamente (come una donnaccia) e la tengono sotto un assiduo controllo per verificare se, finalmente, ha messo la testa a posto o fa solo finta di essere pentita e rassegnata.

Nonostante l’età, Rita è una persona ancora vivace, ricca introspettivamente e desiderosa di ‘guarire’. Naturalmente, gli errori che la gente le rimprovera essa stessa li riconosce e se ne accusa: quello che non comprende è perché la gente debba insistere tanto su aspetti del passato di cui si è pentita e che considera ‘morti e sepolti’. Non solo ne è pentita, se ne vergogna e pensa che sarebbe meglio dimenticare tutto. Per quanto la riguarda, non c’è problema: è la gente che insiste a parlare, ad accusare, a rimproverare…

La paranoia strutturata è una sfida grave per gli psichiatri: nel tentativo di indurre un miglioramento, Rita, nel corso degli ultimi anni, è stata sottoposta ad un’escalation farmacologia aberrante. Inghiottisce senza alcun risultato compresse e gocce dalla mattina alla sera. Paranoica, nel senso classico della parola, Rita lo è senz’altro: ma gli psichiatri che intendono guarire una visione del mondo che non sanno definire che in termini di ‘malattia mentale’ non rientrano forse nella stessa categoria? Essi partecipano, con un’ingenuità cui difetta la buona fede, dell’autoinganno di cui è preda il soggetto: vedono la malattia così come il soggetto la denuncia. Sono fuori strada nella misura in cui il soggetto è fuori strada.

La malattia di Rita, infatti, sta meno nei rimproveri della gente, che realizzano un controllo comportamentale di cui essa continua a sentire di aver bisogno per non sbagliare, che nell’oggetto dei rimproveri: errori e colpe che essa stessa riconosce, ma di cui le sfugge il senso, e che, quindi, attestano ai suoi occhi un’incontrollabilità che le sembra latente ma non scongiurata.

I capi di imputazione, che inducono Rita ad assumere il mondo come Pubblico Ministero, sono riconducibili a tre: comportamenti osceni, calunnie, furti. Sarebbe troppo lungo elencare tutte le circostanze imputate. Vale la pena di riportare, per ogni capo di imputazione, degli episodi esemplari.

A 42 anni Rita lavorava come bidella in una scuola. Nell’intervallo tra le lezioni, i professori si radunavano in uno stanzino dove Rita preparava per loro il caffè. Tra i professori, uno prese discretamente a corteggiarla. Un giorno – per caso si trovavano da soli - le si accostò, l’abbracciò e la baciò. Per un attimo, Rita si abbandonò al bacio: giusto il tempo di accorgersi che la porta dello stanzino era socchiusa e che alcuni studenti transitavano nel corridoio. Dopo qualche giorno, Rita ebbe l’ennesima crisi di eccitamento con disibinizione erotica, in seguito alla quale fu ricoverata. Quando uscì, si sentiva in colpa: tutti sapevano di quanto era accaduto nello stanzino, la giudicavano male e ironizzavano sulle sue ‘voglie’ di donna già matura. Rita fu costretta a dare le dimissioni, ma il risultato fu vano. La notizia del comportamento osceno si era diffusa in tutta la città, e i giovani in particolare la giudicavano con ironia e disprezzo.

A 46 anni, Rita decise di rivolgersi ad un avvocato per sfrattare un’inquilina che sola occupava l’appartamento lasciatole in eredità dal padre. Voleva andarci a vivere lei. La causa si trascinò a lungo, e l’inquilina che aveva conoscenze tra i magistrati, manifestò nei confronti di Rita una certa tracotanza. Nell’aula di tribunale, quando fu chiaro che il suo stesso avvocato si era venduto (circostanza confermata dai familiari) Rita si scatenò contro l’inquilina precipitandole addosso una valanga di accuse infamanti. Scampò ad un processo solo perché l’episodio inaugurò un nuovo ‘eccitamento’ che si concluse con un ricovero.

In varie epoche della vita, Rita, che, quando stava bene, si presentava come una persona molto educata e godeva di buone referenze, ha lavorato come baby-sitter. In tutti i casi, dopo qualche tempo, i datori di lavoro intuivano la sua disponibilità, e la obbligavano ad orari più lunghi di quelli pattuiti e, spesso, anche a far faccende di casa. In tutte queste occasioni, Rita si è sempre vergognata di chiedere il giusto compenso, per il timore che i datori di lavoro pensassero che essa fingesse di star bene con i bambini solo per ‘interesse ‘. Prima o poi, Rita cominciava a soffrire di ‘cleptomania’: doveva asportare piccoli oggetti o piccole somme di denaro. Naturalmente , dopo qualche tempo, intuiva che tutti sapevano ch’era una ladra e la accusavano. Doveva lasciare il lavoro, e occultarsi agli occhi della gente.

A 56 anni, quando gli psichiatri la definiscono ‘incurabile’ i numerosi episodi di oscenità , di esplosioni rabbiose nei confronti di terzi e di cleptomania hanno dato luogo ad una condanna sociale che viene vissuta come un esser sorvegliata a vista: se Rita esce di casa da sola è perché va alla ricerca di un uomo, se si sofferma con delle amiche è per sparlare di qualcuno, se va in banca è per ritirare il denaro "rubato".

A cosa tenda una struttura psicopatologica di questo genere è evidente: a tener vivo un controllo sociale i cui effetti di minaccia dovrebbero realizzare un comportamento immune da ogni errore, rispettoso almeno alla legalità se non alla moralità. E’ anche evidente che, se si pone sotto controllo così spietato, Rita non si concede alcune capacità di autoregolazione.

Nonostante un certo risentimento nei confronti della crudeltà della gente, che rievoca ‘acqua passata’, Rita è convinta che i giudizi nei suoi confronti non siano infondati. In pratica, si ritiene come una donna di facili costumi, incline alla rabbia, alla calunnia e alla menzogna, e, per giunta, ladra. E’ chiaro che la ‘malattia’ non è nella persecuzione, ma nella lettura che Rita fornisce dei suoi comportamenti passati e nell’incontrollabilità che continua, nonostante le apparenze, ad attribuirsi. Ma, in ultima analisi, quei comportamenti – gli eccessi erotici, le esplosioni di rabbia, i ‘furti’- sono reali: quale altra lettura fornire?

Non sorprenderà sapere che, fino a 30 anni, Rita ha vissuto in maniera esemplare. Originaria di un paesino dell’alto Lazio, terza di 5 fratelli, educata in maniera oltremodo tradizionale da un padre estremamente severo, fin da bambina essa ha avvertito la pericolosità della sua ‘natura’ vivace, curiosa, estroversa, socievole. Con l’adolescenza, mette la testa a posto. I fratelli e le sorelle si sposano. Rita rimane nella casa paterna per curare i genitori anziani. Ignora gli affetti, l’amore, la sessualità: sacrifica se stessa sull’altare di una causa di cui le sfugge il senso. Dopo la morte dei suoi, cominciano le sue ‘sregolatezze’: ma, a ben vedere, si tratta di episodi di rottura comportamentale che muovono da una struttura di personalità ipercontrollata, di tipo ossessivo, incapace di affermare i propri diritti e di esprimere i propri bisogni. Non solo: ma tutti gli episodi sembrano mirare, anziché ad un’autentica liberazione, a creare i presupposti di un processo di colpevolizzazione. Questo spiega la docilità con cui Rita ha accettato i ricoveri in clinica, i trattamenti e i maltrattamenti psichiatrici. Il suo obiettivo, evidentemente, non è la liberazione, bensì di reintegrare un’immagine di sé buona e stimabile, nonostante le ‘colpe’ commesse. Ma, dato che queste colpe fanno capo ad una quota di bisogni di individuazione misconosciuti e rifiutati, e che, quindi, continuano a premere, il controllo non può essere assicurato che dagli autorimproveri e dalla sorveglianza sociale.

Ancora una volta, dunque, ci confrontiamo con una struttura di personalità alienata a due livelli: alienata, per un verso, in una libertà che, esprimendosi solo sotto forma di trasgressione, mortifica e non realizza i bisogni di individuazione; e, per un altro, in un bisogno di controllo, che, per essere vissuto come negazione della libertà personale, può essere esercitato solo sotto forma di repressione interna (superegoica) o esterna. Struttura rigida di sé e per sé, cristallizzata in virtù di interventi terapeutici che l’hanno puntualmente confermata, e destinata dunque alla cronicità.

Alla cronicità Rita è comunque scampata, poiché, nonostante la lunga carriera, non ha rinunciato a capire l’organizzazione della sua vicenda umana. Sorprendentemante, Rita, con le sole armi del buon senso e di una discreta cultura, aveva già riletto la sua storia in rapporto ai condizionamenti familiari ed educativi. Ciò che le difettava era comprendere il modo ‘alienato’ in cui essa aveva interagito con quei condizionamenti, votando la sua vita al sacrificio per confermarli. Acquisita questa chiave, l’esperienza di Rita si è integrata su un registro molto più sereno. Per alcuni aspetti, questo progresso si può ritenere in una certa misura spontaneo, se è vero che l’età comporta naturalmente un allentamento di dinamiche incentrate sulla libertà. Paradossalmente, ciò che alimentava la ribellione erano le cure: i dosaggi psicofarmacologici irrazionali, che confermano l’entità del pericolo di una perdita di controllo. Che la diagnosi psichiatrica di irreversibile cronicità sia stata definita proprio quando erano maturate circostanze atte ad indurre una sorta di attenuazione spontanea dei conflitti atte ad indurre una sorta di attenuazione spontanea dei conflitti interni è un dato su cui riflettere.

Pur di non rinunciare all’ideologia della malattia, gli psichiatri giungono ad ignorare quella vix medicatrix naturae che ha il pregio di essere ovvia. Patetica vix, se si vuole: ma non priva di senso. Se la paranoia, non rafforzata da interventi irrazionali, tende a spegnersi con l’età, ciò significa che essa, nonché una malattia, è una funzione di bisogni che tendono ad organizzarsi naturalmente con il tempo. La ‘malattia, insomma, si spegne quando essa non ha più senso sotto il profilo funzionale: ma questo, per quanto tristemente, ce ne restituisce il senso radicalmente umano.

 

Da SEMINARI 1983 – 1984

Disagio psichico e contesto sociale. La famiglia

MICROSTORIE


1. Piccolo mondo antico

A 16 anni, Maria comincia a lavarsi troppo frequentemente le mani e a dedicarsi alla casa con un’attività quasi frenetica. I suoi rilevano la stranezza di questo comportamento, e vi si oppongono. Maria si ritira nella sua camera, vietando l’accesso ai suoi, e si dedica ad estenuanti rituali. Ogni giorno deve sistemare gli armadi ed i cassetti, esplorare con cura la biancheria ed i capi di abbigliamento alla ricerca di invisibili imperfezioni cui porre rimedio. Gli animali di peluche, presenti in gran numero, vanno puliti e pettinati. La finestra deve rimanere perennemente chiusa per evitare che entri polvere. I rituali ingombrano gran parte del giorno. Solo sul far sera, se tutto è sistemato, Maria sperimenta un po’ di pace. Che viene compromessa, poi, dall’insonnia, dagli incubi e dai sogni, tutti incentrati su fantasie di fuga e di persecuzione, di trasgressione morale e sociale, di vita disordinata. Al mattino, il letto sfatto come un campo di battaglia ripropone la necessità di un ordine da ricomporre sul registro dell’espiazione.

Maria definisce il proprio modo di vivere con il termine di "schiavitù". I rituali le impongono un ruolo da donna di casa contro cui si è sempre ribellata. Fin dai primi anni dell’adolescenza, sognava di allontanarsi dall’ambiente familiare e di costruirsi una sua vita. Rifiutava, per principio, il matrimonio. Voleva sentirsi libera, e, dal suo punto di vista, essere libera significava per lei vivere affrancandosi dall’ipocrisia del perbenismo. Non è un caso che, le rare volte che esce, frequenta drogati, emarginati, spostati: in essi intuisce la ribellione ch’essa stessa nutre nei confronti della società.

Entrambi di origine contadina, i genitori di Maria, dopo sposati, hanno abbandonato la campagna per trasferirsi in una cittadina già avviata, sul finire degli anni ’50, verso un boom economico. Entrambi erano desiderosi di liberarsi dal giogo della famiglia patriarcale. La nuclearizzazione della famiglia ha imposto una rigida distribuzione di ruoli: il padre doveva lavorare dalla mattina alla sera, la madre stare in casa. La nascita dei figli è risultata, per quest'ultima, una trappola. Ha tirato avanti per alcuni anni, perché i figli piccoli non le concedevano scampo: ma la sua ribellione si è manifestata nei confronti dei lavori domestici, trascurati o fatti malvolentieri.

Il padre ha preso ben presto coscienza del problema, giungendo a giudicare la moglie come una donna ‘non portata per la casa’. La sofferenza per la precarietà della situazione lo ha indotto a rivolgere le sue attenzioni a Maria, nell’intento di avviarla ad essere una ‘brava’ donnina. In pratica, fin da bambina, l’ha letteralmente terrorizzata con messaggi incentrati sull’ordine e la pulizia personale. Il fratello di Maria, a 5 anni, è stato affidato ai nonni paterni, ed è cresciuto con essi. La madre ha risolto il problema del sentirsi chiusa in trappola, andando a lavorare ogni giorno in campagna con i suoi. Maria, da 4 anni in poi, èrimasta affidata alla bontà dei vicini che le davano uno sguardo. Il padre rientrava a casa alle sette di sera, e doveva dedicarsi alla cena; la madre rientrava tra le otto e le nove. Maria ha trascorso l’infanzia nella paura dell’abbandono della madre, la cui ansia claustrofobica non poteva comprendere, e la paura del ritorno del padre, la cui severità la terrorizzava. A 9 anni, nella fantasia, già si vedeva grande, libera e padrona di sé, lontana dalla casa e dall’ambiente di paese. Ma verso quale mondo si proiettava?

L’ideologia della famiglia di Maria muove dal rifiuto di due mondi: il mondo patriarcale contadino, nel quale la solidarietà del gruppo è pagata al prezzo di una mortificazione gerarchica dei bisogni individuali, e il mondo capitalistico nel quale si trovano a vivere come pesci fuori d’acqua. Dal ’50 in poi la cittadina dove risiedono va incontro infatti a un boom, che travolge tutti i valori tradizionali e induce un cambiamento di mentalità e di costume clamoroso. La ricchezza scorre a fiumi, e, non trovando un’attrezzatura socioculturale atta a valorizzarla, si traduce in uno sfrenato consumismo, orientato verso beni socialmente esibibili: la casa, la macchina, l’abbigliamento. Con il consumismo, affiorano i problemi consueti: crisi familiari e separazioni, figli che, per essere stati ‘viziati’,finiscono male, traffici più o meno leciti, la piccola criminalità che si gonfia nel corso degli anni, la liberazione sessuale e, dalla metà degli anni ’70, la droga.

La famiglia di Maria, che vive di un solo stipendio, fuggita dal passato, si trova fuori gioco nel presente. Non è un caso che la madre esprima le sue ansie di libertà tornando a lavorare nei campi, e che il padre assuma un atteggiamento conservatore e incentrato sui valori che sembrano minacciati: il dovere, l’onestà, la morigeratezza, ecc. In un certo senso, entrambi soffrono di nostalgia, ma con connotazioni diverse: la madre rifugge dalla trappola della famiglia nucleare, il padre vede in questa trappola la possibilità di arginare la corruzione sociale.

E Maria?

Maria, con la sua struttura psicopatologica, esprime un’utopia singolare: l’essere schiava della tradizione, e, nel contempo, proiettarsi verso un mondo di libertà che dissacri i miti ipocriti della società in cui vive. Essa disprezza il denaro, le formalità, le regole del buon vivere borghese: si identifica con gli emarginati, i drogati, gli spostati. Fugge dal passato e dal mondo così com’è: ma l’utopia verso la quale tende è troppo radicale rispetto ai suoi bisogni morali. I sensi di colpa, che la obbligano ad espiare, sono l’indice di questo scarto tra ciò che essa può essere e ciò che pretende di essere. Ciò che pretende, infatti, non è solo l’espressione di un desiderio di libertà, bensì anche di un desiderio vendicativo rispetto alla famiglia. Quando si sente schiacciata dal peso della schiavitù, Maria urla la sua rabbia, dicendo che andrà via di casa e si darà alla ‘bella vita’. Per questa via, non potrà mai liberarsi.

 
3. L’altra vergogna

A 26 anni, Piera, insegnante in una scuola elementare, dopo che il padre, vedovo da tre anni, si è risposato andando a vivere in un’altra casa, compie una scelta di vita che sembra concludere un itinerario umano e spirituale coerente: decide, su consiglio di un sacerdote, di rinunciare ad ogni progetto mondano, e di dedicarsi all’insegnamento e all’apostolato laico. La sua fede è profonda, ma niente affatto bigotta: da sempre, il cristianesimo di Piera è comunitario e dissenziente. Ad un anno da questa scelta, Piera comincia a star male: il suo rendimento di insegnante, che è stato sempre eccellente, diminuisce, fino al punto di indurre un atteggiamento di esitamento fobico nei confronti della scuola. Non riesce a stare sola in casa, perché ha paura di star male, sia fisicamente che psicologicamente. Ma non riesce neppure a stare in compagnia, perché il bisogno che avverte degli altri si traduce in un vissuto di intrappolamento, che induce la fuga. Scopre, infine, che la presenza accanto a lei di un qualunque uomo, compresi i sacerdoti che frequenta, anima fantasie di seduzione che la costringono a tenere gli occhi bassi. I sogni assumono connotazioni sempre più sfrenate sul versante erotico. Piera giunge ben presto alla convinzione d’essere, nel suo intimo, una donna di facili costumi, e di aver costruito, a partire da questo, un ruolo sociale che è nulla più che una maschera. Questa convinzione finisce con il paralizzarla in casa, in una dimensione di angoscia carica si sensi di colpa e sottesa dell’aspettativa di una severa punizione: la morte, la follia, il ricovero in casa di cura.

La struttura psicopatologica è, ancora una volta, una struttura ossessivo-fobica, che affiora in virtù della scelta di vita che Piera opera dopo l’abbandono del padre: una scelta consapevolmente ascetica. Il misconoscimento di bisogni relazionali affettivi ed erotici ancora vivi produce l’affiorare delle paure: per un verso, la paura della solitudine e, per l’altro, la paura dell’intrappolamento sociale. L’animarsi di queste paure, che, entrambe, mettono in moto fantasie erotiche, produce infine la scoperta da parte di Piera del suo "io vero" - un io immorale e incoercibile - in rapporto al quale tutti gli sforzi di Piera di costruirsi una personalità integrata, ispirata ai valori cristiani, risultano semplicemente stratagemmi e finzioni.

I genitori di Piera, entrambi credenti e praticanti, appartengono alla fascia sociale della piccola borghesia del dopoguerra: una classe che porta ancora dentro la vergogna di una recente miseria, e si ritrova a vivere una condizione non meno misera economicamente. La famiglia si mantiene con lo stipendio del padre, che è bidello. La rispettabilità non estingue i fantasmi della miseria: si tira avanti, dopo la nascita delle due figlie, giorno per giorno, sotto l’incubo dell’esaurirsi dello stipendio, e il dover elemosinare il credito dei fornitori nell’ultima decade del mese. Quest’angoscia è ideologizzata in virtù di una fede religiosa profondamente partecipata, che comporta l’accettazione della vita come una prova, necessariamente penosa.

Ben presto, Piera aderisce all’ottica del sacrificio: è una bambina graziosa, portata per lo studio, che non chiede mai nulla. Si sente precocemente un peso per i suoi, e cerca di sdebitarsi come può: lavorando in casa come una ‘donnina’.

La mentalità familiare incentrata sulla concezione della vita come dovere, si riflette nello stile dei rapporti interpersonali. C’è amore, e si sente, ma in pratica non viene espresso. Si rifugge dalle carezze, dalle tenerezze, dai baci. Ci si impone una rigidità, il cui fine è quello di tenere in vita un modello di dover essere forte, indipendente, privo di bisogni, immune da debolezze. L’obiettivo di Piera è uno solo: crescere, conseguire un diploma, lavorare e diventare autonoma. Questo è quanto essa deve alla famiglia, per i sacrifici che la sua esistenza ha imposto ai suoi. Quell’obiettivo impone di non concedersi nulla che non sia finalizzato al suo perseguimento. L’adolescenza di Piera è immune da squilibri sentimentali, anche perché, con il suo avvento, la fede si personalizza e si orienta verso la donazione totale di sé e agli altri. Ogni bisogno egocentrico e personale è vissuto come una colpa, come un’espressione di gretto egoismo.

La rinuncia a sé, già iscritta nella mentalità familiare, diventa per Piera un’atto d’amore infinito nei confronti dell’umanità, da cui ricava una soddisfazione che inebria.

Ma quando essa vuole ratificarlo come scelta definitiva di vita, sacrificando ogni affetto personale, e proprio quando il padre, risposandosi, rivela un sorprendente realismo, Piera si avvia nel tunnel del disagio. Nonché mortificare i suoi bisogni relazionali ancora vivi, quella scelta infatti porta alle estreme conseguenze una conciliazione della vita che Piera ha ricavato dall’ideologia familiare, ma che ha radicalizzato, fino a dare ad essa un significato tanto elevato quanto violento nei suoi confronti.

L’ascetismo cui si vota Piera non ha alcunché di cupo o di tenebroso. Esso coincide con il dare alla vita il significato positivo di un servizio a favore degli altri. Piera è una donna vivace, socievole, amante della socialità: rappresenta il punto di riferimento dei ragazzi e delle ragazze della parrocchia che hanno problemi.

Non ha un atteggiamento repressivo né conservatore riguardo l’amore e la sessualità. La sua utopia consiste nel pensare che l’affettività possa essere totalmente convertita in amore spirituale, in donazione di sé, e nel negare che essa comporti anche il bisogno di ricevere concretamente conferme di amore. E’ evidente che si tratta di un atteggiamento difensivo nei confronti di bisogni fin troppo intensi, ch’essa vive come una trappola della libertà. Tant’è che l’utopia dell’amore spirituale si converte, in virtù del disagio, in un’utopia di segno opposto, quella dell’amore libero.

Dopo aver provato quella del bisogno e della miseria, Piera, insomma, è caduta preda, nel corso della vita, di un'altra vergogna: quella dell’indipendenza, che si può realizzare o assumendo nei confronti degli altri il ruolo di chi dà senza ricevere, perché non ne ha bisogno, o mortificando la qualità legante degli affetti in virtù di un eroismo sfrenato e senza regole. Mirando troppo in alto, sotto la spinta dell’ideologia familiare, si è trovata insomma a scoprire, dentro di sé, la paurosa possibilità di precipitare nella vertigine della perdizione. Ma sia l’ascesa che la caduta risultano complementari nel negare entrambi il bisogno relazionale, inteso come una debolezza. E’alla luce di questo vissuto, infatti, che Piera ha interpretato, sin da bambina, quel bisogno, come se fosse un peso vergognoso che si aggiungeva al suo essere di peso come bocca da sfamare. Ed è ancora quel vissuto che perseguita da adulta, se è vero che, per non riconoscerlo come un suo bisogno, Piera deve votarsi al disagio psichico.

 
5. La cruna dell’ago

A 18 anni Patrizia si trasferisce dalla gabbia d’orata della villa familiare in un appartamento di Campo dè Fiori per vivere la sua vita. Si immerge sconsideratamente, data la sua sostanziale ingenuità, in un mondo turbolento ed equivoco il cui denominatore comune è la droga. La usa essa stessa, ma accertatine gli effetti devastanti, si lancia in una crociata contro i trafficanti, che denuncia al commissariato. Si trova ben presto intrappolata in un vissuto persecutorio su due fronti: per un verso, essa teme che i trafficanti vogliano sopprimerla, per un altro, si sente controllata dalla polizia che, seguendola, pensa di potersi infiltrare nel ‘giro’. La libertà personale, desiderata da anni, è, dunque, perduta. Patrizia ha solo due possibilità: vivere sotto controllo, in una paura perpetua o tornare a casa dai suoi, denunciando lo scacco della liberazione. Ne inventa, inconsapevolmente, una terza: sfidare la paura, insistendo, nonostante le minacce, a vivere nella libertà. Ciò è possibile solo in virtù di uno stato di eccitamento, che la rende temeraria, protestataria ed aggressiva, ma che ben presto induce un ricovero in una clinica privata. Quando ne esce rifiuta di tornare a casa dei suoi, ma intuisce di non poter reggere da sola il rapporto con il mondo. Si accoppia con un’amica more uxorio. La scelta non è casuale: l’amica, studentessa in medicina, ha una personalità rigida ed efficiente. Patrizia accetta di esser controllata in virtù dell’amore che le lega, e regredisce in una dipendenza totale.

Il legame restaura e mantiene un equilibrio che, altrimenti, sarebbe compromesso, ma ovviamente, mortifica i bisogni di autonomia di Patrizia. La quale comincia a vivere ciclicamente: per lunghi periodi è depressa, si lascia andare, pesa come un corpo morto sull’amica, manifesta una possessività totale, rifiuta ogni apertura sociale.

Quando la dipendenza giunge ad un certo livello, e diventa intollerabile, l’amica la sollecita a cambiare minacciandola di abbandono. Patrizia reagisce a questa minaccia uscendo dal guscio con crisi di eccitamento che la catapultano in lunghi viaggi, alla ricerca di un mondo che non sia ostile né pauroso. Di solito, viene fermata, ricoverata in ospedale psichiatrico e rinviata in Italia, in stato di delirio persecutorio. La famiglia la ospita per qualche tempo curandola, poi Patrizia torna a vivere con l’amica, che le è sinceramente affezionata, e il ciclo si ripete.

La struttura dell’esperienza di Patrizia, al di là del livello clinico, riconosce due bisogni la cui esasperazione conflittuale ne definisce il carattere persecutorio. Per un verso, infatti, essa comporta un bisogno di dipendenza, di protezione e di controllo marcato: ma, nella misura in cui Patrizia, nel rapporto con l’amica, si abbandona ad esso, giunge a sentirlo come persecutorio poiché la espone alla minaccia dell’abbandono. Per un altro verso il bisogno di indipendenza, nella misura in cui si attiva per effetto di quella minaccia, sembra non potersi realizzare che in virtù di una esposizione sconsiderata al mondo, che ben presto giunge a configurarsi come un rischio che anima valenze persecutorie, il cui significato è di tenere sotto controllo una libertà assolutamente sregolata.

Il problema che pone questa struttura è di capire cos’è che impedisce a Patrizia di mediare i bisogni che essa esprime, spingendola a tentare di realizzarli solo sul registro dell’estremismo.

Patrizia è la terza di quattro fratelli di una famiglia nata dalla confluenza di due stirpi nobiliari prestigiose. Eredi entrambi di una fortuna considerevole, i genitori, profondamente cristiani, hanno sempre vissuto questo privilegio come una colpa di cui rendere conto al mondo.

Si sono dedicati a corpo morto ad opere di beneficenza, affidando i figli ad uno stuolo di balie, governanti ed assistenti. Il loro impegno educativo è consistito nel tentare di instillare nei figli la loro stessa visione del mondo, incentrata sul misconoscimento dei bisogni personali a vantaggio di una completa dedizione agli altri. Purtroppo, quel misconoscimento ha minato alle radici il rapporto con i figli. Tutti confessano di essersi sentiti abbandonati nell’infanzia: i tre maschi hanno reagito con un atteggiamento rivendicativo che, da adulti, li obbliga a dipendere dalla famiglia. Nessuno di essi ha raggiunto l’autonomia sociale ed economica, realizzando la figura, penosa per i genitori, dei fannulloni. Patrizia ha reagito all’abbandono chiudendosi precocemente nella disperazione:fin dall’età di 8 anni meditava propositi di suicidio. Era, in particolare, gelosissima dello zelo che la madre profondeva nell’assistenza ai bambini handicappati. L’adolescenza ha indotto un tentativo di avvicinamento ai genitori sotto forma di partecipazione religiosa: ma questo - Patrizia lo ha constatato ben pesto - non produceva altro effetto che di incrementare le sollecitazioni ad una vita dedicata agli altri. A 17 anni, il progetto di vita si modifica: Patrizia, per scampare al suicidio, pensa di doversi allontanare dalla famiglia e di doversi spogliare dalle istanze religiose. Il cambiamento, che si realizza a 18 anni, è troppo brusco: uscita dalla gabbia dorata Patrizia si immerge in un ambienteequivoco, abbandonandosi ad esperienze trasgressive di ogni genere, dall’esercizio di una sessualità libera all’uso delle droghe. Il progetto di vita, nonché realizzare la sua libertà, è inconsapevolmente vendicativo nei confronti della famiglia, e realizza il modello opposto – egoistico, narcisistico e incentrato sul principio di piacere - rispetto a quello proposto.

Il delirio persecutorio si incarica di frenare una degradazione autodistruttiva, e Patrizia ha il ‘buon senso’ di inventarsi una soluzione - il rapporto con l’amica - che la affranca sia dal rientro in famiglia sia da una libertà che non riesce ad amministrare. Ma non può impedirsi di reiterare una dinamica che è, al tempo stesso, rivendicativa rispetto all’abbandono e vendicativa rispetto ai tentativi dell’amica di correggere il suo atteggiamento passivo, il suo far niente.

Da SEMINARI 1984 -1985

PRASSI TERAPEUTICA DIALETTICA

La gaia apocalisse

 
 1) Sestilia

Ha 54 anni, e vive in una cittadina delle Marche con il marito e una figlia, studentessa di lingue.

La storia ‘clinica’ comincia a 40 anni: dopo aver subito un’isterectomia totale, Sestilia comincia a sentirsi debole e inadeguata, non più all’altezza dei suoi doveri. Sul piano comportamentale, questo vissuto non ha un riscontro obiettivo: secondo i parenti, ha continuato a fare tutto come prima. Troppo, anzi.

Sestilia, da sempre, è totalmente "schiava" dei ruoli domestici: dalla mattina alla sera non si concede un attimo di tregua. Tranne che per fare la spesa e andare in chiesa, non esce di casa per non perdere tempo. Da anni, non compera vestiti nuovi, non va dal parrucchiere, rifiuta le vacanze. Quasi annualmente, va incontro ad episodi di depressione caratterizzati dall’insonnia e dalla perdita di appetito: ma anche in questi periodi, nonostante la sofferenza le si legga in viso, non viene meno ai suoi doveri. Al ciel sereno, nell’81, tenta il suicidio gettandosi in mare. Soccorsa e salvata, non riesce a motivare in alcun modo il suo gesto. Riprendere a vivere come sempre, con il rimorso di aver disonorato la famiglia e con un’insonnia cronicizzata: si sveglia alle quattro pensando a come poter far fronte alle incombenze del nuovo giorno. Alle 7, quando si alza dal letto, è già logorata dall’ansia di non riuscire a fare tutto ciò che deve. Nel febbraio dell’84 tenta di nuovo il suicidio in mare. Salvata ancora una volta, riesce appena a dire che aveva la testa confusa e non si raccapezza più. Prima di gettarsi in mare, ha preparato il pranzo per il marito e la figlia.

Sestilia è una donna mite, taciturna, che si vergogna dei fastidi arrecati alla famiglia. Il suo livello di coscienza riguardo alla situazione è incentrato sull'essere inadeguata ai lavori domestici e, di conseguenza, inutile e di peso. La domanda terapeutica è ovvia: Sestilia chiede una cura ricostituente, che le restituisca le energie per fare ciò che deve. Ma, dato che il suo senso del dovere è illimitato, è chiaro che il suo progetto di guarigione è "suicida": postula, infatti, che sia rimessa in moto una macchina distruttiva che, sollecitando Sestilia a fare di più, finisce con l’indurre la disperazione. L’apparente soddisfazione con cui Sestilia ha vissuto e vive il suo ruolo ha indotto nei familiari un atteggiamento di passiva cecità sul dramma che si è svolto sotto i loro occhi.

Grazie al sacrificio di Sestilia, entrambi sono affrancati da qualsiasi responsabilità: il marito, che svolge al mattino un’attività lavorativa tutt’altro che faticosa, in casa, secondo le sue stesse parole, vive come un pascià; la figlia studia con profitto e si gode la vita (viaggia spesso all’estero, frequenta gli amici, ecc.). entrambi rimproverano a Sestilia di lavorare troppo, ma esitano ad aiutarla, poiché, le rare volte che hanno tentato, Sestilia ne ha tratto spunto per confermare la sua inutilità e il suo essere di peso.

La ricostruzione microstorica permette di comprendere agevolmente la struttura dell’esperienza di Sestilia. Prima di cinque figli di una misera famiglia contadina tipicamente patriarcale, essa ha visto la madre morire di stenti (in un tubercolosario) e si è precocemente dovuta assumere il suo ruolo. Delle sorelle che ha allevato, mortificando se stessa (ha frequentato appena la seconda elementare), una è finita "male": a 14 anni ha cominciato a sbandare, e a 17 anni è partita per Milano, dove ha praticato la prostituzione. Il padre pare che sia morto di ‘crepacuore’ per una vicenda, che ha disonorata la famiglia agli occhi del paese. Sestilia se ne è fatta una colpa da espiare: il suo modo di essere totalmente sacrificale è orientato a riscattare il nome della famiglia di fronte all’implacabile tribunale della sua coscienza e del mondo. La rabbia per un’esistenza chiusa ad ogni piacere è affiorata, oltre che negli acting-out suicidi, nei periodi di depressione, allorché Sestilia, preda di un vero e proprio affaccendamento ansioso, commette degli errori clamorosi nella gestione domestica: brucia la roba sul fuoco, mette il sale due volte sui cibi, lascia il ferro da stiro acceso sulla camicia, programma male la lavatrice logorando il carico, ecc.

L’intervento dialettico in questo caso ha un obiettivo univoco: far affiorare la sofferenza sottesa all’esperienza di Sestilia, restituendola alla sua coscienza e a quella dei familiari, e indurre, in virtù di questo, la consapevolezza del significato ‘suicida’ del progetto di guarigione e del significato correttivo degli episodi di depressione. E’, in breve, il negativo, così come appare agli occhi di Sestilia, - la sua inadeguatezza, la sua stanchezza, la muta ribellione alla schiavitù -, che va trasformata in positivo: in un cambiamento che l’affranchi dall’espiare colpe che non ha, e le conceda di godersi i meriti che ha accumulato sul conto di una vita totalmente dedita agli altri. Quel negativo, infatti, è null’altro che la rivendicazione d’un bisogno di individuazione, di un diritto a vivere frustrato prima dalle circostanze ambientali e, poi, dall’esigenza maturata in Sestilia, in conseguenza della ribellione della sorella e della sua stessa ribellione inconscia, di vivere espiando, pagando l’interminabile debito contratto con il mondo.

La ‘mostruosità’ dell’esperienza di Sestilia è così evidente che basta poco a farla entrare nel campo di coscienza suo e dei familiari. Nel suo intimo, dall’epoca dell’isterectomia, Sestilia si è chiesta infinite volte che cosa si fosse goduta dalla vita, perché il destino l’avesse fatta nascere donna, che senso avesse il suo perpetuo affanno per un’impresa in fondo banale: gestire una casa e una famiglia. Ha visto avvenire, nel corso degli anni, dei cambiamenti sociali: le donne del paese e le sue sorelle (quelle ‘buone’) non vivono come lei. La figlia stessa, con una dedizione allo studio non compromessa da un modo di vivere esuberante e gioioso, le pone sotto gli occhi una possibilità che Sestilia riteneva inesistente. Confessa che, prima che s'0inaugurino le depressioni, prova disgusto per le cose che fa: ma ha sempre reagito imponendosele in maniera più rigida. Sogna anche, ricorrentemente, la sorella ‘perduta’ che si è sposata, ha due figli e gestisce una profumeria, e la vede serena e felice, senza rimorsi. Quanto ai parenti, occorre ancora meno a fargli vedere ciò che essi sanno: Sestilia vive come un robot, sacrificandosi per loro; erogando servizi da cui traggono vantaggio ma che li colpevolizzano. Il marito, quando riposa il pomeriggio e sente la moglie trafficare per casa si sente un ‘verme’. Ogni qualvolta deve allontanarsi di casa per una gita o un viaggio, la figlia evita di guardare negli occhi la madre, per il timore di leggere nel suo sguardo un muto rimprovero, che, però, ormai sente incombere dentro di sé.

Il problema è dunque chiaro: occorre arrestare una macchina implacabilmente programmata dal senso del dovere, che, senza controllo, potrebbe votare tutti alla catastrofe. Scoperto il ‘persecutore’ in un modello di normalità la cui realizzazione comporta, come estrema ribellione e vendetta, la morte, non occorre alcuna prescrizione.

Gli uomini sanno lavorare sui problemi quando riescono a vederli e a viverli dialetticamente.

 
 2) Irma

Ha 56 anni, vive con il marito e una figlia laureata in medicina. Un’altra figlia è sposata e ha un bambino di due anni. La storia ‘clinica’ comincia a 26 anni, poco dopo il matrimonio. Irma vive con i suoceri. Una mattina, alle 6, mentre sta sfaccendando in cucina, il suocere l’abbraccia: dopo un moto di ribellione, Irma si abbandona e si lascia baciare. Cade successivamente in una depressione profonda, che, al di là della colpa recente, rievoca una serie interminabile di colpe passate. Ricoverata e trattata con ES, Irma è diagnosticata affetta da una psicosi ossessiva con elementi deliranti. La psicosi ossessiva è funzionale ai ruoli domestici: Irma è una casalinga perfetta, per quanto scrupolosissima ed eccessiva nelle pulizie, una moglie servile, costantemente impegnata a soddisfare i bisogni del marito prima che siano espressi, una madre iperprotettiva, assillata dai pericoli delle malattie infettive. Vive in casa come un essere senza bisogni, continuamente assillata nel suo intimo dagli scrupoli. Periodicamente, ogni due-tre anni, sviluppa degli episodi depressivi con un delirio di colpa che la induce a sentirsi infetta, mostruosa e diabolica: viene ricoverata e trattata con psicofarmaci ed ES.

L’ultimo episodio, inauguratosi a 55 anni, appare particolarmente serio: tra l’altro, per la prima volta, Irma rifiuta il ricovero, poiché è certa che il cervello le si va disfacendo e che, di conseguenza, non c’è più nulla da fare. Accetta di buon grado un contatto terapeutico, dopo essersi assicurata che nulla sarà fatto o deciso contro la sua volontà.

Il comportamento di Irma è tipico delle donne schiave dei loro ruoli domestici, che si ribellano accrescendo il peso delle catene sino a renderlo insostenibile.

Dall’efficienza consueta, eccessiva e scrupolosa, essa è passata all’affaccendamento ansioso e improduttivo, finendo con l’ingabbiarsi in una serie di rituali inerenti l’igiene che le impediscono di fare qualunque altra cosa che non sia pulire il proprio corpo. Trascorre gran parte del giorno al bagno impegnata in interminabili abluzioni purificatiorie. Trascura, insomma, tutto e tutti, pensando solo a se stessa. Oltre a non fornire più le consuete prestazioni domestiche, essa è anche di peso ai suoi: non può più stare sola un attimo, e impegna di continuo il marito e le figlie nella ricostruzione dettagliata e ossessiva di episodi recenti banali, sostenendo che è un suo bisogno capire con assoluta precisione come sono andate le cose. Tutto ciò la fa sentire perpetuamente in colpa. Ma i vissuti, ch’essa ritiene inconfessabili, sono fonte di una sofferenza ancora maggiore. E’ certa di essere colpevole del tentato suicidio della madre, ha continue fantasie distruttive - di squarciamento, di sbranamento e cottura a fuoco - rivolta al nipotini, ed è perennemente agitata da scene sessuali che sembrano irrispettose di ogni principio morale, la più ricorrente tra le quali è un’orribile violenza perpetrata su bambini di tenerissima età. Questo scatenamento interiore di mostruosità giustifica il proposito di lanciarsi dalla finestra, per liberare l’umanità da un essere abominevole.

In una situazione tanto grave, l’intervento dialettico non sembra avere molte possibilità di saldare lo scarto tra il livello di coscienza e la storia reale del soggetto. Ma c’è un elemento sul quale si può impostare l’intervento: i comportamenti quotidiani esprimono una ribellione totale ma passiva ai ruoli domestici, mentre i vissuti altresì sembrano dar sfogo ad una rabbia incontrollata e distruttiva contro i legami affettivi più teneri ed i principi morali più sacri.

Nel complesso, l’esperienza di Irma è sottesa da una rabbia la cui mostruosità può essere dovuta al fatto di averla perpetuamente soffocata. Tutta la ricostruzione microstorica, che muove dal ritenersi Irma una persona docile, quieta e laboriosa invasata dal demonio, mira a restituirle coscienza delle ragioni della sua rabbia. La vita, infatti, l’ha giocata due volte. La prima, facendola nascere con un ardente desiderio di studiare in un ambiente misero socialmente: miseria aggravata dalla cronica malattia mentale della madre, esitata nel tentativo di suicidio e in un ricovero definitivo in O.P, che ha obbligato la figlia ad assumersi precocemente la responsabilità della gestione domestica e Irma ad abbandonare gli studi per lavorare (ciononostante, Irma si rimproveri di aver fatto troppo poco per la madre9. la seconda facendola fidanzare con un giovane di famiglia agiata e quindi imparentandola, dopo 8 anni di fidanzamento apertamente contrastato dai suoceri, nel ruolo di ‘miserabile’. Acquisito il quale, Irma, per un debito di gratitudine nei confronti del marito, che le ha permesso di affrancarsi dalla miseria originaria, ha cominciato a vivere come schiava, assillata da pensiero di non fare mai abbastanza in cambio del privilegio a lei concesso. In questa dimensione sacrificale, Irma si è calata tanto bene da ingannare tutti, compresa se stessa. Essa afferma di non aver mai avvertito altri bisogni, oltre a quello di amministrare la casa e di accudire il marito e le figlie. E’ smentita dalle crisi depressive periodiche, e dai rancori che, lentamente, affiorano nei confronti del marito, che si è concesso ogni libertà e non l’ha mai portata una domenica fuori, e della figlia sposata, la quale, anni addietro, ha portato in casa il fidanzato, imponendole di fare pranzo e cena per quattro persone, e concedendosi dei rapporti nella sua camera.

E’ in conseguenza di queste ‘schifezze’, delle quali trovava tracce dappertutto, che Irma è caduta in crisi. A distanza di tempo, è questo ricordo di un disordine irrispettoso dei suoi principi che la induce, senza sapere, a rifiutare il nipotino, che è il frutto di quell’unione. Da qualche anno, infine, il marito si astiene dall’aver contatti con lei: e Irma, che non ha mai osato chiederne la ragione, è convinta che questa sia la giusta punizione per le uniche colpe da lei commesse, ricorrenti fantasie oniriche di tradimento.

Lentamente, nonostante interagisca con la ricostruzione della sua vita producendo fantasie sessuali e distruttive sempre più mostruose, quasi a sancire la sua radicale negatività, Irma prende coscienza che le circostanze ambientali prima e il suo sentirsi in debito con il marito poi l’hanno mortificata, inducendola a rinunciare, a frustrare e a negare i suoi bisogni. il ruolo di schiava felice di esserlo è stato mantenuto dalla negatività che essa si attribuisce. La quale, invece, contiene ancora la pressione dei bisogni, il desiderio di godersi la vita e la necessità di allentare i legami nella misura in cui essi comportano una totale dedizione agli altri. Dopo aver raggiunto un’intensità estrema, le fantasie morbose si allentano. E, al loro posto, affiorano gli umani bisogni che Irma ha sacrificato sull’altare dell’espiazione: la lettura dei libri e una curiosità culturale ancora viva, andare al cinema e al teatro, girare da sola per una città nella quale vive da 30 anni ma che, in pratica, non conosce, curare se stessa, il corpo, l’abbigliamento, esigere dal marito qualche tenerezza, ecc. nulla di trascendentale: il diavolo - è la conclusione cui si giunge insieme - è sempre meno brutto di come si pensa…

 
 3) Luisa

Ha 58 anni, un marito pensionato e due figlie sposate. A 20 anni contemporaneamente si è sposata e ha cominciato a lavorare come infermiera in O.P. Il suo titolo di merito, sia a livello familiare che lavorativo, consiste nell’aver tirato il carro come una bestia da soma. Ha accudito la casa e il marito, ha allevato le figlie, si è sempre assoggettata al potere delle suore-caposala, non si è mai concessa alcun piacere. Ha pagato un prezzo incredibile senza sapere, subendo, nel corso di due decenni, una serie incredibile d'interventi chirurgici per malattie alcune delle quali sicuramente psicosomatiche: ulcere duodenali, ernie addominali, emorragie intestinali, coliche epatiche e sine materia, prolassi uterini, ecc. Più volte, in occasione degli interventi, sembrava sul punto di finire: ma si è sempre ripresa sorprendendo i medici, e tornando al più presto al lavoro. Indipendentemente dagli interventi chirurgici, la sua vita è stata un perpetuo dolore: emicranie, dolori mestruali, dolori artrosici, attacchi addominali. Nessuno in famiglia ha sentito Luisa lamentarsi: la sua fama di donna forte, capace di affrontare qualunque difficoltà, e mai soddisfatta di sé è diventata proverbiale. E’ inutile aggiungere la particolare dedizione - al limite, secondo i suoi, della mania - con cui si applicava alle pulizie di casa. Andata in pensione a 50 anni, Luisa, per riempire il vuoto lasciato dal lavoro, ha allevato i nipoti, affrancando le figlie da qualunque peso. Una di queste, con il marito, consumava i pasti a casa sua. A 56 anni, Luisa subisce un’emorragia retinica. Rimane impietrita dalla paura di diventare cieca. Nel corso di alcuni consulenze oculistiche, coglie nelle parole dei medici allusioni ad una malattia delle arterie che progredirà inesorabilmente. Alla paura della cecità si aggiunge quella dell’indementimento arteriosclerotico, che evoca i ricordi delle vecchie dell’ospedale psichiatrico. Nell’immediato, Luisa sembra reggere bene anche questa prova. Ma, per la prima volta, i familiari registrano dalla sua voce dei messaggi di preoccupazioni: Luisa afferma che si sta avvicinando una catastrofe, che è destinata a finir cieca e a morire senza aver goduto nulla della vita. Paradossalmente, è come se aprisse gli occhi per la prima volta al mondo, e si accorgesse di aver vissuto solo per gli altri, svuotandosi in nome di una causa di cui le sfugge il senso. Le conseguenze di questa crisi sono ovvie: Luisa si abbandona ad un'inerzia assoluta sconvolta da un pianto perpetuo, perde ogni efficienza domestica, rifiuta di continuare ad accudire i nipoti, nei cui confronti avverte una profonda avversione, passa le notti insonni immersa in una ruminazione catastrofica, rifiuta di uscire di casa per la vergogna di mostrarsi ‘così ridotta’ agli occhi di coloro che la conoscono. Nonostante una profonda fede religiosa, il pensiero di farla finita precipitandosi dalla finestra la ossessiona perpetuamente. Il suo livello di coscienza non va al di là di una malattia irreversibile.

L’intervento dialettico, in questo caso, è facilitato dai vissuti affiorati nel lungo anno durante il quale Luisa, anticipando il crollo nella depressione, ha fatto il bilancio della sua vita, cogliendone il senso totalmente sacrificale. Valorizzando quelli, non è difficile restituire alla crisi il suo significato di brusco e radicale cambiamento di un regime di vita intollerabile, al quale Luisa si è assoggettata troppo a lungo. Il cambiamento si è tradotto in depressione perché, altamente colpevolizzato, è stato vissuto come se significasse un venir meno a tutti i doveri.

A partire da questo, è agevole porre in discussione la domanda di guarigione di Luisa che, benché convinta di non aver scampo, vuole tornare "quella di prima", e orientarla a comprendere che il suo modo di essere precedente non va ripristinato ma neppure rinnegato: va integrato con un’attenzione per i bisogni degli altri che non giunga a mortificare i suoi. Ma quali, se essa non ne ha conosciuti altri che non fossero i doveri? E le rinunce, i sacrifici cui si è sottoposta non alludevano a bisogni da mortificare? E’ tardi per recuperare il tempo perduto: non ancora, forse, per salvare il salvabile.

 
4) Anita

Ha 63 anni, vive con il marito pensionato, e ha due figli sposati. Fino a 36 anni è stata una donna perfetta: ‘maniaca’, secondo il marito, per le pulizie e l’ordine. Ogni giorno, immancabilmente, lavava i pavimenti, svuotava gli armadi, tirava a lucido le piastrelle della cucina e del bagno. A 36 anni comunica al marito che un inquilino del palazzo di fronte, dalla finestra, le fa continuamente delle proposte oscene. Il marito, con una violenta litigata, lava l’onta subita. Ma ben presto i provocatori diventano una torma inafferrabile. Comincia così una lunga serie di ricoveri in cliniche private, ove si tenta di tutto (elettroshock e psicofarmaci) per far rinsavire Anita. La quale, invece, regredisce in uno stato di completa abulia: da maniaca qual’era, diventa indifferente a tutto e a tutti, trascurata e disordinata. Due volte all’anno, in media, la sua condizione si acutizza: Anita avverte delle voci che la terrorizzano, piange e si dispera. Lo psichiatra che la cura da oltre vent’anni con gli psicofarmaci, e che formula precocemente la diagnosi di ‘schizofrenia ebefrenica’, non la interroga mai sul contenuto delle voci. A 63 anni, quando ormai è affetta da una discinesia da farmaci e da segni di arteriosclerosi cerebrale, dovuti ad una pressione arteriosa elevata, Anita, in un diverso contesto terapeutico, riesce a parlare. Il terrore che prova nel corso delle crisi è dovuto al fatto di sentire le voci minacciose del padre e della madre, morti da molti anni, che le impongono di alzarsi da letto e di spicciare la casa. Si tratta di intimidazioni atroci: deve pulire e lavare fino a sfiancarsi. Anita si oppone alle voci, che si arrabbiano e cominciano a proferire oscure minacce di morte. Varie volte, nel corso della malattia, sentendosi inutile e di peso, essa ha desiderato di ricominciare a fare qualcosa: ma l’ha sempre paralizzata la paura che, profittando della sua collaborazione, le voci tornassero a schiavizzarla. In questo caso, al di là del prendere atti della devastazione perpetrata da un cieco approccio organicista, l’intervento dialettico, per l’età e le condizioni del soggetto, non ha spazio né senso. Occorre limitarsi a prendere atto di una struttura d'esperienza incentrata su di una feroce dittatura interiore dovuta ad un’educazione rigidamente repressiva, cui Anita non ha potuto opporre che l’anarchia delle fantasie sessuali, proiettate all’esterno, e di una resistenza passiva, che l’ha relegata nel ruolo della malata cronica. Questa storia è stata riferita perché essa documenta, in una maniera inconfutabile, la pertinenza del concetto di struttura psicopatologica non dialettica: una struttura conflittuale cioè che, senza un intervento dialettico mirato a disalienare i bisogni, non concede scampo al soggetto.

 
   5) Spunti di riflessione

         Sestilia, Irma, Luisa, Anita: quattro storie, un unico canovaccio. La riflessione sulla condizione femminile è giunta a risultati tali da rendere quel canovaccio agevolmente decifrabile. La forza della tradizione, che vota alcune donne alla catastrofe, si esercita con una sottigliezza particolare: inducendo, nelle fasi evolutive della personalità, una percezione così tremendamente paurosa della libertà e del piacere, da spingere il soggetto stesso a definire come sua normalità un modo d'essere che, frustrando ogni libertà e ogni piacere, lo costringe ad espiare gioiosamente colpe mai commesse. La macchina del dovere, in altri termini, è solo apparentemente alimentata dal senso del dovere: di fatto ciò che la rende implacabile è la necessità di tenere sotto controllo un pericolo - il disordine - che, paradossalmente, cresce in conseguenza dello sforzo che dovrebbe estinguerlo. Parlare di gaia apocalisse è pertinente, poiché la catastrofe avviene in virtù di una normalizzazione forzata che corrisponde ad un livello di coscienza apparentemente privo di problemi. Non è un caso che la domanda di guarigione si esprime univocamente nel desiderio di tornare ad essere come prima (delle crisi).

         Ma il significato di queste storie, esemplari, va al di là del discorso della nuova schiavitù affiorata con l’avvento della civiltà industriale: la schiavitù delle donne, isolate dal contesto sociale, improduttive economicamente e quindi dipendenti, chiuse nel loro spazio domestico e familiare. Esso infatti pone in luce per un verso la debolezza delle teorie relazionali, che pretendono di ricondurre un comportamento all’interazione con l’ambiente.

          Nei casi in questione, l’ambiente, indubbiamente, sfrutta il comportamento sacrificale, ma non lo determina: e, se lo stigmatizza come eccessivo o maniaco, produce un rafforzamento. Il determinismo delle esperienze fa capo ad una struttura che, facendo incombere il pericolo del disordine, postula una feroce dittatura interiore. In secondo luogo, c’è da tenere conto che, se si vuole una conferma dell’ipotesi secondo cui la struttura ossessiva è la matrice delle esperienze psicopatologiche, le storie riportate, con i loro sviluppi depressivi e deliranti, la offrono inconfutabilmente.

         Ma c’è un punto su cui sembra opportuno soffermare l’attenzione. Sarebbe ingenuo, muovendo dal dato anagrafico, pensare che la produzione di strutture di esperienze come quelle riferite appartiene al passato. E’ probabile, infatti, che i modelli di normalità in questione siano ancora attivi a livello di mentalità, e che i cambiamenti siano più apparenti che reali. Questo è un problema che meriterebbe di essere discusso e approfondito, poiché la sua chiarificazione consentirebbe di non sorprendersi del fatto, statisticamente certo, che molte giovani donne hanno già imboccato il tragitto percorso ciecamente, nei decenni trascorsi, da tante altre. E, forse, di rendere socialmente fruibili un sapere che non ha bisogno di altre conferme. 

Da SEMINARI 1985 – 1986

Resoconti di esperienze terapeutiche

 
1. Marina

La situazione.

Come molte madri nelle quali si attivano fantasie distruttive nei confronti dei figli piccoli, Marina ha trascorso tre anni di inferno prima di decidersi a parlarne con qualcuno. Tre anni sottesi, per un verso, dall’angoscia di una radicale mostruosità, per un altro, dall’attesa che quelle fantasie ‘parassitarie’svanissero. L’effetto dirompente delle fantasie è da ricondurre anche al fatto che esse sono state evocate dalla nascita del secondo bambino, mentre non si erano mai presentate nei confronti del primo.

Una differenza qualitativa sembra aver caratterizzato le due esperienze di maternità. La prima non ha posto alcun problema né nel corso della gravidanza né all’atto del parto né successivamente. La seconda è risultata, invece ampiamente problematica: la gravidanza si è associata ad una condizione di malessere incessante; il parto, travagliato, non è avvenuto spontaneamente ma ha reso necessaria l’induzione farmacologia; il bambino si è rilevato difficile da allevare, sregolato nei ritmi sonno-sveglia, irrequieto, inappetente, bisognoso di continuo di stare in braccio, incapace di tollerare qualunque frustrazione. Dopo ritorno delle mestruazioni, Marina ha poi sviluppato un’angoscia perpetua e poco giustificata il cui oggetto era la paura di rimanere nuovamente incinta. Per un anno, ha effettuato continuamente test di gravidanza, si è sottoposta a visite ginecologiche, e ha avuto spesso sintomi sospetti (nausee, ecc). questa angoscia è scomparsa con l’affiorare, repentino, delle fantasie distruttive nei confronti del figlio.

Sul piano comportamentale, queste fantasie hanno prodotto paradossalmente un rapporto con il bambino che non è azzardato definire ‘patologico’. Per riparare la sua presunta mostruosità, Marina ha assunto un atteggiamento totalmente disponibile, donativo e partecipe: in breve, iperprotettivo. Con la conseguenza ovvia che il bambino, assoggettato ad un ipercontrollo che mortifica i suoi bisogni di opposizione e di differenziazione, manifesta una perpetua irrequietezza e una notevole aggressività nei confronti di soggetti e persone. Marina è dunque disperata e per le fantasie mostruose che continuano a tormentarla e per il comportamento reale del bambino, che sembra attestare uno sviluppo squilibrato.

Trattandosi di una persona assolutamente disponibile a capire e a prendere atto della verità — con l’unico, ovvio limite di essere terrorizzata dalla possibilità che il suo dubbio, di essere pazza e criminale nel contempo, sia fondato - l’elaborazione scritta della nostra esperienza sembra rappresentare uno strumento ottimale. Atto, tra l’altro, a scongiurare nei tempi lunghi le forche caudine del transfert: del dover vivere nella relazione terapeutica ciò che è già ampiamente vissuto nella vita reale…

Documento:

Cara Marina,

mettere sulla carta le ipotesi su cui lavoreremo, per giungere ad una migliore organizzazione del tuo mondo interno e delle relazioni con il mondo esterno, penso che possa aiutare un tragitto di elaborazioni soggettiva.

I problemi che tu vivi sono affiorati in successione cronologica: prima, e per un certo periodo, la paura di rimanere nuovamente incinta, poi la paura di poter far male al bambino. La seconda paura, per le sue connotazioni terrificanti, ha soppiantato la prima. Ma tra di esse non c’è solo una continuità cronologica, ma anche psicologica.

La paura di rimanere nuovamente incinta serviva, presumibilmente, a segnalare una condizione di coinvolgimento nei legami — affetti, doveri, obblighi, impegni - giunta al limite della situazione. Se dovessi rimanere ancora incinta, crollerei: questa trama di pensieri, sottesa al sintomo, alludeva alla tua consapevolezza di avere già troppi pesi da sostenere. Non essendo riuscita ad interpretare questo messaggio, che, nonché scongiurare una nuova gravidanza, mirava ad indurre un alleggerimento dei legami, è probabile che tu ti sia lanciata a corpo morto nell’impresa di allevare il bambino, aumentando la tua disponibilità nella misura in cui questi poneva delle difficoltà.

Alla fine questo conflitto tra i suoi bisogni di libertà (banalmente, di concederti un qualunque respiro) e i bisogni crescenti di protezione e di cure del bambino si è trasformato in un circolo vizioso. Il desiderio di allentare un poco l’impegno ha cominciato a funzionare paradossalmente: come un desiderio colpevole che non solo non andava realizzato, bensì doveva essere espiato con un aumento di disponibilità e di cure. Questo circolo vizioso permette di comprendere come mai il desiderio di allentare il legame, di concederti un po’ di respiro, sia stato costretto ad imboccare il vicolo cieco della fantasia distruttiva. Se lui —i l bambino - non mi concede tregua, solo liberandomi di lui posso evitare di rimanere svuotata di energie. Ricordi il brano evangelico: ama il prossimo tuo come te stesso? E’ una verità elementare, che investe qualunque rapporto umano: noi possiamo essere donativi nella misura in cui concediamo attenzione e cure anche a noi stessi. L’ovvietà di questo criterio di igiene mentale è tale da indurre un’ulteriore riflessione. C’è da capire perché la tua risposta ai bisogni del bambino sia così illimitata. E questo, se ha ben capito, è solo un esempio — il più drammatico - del tuo modo di porti nei confronti delle persone bisognose di protezione e di cure…

E’ evidente che questo modo allude ad una problematica che può essere definita, ma le cui origini vanno ricercate nella tua storia personale. La dinamica consiste nel vivere con estrema drammaticità le condizioni dell’essere bisognoso di cure e di protezione — come se egli fosse, in virtù di ciò, e della sua infermità sotto una minaccia costante di dolore e di morte — e nel sentirti tu responsabile di proteggerlo da questa minaccia. Questa dinamica comporta che un essere bisognoso di cure e di protezione o, affidato a se stesso, muore o, per sopravvivere, richiede il sacrificio totale, nel senso della disponibilità, di qualcuno. Alla luce di questa dinamica, ogni relazione tra un essere bisognoso e essere curante si configura come realizzazione di una tragica metafora: vita tua, mors mea. La paura di rimanere incinta — di dare un’altra vita, segnando la tua fine, il crollo - attestava già che il tuo modo di porti in relazione agli altri aveva raggiunto livelli di guardia. L'inversione di tendenza — e il modo di rapportarsi -, non essendo avvenuta in virtù di una presa di coscienza, si è realizzata in virtù di una inversione della formula, che è diventata terrifica: mors tua, vita mea. C’è da capire perché la tua esperienza sia rimasta intrappolata in questa formula.

Ma intanto è chiaro che i sogni di morte, che ti perseguitano da anni, non alludono altro che a ciò: ad una libertà che non può realizzarsi se non in virtù dello scioglimento definitivo di un legame. Dovrebbe anche esserti chiaro che la crisi che vivi da anni, fondata sull’inversione della formula vita tua mors mea, non attesta né cattiveria né mostruosità, bensì solo la necessità vitale di trovare un equilibrio più soddisfacente tra i bisogni di coloro che dipendono da te — genitori, figli, ecc. - e i tuoi bisogni. Perché ciò accada, occorre anzitutto che tu ti faccia carico dei tuoi bisogni: poiché, se è certo che non hai fatto male a nessuno, con essi finora sei stata troppo severa, rinnegandoli, spostandoli all’esterno, soddisfacendoli negli altri senza alcun limite e giungendo ad odiarli fuori di te.

C’è da spiegare questo fatto misterioso: perché un soggetto proietta fuori di sé i bisogni di protezione e di cura? Perché tende a soddisfarli in maniera illimitata, schiavizzandosi rispetto a coloro che li rappresentano simbolicamente? Perché, infine, giunge a non vedere altra soluzione, per allentare la costrizione dei legami che ha prodotto, che la distruttività? E’ possibile rispondere a questi interrogativi.

Quanto al primo problema, una risposta dettagliata la troveremo ricostruendo la tua biografia interiore. Per ora si può solo affermare che, perchè siano proiettati, quei bisogni devono prima essere rimossi, rifiutati dentro di sé. E ciò avviene solo o perché sono frustrati o perché sono manipolati dall’ambiente per mantenere una condizione di dipendenza. In ambedue i casi — che essi pesino come bisogni insoddisfatti o come bisogni che impediscono di differenziarsi - la crescita postula un sacrificio: la rimozione. Rimuovendoli, un soggetto cresce di colpo: ma per mantenere la rimozione deve soddisfarli in qualche modo. Occorre, dunque, - ed è la risposta al quesito - spostarli fuori di sé e soddisfarli fuori di sé.

Questo meccanismo crea una paradossale dipendenza del soggetto dalle persone su cui quei bisogni vengono proiettati: in altri termini, avendo rimosso quei bisogni e per mantenerli rimossi, il soggetto deve continuare a soddisfarli fuori di sé.

Perché mai la soddisfazione promuove una disponibilità illimitata? Perché quei bisogni vengono vissuti nella forma in cui sono stati rifiutati dentro si sé: come bisogni, cioè che, in quanto bruscamente insoddisfatti, hanno dato luogo ad un vissuto angoscioso di abbandono. In altri termini, nella misura in cui il soggetto, rimuovendoli, li ha affamati, egli li vive proiettivamente come bisogni la cui insoddisfacente provoca un’angoscia repentina di carenza, di abbandono, di sospensione nel vuoto, di morte.

Questa forma costringe ad avere una disponibilità illimitata nei confronti di chi li rappresenta — i genitori anziani, il bambino… - ma, nel contempo, li rende insopportabili. Questa insopportabilità promuove, nei confronti di coloro che li rappresentano, le stesse strategie di soppressione che ne hanno determinato la rimozione. Ma è evidente che le persone in carne e ossa non possono essere rimosse. Come risolvere dunque il problema del legame soffocante che, in virtù della proiezione, si è creato con loro? E’ ovvio: distruggendo le persone con cui si è legati. La distruttività — che dentro di te è affiorata in forma mostruosa - non è affatto rivolta nei confronti del bambino in carne ed ossa, ma del legame che ti lega a lui, insopportabile per la proiezione che hai operato.

Ciò ci porta sulla soglia di una soluzione del problema che vivi. Sussiste infatti almeno un'altra possibilità, che appare non appena l’angoscia della costrizione viene ricondotta non alle persone — al bambino - bensì al tipo di legame che tu hai instaurato con lui. E’ l’uovo di Colombo: si può ristrutturare il legame. Ma ciò significa riprendere dentro di te ciò che hai proiettato, riconoscendolo come espressione dei tuoi bisogni lungamente frustrati, e orientarti verso una liberazione che avvenga in virtù di una soddisfazione dei bisogni stessi. Nulla di più semplice sulla carta: nella realtà è possibile, benché difficile.

Dobbiamo inserire nel discorso l’analisi del vissuto che ha sotteso la gravidanza del bambino e il parto. Questo ci porterà un poco più in profondità. I livelli di guardia riguardo alla possibilità di mantenere una disponibilità illimitata probabilmente erano già stati raggiunti. L’attesa del bambino deve aver animato una trama di pensieri di questo genere: si sta per inaugurare un nuovo rapporto; questo rapporto mi vincolerà ad un esserino radicalmente dipendente e bisognoso di cure; io non potrò oppormi in alcun modo alla tendenza a soddisfare i suoi bisogni; mi intrappolerò di nuovo nel rapporto, mi sentirò tiranneggiata, priva di ogni libertà, svuotata: giungerò dunque ad odiarlo e pagherò questa colpa dovendo riparare, con un aumento di disponibilità; non ce la potrò fare, e, dentro di me, si scatenerà la guerra. Se il bambino rimanesse dentro di me, se persistesse la fusione tra noi, non ci sarebbe problema. Non c’è dubbio che, senza la congiura delle circostanze, le cose sarebbero andate diversamente da come sono andate. Probabilmente, avresti instaurato con il bambino un rapporto estremamente disponibile e donativo: egli — avendo bisogno, come ogni neonato, di essere iperprotetto - avrebbe interagito con minore irrequietezza. Il rapporto si sarebbe evoluto più serenamente.

La presenza di tua suocera ha invece drammatizzato un conflitto latente dentro di te, inducendo un rapporto con il bambino troppo frustrante per alcuni aspetti, troppo iperprotettivo per altri. Come ogni bambino, il tuo era affetto dalla sindrome di aggrappamento tipica delle prime fasi di sviluppo: deve aver interagito con alcuni atteggiamenti frustranti - per es. la precoce separazione notturna - sviluppando una reazione di aggrappamento.

La tua risposta, che, naturalmente, sarebbe stata congrua, deve essere stata alterata dall’interferenza di tua suocera: per un certo periodo, deve essersi configurata come alternativamente o troppo gratificante o frustrante.

Il circolo vizioso che ne è derivato è quello che ancora vivi: alle frustrazioni il bambino reagisce con una reazione di aggrappamento. E l’angoscia che produce dentro di te la sua sofferenza, ti porta ad avere, dopo il tentativo di frustrarlo, una reazione riparativa. Da questo circolo vizioso il bambino non può uscire: devi uscirne tu, equilibrando gli atteggiamenti protettivi a quelli frustranti — che rispondono, poi, ad un reale bisogno del bambino di lenta separazione e autonomizzazione.

Ma, per non demonizzare tua suocera, attribuendole colpe che vanno al di là della sua soggettiva responsabilità, occorre tenere conto che il circolo vizioso iperprotezione-frustrazione-riparazione, attivato sì in virtù della presenza di tua suocera, rappresentava (e rappresenta) una dinamica profondamente radicata nella tua personalità. La genesi esperenziale di questa dinamica sembra ormai sufficientemente chiara.

Sesta e ultima figlia non desiderata, assoggettata — come tu sei - a minacce di annientamento nel corso della vita fetale, il tuo essere bisognosa, dipendente e di peso ti è stato fatto vivere sempre, fino al conseguimento dell’autonomia lavorativa, come una condizione orribile e colpevole. Hai interagito come tutti i bambini i cui bisogni radicali vengono drammatizzati e colpevolizzati dall’ambiente: esprimendoli in maniera angosciosa, sul registro della precarietà fisica — l’essere ‘malaticcia’ -, dell’inappetenza, della capricciosità, del renderti intollerabile.

Questa interazione, naturalmente, ha amplificato il conflitto tra la disponibilità della famiglia e i tuoi bisogni, avviandolo in un vicolo cieco. Questo si è definito nel momento in cui quei bisogni, per il modo in cui si ponevano e per le risposte che attivavano, tu stessa sei giunta a viverli, come bisogni orribili e negativi da eliminare. La minaccia di annientamento, scongiurata sul piano di realtà, si è riproposta soggettivamente come momento necessario e inderogabile di una crescita affrancata dai bisogni di cura e di protezione. Quello che è accaduto è facile da ricostruire.

Di fatto, hai cominciato a comportarti da persona adulta, autonoma, responsabile, utile e non più di peso: ma ciò è avvenuto al prezzo di spostare fuori di te i tuoi bisogni, e di soddisfarli fuori di te, negli altri esseri bisognosi. Le conseguenze di questo escamotage coincidono con la storia del tuo disagio. Trattandosi di bisogni assoggettati, dentro di te, alla frustrazione e alla minaccia di annientamento (prima ambientale, poi soggettiva), essi, e coloro che li veicolano e li rappresentano (i genitori anziani, i bambini, ecc.), hanno assunto un carattere drammatico, intrappolandoti in relazioni all’interno delle quali la tua disponibilità doveva essere illimitata per salvaguardare quegli esseri, e i tuoi bisogni proiettati su di loro, dall’abbandono, dal dolore, dalla morte. Si è realizzato così il circolo vizioso in virtù del quale la tua disponibilità ipeprotettiva, ogniqualvolta andava incontro ad una crisi di rigetto, doveva essere riparata con atteggiamenti di ipercompenso, di cure, di attenzione e di dedizione maggiore. L’affiorare di fantasie distruttive nei confronti del bambino non ha rappresentato altro che il riattualizzarsi, su un fronte relazionale, di una soluzione già adottata in precedenza soggettivamente e che, purtroppo, ha funzionato nell’indurre una liberazione delle tue potenzialità di uscita dalle trappole dei bisogni di dipendenza, di cure e di legame. Da quelle fantasie, irrealizzabili perché se è purtroppo possibile eliminare quei bisogni non è possibile eliminare chi li rappresenta, ti hanno solo posto di fronte a quanto di orribile è accaduto dentro di te. E questo significa ristrutturare la tua esperienza — soggettiva e relazionale - orientandola non, come è accaduto finora, verso la liberazione definitiva da quei bisogni, bensì verso la liberazione di quei bisogni dalla minaccia di annientamento che ancora grava su di loro.

 Riflessioni

Quanto è stato riportato attesta con assoluta evidenza che il sintomo — univoco in questo caso - rappresenta un tentativo di soluzione di un problema reale che, nella trama dell’esperienza soggettiva, ha assunto una configurazione adialettica.

Nei suoi termini generali, il problema riguarda la relazione del soggetto con il mondo, con gli altri, e, più in particolare, la misura in cui questa relazione deve essere utilizzata come uno scambio in virtù del quale il soggetto ricava una soddisfazione dei propri bisogni e, nel contempo, soddisfa i bisogni degli altri. Non si tratta di un problema in sé e per sé drammatico, poiché si dà per scontato che una relazione tra persone è come una relazione tra esseri reciprocamente, anche se diversamente, bisognosi. Il problema diventa drammatico nel momento in cui un soggetto, che è costretto a negare i propri bisogni e che ha già, di conseguenza, un modo di porsi caratterizzato da una disponibilità illimitata nei confronti dei bisogni altrui, entra in relazione, assumendo un ruolo materno, con un esserino oggettivamente e radicalmente bisognoso — il bambino - che consente, e quasi facilita, una proiezione dei bisogni rifiutati. La proiezione trasforma il rapporto madre-bambino in una trappola che postula il sacrificio totale di uno dei due soggetti in relazione. La struttura adialettica del rapporto non consente che due soluzioni: il mors mea, vita tua o il mors tua, vita mea.

Questa struttura, con le sue soluzioni entrambi irrealizzabili, impone una pratica dialettica che, riconoscendo i diversi bisogni, ne comporti un’adeguata soddisfazione.

E’ anche chiaro che, nell’esperienza di Marina, il rapporto con il bambino non fa altro che mettere in luce un problema di ordine più generale, che postula, a tutti i livelli, un riconoscimento dei propri bisogni. nonché in rapporto al bambino, il modo di porsi di Marina, incentrato su una disponibilità illimitata, deve cambiare a tutti i livelli di relazione con il mondo. Ma ciò passa attraverso il riconoscimento del proprio essere bisognosa: ed è questo l’ostacolo, poiché Marina ha raggiunto la sua identità adulta proprio attraverso una negazione e una rimozione dei suoi bisogni.

La ricostruzione microstorica mette in grado di comprendere come e perché questa negazione si sia resa necessaria e, in un'epoca dello sviluppo, sia risultata funzionale al raggiungimento dell’identità e dell’autonomia. Ciononostante, essa va messa in gioco, poiché, nel tempo, rischia di diventare in rimedio peggiore del male.

Quanto al male, è ovvio che esso affonda le sue radici nella realtà familiare e sociale. Non può essere un male nascere bisognosi, dipendenti e di peso. Lo diventa quando per una famiglia un’altra bocca da sfamare rappresenta un peso quasi insostenibile. Dietro la miseria psicologica c’è spesso la miseria sociale e lo spettro di essa…


Considerazioni teoriche

L’esperienza riferita mi sembra rilevante per molti aspetti. Anzitutto, riguardando essa una persona che opera in ambito assistenziale ed ha una cultura psicosociologica, c’è da considerare in quale misura dei vissuti, statisticamente piuttosto frequenti, sfuggono ancora del tutto alla coscienza sociale, essendo gravati da pregiudizi che li restituiscono ad ogni soggetto che li vive come mostruosi. Da questo punto di vista, il problema della prevenzioni, intesa come passaggio della coscienza sociale astratta — che sacralizza il rapporto madre/bambino - alla coscienza concreta sul rischio potenziale che come ogni madre nell’ambito della famiglia nucleare, si impone. C’è da rimanere un po’ sgomenti se si pensa che a molte madri, oggi, una sperimentazione sociale abbastanza crudele, che fa ricadere sulle loro spalle l’allevamento dei bambini, possa apparire come una legge di natura. Lo sgomento si accentua se si riflette sul fatto che l’umanità si è socializzata a partire dall’allungarsi dei tempi di maturazione dell’infante e, dunque, del riconoscimento del peso dell’allevamento e dell’educazione.

Una considerazione non meno importante richiama una nota acclusa al seminario sulla teoria della personalità, che verteva sul bambino come oggetto di proiezione. L’evidenza delle componenti proiettive nell’esperienza di Marina conferma quanto detto, ma permette anche di estendere il discorso al di là di vissuti psicopatologici. Il bambino, in quanto esserino inerme e indifeso e rappresentante di bisogni radicali, è oggetto di proiezione fin dall’epoca del concepimento. Da quando viene alla luce è, nonché oggetto di proiezione, un organismo psichicamente indifferenziato che interagisce "visceralmente" con l’ambiente. Il definirsi dell’io, intorno ad un anno e mezzo, e le espressioni comportamentali rappresentano la realizzazione di alcune possibilità intrinseche al corredo naturale. La fenotipizzazione è, dunque, un processo precoce fondato sulla struttura dell’ambiente, sulle proiezioni sul bambino e sui modi di interagire a queste proiezioni. Ma, ciò che appare massimamente importante è che le proiezioni sul bambino non sono né riconducibili meramente ad un transfert dei vissuti infantili dei genitori né concernono il bambino in sé e per sé. Ciò che viene proiettato è una visione del mondo elaborata a partire dall’esperienza soggettiva ma inevitabilmente strutturata in virtù di categorie culturali apprese.

Nell’esperienza in questione, la proiezione investe il bambino in quanto rappresentante di bisogni divoranti di cure e di amore che vanno soddisfatti al prezzo di un sacrificio totale dei bisogni materni: è ovvio che questa proiezione oppone al bambino preda di un principio del piacere che gli dà il diritto di non subire alcuna mortificazione, l’adulto che deve mortificarsi e solo mortificarsi, o , meglio, che in tanto è adulto in quanto è capace di rinunciare ai suoi bisogni di piacere.

Ciò che Marina proietta nel rapporto con il bambino è una visione del mondo che identifica la crescita, il divenire adulto con la rinuncia, il sacrificio, la mortificazione. Una visione del mondo tragica, tale per cui gli adulti devono praticamente rinunciare al piacere di vivere per preparare altri esseri — i bambini - a rinunciare ad esso.

Costretta a diventare adulta seconda questo modello in un regime di grave frustrazione, Marina pensa che il suo bambino possa più facilmente accettare questa tragica legge di vita in virtù di una soddisfazione completa dei suoi bisogni.

Queste considerazioni comportano una conclusione teorica di estremo interesse. Il modo di porsi di Marina nei confronti del bambino è un modo proiettivo, che muove da una visione del mondo totalizzante. Ma questa visione del mondo riconosce delle fasi: per un primo e lungo periodo essa si esprime sotto forma di gratificazione totale dei bisogni del bambino, in un secondo periodo, quando il bambino diventa grandicello, essa non può esprimersi che sotto forma di frustrazione, di rigore, di severità. Se ciò non è accaduto — ma le fantasie di Marina ne rappresentano un preannuncio -, è solo in virtù del fatto che il bambino è ancora piccolo. La conclusione, estrapolata da questa esperienza, è che i bambini interagiscono con visioni del mondo che si offrono a loro nel tempo sotto forma di comportamenti univoci e non dialettici.

Un’ultima riflessione, inevitabile, verte sull’ordine di genitura. Da un punto di vista tradizionale, che la stessa famiglia determini effetti radicalmente diversi nei figli è assunta come prova inconfutabile della diversa predisposizione genetica. A questa ideologia, banalmente, si contrappongono i tentativi, sofisticati ma sterili della psicoanalisi e anche delle teorie sistemiche di valorizzare casualmente l’ordine di genitura. Ma la realtà offre dei dati che non appaiono schematizzabili. L’esperienza di Marina attesta che la famiglia è una struttura che non contiene, in virtù della storia delle persone che la costituiscono, una quota di conflitti che si esprime nel momento in cui le soluzioni adottate cominciano a rivelarsi inadeguate in rapporto ai bisogni dei membri. E che quindi la crisi, e il fatto che essa investa tutti i figli o solo uno di essi o uno piuttosto che un altro, è un evento congiunturale, da ricostruire sempre a livello microstorico.

 
3. Patrizia

Nel gennaio del ’79, quando la conosco, Patrizia ha 20 anni ed è reduce da un ricovero in una clinica psichiatrica, ove le è stata diagnosticata una psicosi mista — una schizofrenia su fondo distimico. La gravità dell’episodio, associata alla tendenza di Patrizia a rifiutare la ‘cura’, ha indotto gli psichiatri a formulare una prognosi negativa, e a colpevolizzare i parenti che avrebbero per anni, dall’adolescenza in poi, chiuso gli occhi sull’evoluzione di un processo (organico) esitato in una catastrofe psichica difficilmente rimediabile.

La ricostruzione dell’episodio critico dice molto di più di ciò che gli psichiatri sono riusciti a capire e cogliere con i loro pregiudizi ideologici. Nel periodo immediatamente precedente il ricovero, Patrizia, sentendosi perseguitata da un’ansia intollerabile, ha fatto ricorso contemporaneamente alla cocaina e al Tavor ad alte dosi. Con il Tavor, in una circostanza, ha tentato, per l’ennesima volta, di suicidarsi. Ha espresso il suo disagio ai familiari, affermando di aver paura di stare per perdere la ragione e di sentirsi spinta a suicidarsi da forze intollerabili. Ha chiesto essa stessa di essere ricoverata, ed è giunta in clinica sofferente ma lucida. Non ha avuto neppure la possibilità di parlare con i medici, che l’hanno sottoposta ad un massiccio intervento farmacologico, bloccandola a letto con fleboclisi a permanenza. In segno di protesta, sentendosi sfidata repressivamente più che curata, Patrizia ha cominciato a rifiutare il cibo e l’acqua, e a razionalizzare il progetto di suicidarsi. La sfida è raccolta dagli psichiatri che aumentano i dosaggi farmacologici, la minacciano di nutrirla con la sonda e la pongono in isolamento totale, impedendole di telefonare e di ricevere amici.

Nonostante la sedazione, Patrizia si ribella, si esalta, comincia a rompere oggetti e scagliarsi contro le finestre. Si ricorre alla contenzione; Patrizia regredisce in uno stato delirante confusionale nel corso del quale contenuti mistici si alternano a parolacce, bestemmie e volgarità oscene. Questa condizione dura per due settimane; nei rari momenti di lucidità, Patrizia protesta per la violazione dei suoi diritti. Di fronte all’inefficacia delle cure psicofarmacologiche, gli psichiatri propongono — come estrema ratio - un trattamento di ESK. I familiari esitano, e coinvolgono Patrizia nella decisione. Magicamente, Patrizia si reintegra da un giorno all’altro, ricominciando a nutrirsi, a curarsi e a parlare ordinatamente. Esce, dopo quasi un mese di ricovero, con il progetto di separarsi dall’ambiente familiare. Quando si rivolge a me, il progetto, condiviso dai genitori, sta per essere realizzato. Ma Patrizia è in uno stato d’animo estremamente angosciato, che cerca di alleviare con le sigarette, l’alcool e i tranquillanti.

L’episodio critico contiene una serie di tematiche strutturali. Patrizia ha paura di albergare dentro di sé un’incontrollabilità che potrebbe farla impazzire e spingerla a togliersi la vita. In conseguenza di ciò, avverte il bisogno di essere protetta e curata, e cioè controllata dall’esterno. Se il controllo, però, come è accaduto nel corso del ricovero, si traduce in una brutale repressione, Patrizia diventa di fatto incontrollabile. Paradossalmente, l’essersi configurato il controllo come una minaccia di annientamento (con proposta di ESK) ha sortito l’effetto di reintegrare l’identità. E’ evidente che l’esperienza di Patrizia riconosce due confini angosciosi, uno identificabile con la libertà; l’altro con la costrizione, e che, per quanto questa attivi una ribellione estrema, essa appare necessaria al fine di permetterle di recuperare un equilibrio minimale.

In altri termini, è in virtù della repressione che Patrizia sembra potersi riappropriare della libertà come un bene, a tenere freno la minaccia di incontrollabilità che, in difetto di repressione, ad essa si associa.

Propongo a Patrizia di tener conto di questa necessità strutturale, finchè non sarà possibile, chiaritone il senso, di muovere verso una libertà autentica, e cioè una libertà il cui potenziale di rischio possa essere vissuto consapevolmente.

Nell’immediato, il conflitto tra libertà e repressione anima il progetto di allontanarsi dall’ambiente familiare. Patrizia non tollera più di stare in famiglia, ma, nel contempo, ha paura di andare a vivere da sola. Non vuole più sentirsi costretta e controllata dai genitori e dai fratelli, ma teme l’assoluta libertà di cui giungerebbe a disporre vivendo da sola. Evidentemente, non c’è che una soluzione: convivere con qualcuno. Ma con chi? Patrizia ha un’infinità di amici e amiche, ma non sente di poter dividere la vita con nessuno di essi.

Per alcuni giorni, l’angoscia — legata alla necessità di prendere una decisione (un appartamento è già stato affittato dalla famiglia) - aumenta. Poi Patrizia prende un tubetto di Optalidon, e finisce in un reparto di rianimazione di un ospedale civile. Si riconsegna insomma nelle mani dei suoi, scongiurandoli di non ricoverarla più in clinica. Per fortuna, i genitori — critici nei confronti degli psichiatri che hanno emesso avventatamente, a loro avviso, una diagnosi impietosa - decidono di tenerla a casa e di accelerare i tempi del trasloco. C’è da decidere anche il che fare riguardo agli studi, ché Patrizia ha conseguito il diploma di maturità da alcuni mesi. Patrizia si iscrive ad un corso parauniversitario per tecnici di rieducazione neuromotoria. Va a vivere da sola. L’appartamento è nel centro storico, in un ambiente che pullula di emarginati (drogati e prostitute). Lo ha scelto Patrizia, con l’intento di dedicarsi al loro recupero. Ciò che accade era prevedibile. Affidata a se stessa, Patrizia si mette sotto controllo: comincia a sentirsi perseguitata, nel contempo, dagli spacciatori, che non gradiscono la sua ingerenza, e dalla polizia, che sospetta che essa sia coinvolta nel traffico della droga. Le forze del disordine e quelle dell’ordine tessono intorno a lei una trama invisibile ma implacabile. Patrizia si fa forza abusando di alcool e di tranquillanti, sempre più spesso torna in casa dai suoi. Nel momento in cui avverte di non tollerare più i controlli persecutori, prende a viaggiare, spostandosi al Nord e avendo come punti di riferimento parenti, amici di famiglia e amici personali. A Verona incontra una coetanea studentessa in medicina. Si frequentano, scoprono di amarsi reciprocamente e decidono di convivere. Per un lungo periodo, la coppia fa la spola tra Roma e Verona, in compagnia di un cane raccolto da entrambe moribondo e allevato come un bambino.

Quando a Roma, Patrizia non manca di venirmi a trovare. Il rapporto di coppia sembra aver scongiurato i propositi di suicidio, ma il malessere di Patrizia persiste sotto forma di una cronica depressione con spiccate componenti inibitorie. Patrizia riesce a mala pena a frequentare il corso e a preparare superficialmente gli esami. Per il resto, vive chiusa nel rapporto di coppia, letteralmente aggrappata a Camilla (la sua compagna) e timorosa di qualunque interazione sociale. In uno dei rari incontri mi riferisce di un sogno di grande interesse.

E’ in casa dei suoi. Litiga violentemente con il padre e si allontana. Dalla finestra di un appartamento vede che Erba (il suo cane) tagliando la strada ad un automobile, sulla quale sono presumibilmente i suoi genitori, provoca un incidente mortale. Patrizia vede nella stanza in cui sta una donna con la faccia di strega. Poco dopo, Erba entra dalla porta e procede verso di lei. Le pone le zampe sulle spalle e si trasforma in Camilla.

Il sogno è reso comprensibile dalla storia di Erba. Patrizia l’ha raccolta che aveva pochi giorni e l’ha allevata con estrema cura. Erba ha sviluppato nei suoi confronti un attaccamento profondo, ma, nel carattere, è rimasta segnata dalle carenze materne. E’ estremamente diffidente e aggressiva nei confronti di tutte le persone che non conosce. Ma anche Patrizia e Camilla devono trattarla con circospezione, poiché facilmente morde.

Nel sogno, Erba rappresenta l’oggetto delle paure di Patrizia: l’aggressività. Nella misura in cui questa attacca il legame con i genitori, e lo distrugge, Patrizia si ritrova faccia a faccia con la sua cattiveria, con i suoi poteri malefici, rappresentati dalla strega. Cosa può proteggerla dal pericolo che questa cattiveria si rivolga contro di lei spingendola al suicidio, se non il mettersi sotto la protezione affettuosa di Camilla? L’interpretazione del sogno è avallata da alcune circostanze biografiche.

La strega ha il volto di un’amica con la quale Patrizia ha tentato di stabilire un legame, associandosi a lei in un viaggio in Brasile avvenuto dopo il ricovero. Con essa, che aveva un carattere duro e autoritario, Patrizia ha avuto uno scontro furibondo che, facendole vivere la sua solitudine nel mondo, l’ha costretta a riprendere l’aereo e a rientrare precipitosamente in famiglia, in uno stato d’animo persecutorio che la spingeva al suicidio. E’ solo in virtù del rapporto con Camilla, che ha potuto mantenere la separazione dalla famiglia ed evitare il ‘risucchio’. Camilla è tenera e affettuosa ma anche rigida e severa nei principi. La sua ‘aggressività’, temperata dall’amore, funziona ottimamente nel proteggere e nel tenere Patrizia sotto controllo. Patrizia, insomma, riversa nel rapporto con Camilla il suo bisogno di repressione che le riesce tollerabile poiché si esercita all’interno di un legame d’amore. Ciò naturalmente lascia pensare che il rapporto sia forte, per le valenze affettive, e esposto agli attacchi, qualora il demone della libertà si rianimi in Patrizia.

Nel sogno, ci sono poi delle allusioni alla storia familiare che meriterebbero una ricostruzione accurata. Patrizia, di fatto, non ha mai litigato con il padre, ma lo ha sempre vissuto rabbiosamente come il rappresentante di un potere maschilista volto a reprimere la libertà delle donne. Questo suo vissuto, che mirava a sancire la necessità di un’alleanza con la madre contro il padre e i quattro fratelli maschi, è stato sempre confermato. La madre ha sempre difeso la leadership del marito, al quale ha affidato la guida della famiglia (nel sogno, come nella realtà, il padre è al volante dell’auto).

Ma in che cosa consiste l’aggressività di Patrizia, che nelle vesti di Erba rischia di essere investita, se non nell’opporsi ad una direzione di marcia decisa univocamente dal padre? C’è, in questo, l’allusione ad un progetto di vita, ispirato dal padre, che Patrizia deve aver vissuto come incompatibile con i suoi bisogni. Di cosa si tratta? E, infine, l’aggressività di Patrizia, nel sogno, non va al di là dell’ostacolare quel progetto. Da cosa discende dunque la sua cattiveria se non dalla reazione dei suoi che, pur di non farle del male, si fanno del male? Sembra che il sogno alluda ad un contesto familiare autoritaristico e, nel contempo, permissivo: ad un contesto atto ad attivare repressivamente la rabbia di Patrizia, ma anche debole ed indeciso nel reagire ad essa. La necessità di stare lontana dalla famiglia sembra riconoscere dunque una doppia paradossale motivazione: così come non ne tollera l’autoritarismo, Patrizia sembra non sopportare neppure il permissivismo. Non sorprende, dunque, che il rapporto con Camilla, che è affettuosa e rigida al tempo stesso, abbia permesso a Patrizia di ritrovare un equilibrio minimale. Il disagio persistente sotto forma di depressione lascia pensare che non possa trattarsi di un equilibrio definitivo. Onestamente, dico a Patrizia che, nella sua storia familiare e personale e nella configurazione dei suoi bisogni, ci sono molti nodi ancora oscuri da chiarire, e che il tragitto verso la libertà autentica, e soprattutto il riappropriarsi del bisogno di repressione sotto forma di bisogno di autoregolazione, non potrà prescindere dall’affrontare momenti critici. Ciò che è importante è non avere paura di questo altrimenti il disagio che vive — e il conflitto tra la libertà e repressione che lo sottende - rischia di ‘cronicizzare’.

Nonostante si sia instaurato un ottimo rapporto interpersonale — Patrizia mi definisce il ‘salvatore’ e mi accredita la volontà di liberarla dal dolore senza far violenza né a lei né alla famiglia - la risposta è che Patrizia scompare per alcuni mesi, trasferendosi a Verona con Camilla. Di lì mi telefona alcune volte per comunicarmi che la sua angoscia cresce proporzionalmente al crescere delle inibizioni. Vive in casa incapace di muoversi senza avere accanto a sé Camilla, terrorizzata da qualunque interazione sociale. Più volte, nel corso dei mesi, affiorano vissuti persecutori che pongono in relazione il suo essere agli arresti domiciliari con una rete di controllo poliziesco invisibile e implacabile. Sporadicamente, chiede un aiuto farmacologico.

A distanza di un anno dalla prima crisi, Patrizia torna a Roma con Camilla. E’ una larva: paurosamente smagrita, vuota di energia, incapace quasi di parlare. Non nutre propositi suicidi, poiché non vuol dare un dispiacere a Camilla e ai suoi. Ma è tormentata dall’angoscia di una condizione orribile —i n quanto del tutto priva di libertà - contro la quale sente di non poter fare alcunché. E’ il senso della sua esperienza che le sfugge del tutto, tranne che per un aspetto: la sua volontà — costi quel che costi - di non tornare in famiglia. Mi riferisce un sogno.

E’ da sola in una grande sala cinematografica al buio, ove sta per iniziare la proiezione di un film. Repentinamente, si accorge che nella sala c’è un intruso. Lo insegue per farlo uscire.

Si tratta di un sogno tipicamente strutturale, che basta da solo a far capire il circolo vizioso di cui è preda Patrizia. Il buio della sala e l’assoluto isolamento —i n pratica l’immersione in una cupa depressione con perdita di contatto con il mondo - sono le condizioni ottimali perché si sprigioni un fascio di luce colorata che realizzi il desiderio di vivere sotto forma illusionale. La mortificazione depressiva risulta insomma funzionale al fine di attivare l’eccitamento, la gioia di vivere a colori. La presenza dell’altro — l’intruso, indubbiamente, sono io - rappresenta un fattore di impedimento del viraggio dalla depressione all’eccitamento. In ultima analisi, Patrizia esprime un bisogno di autorepressione così profondo da diventare insopportabile: è solo un eccesso di mortificazione che può permetterle di lasciarsi andare alla gioia di vivere. Giustamente, nel sogno essa risulta spettatrice: la struttura nella quale si trova intrappolata non le consente altra attività che non sia quella di assecondare gli squilibri adialettici, soffrendo orribilmente per potersi abbandonare all’illusione dell’eccitamento. Il senso di questa struttura di esperienza è depositato in un luogo invisibile. C’è una macchina da proiezione e delle pellicole che sono state impressionate e montate. In breve, c’è il materiale microstorico, al quale però non è concesso di accedere se non quando esso viene proiettato sotto forma di eccitamento delirante. Patrizia, nel sogno, esprime il suo essere stata espropriata e il suo espropriarsi della possibilità di agire quel materiale. Essa può solo subirne l’organizzazione strutturale, che è adialettica.

Nel giro di un anno, e di pochi, sporadici incontri sembra che non si sia fatto molto. Si è individuata però la struttura nella quale Patrizia si è intrappolata: una struttura ossessiva, animata da un sentimento anarchico di libertà, che postula la repressione e ad essa si oppone. Struttura che Patrizia intuitivamente asseconda trasformandola in una struttura maniaco-depressiva, tale che l’autorepressione e la mortificazione risultano funzionali ad attivare una liberazione sotto forma di eccitamento. Questo, con i vissuti deliranti persecutori che evoca, chiude il cerchio, togliendo a Patrizia ogni libertà. La genesi della struttura rimane del tutto oscura: ciò che appare certo è che la sua dinamica comporta il prevalere costante del bisogno di repressione.

Per circa due anni, Patrizia, che sembra aver assimilato il discorso sulla sua struttura d’esperienza, non fa altro che tentare di mantenere un equilibrio minimale e precario. Il rapporto con Camilla, che ha autentiche valenze affettive, funziona come un’armatura di sostegno e di controllo. Patrizia non si separa mai da lei. La libertà si esaurisce in una serie continua di spostamenti e di viaggi. Le motivazioni sono oggettive: Camilla frequenta l’università a Verona, ove risiede la famiglia, Patrizia il corso a Roma. Ma, al di là delle motivazioni oggettive, traspare un’irrequietezza profonda, che si rende evidente, con le contraddizioni, nei viaggi e nelle vacanze: Camilla e Patrizia, che vivono in fusione e in una condizione di relativo isolamento sociale, si dirigono sempre verso luoghi appartati, solitari, un po’ selvaggi. E’ come se entrambe, cercando la libertà dai lacci del quotidiano, dovessero ripararsi da qualche oscuro pericolo identificabile nella socialità.

Nel corso di questi due anni, Patrizia intrattiene con me un rapporto singolare. Quando è a Roma, mi viene a trovare sempre, quando è fuori mi telefona spesso. Il ruolo che mi assegna è di colui che, simbolicamente, la protegge dal rischio di impazzire. Ma, continuando ad avvertire questo pericolo come reale e fondato sugli squilibri che regolano la sua vita interiore profonda, esclude, di fatto, un lavoro di storicizzazione. Il tema dell’intruso sembra essersi rovesciato: Patrizia non tollera intrusioni nella sua intimità non tanto per rimanere totalmente libera, quanto piuttosto per il timore di mettere in gioco l’equilibrio precario conseguito in virtù di una sostanziale rinuncia alla libertà.

Accetto il ruolo che Patrizia mi assegna, senza esimermi dal farle presente che la sua ‘scelta’ di chiudersi in un rapporto fusionale che la protegge dal mondo nella misura in cui la isola e inibisce l’esercizio della libertà, mi sembra comprensibile ma riduttiva in rapporto alla globalità dei suoi bisogni. In pratica, Patrizia sopravvive, ma non vive. Dopo aver portato a termine il corso di studi, non studia più, non lavora, non ha interessi, non fa progetti, non frequenta nessuno (ad eccezione di un ristrettissimo numero di amici comuni a Camilla). La sua esperienza sembra rivolta unicamente a mantenere un equilibrio statico e presumibilmente precario. Nel mentre rispetto la paura che Patrizia ha di impazzire e non nego che sia lecito organizzare la vita a partire da questa paura, suggerisco che, se l’equilibrio dovesse venir meno, Patrizia dovrebbe accettare che i suoi bisogni non possono essere vincolati all’infinito ad una scelta di vita mortificante. In occasione di un incontro, Patrizia mi riferisce un sogno molto breve.

Vede Erba nel freezer, congelata ma con gli occhi ancora vivi e mobili.

Nella realtà, Erba, per quanto amata e curata da Patrizia e Camilla come un bambino, è assoggettata ad un controllo severo. Per un verso, è necessario evitare che degli estranei le si accostano, per il rischio che essa, spaventata, tenti di mordere. Per un altro verso, nei periodi in cui è in calore, occorre confinarla in casa, perché, portandola fuori, c’è il pericolo che essa strappi di mano il guinzaglio e si perda.

La condizione di Erba è la stessa in cui vive Patrizia. Il congelamento è dovuto alla paura dell’aggressività e alla paura del desiderio. Gli occhi vivi e mobili di Erba, nel sogno, lasciano pensare all’inadeguatezza delle difese: in rapporto a Patrizia, al non essersi essa arresa ad una repressione totale.

Nel sogno, con un’evidenza straordinaria, la struttura ossessiva appare trasformata in una struttura maniaco-depressiva completa. Che Patrizia si trovi in pericolo, è restituito da un evento reale. Qualche tempo prima del sogno, in occasione di una trasferta a Verona, Patrizia aveva lasciato a Roma il frigorifero in funzione. Nel corso della assenza, è avvenuto un guasto: tutto ciò che era contenuto nel frigorifero è marcito.

Nell’estate del ’83, il ‘guasto’ avviene nella realtà. Camilla, da alcuni mesi, manifesta un elevata insofferenza per l’immobilismo e la dipendenza di Patrizia, che impediscono ad entrambe di avere una vita di relazione sociale più aperta. Vanno a trascorrere insieme a pochi amici un breve periodo di vacanze in una villa al mare. Camilla manifesta provocatoriamente un qualche interesse per un ragazzo. Patrizia reagisce in maniera furibonda. Torna a Roma da sola, si chiude in casa, distrugge gran parte dell’arredo e si blocca a letto votandosi a morte per inedia. Per tre giorni, Camilla, che l’ha raggiunta, non riesce a farle assumere altro che pochi sorsi d’acqua. Patrizia è bloccata catatonicamente, ma esplode ogni tanto in crisi clastiche. I genitori, informati della situazione, decidono di assisterla nella loro casa. Patrizia non oppone resistenza, si lascia trasportare come un manichino.

Quando la vado a trovare, è bloccata sul divano in salotto; è smagrita, disidratata, stralunata. I genitori sono angosciati, poiché l’infausta prognosi degli psichiatri sembra confermata dai fatti. Ho i miei motivi per pensarla diversamente. Patrizia non comunica, ma fa intendere che si lascerà fare tutto ciò che si riterrà opportuno fare. Interpreto il suo blocco come un’espressione di opposizione che postula la repressione terapeutica. Le faccio rilevare anche qualcosa che balza agli occhi. Da quando non è nella sua casa, le crisi clastiche si sono orientate verso oggetti insignificanti: cuscini, coperte, giornali, pacchetti di sigarette, cioccolatini, ecc. sul tavolino accanto al divano ci sono un’infinità di oggetti preziosi — giade, ceramiche, ecc - che essa non ha toccato. Nel salotto c’è poi una collezione preziosissima di fossili, e altri oggetti di arredo — vasi cinesi, statuette indiane- di grande valore. Patrizia, che ha devastato la sua casa, non ha osato toccare nulla nella casa dei suoi. La sua opposizione sembra, in ultima analisi, infinitamente rispettosa dei valori familiari. Il modo in cui la esprime poi, postulando la repressione, sembra mirare a ricomporre un equilibrio che annulli la sua identità in ciò che essa ha di rabbioso e di distruttivo. L’alternativa è che provveda da sola, morendo di inedia, e cioè utilizzando l’opposizione come uno strumento di esecuzione dell’autocondanna.

Per alcuni giorni, Patrizia si fa alimentare con fleboclisi, assume dosi modeste di Tavor e di Melleril. Poi ricomincia a mangiare, a curarsi, a comunicare. Si sente umiliata di essere tornata al punto di partenza, nella casa legata ad una serie interminabile di tristi ricordi. Il vissuto rievocativo si incentra sulla repressione maschilista delle donne. Ciò permette di capire che la crisi cui è andata incontro non è stata una crisi di gelosia. Patrizia pensava che il rapporto con Camilla si fondasse su di un’alleanza volta contro il potere dell’uomo. Nel momento in cui Camilla ha manifestato una debolezza, la corazza protettiva nei confronti di quel potere è venuta meno. Piuttosto che accettare la sua identità di donna e di assoggettarsi ad un uomo, Patrizia è pronta a morire. Il suo disagio, per la prima volta, appare incentrato sulla protesta contro un ordine di cose che si è presentato ai suoi occhi come fisso e immutabile: un ordine che vede nella donna un essere vulnerabile e incontrollabile al tempo stesso, e che assegna all’uomo il compito di proteggerla e di reprimerla. Per quanto rifiutato, quest'ordine di cose ha ancora un potere enorme nella struttura profonda di Patrizia, che, convinta di essere vulnerabile e incontrollabile, postula la repressione e la protezione.

Dopo due settimane, Patrizia si reintegra. Ma la guerra d’indipendenza — la seconda (metafora che l'affascina) - non è finita. Patrizia non può stare più nella casa dei suoi, ma non la se la sente di tornare a convivere con Camilla. Decide di sperimentare la sua autonomia facendo un viaggio da sola in Marocco. Nessuno è d’accordo ma nessuno la ostacola. Patrizia parte alla ricerca di libertà. Dopo alcuni giorni da ‘incubo’ — vedremo poi perché - si ‘scompensa’: prende un aereo per la Spagna, all’aeroporto di Madrid aggredisce un gendarme che vuole ispezionare i bagagli, viene ricoverata in O.P. Il padre, informato dall’ambasciata, vola a riprenderla, e la riconduce a Roma. Patrizia è nuovamente bloccata, ma da un delirio incentrato su una persecuzione da parte dei fascisti che l’hanno seguita nel viaggio, ai quali è riuscita a sottrarsi per casa, e che aspettano che si muova per ucciderla. Il nucleo del delirio si è definito dopo due giorni di permanenza in Marocco: colà Patrizia è venuta a sapere che a Malta un gruppo di terroristi di destra aveva sequestrato un aereo sul quale c’erano dei bambini handicappati, e si è sentita investita dal dovere di fare il possibile per ottenere il rilascio. Ha contattato le autorità locali, l’ambasciatore italiano, ma poi, sentendosi ormai minacciata dai complici dei terroristi, ha dovuto desistere, e mettersi in salvo.

Nel giro di una decina di giorni, protetta dalle mura domestiche, e assumendo solo del Tavor, l’angoscia sfuma. Rimane la convinzione di essere tenuta sotto stretto controllo dai fascisti, che hanno rinunciato a sopprimerla, a patto che essa non assuma più atteggiamenti eversivi. Può ricominciare, insomma, ad uscire, consapevole che la sua libertà è vigilata. Torna a stare con Camilla, e regredisce nell’isolamento.

Dopo circa due mesi, i vissuti persecutori si estinguono. L’esperienza critica, con il materiale affiorato nel corso del viaggio, ha fornito a Patrizia la consapevolezza che il suo mondo interiore è strutturato in maniera tale da funzionare, ogni volta che si lancia verso la libertà, come una ‘bomba’ ad alto potenziale. Ma la paura di albergare la follia non ha più una connotazione misteriosa. Patrizia sa che il suo desiderio di libertà riconosce come limite un bisogno di repressione, e che, nella misura in cui essa si allea ciecamente con quel desiderio, affiora il suo ‘handicap’ sotto forma di controllo dall’esterno. Decide di fermarsi a Roma per tutto il tempo necessario a ricostruire la sua storia personale, familiare e sociale.

Un dato di immediato interesse riguarda il fratello, Piero. Il disagio di Patrizia è affiorato poco dopo la soluzione della drammatica carriera di quegli. Piero, che ha due anni più di Patrizia, è stato sempre un ragazzo difficile, contestatore, ribelle e anarchico fin dall’adolescenza. Al liceo, la contestazione assunse un carattere politico: Piero cominciò a militare in una formazione extraparlamentare e, rapidamente, si spostò su posizioni sempre più radicali. Un episodio vale per tutti: in reazione ad un ingiusto rimprovero di un docente, dette fuoco ai banchi della scuola. Evitò l’incarcerazione per l’interessamento dei suoi. Ma la sua carriera politica continuò con un coinvolgimento sempre più inquietante in frange estremistiche ai margini del movimento brigatista. Minacciato da gruppi neofascisti e sorvegliato dalla polizia, sicuramente sarebbe finito male se non avesse deciso repentinamente di partire per gli Stati Uniti. Colà, in virtù di un cambiamento sorprendente e clamoroso, è divenuto un manager perfettamente integrato nel sistema e si è sposato.

Patrizia — ed è sorprendente - non ha mai visto le analogie tra la sua esperienza e quella di Piero, poiché la sua ribellione verte essenzialmente sulla repressione della sua libertà in quanto donna. Risulta evidente che il bisogno di opposizione deve essere stato frustrato in tutti i figli. La conclusione è avvalorata dal fatto che gli altri tre fratelli, due maggiori e uno minore di Patrizia, pur non avendo mai dato problemi, hanno avuto e continuano ad avere delle carriere di studio estremamente lente e stentate. Nelle sue aspettative, esplicitamente incentrate sul dovere di studiare e di lavorare, la famiglia è stata tradita e, quindi, attaccata da tutti i figli. Perché?

Sul piano personale — Patrizia non ha difficoltà a riconoscerlo - i genitori hanno delle qualità eccezionali. Sono cattolici progressisti, rigorosi nei principi ma di ampie vedute, impegnati da sempre in attività assistenziali a favore di handicappati e tossicodipendenti. La loro dedizione ai problemi sociali non li ha mai indotti a trascurare la famiglia. I figli sono stati tutti desiderati ed allevati con cura. L’atteggiamento partecipe che hanno avuto sia in rapporto alle vicissitudini di Piero sia in rapporto alle crisi di Patrizia attesta la loro capacità di coinvolgersi e il loro rifiuto di provvedimenti emarginanti e repressivi. Quanto a Patrizia, la madre, addirittura, ha denunciato i suoi sensi di colpa, e, in occasione del ricovero in clinica, ha chiesto più volte agli psichiatri che le dicessero con chiarezza gli errori commessi, al fine di riparare. Tutto ciò vale a comprendere, in parte, i sensi di colpa che Patrizia nutre quando attacca il legame con la famiglia. Il problema sta nel capire l’intensità sconsiderata della sua ribellione nei confronti dell’ordine familiare. Avanzo l’ipotesi che questa ribellione non possa essere spiegata in rapporto ai genitori in quanto persone, bensì debba essere posta in rapporto con i codici culturali da essi veicolati.

Un sogno conferma quest'ipotesi.

Nel sogno Patrizia è in una chiesa ove, alla presenza di tutti i membri della famiglia allargata, si officia un rito in memoria del nonno. Ad un certo punto, Patrizia lascia il suo posto e avanza verso l’altare in atteggiamento di protesta. Il vescovo, che officia, il rito, la guarda con severità. La madre, con gli occhi e con i gesti, la redarguisce vigorosamente. Patrizia si accorge di aver smarrito la borsa, e si agita inconcludentemente per ritrovarla.

Per alcuni aspetti, il sogno è realistico. La famiglia di Patrizia nasce dalla confluenza di due ceppi nobiliari — siciliano quello paterno, emiliano quello materno - di illustri tradizioni. Almeno una volta l’anno, tutti i membri della famiglia si raccolgono per commemorare, con un rito religioso, il nonno materno, figura prestigiosa di industriale e uomo politico che, accumulando una colossale fortuna sotto il fascismo, si dissociò dal regime il 25 luglio e, fervente cattolico, continuò a mantenere intatto il suo prestigio nel dopoguerra, trasformandosi infine in promotore di attività culturali e in beneficenza. In occasione degli incontri, Patrizia avverte un vivo disagio per il culto — ipocrita, a suo avviso, per quanto riguarda molti membri della famiglia - di un mito che a lei è sempre apparso un po’ ambiguo, in virtù della confusione tra valori reali — il denaro - e valori religiosi. Attaccando il mito, però, come avviene nel sogno, essa si scontra con la madre, che lo coltiva religiosamente, e smarrisce la borsa con i suoi valori, e, ovviamente, i documenti che attestano la sua identità.

Nella famiglia di Patrizia, in effetti, quei valori si sono trasformati in un carico di responsabilità oltremodo pesante. I genitori di Patrizia — c’è da tener conto che anche il padre proviene da una famiglia molto ricca -, pur non osando rinunciare al patrimonio, hanno sempre vissuto la ricchezza — in accordo con i valori della fede - come un ingiusto privilegio che essi e i figli dovevano scontare con una vita esemplare e costantemente rivolta all’espiazione sotto forma di dedizione agli umili, ai poveri, agli emarginati. La logica del dovere e del sacrificio di sé, rafforzata dal senso di colpa per la ricchezza, ha pesato come un incubo su tutti i figli: da bambini, si richiedeva loro di meritarsi quel privilegio con una dedizione totale allo studio: da grandi li si è sollecitati a scelte di lavoro e di vita orientate a fini sociali.

Tutta l’economia psicologica della famiglia, nel suo complesso, sembra aver risentito di questa contraddizione irrisolta tra ricchezza e ascetismo. Assorbiti completamente nel loro lavoro assistenziale, per lunghi periodi, i genitori apparivano ai figli logori ed estenuati, vere vittime di un dovere da assolvere senza risparmio; poi si concedevano, con i figli, brevi periodi di vacanze esaltanti, di solito bruscamente interrotte da rigurgiti di rimorso.

Per Patrizia, l’approccio ai problemi sotto il profilo microstorico funziona come un’illuminazione. Numerose contraddizioni che hanno caratterizzato la sua esperienza dall’adolescenza in poi — soprattutto l’alternarsi incessante di periodi di violento ‘egoismo’ e di periodi di totale dedizione agli altri e di ascetismo religioso -, vissute come gravi incoerenze, cominciano ad assumere un senso. A posteriori, anche la trama della recente esperienza delirante — che ha vincolato il suo viaggio verso la libertà alla missione di liberare dal sequestro dei bambini handicappati - riesce comprensibile. Come pure la struttura profonda della sua esperienza, che subordina alla mortificazione e al dolore la possibilità di godersi ‘freneticamente’, e per un breve periodo, la vita.

Ma c’è di più. Come in tutte le famiglie di tradizioni nobiliari, in quella di Patrizia, sia da parte materna che paterna, alcuni rami sono decaduti per via dei ‘vizi: donne, cavalli, gioco. La famiglia ristretta di Patrizia è stata ed è ossessionata da un estremo rigore moralistico, vedendo in esso l’unica difesa contro una minaccia vissuta come intrinseca all’agiatezza. Ciò spiega il fatto che essa ha reagito in maniera ottimale alla ‘malattia’ di Patrizia, ma ha sviluppato un vero panico quando ha saputo che Patrizia ‘fumava’ attribuendo la crisi all’uso della droga, e instaurando riguardo a questo un controllo piuttosto rigido esercitato sull’erogazione di denaro.

L’ossessione moralistica della famiglia è, naturalmente, il filo conduttore di una ricostruzione microstorica che giunge alle radici dell’esperienza di Patrizia. Nel suo rigore, essa ha investito anche l’uso paradossale degli spazi abitativi della dimora familiare. Quando Patrizia era ancora piccola, la famiglia ha acquistato un’enorme villa di tre piani. Nonostante la disponibilità di spazio, la villa è stata ristrutturata in maniera singolare. Il piano terra è un ambiente totalmente comunicante, che riconosce l’epicentro in un enorme salone. Al primo piano sono state ricavate, in uno spazio angusto, le camere da letto, strutturate in maniera tale da essere incastrate l’una dentro l’altra e comunicanti. Tutti gli altri ambienti sono stati adibiti a depositi di libri, documenti schedari, cimeli di famiglia. In pratica, in una villa enorme, nessuno dei membri ha potuto mai godere di un minimo di intimità! L’ossessione del controllo sembra aver avuto la meglio anche da questo punto di vista.

C’è, inoltre, un ulteriore elemento biografico di interesse. L’impegno sociale dei genitori ha sempre richiesto la presenza in casa di governanti per i figli. Per alcuni anni, l’avvicendamento, dovuto alla insoddisfazione dei genitori, è stato frequente. Quando Patrizia aveva 4 anni, si è insediata a casa una governante che è rimasta per oltre 10 anni. Si trattava di una slava di mezza età, figlia di nobili all’epoca dell’impero austro-ungarico, deceduti dopo la prima guerra mondiale, coltissima, ma di stampo educativo ‘tedesco’.

Affascinati dalla sua proterva sicurezza, i genitori di Patrizia le hanno affidato in toto l’educazione dei figli, lasciandosi esautorare. La governante, presumibilmente gonfia di rancori per il ruolo umiliante cui la sorte l’aveva costretta, ha instaurato su Patrizia e sui fratelli un vero e proprio regime di terrore, con regole severissime, e, in caso di trasgressioni, ricorso a punizioni fisiche. La dedizione ‘maniacale’ ai suoi doveri di istitutrice ha indotto i genitori a minimizzare le proteste dei figli. Nel loro intimo, come hanno poi confessato, non erano affatto d’accordo sui principi e sui metodi repressivi dell’istitutrice. Ma, consapevoli della loro sostanziale debolezza di carattere nei confronti dei figli, ritenevano che quella donna potesse funzionare come un giusto contrappeso. Si sono ricreduti solo quando uno dei figli, adolescente, ha cominciato a reagire ingaggiando con l’istitutrice dei corpo a corpo furibondo, che resero necessario il licenziamento.

Terminato così il regime del terrore per tutti i figli, cominciò per Patrizia, che si era appena sviluppata, il regime del controllo ‘maschilista’, affidato ai fratelli che, a turno, dovevano vigilare su di lei. Questa precauzione, giustificata dalla precoce avvenenza di Patrizia e dal ceto sociale, affonda le sue radici in una singolare preoccupazione materna. Il padre di costei si era, infatti, unito in matrimonio con un'attrice, la cui fama era legata a ruoli di donna fatale, romantica e ‘dannunziana’. Nonostante il matrimonio prestigioso, che segnò la fine della carriera artistica, l’ombra di una vita non immune da sregolatezze rimase incombente su tutta la famiglia. Patrizia con la sua precocità e la sua irrequietezza, ha risvegliato nella madre fantasmi di perdizione mai sopiti. I suoi tentativi di avviare esperienze sentimentali sono stati sistematicamente ostacolati e interrotti con il richiamo alla giovane età e ai doveri.

A 17 anni, Patrizia, rinunciando agli affetti mondani, si lancia in un’avventura mistica. Si appassiona a letture bibliche, frequenta comunità cristiane, stabilisce rapporti con teologi progressisti. Riceve l’approvazione dei sui finché non appare chiaro che anche questa passione esprime un difetto di misura e di equilibrio, una sorta di sregolatezza costituzionale. E, peraltro, al culmine di questo tentativo di controllo ascetico che Patrizia comincia ad aver paura di impazzire.

La ricostruzione microstorica consente a Patrizia di vedere su quale ordito — estremamente complesso e contraddittorio - si è organizzata la trama delle sue esperienze, la cui struttura è mantenuta in equilibrio da un compromesso adialettico tra istanze repressive e istanze oppositive. Patrizia deve vivere nella riservatezza, nella mortificazione, nella dipendenza e nell’ipercontrollo; in virtù di questa rinuncia alla libertà, che tutela la sua vulnerabilità, essa può opporsi al destino tradizionale della donna, che si subordina all’uomo per esserne protetta e repressa. Ogni tentativo di cambiare questo equilibrio è esitato in una catastrofe, perché Patrizia, attaccando i controlli parentali e i controlli superegoici, si è sempre sentita minacciata dall’esposizione al mondo della sua vulnerabilità. La sua coscienza critica, addirittura esasperata nella percezione della repressione, è venuta sempre ad urtare contro un ostacolo insormontabile: la convinzione, profondamente radicata dentro di lei, che la donna di fatto è un essere vulnerabile, insufficiente e sregolato. Tutti i tentativi di liberazione, realizzatisi sotto la spinta della rabbia, non hanno fatto altro che confermare questo nucleo ideologico.

Due sogni confermano queste conclusioni.

Nel primo, Patrizia sta a letto con Camilla in un atteggiamento di intimità. Avverte dei rumori che provengono dalla finestrella della cucina. Si sporge da questa e vede un poliziotto. La chiude, certa che di lì non si può penetrare. Va a controllare che anche la porta d’ingresso blindata sia chiusa. Ma, nel salotto, vede il padre, ed è preda della rabbia e della confusione. Da dove può essere entrato? L’intimità di Patrizia, nonostante le difese adottate che avrebbero dovuto renderla impenetrabile, è, dunque, sotto controllo sempre. E si tratta di un controllo ‘maschilista’, veicolato dalle sue istanze superegoiche, tale che se essa rifiuta di assoggettarsi all’uomo, non può comunque lasciarsi andare agli affetti e all’erotismo. Deve comunque vivere in uno stato di allarme.

Nel secondo sogno, la protagonista è di nuovo Erba, che ha subito una radicale trasformazione. E’ inerte ed inerme, ha lo sguardo spento e vagamente impaurito. Sorprendentemente, si lascia avvicinare da estranei senza dare alcun segno di reazione. Patrizia pensa che Erba sia stata sottoposta a lobotomia.

Non ci vuole molto a capire che il sogno denuncia e drammatizza gli effetti dell’esperienza terapeutica. Patrizia ha concesso ad un uomo di accedere nel suo mondo interiore, e sente che ciò ha prodotto dei cambiamenti radicali, restituendole un desiderio di socialità prima mortificato dal mantenere in atto delle difese molto aggressive. In conseguenza di ciò, si sente però nuovamente inerme e manipolabile, incapace di reagire. E’ un bene o un male, dunque, ciò che le è accaduto? Evidentemente, è un bene nella misura in cui le restituisce il bisogno di una relazione più partecipe ed intima con il mondo; un male, nella misura in cui Patrizia pensa di non poter né dover esercitare alcun bisogno di opposizione, necessario a difendere la sua identità.

Il problema, ora, è di integrare il bisogno di socialità con il bisogno di individuazione, lavorando, nella pratica della vita, su di un’alienazione che ormai è evidente nella sua genesi. L’incubo della follia è scomparso. Una struttura di esperienza adialettica, statica e minacciata dal rischio di una repressione sempre più radicale è stata resa potenzialmente evolutiva, dinamica, e ciò è avvenuto in virtù di una presa di coscienza irreversibile.

Patrizia sa che la sua rabbia nei confronti del sistema di valori inculcatole dalla famiglia aveva ed ha le sue ragioni; sa anche che queste non bastano a produrre un autentico cambiamento se non vengono usate dialetticamente, e cioè se non danno luogo ad un diverso modo di essere nella pratica della vita.

 
Considerazioni teoriche sull’esperienza di Patrizia

1. Il falso problema della diagnosi

Il revival neoprichiatrico ha prodotto, tra l’altro, una sorta di rilancio del tecnicismo diagnostico. Diagnosi, etimologicamente significa riconoscere attraverso. La nosografia psichiatrica sembra aver preso alla lettera l’etimologia: il suo sforzo è tutto orientato ad individuare il nucleo psicopatologico, che, naturalmente, non coincide mai con le apparenze. In un certo qual modo, si potrebbe affermare che la neopsichiatria ha assimilato il codice psicodinamico ideologizzandolo entro il suo sistema di riferimento. La conseguenza di ciò è che le diagnosi risultano ormai sempre più serie rispetto alle apparenze. E’ come se non esistessero più criteri diagnostici elementari: ciò che appare — i vissuti, i sintomi e i comportamenti - è ricondotto a ciò che non appare; e ciò che non appare è sempre un processo organico estremamente insidioso, al limite dagli esiti imprevedibili. Fare degli esempi non è difficile: in tutte le condizioni nevrotiche si coglie, ormai, un nucleo disforico, e cioè delle valenze depressive; in molte condizioni nevrotiche giovanili si colgono elementi atipici atti ad integrare il progetto diagnostico di una sindrome border-line; tutti gli episodi acuti danno luogo alla diagnosi di un processo psicotico irreversibile. In un certo qual modo, rispetto alla tradizione psichiatrica — che comportava una classificazione nosografia in tre grandi categorie (psicosi organiche, psicosi endogene, modi di essere abnormi nevrotici e psicopatici) - è avvenuta, a livello neopsichiatrico, una sorta di drammatizzazione diagnostica che comporta il sospetto di valenze ‘psicotiche’ in ogni esperienza psicopatologica. Non è arduo capire il significato storico e ideologico di questa drammatizzazione.

Ad essa hanno concorso tre diverse circostanze correlate tra loro: in primo luogo, l‘impotenza terapeutica, attestata dal fatto che l’intervento neopsichiatrico, efficace solo e non sempre sugli episodi acuti, non sembra mai in grado di modificare l’evoluzione delle sindromi; in secondo luogo, la necessità di convalidare in ogni caso — a fini di cura, prevenzione e mantenimento - l’uso degli psicofarmaci, esaurendosi il potere neopsichiatrico nella prescrizione di questi; in terzo luogo, l’esigenza di tutelare un prestigio professionale ancora elevato (la corporazione psichiatrica è, purtroppo, la categoria medica che gode ancora il maggior credito popolare…) in virtù di previsioni prognostiche negative, che si realizzano nonostante gli interventi terapeutici.

Detto ciò, bisogna aggiungere che ogni aggiustamento ideologico deve pur corrispondere a dei processi reali che non possono essere più contenuti negli schemi ideologici preesistenti. C’è da chiedersi, dunque, quale sia il referente reale della drammatizzazione diagnostica e prognostica neuropsichiatrica. Rispondere a questo quesito, significa cogliere un aspetto paradossale ma di grande interesse. I cambiamenti sociali e culturali intervenuti negli ultimi decenni hanno di fatto allentato le gabbie reali e incrementato le gabbie mentali. In altri termini, la normalizzazione è sempre più affidata al controllo interpersonale, agli occhi della gente, e sempre meno a istituzioni manifestamente repressive.

L’esperienza di Patrizia, da questo punto di vista, è esemplare: fino a qualche decennio orsono essa sarebbe stata affidata a vita ad un’istituzione psichiatrica (casomai privata); negli anni ’70, la famiglia preferisce affidarla al controllo sociale, liberarla dalla famiglia ed inserirla nella società. Decisione inconsapevolmente ragionevole: nell'interazione con contesto sociale, Patrizia sviluppa un vissuto persecutorio che funziona come un potente ipercontrollo.

Quale è la conseguenza di quest'aumento della libertà individuale a livello psicopatologico? La conseguenza è che le persone che soffrono di un disagio psichico più facilmente si destrutturato criticamente e più facilmente si ristrutturano. In concreto: una crisi psicotica può reintegrarsi nel giro di alcuni giorni, una nevrosi — per esempio isterica - può sconfinare nel tempo dal primo al secondo livello. La nosografia — con i suoi schemi classificatori cartesiani — non ha letteralmente più senso: essa si confronta con un universo, quello psicopatologico, dinamico e comunicante. Da ciò non possono discendere che due conseguenze: o si rinuncia al concetto tradizionale di malattia o lo si radicalizza, fino al punto di ammettere valenze psicotiche di origine genetica sottostanti ogni esperienza di disagio. E’ ovvio che l’ideologia neopsichiatrica ha optato per questa seconda alternativa. Ciò che a livello teorico, non viene esplicitato, risulta dalla pratica: dopo un solo episodio psicotico — distimico o delirante - vengono proposte terapie preventive o di mantenimento con il Litio o con la fenotiazine ad azione ritardata; il Litio viene prescritto praticamente in quasi tutte le depressioni; psicofarmaci maggiori — Serenase, Nozinan, Anatensol, Melleril, ecc.- si associano ormai comunemente agli ansiolitici e agli antidepressivi nelle forme nevrotiche.

La neopsichiatria si sente letteralmente perseguitata dalla sua impotenza a lungo termine, e reagisce proiettando i suoi fantasmi ideologici sulle esperienze di disagio psichico.

Non sorprende, pertanto, che, nell’esperienza di Patrizia, l’eccitamento delirante sia indotto dal brutale approccio clinico, e sia oggettivato come prova di una malattia già troppo avanzata per essere adeguatamente curata.

La neopsichiatria è una ‘scienza’ singolare: l’unica che insiste a pensare che l’intervento su di un fenomeno — nel caso particolare, l’entrare nel campo della psichiatria - non comporti alcun cambiamento del fenomeno stesso. Si può solo contestare questa arretratezza epistemologica della neopsichiatria rispetto a tutte le altre scienze, ma addirittura argomentare il contrario: e cioè che essa cristallizza, e rende spesso irreversibile, una situazione dinamica che pretende di curare.

L’esempio più chiaro è rappresentato dalla psicosi maniaco-depressiva, che è il cavallo di battaglia della neopsichiatria. Si tratta, anzitutto, di una clamorosa falsificazione dei dati psicopatologici. Gli episodi sono momenti di destrutturazione di una struttura psicopatologica che è sempre riconoscibile, ma che, essendo di tipo ossessivo, può essere facilmente equivocata come normalità. Nei periodi intervallari, caratterizzati secondo la neopsichiatria da una completa assenza di sintomi, è per l’appunto quella struttura che si reintegra. La ciclicità degli episodi distimici è, dunque, un epifenomeno: sia sul versante depressivo che su quello maniacale, essa rappresenta solo il vicolo cieco cui si destina una struttura soggettivamente instabile vissuta come normalità. Infine, da un punto di vista psicopatologico, non esistono forme pure di psicosi maniaco-depressiva: nelle fasi maniacali è sempre ricostruibile un ‘delirio’ di sregolatezza, e cioè un delirio che identifica la libertà con la trasgressione; nelle fasi depressive, altresì, è sempre ricostruibile un ‘delirio’ di colpa, che identifica la purificazione con l’estinzione dei bisogni vitali. La dinamica delle psicosi maniaco-depressive verte su di un ipercontrollo, subendo il quale si va verso la morte, attaccando il quale si va verso l’ esclusione sociale. E, dato che la morte è meno terribile dell’esclusione sociale — della morte civile -, l’orientamento soggettivo, che diviene evidente nei periodi intervallari, è di confermare la repressione, di frustrare la libertà e, in ultima analisi, di giungere a rinunciare ad essa come fosse un vizio o una droga. Questo progetto non coincide mai con il livello di coscienza, ma risulta sempre trasparente nell’organizzazione della vita, e, in particolare, negli intervalli tra le fasi critiche. E’ dunque il dramma di una libertà irriducibile e, nel contempo, vissuta come un male da estirpare il leitmotiv di ogni esperienza maniaco-depressiva.

La neopsichiatria appare del tutto inconsapevole di questo dramma: essa oggettiva le crisi — depressive e maniacali - come espressione di uno squilibrio del sistema biochimico che regola il tono dell’umore, che ha un significato univoco quale che sia la polarità nella quale si esprime. Ma, nei fatti, data la pericolosità sociale dell’eccitamento maniacale, l’orientamento terapeutico è sostanzialmente repressivo. Esso, cioè, va nella stessa direzione del progetto soggettivo. Il paradosso è che, nella misura in cui questo progetto viene ad essere confermato e si pretende realizzarlo dall’esterno — riproducendo cioè oggettivamente la situazione che ha prodotto l’alienazione del bisogno di libertà -, esso forza il soggetto a difendersi identificando la sua libertà con la libertà alienata. In altri termini, l’intervento terapeutico, nella sua insensatezza, cristallizza il soggetto in un vicolo cieco dal quale non può più uscire.

L’esperienza di Patrizia è significativa a riguardo. Essa entra in clinica depressa e minacciata da un delirio di colpa che la induce a togliersi la vita; assoggettata ad una brutale repressione, la situazione psicopatologica vira repentinamente in un eccitamento delirante il cui obiettivo è di infrangere le catene che le sono state poste. All’ingresso, Patrizia esprime un vissuto molto vicino alla verità strutturale: essa ha paura della libertà, la vive come una minaccia autodistruttiva e vuole essere protetta dall’esterno, non avendo alcuna fiducia nella sua capacità di autoregolazione. Quando esce dalla clinica, Patrizia è lontana dalla verità: è orientata verso una libertà che postula la separazione dall’ambiente familiare protettivo e repressivo e il venir meno di ogni controllo relazionale. Occorreranno anni per ricondurre Patrizia là dove essa era già arrivata: a prender coscienza della sua paura della libertà e ad interrogarsi su di essa.

 2. La famiglia come sistema microstorico

L’insistenza sul tema del rapporto tra disagio psichico e sistema familiare non deve sorprendere. Se ci si affranca da un’ideologia organicista — che assume la famiglia solo come pool genetico, e cioè come sistema di trasmissione di predisposizione ereditarie -, il nodo della famiglia come ambiente all’interno del quale si costruisce interattivamente la personalità diventa imprescindibile. Ovviamente, considerare, in particolare oggi, la famiglia come un sistema chiuso o come l’unica istituzione pedagogica che determina la struttura della personalità è arbitrario. Già alcuni decenni or sono uno storico scriveva che i figli sono figli più del loro tempo che dei genitori. Non si vede oggi come si possa ignorare l’incidenza dell’istituzione scolastica, del gruppo dei coetanei, dei mass-media, del quartiere, ecc. Cionostante, rimane inconfutabile il peso e l’incidenza dell’ambiente familiare sulla strutturazione della personalità, e pertanto il suo porsi come un nodo essenziale per qualunque teoria del disagio psichico non riduttivamente organicista.

La famiglia può essere considerata da vari punti di vista, ovviamente ideologici. Nella storia della psichiatria, se ne possono definire almeno quattro:

1) il punto di vista freudiana è sorprendentemente ingenuo e preda delle apparenze. In tutti i casi freudiani, i genitori risultano identificati dal loro status socio-culturale. Sono univocamente ottime persone, talora addirittura straordinarie (Schreber padre). E’ superfluo aggiungere che quest'ingenuità, che esprime un cieco conservatorismo, incide su tutto il sistema teorico freudiano, costringendo le intuizioni rivoluzionarie entro schemi meramente psicologismi.

2) il punto di partenza neofreudiano che, valorizzando il determinismo culturale riferito strettamente all’ambiente familiare, si pone alla ricerca di tipologie genitoriali patogene. Arieti, che è l’estremo rappresentante di questo punto di vista, riconduce ogni forma di schizofrenia ad una costellazione familiare specifica. Esisterebbero dunque padri paranoidogenetici, madri ebefrenizzanti, ecc.

3) il punto di vista sistemico oggettiva la famiglia come un contesto comunicativo che funziona o no, nel senso di promuovere o meno la crescita e la differenziazione individuale, a seconda che esso rispetti o non rispetti le leggi universali della comunicazione pragmatica. Il limite di questo punto di vista è duplice: anzitutto, esso enfatizza i temi della crescita e del cambiamento ma in rapporto ad un modello di normalità che sembra ridursi all’acquisizione di una buona capacità comunicativa nel mondo così com’è; in secondo luogo, esso sembra interessato solo alla forma delle comunicazioni e non ai codici —e cioè ai sistemi di valore- che rappresentano lo specifico della comunicazione interpersonale.

4) il punto di vista antipsichiatrico radicale, mutuato da molte correnti sociologiste, vede nella famiglia solo un’istituzione persecutoria votata univocamente a reprimere la libertà dei figli al fine di agevolarne l’integrazione adattiva alla società o di imporre ad essi, come valore supremo, l’onore della famiglia.

Il difetto comune a questi punti di vista, pur diversi tra loro, è di cogliere, ciascuno, un aspetto parziale dell’organizzazione familiare e di teorizzarlo. Un maggior rispetto alla complessità del reale impone di adottare un punto di vista diverso: di assumere cioè la famiglia come un agente storico il cui fine — la produzione culturale di individui - si realizza in virtù di rapporti interpersonali sovrastrutturati dalle memorie familiari e dai codici ideologici normativi adottati dai genitori.

Questo punto di vista non è riduzionista, nel senso che esso non porta né ad ignorare né a misconoscere i livelli psicologici dei rapporti familiari — intersoggettivi e comunicativi -, ma impone di tener conto sia della microstoria familiare, depositata sotto forma di memoria più o meno organizzata, sia dell’appartenenza della famiglia ad un contesto storico, attestata dal sistema di valori e, dunque, dalla visione del mondo che essa veicola.

La complessità tridimensionale — microstorica, storica e psicologica - del sistema familiare rende comprensibile il fatto che nessun nucleo familiare può pervenire all’autocoscienza e può risultare immune da contraddizioni: posto ciò, è chiaro che il grado di mistificazione di un sistema familiare è direttamente proporzionale alla confusione delle diverse dimensioni che lo animano, e che il sistema più mistificato è quello che tende ad unidimensionarsi psicologicamente, quello cioè che tende ad imbrigliare la coscienza dei membri nello spazio psicologico interpersonale.

L’esperienza di Patrizia è esemplare di questa confusione, tanto più che i livelli microstorici e storici del sistema familiare hanno un’evidenza inoppugnabile.

In che cosa consiste, infatti, la follia di Patrizia al suo esordio, quando essa si pone come una ‘mania’ suicida? Patrizia vive il sistema familiare come un regime così oppressivo e persecutorio dal non vedere altro modo di affermare la sua libertà che quello di sottrarsi ad esso autodistruggendosi. Ma i genitori di Patrizia, in quanto persone, non sono né tirannici né persecutori: sono genitori disponibili, affettuosi e liberali. Patrizia, evidentemente, confonde tre dimensioni: l’essere concreto dei genitori, la logica della vita come sacrificio e donazione totale di sé agli altri che discende dalla microstoria familiare, e, in particolare, da una condizione di agiatezza vissuta come un privilegio da espiare, e la visione del mondo elaborata dai genitori incentrata sulla tendenza dei forti a sopraffare i deboli, che li ha portati a schierarsi dalla parte di questi ultimi. Questa visione del mondo ha determinato un rapporto protettivo con i figli e l’organizzazione di una vita familiare tale che la libertà dei figli, per essere tutelata dal rischio di esporsi a sopraffazioni, è stata costantemente sotto controllo. Ma la logica sacrificale ha comportato una contraddizione insolubile: come donarsi infatti totalmente agli altri senza correre il rischio di essere manipolati? La soluzione adottata dai genitori è stata quella di votarsi a coloro che, per essere deboli e bisognosi di assistenza, non possono sopraffare. Ma è proprio questo modello di vita che risulta persecutorio per Patrizia, poiché esso postula la donazione non lo scambio, il sacrificio non l’esercizio della libertà, la carità — come espressione della propria forza - non l’investimento degli affetti, come una manifestazione di un bisogno.

E’ uno strano modello adultomorfo che trae alimento dalla debolezza degli altri con cui si è in relazione. E', infine, un modello costrittivo, poiché esso, così come impone di accettare la logica del potere nelle relazioni umane, in conseguenza della quale, laddove c’è relazione, c’è chi domina e chi è dominato, ne fornisce una versione che la umanizza senza risolverla in virtù della quale, nonché sopraffare, i forti possono assistere i deboli e questi, noché vivere nella frustrazione e nella rabbia, possono vivere nella gratitudine.

L’esigenza di Patrizia di affrancarsi dalla famiglia va riferita meno ai genitori in quanto persone che non alla loro singolare visione del mondo nella quale è confluita — indubbiamente ‘nobilitandosi’ - una logica sacrificale maturata microstoricamente. Ma è evidente la trappola ideologica nella quale si è cacciata l’esperienza di Patrizia: se essa attacca il legame con la famiglia e investe la sua libertà nella relazione con il mondo, cosa potrà proteggerla dalla logica di potere che è la legge della relazione?

Sacrificarsi, diventando forte, a favore dei deboli, degli emarginati, dei devianti. Ma se la vita non è altro che sacrificio, donazione di sé, perché non giungere alle estreme conseguenze? Perché non sciogliersi da quest'inferno con un solo gesto risolutivo, che condensi la libertà e il sacrificio?

Se un sistema familiare induce in un figlio questa tragica soluzione, può esso non essere vissuto come persecutorio? Sarebbe vano, però, tentare di ricavare deterministicamente questa soluzione dei livelli intersoggettivi, interesperienziali e comunicativi. Patrizia,in virtù della sua esperienza, elabora una tematica propria della visione del mondo familiare e giunge ad una soluzione personale, paradossalmente ‘creativa’: una variazione sul tema, com’è proprio di ogni esperienza umana, che cerca di dare significato al mondo a partire da come esso è significato, e che ripropone sempre i bisogni di libertà individuale e di giustizia nei rapporti tra le persone in termini la cui drammaticità misura la frustrazione di quei bisogni.


5. Federica

(La psicoterapia di Federica è stata portata avanti dalla dott.ssa Elvira Rossi, amica e allieva, alla quale ho fornito la supervisione)

Come spesso accade, anche per Federica, il primo episodio critico cui va incontro è una ‘ouverture’ che contiene già tutte le tematiche su cui si svolgerà l’esperienza successiva: e sono tematiche strutturali attraverso le quali traspare, condensato sul registro di un conflitto insolubile tra bisogni, un passato drammatico.

Federica, la cui carriera di vita si è svolta sino a quel punto all’insegna della docilità, dell’obbedienza, della diligenza, del rispetto dei valori tradizionali (studio, riservatezza), un ruolo insomma di ‘brava ragazza’ di buona famiglia, una sera, pochi giorni prima del suo diciottesimo compleanno, esce di casa in vestaglia e va ad offrire il suo amore e la sua disponibilità ad un ragazzo che conosce appena, ma di cui si è infatuata.

Ricondotta a casa dal padre, Federica si spoglia, gira per casa completamente nuda, sporcando tutto con le sue mestruazioni e opponendosi violentemente ai tentativi dei genitori di rivestirla. Non riuscendo in alcun modo a contenerla, i genitori sono costretti a ricoverarla, con un T.S.O. in un servizio psichiatrico ospedaliero di diagnosi e cura.

Il primo giorno di ricovero, Federica è contenuta a letto, completamente nuda, chiede che le si porti lì Stefano per fare l’amore con lui e scaccia con sputi e parolacce i suoi familiari.

E’ particolarmente aggressiva con la madre che accusa di non credere in Dio e di non fare l’amore con il marito, e con la sorella, di due anni maggiore di lei, verso la quale ha un atteggiamento duro e distaccato; dice che non è sua sorella e che deve andare in galera.

Nei giorni successivi, i sintomi di Federica regrediscono e dopo dieci giorni viene dimessa dall’Ospedale, con il consiglio di continuare una terapia familiare nell’ambulatorio del CSM.

In breve tempo, Federica riprende la sua vita di prima, torna a scuola e, dopo circa 5 mesi, la famiglia decide di concludere la terapia in quanto non più necessaria. Ai loro occhi, Federica è guarita; si è trattato solo di una brutta esperienza che è meglio dimenticare.

Già in questa prima crisi sono presenti tutte le dinamiche dell’esperienza successiva di Federica:il volersi liberare dell’habitus di brava ragazza in cui è stata insaccata fino allora e nel quale non c’è posto per l’espressione del suo bisogno d’amore e di relazione con il mondo, e il rivelarsi agli occhi della gente come un essere senza controllo sugli affetti e sull’esterno, totalmente disponibile e dunque vulnerabile, senza difese.

Federica  vuole liberarsi dell’abito monacale che ha costituito finora una corazza difensiva contro il mondo esterno, ma nel momento in cui sente questo desiderio di libertà non può che mettersi a nudo dinnanzi a tutti rivelando il suo modo di vivere la femminilità come qualcosa di sporco.

In questa drammatica dicotomia tra un modello di vita ascetico e il concedersi a tutti come un essere debole e privo di qualsiasi potere, non è un caso che Federica usi le sue mestruazioni, segno certo dell’appartenenza alla categoria degli esseri deboli e penetrabili, per attaccare gli altri, contaminandoli e sporcandoli, trasformando quindi la sua debolezza in forza.

I genitori di Federica sono entrambi originari di un paesino della Toscana. All’età di vent’anni, subito dopo essersi fidanzati, lasciano il paese per andare a lavorare a Roma. La madre va a servizio presso una famiglia mentre il padre trova impiego prima in un negozio di fruttivendolo poi in un bar come garzone.

Dopo cinque anni prendono in affitto un appartamento di una stanza al centro della città e si sposano.

Continuano a lavorare duramente e in due anni di sacrifici riescono ad accumulare una discreta somma. Chiedono poi dei prestiti ai genitori riuscendo così a mettere insieme la cifra necessaria per comperare un appartamento di due stanze in periferia.

Poco dopo, nasce la prima figlia. La madre riferisce un’esperienza drammatica sia rispetto al parto sia rispetto ad una grave intolleranza al latte della bambina che viene ricoverata per un periodo in ospedale.

In questo periodo muore il nonno materno di Federica. La nonna, restando con un figlio adolescente (nato a distanza di 18 anni dalla madre di F.) si trasferisce a Roma a casa della figlia con la motivazione apparente di far studiare il figlio, ma in realtà per un suo sentirsi inadeguata ad occuparsi da sola di lui.

Dopo un anno la madre di Federica è di nuovo incinta; è preoccupata per l’esperienza avuta con la prima figlia, piange spesso e vive tutta la gravidanza con una grossa angoscia, come una calamità alla quale purtroppo non può sottrarsi.

Il parto invece risulta molto semplice. Federica, poi, non crea alcun problema: è una bambina buonissima, mangia regolarmente e cresce bene, non dando alcuna preoccupazione alla mamma.

Dal momento in cui è nata la primogenita, la madre inizia a lavorare in casa come sarta; la nascita di Federica costringe la madre a ridurre l'attività lavorativa dovendosi occupare contemporaneamente di due bambine piccole.

Dopo cinque anni, nasce un altro figlio e poco dopo, essendo diventata la casa troppo piccola (due stanze per sette persone), la nonna con il figlio torna al paese.

Continuando a lavorare il papà di Federica come autista in una ditta dolciaria privata e la madre come sarta, riescono a raggiungere un livello di vita appena decoroso mantenendo i loro tre figli agli studi.

I parenti contadini che sono rimasti al paese sono invece riusciti a raggiungere una certa agiatezza anche in seguito ad una divisione non equa della eredità.

Traditi dai familiari, deluse le loro aspettative di fare fortuna in città, i genitori di Federica si trovano a vivere una realtà sociale in continua evoluzione di cui non condividono i valori e cercano di sopravvivere rinchiudendosi nel nucleo familiare e facendosi scudo della loro unione contro le minacce del mondo esterno.

Un presunto tradimento del marito avvenuto tre anni prima della crisi di Federica sconvolge questo sistema familiare andando ad intaccare uno dei suoi valori fondamentali, "l’onore.

C’è da pensare che:

1) la ‘buona’ famiglia sia un microsistema il cui equilibrio si fonda, sostanzialmente, sulla paura degli occhi della gente, e quindi su di un assoluto conformismo;

2) il ruolo di brava ragazza assunto da Federica sia l’effetto di un rigido ipercontrollo instaurato sui suoi bisogni personali; ipercontrollo funzionale a soddisfare le aspettative della famiglia e a farla sentire forte ed equilibrata in rapporto al mondo esterno;

3) i bisogni personali di Federica, assoggettati ad una lunga frustrazione ambientale e soggettiva, siano giunti a configurarsi come bisogni la cui realizzazione postula la perdita di controllo, la trasgressione e lo scandalo; come bisogni, dunque, alienati che, per essere soddisfatti, richiedono che Federica si violenti, esponendo senza difesa la sua vulnerabilità, e violenti sia l’onore familiare che le regole sociali.

Si intuisce che la struttura di esperienza di Federica è adialettica. Essa riconosce infatti solo due ruoli: il ruolo della brava ragazza di buona famiglia dipendente dai suoi e riservata; e quello di donna che si apre alla relazione con il mondo senza riserve.

Dopo un anno circa dalla prima crisi (che si era conclusa con l’esplicitazione da parte di Federica del suo progetto: rinunciare all’amore e tornare a sacrificarsi riassumendo il ruolo di brava ragazza) il giovedì grasso, dopo essere stata con un’amica a vedere all’uscita dalla scuola il ragazzo a cui l’anno prima aveva dichiarato il suo amore, ha una discussione con la madre riguardo al suo desiderio di uscire in strada mascherata.

Federica vorrebbe confezionarsi una maschera ma riesce solo a farsi un cappello bianco che la madre trova sconveniente (da ‘pazza’) e le suggerisce di mascherarsi con la solito camicia da notte.

Federica rinuncia alla maschera, esce, e dopo aver telefonato a casa, avvisando i genitori, passa la notte fuori; rientra alle due del mattino accompagnata da un ragazzo che, come essa stessa riferisce, ha conosciuto a Piazza Navona e vedendola da sola e disorientata l’ha accompagnata a casa in taxi.

Agli operatori del C.S.M che si sono recati a casa sua, Federica riferisce che lei non può fare nulla, contrapponendo il suo essere rigidamente controllata dalla madre alla libertà concessa alla sorella che ha solo due anni più di lei.

Aprendo il suo armadio, mostra i vestiti confezionati dalla madre sarta e dice che non ha nulla da mettersi, che lei non ha vestiti, che nell’armadio non c’è nulla di suo e la tuta da ginnastica che indossa è del fratello.

Federica esprime drammaticamente il suo essere stata insaccata dalla madre in abiti che non sente suoi e che la costringono in un ruolo che non le permette di esprimere i suoi bisogni personali e nei quali si sente come una bambola.

Ed è in questo senso che evolve la crisi di Federica che si blocca non reagendo più a nessuno stimolo esterno e regredendo in una condizione di grave catatonia.

Viene quindi ricoverata al Servizio di diagnosi e cura, ancora in T.S.O.

Non tollerando la cattiveria che sente dentro di sé, nel momento in cui si oppone ai suoi familiari, ribellandosi al ruolo sacrificale che fino ad allora si era imposto, Federica si difende dall’emergere del desiderio di vivere con l’unica modalità a lei nota, l’anestesia affettiva nei confronti della famiglia e del mondo esterno.

Il blocco psicotico aggravato da un’intolleranza ai neuroelettici porta ad uno stato di coma al risveglio dal quale Federica riafferma di non avere abiti suoi da indossare ma accetta al contempo le minestrine che la madre le imbocca e indossa come una bambola le camice da notte che la madre confeziona per lei.

Federica alterna atteggiamenti caricaturali da burattino in cui esprime il suo lasciarsi manovrare dagli altri (soprattutto in presenza dei familiari) ad una richiesta di aiuto rispetto al suo bisogni di individuazione e di cominciare a camminare con le sue gambe.

Con questo conflitto irrisolto tra bisogni, Federica, dopo il ricovero, riprende la sua vita di ragazza nomale sbalordendo tutti con la sua improvvisa ‘guarigione’. Per una seconda volta, pur mantenendo una velata opposizione nei confronti della madre, sacrifica se stessa (per gli altri) rifugiandosi in un falso adattamento alla famiglia e al mondo esterno.

Intravista la possibilità di una evoluzione al di là di quella che possono permettersi i suoi genitori, si ritiene utile offrire a Federica uno spazio individuale, oltre la terapia familiare già esistente.

Pur essendo sempre puntuale agli appuntamenti,Federica tenta a volte di interrompere il rapporto terapeutico dicendo che ormai sta bene e pensa di non averne più bisogno.

Riesce a reinserirsi nella scuola, è promossa e d’estate fa un viaggio all'estero con alcuni professori e compagni di classe; va poi in un campeggio e al ritorno riferisce che per la prima volta non ha avuto la nostalgia dei suoi e si è sentita integrata nel gruppo degli amici.

Nell’anno successivo, Federica riesce ad aprirsi di più a scuola, intervenendo spesso in classe durante le discussioni, guadagnando la stima dei professori e dei suoi compagni. Supera brillantemente gli esami di maturità e ciò rappresenta per lei l’ennesima prova delle sue capacità e di come lei possa uscire dall’ombra e aprirsi al mondo esterno.

Pochi giorni dopo gli esami, Federica parte in nave per l'estero con un’amica; dall’inizio del viaggio comincia ad avere atteggiamenti disinibiti e provocatori nei confronti dei ragazzi.

Quando giunge in porto, vede tutte le navi che bruciano; di notte ha sognato che a Roma c’era il terremoto e i suoi genitori morivano, è molto angosciata, si blocca e viene ricoverata in un ospedale. Dopo poche ore si sblocca e decide di continuare il viaggio; dopo alcuni giorni, si separa dall’amica dicendo che ha bisogno di fare esperienze da sola. Incontra dei ragazzi che le danno da mangiare e da bere e si concede ad uno di essi; sulla via del ritorno, denuncerà alla polizia la ‘violenza’ subita, sulla nave si blocca di nuovo e viene ricoverata in un servizio psichiatrico.

Ai genitori che vanno a riprenderla dice che sta bene, ma appena giunge a Roma chiede di andare al centro diurno del nostro CSM dove era già stata inserita due anni prima.

Dopo alcuni giorni, Federica regredisce in una condizione psicotica, caratterizzata da forti ambivalenze nei confronti dei familiari, soprattutto della madre e della sorella e da comportamenti ‘incomprensibili’ posti in atto all’interno del C.D. stesso.

Federica ha comportamenti singolari: per alimentarsi deve attuare dei rituali che mirano a distinguere ciò che è commestibile da ciò che va scartato.

Un altro comportamento riguarda le feci: per un certo periodo, Federica ha frequentemente la necessità di svuotarsi di imbrattare il bagno. Poi, il rituale si organizza più compiutamente: deve svuotarsi ossessivamente, raccogliere le feci in un sacco dell’immondizia e andarle a depositare nel secchio dei rifiuti.

Nel complesso, i rituali fanno riferimento ad un bisogno che Federica esplicita: il bisogno di mantenersi integra, mettendo dentro solo cose buone. Se fossero veramente buone, però, queste dovrebbero risultare completamente assimilabili, e non trasformarsi in rifiuti. Selezionando accuratamente il cibo e svuotandosi ossessivamente delle feci — che non ci dovrebbero essere (come ella sostiene) - Federica esprime un vissuto che è, nel contempo, intensamente rievocativo e progettuale: rievoca la sua condizione originaria di recipiente nel quale le cose buone ricevute dall’esterno dovevano essere custodite, assimilate completamente e non trasformate in rifiuti; si progetta ostinatamente come un contenitore, che riceve e trattiene tutto.

Tra le rievocazioni e il progetto c’è solo un elemento differenziale: il potere selettivo che Federica esercita sul cibo, scartando ciò che non ritiene commestibile. Il potere di opposizione che, originariamente, non è sempre possibile esercitare sul piano della realtà, nella relazione con la nutrice, e che, pertanto, si esercita interiormente, sotto forma di rifiuto. E’ su questo registro che evidentemente Federica ha esercitato quel potere, ma con la conseguenza di giungere a sentirsi piena di cattiveria e di cose sporche. Il progetto di opporsi sul piano di realtà, a livello della comunicazione tra esterno e interno, è pienamente ragionevole. Irragionevole, in quel progetto, è il pensare che dentro l’organismo —il corpo, la mente- non debba avvenire alcun processo di selezione, di opposizione e di trasformazione; o, in altri termini, che l’assimilare tutto sia la prova della bontà e dell’integrità soggettiva.

Il comportamento di Federica, che mira alla fusione del buono interno e di quello esterno in virtù dello scarto di ciò che non è commestibile e della negazione di dover sottoporre ciò che si riceve ad un processo selettivo interno, ci restituisce allusivamente una serie di verità rievocative elaborate in maniera tale da renderle sterili.

La rievocazione è accreditata da dati inerenti la storia familiare. Federica è nata a due anni di distanza dalla sorella: troppo presto — e sarebbe il meno -, ma soprattutto inutilmente, dato che il ruolo della femmina era già occupato dalla sorella. La madre non nega di aver rifiutato visceralmente la gravidanza, e di non essere riuscita a interromperla solo per remore morali. Comprensibilmente, nega di aver rifiutato la figlia dacché è nata. Non c’è dubbio, però, che Federica è stata allevata in un regime carenziale: affettivo, dovendosi la madre da sola dedicare a due figlie piccole, ed economiche, essendo le condizioni familiari appena sufficienti al mantenimento e rese più precarie dall’aver dovuto la madre allentare un’attività lavorativa domestica (di sarta).

Federica, insomma, è nata con il piede sbagliato: in quanto altra ‘bocca da sfamare’ ha attivato fantasmi di precarietà già presenti nel vissuto familiare. E si è dovuta, pertanto, accontentare delle briciole: meno forse sul piano alimentare - - per quanto pare vero che la madre pretendeva che non rifiutasse nulla -, che sul piano affettivo. C’è da chiedersi come essa abbia interagito con questo regime carenziale. La risposta appare ovvia: riducendo, per un verso, la quota dei suoi bisogni, delle richieste, e, per un altro, cercando precocemente di meritarsi ciò che le veniva dato. In pratica, scontando come una colpa il suo essere di peso. Cos’altro può avere significato questo se non assumere un atteggiamento completamente passivo e accondiscendente nei confronti delle aspettative parentali — della madre, soprattutto - rinunciando ad ogni opposizione e, dunque, all’individuazione? Federica ha tentato di prendere dentro di sé, come buone, queste aspettative e di assimilarle, conformandosi ad esse per assicurarsi, come un’elemosina, un po’ d’amore. E deve esserci riuscita, se è vero che è giunta ad assumere, per la madre, il ruolo di figlia prediletta. Ma a che prezzo? La riposta non può prescindere dall’analisi delle aspettative materne. A questo punto, il discorso può procedere solo sulla base di indizi.

In un altro contesto storico e culturale, il destino di Federica, figlia inutile, in soprannumero e di peso, sarebbe stato quello di essere avviata al convento. Nel suo contesto, è stata avviata ad un modo di essere ascetico, incentrato sul rifiuto del mondo, sulla rinuncia ad ogni piacere, sul culto della virtù, della modestia.

La prova di ciò non è fornita solo dal suo modo di vivere — tra casa, chiesa e scuola- sino all’epoca della crisi. C’è un indizio più importante. La madre, sarta, le ha sempre confezionato degli abiti ‘monacali’, nei quali Federica si è insaccata senza protestare. E’ un caso che, lanciandosi verso l’amore, nella notte che ha inaugurato la storia della malattia, essa si sia spogliata, uscendo in vestaglia?

Come tante donne tradizionali, la madre di Federica ha vissuto il matrimonio — e i rapporti coniugali - come un dovere e una costrizione. Non ha mai provato piacere, bensì solo l’ignomia di doversi concedere ogni tanto al marito, di doversi far penetrare. Nel suo inconscio, presumibilmente, Federica è stata colei che doveva riscattarla — e riscattare il ruolo subordinato e infelice delle donne sposate -, rimanendo impenetrabile ai desideri e agli affetti. Il tradimento del marito, che ha sconvolto la vita familiare due anni prima che Federica si ammalasse, nonché essere stato colto come una denuncia del rapporto coniugale insoddisfacente, ha funzionato come un’ulteriore conferma della natura infida e sostanzialmente incline all’immoralità degli uomini: conferma, dunque, della necessità di guardarsi da essi e di non cedere mai ai loro desideri. Ammalando, Federica ha abbandonato di colpo il suo ruolo di ‘manichino’ e ha espresso un bisogno di opposizione lungamente covato, nei confronti di un destino e di un ruolo che non le hanno mai concesso di aprirsi ai suoi bisogni.

Il modo critico e sconsiderato, in cui si ribella a quel destino, le si ritorce però addosso sotto forma di colpa: il suo comportamento attesta, ai suoi stessi occhi, che tutto ciò di buono che le è stato dato e che essa ha tentato di assimilare, dentro di lei si è trasformato in un’orribile sporcizia.

La struttura di esperienza di Federica non comporta che due modi di porsi in relazione con il mondo esterno: il modo passivo, ricettivo e accondiscendente — che la integra nel sistema familiare al prezzo della rinuncia alla sua identità personale (come un sacco vuoto) - e il modo oppositivo e distruttivo, che la scioglie dai legami familiari ma la espone al mondo in una condizione di totale penetrabilità e vulnerabilità, riempiendola rapidamente di sporcizia. La adialetticità della struttura, che si riflette o nell’essere indifesa rispetto alla famiglia o nell’essere indifesa rispetto al mondo, si fonda sull’alienazione del bisogno di opposizione, che, per effetto delle condizioni ambientali, è giunto a configurarsi in termini meramente distruttivi: di conseguenza Federica non può che o rinunciare ad esso o soddisfarlo attaccando i legami familiari e la sua vulnerabilità, violentandosi.

L’evoluzione di questa struttura di esperienza è legata al recupero, da parte di Federica, del bisogno di opposizione come bisogno fondamentale che permette di definire la propria identità sia in rapporto al sistema familiare che al mondo, e di tutelarla senza che ciò necessariamente passi attraverso la distruttività, la trasgressione e la colpa.

In pratica, questo ha significato orientare Federica verso la percezione delle manipolazioni parentali da cui deve difendersi a verso la percezione della propria vulnerabilità, che segna un confine nella relazione con il mondo che non può essere superato d’emblée.

Sottrarsi all’opposizione familiare mettendosi letteralmente in balìa di chi capita è un rimedio peggiore del male; è una soluzione astratta poiché significa, per Federica, cadere dalla padella alla brace.

Un sogno strutturale

Tutti i sogni sono strutturali, nel senso che essi utilizzano categorie di significazione — i simboli - che esprimono la visione del mondo interno ed esterno di un soggetto maturata nel corso della sua esperienza microstorica. I sogni codificano il mondo dal punto di vista di un’esperienza vissuta. Risalire dai sogni alle strutture d’esperienza è un problema di decodifica, che postula l’adozione di codici esplicativi non acquisiti dal soggetto. Rendere fruibili soggettivamente i sogni impone, dunque, di interpretare i codici che essi adottano e di spiegare questi codici facendo riferimento ad altri codici.

Se tutti i sogni sono strutturali, alcuni lo sono in maniera trasparente. Un solo sogno strutturale può essere, dunque, la chiave di un intervento terapeutico dialettico, nel senso di mettere in luce una visione del mondo inadeguata alla realizzazione dei bisogni fondamentali e di lasciare trasparire i cambiamenti che devono intervenire, perché la struttura d’esperienza si riorganizzi mettendosi al riparo dai rischi che essa comporta.

Un sogno esemplare, da questo punto di vista, è il seguente.

Federica sogna un pensionato per anziani, adiacente al CSM che frequenta quotidianamente. Negli scantinati, ci sono delle sguattere che lavano i panni sporchi e dei cani lupo in gabbia che la guardano.

I riferimenti realistici sono evidenti. Dopo il viaggio nel corso del quale Federica ha perduto ogni controllo ‘sporcando’ se stessa e l’onore familiare, si è prodotto una crisi ‘psicotica’ che dura ormai da mesi e che, essendo caratterizzata da comportamenti poco compatibili con la vita sociale, postula una protezione. Federica trascorre il suo tempo al Centro Diurno e nello spazio domestico; il padre l’accompagna al Centro in macchina e torna a prenderla dopo il lavoro.

La familiarizzazione di Federica con gli operatori del C. D. permette di comprendere che la ‘gestione’ della crisi si possa identificare con un lavare i panni sporchi in famiglia. Il C.D. è istallato in maniera tale rispetto al pensionato per anziani da poter essere facilmente identificato per uno scantinato. In esso, infine, convivono pazienti che hanno perduto capacità di difesa in rapporto al mondo e operatori che funzionano, nel senso migliore del termine, da ‘cani da guardia’ (tant’è vero che Federica associa ad essi un infermiere).

Il pensionato per anziani e il Centro Diurno sono colte, nel sogno, come due istituzioni deputate ad assistere esseri vulnerabili e non autonomi: i vecchi e i ‘malati di mente’. Nel Centro Diurno non si eroga, però, solo protezione: c’è anche un’attività rivolta a pulire i panni sporchi, a risolvere le crisi.

Ciò che è importante è cogliere la matrice del sogno nell’identificazione di una categoria — di esseri vulnerabili - che non può avere un rapporto diretto, autonomo con il mondo, e quindi postula spazi istituzionali protettivi.

Da ciò è agevole risalire al significato strutturale del sogno, tenendo conto della microstoria di Federica. Il pensionato per anziani, è, nel contempo, la famiglia di Federica, con la sua visione del mondo ‘antiquata’, fuori del tempo e poco vitale, spenta dall’esigenza prevalente di un rapporto formale con il mondo, e la personalità che Federica ha costruito introiettando quella visione del mondo: una personalità rigida e formale, ipercontrollata negli investimenti relazionali, assoggettata ad un codice di valori antiquato e, dunque, spenta e inetta a vivere.

Questa visione del mondo mortificante, nonostante la sua rigidità, non si mantiene, data la pressione incessante dei bisogni ‘vitali’, se non in virtù di un perpetuo e logorante impegno di pulizia interiore rivolto ad estinguere quella ‘sporca’ pressione. Ciononostante, basta un allentamento della mortificazione a provocare un rigurgito di vitalità e a produrre panni sporchi da lavare in famiglia: il tradimento del padre, la perdita di verginità di Federica.

Quanto ai cani da guardia, non c’è dubbio che essi alludono ai bisogni alienati. Bisogni originariamente di apertura relazionale, sia pure sul registro della dipendenza — il cane è l’essere radicalmente bisognoso dell’uomo - che, in virtù dell’addestramento familiare, si sono orientati verso una difesa dell’identità personale e familiare esitata in una sorta di territorializzazione psicologica che ha reso Federica impenetrabile e ostile al mondo esterno.

Il tentativo che essa ha operato, nel corso del viaggio, di restituire ad essi il loro significato originario, è esitato in delirio persecutorio, nel riproporsi cioè del controllo dall’esterno.

La gabbia rappresenta, pertanto, l’inesorabile restaurarsi del regime superegoico, che intrappola sia i bisogni di integrazione sociale alienati in meri bisogni di libertà sessuale, sia i bisogni di individuazione, alienatisi in una opposizione distruttiva ai valori familiari.

L’attacco alla visione del mondo mortificante familiare ha indotto in Federica una esposizione relazionale esitata in una catastrofe. Ciononostante, per sottrarsi ad un destino che le impone di vivere da vecchia, essa deve ripercorrere lo stesso tragitto liberatorio del viaggio-vacanza, con maggiore consapevolezza di doversi opporre alle pressioni superegoiche, che si identificano con l’introiezione della visione del mondo familiare, e nel contempo di dover tutelare la sua identità.

 Considerazioni teoriche su Federica

1. I limiti della terapia relazionale

L’esperienza di Federica rende evidenti i limiti della terapia relazionale, e consente dunque di parlarne criticamente, senza alcun intento polemici. La buona fede (ideologica) e le capacità ‘tecniche’ dei terapeuti sono fuori discussione.

Sono i dati stessi a parlare: le crisi nelle quali incorre Federica dopo la prima, che è stata trattata, dopo il ricovero, con un intervento terapeutico familiare di alcuni mesi, esprimono le stesse tematiche strutturali e dinamiche di quella. Che cosa significa questo se non che l’intervento relazionale è valso a restaurare degli equilibri preesistenti senza riuscire ad indurre una presa di coscienza sul significato degli stessi?

Certo, non si può escludere che, venendo meno la terapia relazionale, la famiglia — e, in essa, ogni singolo membro - si sia ricomposta in maniera tale da votarsi ciecamente ad una nuova crisi. La tendenza soggettiva e microsociale a ‘regredire’ in modi di essere apparentemente normali ma potenzialmente a vicolo cieco è così costante che appare ingenuo sottovalutarla. Non è detto che la terapia relazionale li abbia sottovalutati: la teoria cui essa fa riferimento è fin troppo suggestiva forse in rapporto ai circoli viziosi comunicativi entro i quali i soggetto si intrappolano. Il problema è che la teoria, per le limitazioni ideologiche che accetta come presupposto della sua scientificità — l’hic et nunc, la soggettività come scatola nera, ecc. -, illumina degli aspetti della relazione interpersonale che sono meramente fenomenici, e, di conseguenza, si traduce in una pratica che non può non esaurirsi in un riaggiustamento di quelli.

E’ evidente, di conseguenza, che l’intervento relazionale è efficace nella misura in cui gli aspetti fenomenici sono evidentemente squilibrati — quando cioè il mantenimento di certi equilibri coincide con la produzione di crisi -, ma perde efficacia via via che gli squilibri diventano potenziali, e cioè strutturalmente e non fenomenicamente evidenti.

In altri termini, l’ottica del cambiamento sistemico mantiene la sua validità pratica quando si confronta con squilibri strutturali — individuali o microsociali -, mentre risulta inadeguata quando si confronta con squilibri strutturali. Assumendo questi come causa di quelli, i limiti della terapia relazionale risultano evidenti. Ed è evidente anche la diversità degli intenti della terapia relazionale e della prassi terapeutica dialettica, la quale utilizza un criterio valutativo che va al di là degli aspetti fenomenici investendo l’essere o meno adeguati gli equilibri e gli squilibri strutturali alla soddisfazione dei bisogni fondamentali.

Metacomunicazione e presa di coscienza dialettica non solo la stessa cosa: si metacomunica su di un sistema, si prende coscienza di una struttura. E’ quasi superfluo citare ancora una volta Levj-Strauss: una struttura è un sistema che si conserva nonostante le trasformazioni apparenti. La struttura, insomma, ha un’inerzia che è propria di tutti i prodotti storici:senza tenere conto della storia — intesa nelle sua molteplici dimensioni (sociale, familiare, individuale) - è vano tentare di capire il senso di quell’inerzia. Ci si deve arrendere a ciò che appare:il sistema, appunto, che è nulla più che uno dei possibili ‘artifici’ in virtù dei quali la struttura, nel contempo si manifesta e si cela.

En passant, non è possibile esimersi da considerazioni di ordine più generale.

Teoria e pratica sistemica si stanno diffondendo, non solo in Italia, con tale celerità da lasciar pensare che esse debbano rispondere ad una qualche domanda sociale. Occorre capire il significato di questa domanda e correlare ad esso il potere della risposta. Quanto alla domanda, appare ovvio che essa esprime un vissuto d'impotenza degli esseri umani nei confronti di situazioni conflittuali — a livello familiare, scolastico, negli ambienti di lavoro - che sembrano sfuggire ad ogni controllo. La teoria sistemica interpreta questa domanda come espressione del cattivo impiego delle risorse umane dovute all’adozione di schemi comunicativi inefficaci e/o paradossali. Essa dà per scontato la possibilità che quelle risorse vengano investite diversamente, e cioè in maniera più coerente in rapporto a leggi della comunicazione universali.

La fiducia della teoria sistemica non è infondata: le potenzialità della coscienza umana di leggere la realtà in maniera diversa, più concreta, sono, se non illimitate, elevate. Ma che l’uso ‘cattivo’ di quelle potenzialità sia riconducibile solo all’adozione di uno schema interpretativo fondato sulla casualità lineare, e non sulla interazione circolare, è francamente ridicolo. Intanto, c’è da chiedersi perché gli esseri umani adottino più comunemente quello schema, o, in altri termini, se si tratti di una tendenza propria della mente umana o di una determinazione culturale. In secondo luogo, c’è da chiedersi se l’oggettivazione delle risorse umane possa essere ricondotta al ‘tradimento’ di leggi comunicative universali (e quindi astratte), o non debba essere interpretata concretamente in rapporto ad una logica di potere che, refluendo negli spazi microstorici, rivela la sostanziale impotenza degli esseri umani nei confronti di un macrosistema che, alienandoli, li riduce a patetici manichini.

Il nostro punto di vista è che la tendenza all’oggettivazione della coscienza sia una determinazione culturale, la cui intensità attesta il grado di alienazione del macrosistema entro cui gli uomini vivono, dibattendosi per acquisire un potere sulla realtà di cui avvertono, in maniera drammatica, la mancanza.

Se ciò è vero, la teoria e la pratica sistemica, quali che siano i risultati (parziali) che può promuovere e conseguire, non solo non risolvono il problema dell’alienazione, ma lo esasperano, fornendo agli uomini degli strumenti che li illudono di avere più potere senza che ciò corrisponda ad un processo reale, che passa attraverso la presa di coscienza dell’alienazione. Se si considera, infine, che quest'illusione è promossa da tecnici che. per produrla, richiedono agli uomini un atto di fede ne loro potere, il cerchio di chiude. E si capisce, infine, la contraddizione in virtù della quale la stessa teoria che si affanna ad aprire spazi comunicativi vivibili per i disagiati, possa tranquillamente essere usata anche, nelle aziende, per l’efficienza dei dirigenti e dei funzionari, dando loro il potere di stratagemmi comunicativi che possano promuovere il massimo rendimento dei dipendenti.

Tutti i sistemi - è un postulato della teoria - possono essere migliorati; ma il miglioramento sembra passare sempre e solo attraverso un cambiamento comunicativo che o è indifferente o addirittura esaspera l’alienazione delle coscienze.

2. Sul concetto di crisi

Si ricorderà, forse l’insistenza con cui, nel corso dei seminari sulla prassi terapeutica dialettica, è stata riportata una citazione: "lo stato di cose esistente contiene in sé le ragioni di un suo possibile cambiamento". C’è da temere che questa citazione, che pure allude al punto su cui fa leva la prassi terapeutica dialettica — l’essere le esperienze umane, anche le più apparentemente dissociate e incoerenti, sempre strutturate dalla tensione tra bisogni fondamentali, le cui potenzialità dialettiche appaiono azzerate in conseguenza dell’alienazione dei bisogni stessi -, sia rimasta alquanto in sospeso per quanto riguarda il suo valore euristico. La terza crisi di Federica, con i suoi contenuti apparentemente del tutto psicotici fornisce un’occasione preziosa per verificare il significato di quella citazione.

La crisi si è articolata su due livelli: il primo, attuale, concerne immediatamente gli spazi sociali e le persone con cui Federica è in contatto; il secondo, rievocativo e strutturale, esprime i suoi modi di relazione con il mondo resi contraddittori dal conflitto adialettico tra bisogni che anima la struttura profonda della personalità.

Il primo livello, non immune, ovviamente, da contraddizioni, comporta un’aperta ostilità nei confronti dei familiari - soprattutto della sorella e della madre -, una qualche ostilità nei confronti degli ospiti e degli operatori del centro diurno, e un'insistente tendenza a ricercare il rapporto con un uomo assumendo il ruolo di seduttrice e cacciatrice. A questo livello, tanto Federica sembra, per un verso intenzionata a chiudersi, a difendersi e ad aggredire su un fronte relazionale — che associa famiglia e persone verso le quali Alessandra sembra non provare altro che fastidio -, quanto disposta, per un altro, ad aprirsi affettivamente, a esplorare ossessivamente l’ambiente e a catturare un partner. Già a questo livello appare chiaro che la possibilità di aprirsi ad una relazione significativa postula una forza che Federica ricava dall’ostilità rivolta contro i legami familiari e contro relazioni che, per non essere significative, sono vissute solo come ingombranti. La sua chiusura al mondo familiare e sociale e la sua apertura alla ricerca di un rapporto univocamente duale appaiono ampiamente squilibrate. Da una parte c’è un mondo che minaccia, ostacola, infastidisce, ingombra; dall’altra una possibilità di amore duale la cui realizzazione postula il venir meno di ogni difesa e di ogni ritegno, l’abbandono cieco al sentimento. Nel momento stesso in cui Federica esprime, con la chiusura e l’ostilità, il dramma di un’identità che non può definirsi che in virtù della distruttività, essa si orienta a porre in gioco totalmente e senza riserva quell’identità in un rapporto duale d’amore. Ovviamente, questa contraddizione è azzerata, nel vissuto di Federica, dall’aspettativa che l’altro, l’amato, non approfitti in alcun modo del suo offrirglisi in una condizione inerme e indifesa. Ma è proprio quest'aspettativa — di porsi in balia di qualcuno che non fa male in quanto ama -, che passa attraverso l’annullamento della propria identità e la delega all’altro di un potere totale, di vita e di morte, a rendere irrealizzabile il progetto.

E’ al secondo livello che verificheremo l’irrealizzabilità del progetto, che mortifica il bisogno di identità orientandolo verso una temibile fusione. Al secondo livello, la relazione di Federica con il mondo è restituita in termini elementari, nei termini di uno scambio tra ambiente e organismo attivato dal bisogno di ricevere dall’esterno ciò che manca, il cibo.

Il progetto di Federica traspare, qui, sotto forma di una fantasia astratta in quanto fusionale: la pretesa di funzionare come un contenitore, che ricevendo solo il cibo buono, lo assimila totalmente e non produce rifiuti. Tale pretesa postula che nel cibo non ci sia nulla da scartare e che l’organismo funzioni solo assimilandolo e non trasformandolo. Pretesa assurda anche sul piano della metafora, poiché fa capo ad un rapporto tra ambiente e organismo univoco. E che tale infatti risulta anche a livello soggettivo: Federica è costretta, infatti, a selezionare accuratamente il cibo prima di ingerirlo e, per un certo periodo di tempo, usa i rifiuti per imbrattare e sporcare le pareti e il pavimento del bagno. La fantasia fusionale appare dunque arginata da un bisogno di opposizione insormontabile, che Federica vive senza rendersi conto del suo significato. Il modo di relazione fusionale, nel quale sembra progettarsi, rievoca dunque un’esperienza che Federica ha vissuto ma sul registro della mortificazione: il credito sulla totale bontà e assimilabilità di ciò che le veniva offerto dall’ambiente familiare mirava, infatti, ad estinguere ogni opposizione, ed era avallato dall’assenza di opposizione. E’ come se Federica riproponesse a se stessa, come modello ottimale, una relazione buona che, di fatto, è stata solo illusionale, e la cui bontà era pagata da lei stessa al prezzo di un sacrificio impossibile. Nessuna relazione autentica tra persone si dà se non passando attraverso l’opposizione, poiché nessuna relazione —neppure quella tra i genitori e figli- nasce affrancata da una logica di potere che gli affetti possono risolvere o mistificare. Questo Federica lo sa ‘visceralmente’: deve solo prendere coscienza, e accettare la dialettica dei bisogni come matrice di un nuovo modo di relazionarsi al mondo che la affranchi dalla duplice paura di annullare la sua identità per ricevere amore o di distruggere i legami per affermare la sua identità.


6. Tiziana

Sono le esperienze soggettive che, da una condizione di assoluta normalità, precipitano in un disagio psicopatologico a offrirci dei criteri importanti per valutare l’organizzazione della coscienza in rapporto ai bisogni fondamentali.

A 41 anni, Tiziana, che è apparsa sempre una donna sicura e realizzata, comincia ad avvertire una apatia inconsueta. Trascorre molto tempo a letto, trascura se stessa e la casa, appare nervosa e intrattabile. Soffre di emicranie e mal di schiena. Tutto viene ricondotto, incautamente, ad una modica (e fisiologica) artrosi della colonna cervicale e lombare. Le cure non sortiscono alcun effetto. Nel frattempo, Tiziana comincia ad avere dei ‘sintomi’piuttosto inquietanti: quando esce di casa, dopo poche centinaia di metri, è preda di capogiri, palpitazioni e un senso di malore che la costringono a rientrare rapidamente; quando è in casa, la situazione è ancora più angosciosa. In presenza della suocera, che trascorre il pomeriggio a casa sua, avverte dei ‘violenti impulsi omicidi’ nei suoi confronti, che la inducono a tenersi a distanza e a non maneggiare né uncinetti, né formici né coltelli. Quando sta da sola, di mattina, passando vicino alla finestra, ha paura di essere colta da un ‘raptus’ e di precipitarsi giù. Non riesce a riferire al suo medico questi ‘sintomi’: gli dice solo di avvertire confusione, irrequietezza e strane idee. Consulta un neurologo, il quale emette diagnosi di depressione nevrotica e le prescrive un trattamento farmacologico. Tiziana desidera curarsi, ma se non prendendo gli psicofarmaci sta male, prendendoli sta peggio. Le cure vengono cambiate invano ogni mese per un semestre. Alla fine, il neurologo si arrende: dice a Tiziana che le cure sono inefficaci perché lei non collabora, e la invia da me per capire queste ‘resistenze’. Nel frattempo, le fantasie omicide e suicide si sono attivate a tal punto che Tiziana ha sviluppato la convinzione di essere irreversibilmente malata di mente e destinata a finir male.

Quando la vedo, è una donna duramente provata. Non ha alcuna remora nel riferirmi tutto ciò che le passa per la testa, poiché è sicura che io confermerò quanto essa pensa: essere affetta da una malattia mentale ereditaria. Il padre era un alcolizzato, una zia materna è morta nel manicomio di Trieste. Come e perché la ‘tara’ si sia manifestata a 40 anni, repentinamente e mettendo in gioco una normalità addirittura invidiata dalle amiche è ‘pane’ per gli scienziati. In pratica, non manifesta alcun interesse per una situazione dalla quale non può aspettarsi altro che ‘parole’. Non mi affanno a ricostruire la sua storia. Vado al nodo della questione: il senso della sua struttura d’esperienza e la congiuntura che l’ha fatta affiorare.

Il senso è chiaro: la struttura esprime l’urgenza di un cambiamento impossibile. Tiziana non può più rimanere chiusa negli spazi domestici e familiari, non può più vivere ritualmente secondo il ritmo annoso di abitudini. Gli impulsi omicidi e suicidi segnalano null’altro che la configurazione claustrofobica e mortificante di quegli spazi e di quelle abitudini e la necessità di uscirne a qualunque costo. Nel contempo, quando Tiziana esce di casa, e si sottrae alla protezione soffocante della casa, si imbatte nella paura del venir meno di un controllo su di sé che la espone ad una brutta figura e a oscuri pericoli.

La sua struttura di esperienza attesta dunque che è necessario cambiare l’organizzazione della vita, ma che ogni cambiamento è impossibile. C’è quanto basta per impazzire. Ma la malattia non è la causa della struttura d’esperienza, può essere l’effetto di problemi vissuti come insolubili.

Naturalmente, Tiziana ribatte che è sempre vissuta nel modo in cui vive, che in passato non solo non le pesava bensì la gratificava e che non aveva alcuna paura di muoversi da sola. Qualcosa di patologico deve dunque essere accaduto. Quello che è accaduto è invece semplicemente una congiuntura: un ciclo della vita, incentrato soprattutto sul ruolo di madre, si è compiuto. Il figlio unico ventenne è partito arruolandosi in un’Accademia militare.

A 40 anni, ancora giovane, desiderosa di vivere e bella, venendo meno il figlio, la vita si è configurata come un’inerte attesa di una vecchiaia ancora lontana, come un dovere ripetitivo senza senso.

Tiziana oppone a quest’interpretazione un dato di realtà: tante donne che lei conosce vivono allo stesso modo, si trovano nella stesa situazione congiunturale — di essere ancora giovani con figli autonomi -, e continuano a tirare avanti tranquille. Perchè a lei è accaduto di ammalare? A mio avviso, due sono i motivi possibili: il primo riguarda la qualità più o meno soddisfacente delle relazioni familiari e dello scambio che la famiglia intrattiene con il mondo; il secondo concerne la coscienza che ha della propria condizione.

Ci sono donne che vivono claustrofilicamente — dentro spazi familiari e di abitudini - senza avere alcuna coscienza di ciò, soddisfatte dall’identità espressa e configurata in quegli spazi; altre che, dopo essere vissute per anni allo stesso modo, intuiscono un difetto di autonomia, di libertà e di capacità di interagire con il mondo al di là dei confini consueti.

Questa presa di coscienza, meramente emozionale, si traduce spesso in esperienze psicopatologiche. Il problema è di dare ad essa un carattere dialettico: di capire perché quei confini sono, nel contempo, intollerabili e insuperabili. O, in altri termini, perché una quota di bisogni, la cui soddisfazione postula il oro superamento, si traduce in una minaccia di morte.

Posto in questi termini, il problema viene recepito da Tiziana. Si avvia un lavoro di ricostruzione microstorica, che non mi sembra il caso di restituire nei dettagli, ma a grandi linee.

A 18 anni, Tiziana abbandona la sua famiglia originaria per venire a Roma. Giovane e avvenente, scopre rapidamente il pericolo di essere esposta come preda agli uomini. Rinuncia a studiare, si lega ad un uomo buono, tranquillo, ma un po’ spento — abitudinario, insicuro, vagamente pauroso del mondo -, si chiude nella claustrofilia dei ruoli tradizionali; a 40 anni, esaurito il ciclo della maternità, scopre il desiderio di investire le sue risorse in nuove esperienze. Progetta di riprendere gli studi, prende contatto con associazioni culturali e assistenziali, ecc. Ma, non appena comincia a muoversi fuori degli spazi consueti si ripropone il problema originario. Una donna sola, ancora giovane e avvenente, non può non sentirsi preda delle attenzioni maschili. La lunga frustrazione ha prodotto anche una minaccia interna: un bisogno di ricevere conferma dall’esterno, di essere amata che potrebbe indurre, anche in assenza di pericoli esterni, un cedimento, una sbandata, un perdere la testa in cui Tiziana legge il crollo della sua identità e una minaccia per i valori in cui crede. Se non vuole rinunciare a vivere e a perseguire dei progetti di cambiamento, Tiziana, deve, anziché negare, prendere atto che quei pericoli sono reali. E’ vero, e non illusorio, che c’è una cultura maschilista che individua in una donna sola una preda potenziale. E’ vero che una donna giovane, benché sposata e madre, non cessa pertanto di essere oggetto di desiderio.

Per non confinarsi in spazi claustrofilici, tali pericoli vanno affrontati: ma, la premessa perché ciò avvenga, è la consapevolezza che promuova un agire dialettico che miri ad integrare il bisogno di tutelare l’identità personale e il bisogno di aprirsi e di interagire con il mondo. Nel giro di pochi mesi, la ‘crisi’ è superata, i sintomi scompaiono, e, con essi, la convinzione di essere affetta da una malattia mentale. Tiziana si riapre al mondo, organizza una vita autonoma relazionale e sociale, riprendendo, tra l’altro, a studiare. Il risveglio di primavera investe anche il marito, che riesce ad affrancarsi egli stesso dal letargo delle abitudini.

L’interesse di questa esperienza, per alcuni aspetti abbastanza banale, non inerisce la prassi quanto la teoria.

Da un punto di vista pratico, essa attesta la necessitò di un intervento attivo, che fornisca alla coscienza strumenti culturali atti a decodificare dialetticamente la condizione alienata in cui vive e l’esperienza microstorica che ha prodotto l’alienazione.

Da questo punto di vista, la prassi terapeutica dialettica è concretamente innovativa, poiché non si costringe né a ricondurre il disagio su di un registro fantasmatico — le paure di Tiziana hanno un fondamento reale -, né a definirlo come espressione di una condizione oggettiva di oppressione familiare e culturale — la condizione oggettiva, infatti, risulta adeguata al bisogno alienato di protezione dell’identità personale.

Al di là della prassi, l’esperienza permette di affrontare un problema teorico di estremo interesse: il rapporto tra coscienza normale, coscienza psicopatologica e coscienza dialettica.

Tiziana vive in una condizione di normalità, soggettiva e socialmente convalidata, sino a 40 anni. Poi, in rapporto ad un evento prevedibile — la separazione dal figlio - precipita in una condizione psicopatologica che tende progressivamente ad aggravarsi. Cos’è accaduto sul piano dinamico? L’allontanamento del figlio determina di fatto un aumento della libertà personale di Tiziana, una disponibilità di tempo libero sino ad allora inesistente. Tiziana deve ristrutturare la sua esistenza in rapporto a questo: ma, dato che l’organizzazione preesistente era di tipo claustrofilico, essa non può far altro che tentare di chiudersi negli spazi consueti: la casa, il rapporto con il marito e la suocera. E’ questo rinchiudersi ulteriormente, non più giustificato oggettivamente, a far affiorare un prepotente bisogno di libertà sotto forma di angosce claustrofobiche. Non si può assumere questo fatto in termini casuali o meccanicistici: non c’è una costrizione che, in sé e per sé, determina un moto di liberazione. Il nesso è stabilito dalla coscienza, sia pure in maniera confusa e oggettivata, nella misura in cui essa non si è radicalmente normalizzata (nell’alienazione), e cioè ha mantenuto un qualche rapporto con i bisogni fondamentali. La crisi psicopatologica attesta il fallimento di una normalizzazione totalmente mortificante: questo fallimento postula un dato di fatto — la pressione dinamica dei bisogni fondamentali - e un dato soggettivo — uno spiraglio rimasto aperto tra coscienza e bisogni.

Se ciò è vero, occorre ricavare due conseguenze significative. La prima è che la normalità non esiste che in forma dialettica, essendo attestata da un continuo lavoro di adattamento del mondo ai propri bisogni (e non viceversa: l’adattamento dei bisogni al mondo così com’è, è tutt’al più una ‘premessa’ di normalità, che rimane comunque da costruire). La seconda è che l’alienazione dei bisogni dà luogo a conseguenze diverse a seconda che l’organizzazione della coscienza sia più o meno normalizzata. C’è indubbiamente un limite al di là del quale quell’alienazione non può produrre che modi di essere psicopatologici. Ma, all’interno di questo limite, l’organizzazione della coscienza appare decisiva nell’assicurare o compromettere una pseudonormalità. Tiziana va in crisi perché non si arrende a vivere così come vivono molte altre donne, nella logica del sacrificio, del dovere e della rinuncia.

La coscienza psicopatologica non è una coscienza dialettica; ma, in una certa misura, è aperta alla dialettica dei bisogni più di una coscienza normalizzata. Questo significa che la coscienza psicopatologica rappresenta una rottura irreversibile con la normalizzazione. Sul piano della prassi, ciò postula l’esigenza di aiutare una coscienza psicopatologica ad acquisire ciò che ad essa manca: una visione storica e dialettica del suo tragitto esperienziale. Le alternative non sono che o le mistificazioni tecniche o la repressione in una pseudonormalità sempre esposta al rischio di destrutturarsi.

 

Da La Politica del Super-Io (1986 1987)

Un delirio singolare


A 17 anni, Paola, uscendo di chiesa dopo la messa domenicale, con il consueto atteggiamento compunto di "madonnina", a testa china, passa accanto ad una macchina in sosta. Il suo sguardo incontra quello del ragazzo al volante e, rimossa ogni castigatezza, saetta un fuoco di seduzione. Conscia di aver perduto il controllo e di aver commesso una colpa, Paola si allontana rapidamente. Ma, ormai, ciò che è accaduto è irreversibile. Il ragazzo, infatti, in virtù di quello sguardo maliardo, ha perduto la testa per Paola. Nei giorni successivi, ovunque essa vada, la segue in macchina con la muta devozione di un cagnolino. A qualunque ora del giorno, se Paola guarda in strada dalla finestra di casa, lo vede in attesa. Esaltata da questa cattura nonostante il cuore già le rimorda, Paola sta al gioco, facendo finta però di essere indifferente, questo atteggiamento avendo come scopo di rinforzare la passione del ragazzo. Dopo alcuni mesi di incessante "persecuzione", vissuta positivamente, Paola intuisce repentinamente di non ricambiare i sentimenti del ragazzo. Seducendolo e rinfocolando la sua passione, lo ha dunque preso in giro. Sentendosi in colpa, decide di affrontarlo per dirgli la verità e risolvere la questione. Ma è a questo punto che Paola scopre, con sgomento, di non riuscire ad identificarlo. Quando il ragazzo è ad una certa distanza, ne identifica infallibilmente il "tipo" — la sagoma un po' massiccia, i capelli neri e ricci, e, soprattutto, lo sguardo da innamorato; quando gli si avvicina, l'identificazione diventa incerta e problematica. Paola teme di sbagliare, di salire sulla macchina di un altro ragazzo e di essere violentata, come merita una donna che abborda uno sconosciuto.

Scoperta l'imprevista difficoltà di identificazione, Paola comincia a lanciare dei messaggi al ragazzo per fargli capire che deve essere lui a prendere l'iniziativa. Ma questi, evidentemente, ferito nell'orgoglio dall'atteggiamento altezzoso avuto sino allora da Paola e, probabilmente, incredulo, continua a seguirla con la costanza consueta ma mantiene un atteggiamento passivo, aspettando che sia Paola a piegarsi. Il problema si configura, dunque come insolubile. A questo punto entrano in scena i parenti e gli amici del ragazzo, sdegnati per la lunga presa in giro. Dapprima con velate allusioni poi con messaggi inequivocabili, lasciano intendere a Paola che non credono alle sue difficoltà di identificazione, e le concedono una sola possibilità di farla franca: recedere dalla sua orgogliosa ostinazione e riparare la colpa con il matrimonio. Per sollecitarla alla resa, cominciano a sottoporla quotidianamente, persino quando è in casa, ad un fuoco di fila di giudizi sprezzanti e di accuse sempre più pesanti. Per porre fine alla persecuzione, che, ormai, le impedisce di vivere, Paola sarebbe disposta a tutto: non a gettarsi però tra le braccia di uno sconosciuto. Per dignità, ma, ancor più perché sa che sia il ragazzo che gli amici e i parenti hanno una mentalità estremamente tradizionale, sì che la eventuale perdita della verginità non le verrebbe mai perdonata. Sarebbe, comunque, costretta a sposare il ragazzo, e a subire il disprezzo perenne di tutti. La disperazione di Paola è totale. Può fornire la prova della sua onestà solo chiudendosi in casa; ma la persecuzione continua, perché ci si attende da lei un gesto di resa. Tutta la città, ormai, è alleata del ragazzo. Passano gli anni in una situazione di stallo angosciosa. Paola decide, infine, nell'attesa che la sua buona fede sia riconosciuta, di dedicarsi allo studio, unico conforto di una vita claustrale. Tenta di portare a compimento gli studi magistrali, che ha interrotto, con l'intenzione di iscriversi, successivamente, all'università. Scopre, in questa fase, il sadismo della persecuzione.

I parenti e gli amici del ragazzo si scatenano, poiché, non avendo questi un titolo di studio, interpretano la decisione di Paola come l'espressione di un progetto ambizioso, mirante a sancire l'inferiorità di quello e a orientare lei verso altre scelte sentimentali. Dopo poco tempo, lo studio viene interferito e reso impossibile da un perpetuo frastuono di voci, che accusano Paola di volersi liberare del ragazzo. Per questa ingiustizia, che chiude l'ultima via di scampo dalla disperazione, Paola si disamora, giunge a nutrire rabbia e odio contro il ragazzo e tutti coloro che lo difendono. Si vota ad una resistenza passiva: rinuncia a studiare, ma si propone di non cedere mai ad un odioso ricatto.

Questa conclusione, alla quale Paola giunge dopo 10 anni, nel corso dei quali ha tentato in ogni modo, nonché di difendere la sua dignità, di giustificare le ragioni del ragazzo e dei suoi alleati, attribuendo al primo autentici sentimenti di amore e agli altri intenti riparatori di una colpa realmente commessa, questa conclusione, che, all'improvviso, rivela alla coscienza il carattere persecutorio e repressivo di un atteggiamento vissuto sino ad allora come protettivo, è, in realtà, la premessa del delirio. Cosa pretende la tradizione che, per Paola, parla in nome di tutto il mondo, mettendo in luce la logica della sua istanza superegoica? Che essa accetti di calarsi nel ruolo proprio della donna secondo la tradizione: ruolo che impone di giungere vergine al matrimonio; di essere per sempre di un solo uomo, il primo, lo si ami o no; di subordinarsi al suo potere, dedicandosi esclusivamente a lui, alla casa e ai figli; di non avere alcun interesse né sociale né culturale, poiché tutto ciò che non è dovere domestico può fuorviare la mente.

Alla luce di questa mentalità, che impone alla donna di essere umile schiava dell'uomo che ad essa tocca in sorte, ogni desiderio di libertà, di autonomia, di individuazione di configura, tout-court, come espressione di anarchia, di disordine e, da ultimo, di immoralità.

Non appare opportuno, né necessario, ricostruire qui la biografia ulteriore di Paola. Basterà dire che la sua cultura ha origini contadine; che la nonna, allevata dalle suore in un collegio, pur avendo spiccate attitudini per lo studio, è stata costretta dal padre a sposarsi precocemente in virtù di un matrimonio combinato; che la madre, donna piuttosto affascinante, immigrata da sola a Roma in giovane età per sottrarsi al regime patriarcale, si è protetta dalle infinite insidie della città sposando il primo uomo buono e onesto che ha conosciuto, pure senza amarlo né provare attrazione per lui. E che costui, pur di carattere sostanzialmente mite, e inferiore ad essa culturalmente, l'ha sempre trattata autoritariamente, comandando ad essa come a una serva. Paola è stata educata in casa, dalle suore, in parrocchia nel rispetto assoluto della tradizione, ed esteriormente si è conformata ad essa, apparendo una ragazza docile, giudiziosa, irreprensibile moralmente. Ma ha, da sempre, avvertito dentro di sé, mascherandola a tutti, una strana inquietudine sotto forma di avversione "viscerale" nei confronti del padre autoritario, di incessanti dubbi religiosi, di rabbia nei confronti del ruolo servile cui la tradizione e la religione destinano le donne. Sarebbe illecito attribuire quella inquietudine alla pressione di pulsioni asociali e amorali, visto che Paola rifiuta di lanciarsi nelle braccia del primo che capita, pagando questa dignità con il sacrificio della vita, e, infine, oppone alla tradizione un progetto incentrato su di un bisogno: il bisogno di studiare, di conseguire una laurea, di svolgere un lavoro significativo e di rendersi autonoma economicamente.

Con ciò, la struttura di personalità profonda di Paola e la genesi del delirio risultano chiare. Alla tradizione che vuole la donna schiava e inferiore all'uomo, alla tradizione gerarchica veicolata dal Super-Io, si oppone un bisogno di individuazione orientato, in sé e per sé, al conseguimento di uno statuto sociale e culturale di pari dignità. Ma questo bisogno è ostacolato e distorto dal Super-Io, che vieta a Paola di dedicarsi allo studio, e le concede solo due possibilità: o l'isolamento assoluto, la rinuncia totale a vivere, o abbordare uno sconosciuto, esibendo infine la sua "vera" natura di cacciatrice di uomini.

Che cosa impedisce al bisogno di individuazione di Paola di tradursi in coscienza critica? Benché oppositiva al livello del sentire, Paola purtroppo è rimasta coscientemente vittima della tradizione e della religione: crede autenticamente nei valori morali veicolati dall'una e dall'altra, e non riesce a comprendere che quei valori, che possono essere autentici in sé e per sé, sono immorali nella misura in cui essi sono utilizzati per promuovere non la liberazione bensì la subordinazione cieca e passiva della donna al suo destino. La ribellione di Paola rimane pertanto sterile, poiché essa, a livello profondo, identifica liberazione e trasgressione. La prima volta che Paola tenta di affrancarsi dal ruolo di madonnina, di giovane compunta che non deve osare di rivolgere uno sguardo di interesse nei confronti di un uomo, la prima volta che si ribella alla maschera sociale superegoica della donna virtuosa, essa commette una colpa che decide del suo destino e che va riparata per riacquistare la perduta dignità. Ma questo è impossibile perché alla dignità della virtù, cui pure Paola tiene, ma che, nella logica tradizionale, impone alla donna di vivere nella subordinazione e nell'assoggettamento passivo all'uomo, si oppone, visceralmente, un sentimento radicale di parità e di giustizia.

L'esperienza di Paola è esemplare perché la struttura del delirio lascia trasparire, con un'evidenza assoluta, il conflitto tra un'istanza superegoica che, in nome della moralità, promuove l'assoggettamento gerarchico della donna all'uomo, e un bisogno di opposizione orientato verso la parità.

Purtroppo, per quanto intenso, questo bisogno rimane in Paola connotato visceralmente, e non giunge a tradursi in coscienza critica: insopprimibile, quali che siano la sofferenza e le rinunce che esso comporta, rimane nondimeno sterile, poiché non può esitare in un cambiamento reale. Ciò dà all'esperienza psicopatologica di Paola un carattere statico di un'esperienza scissa e sospesa tra una tradizione cui non ci si può sottrarre e una ribellione cui non si può rinunciare, ma che non può neppure realizzarsi.

Se Paola, come è accaduto alla nonna e alla madre, avesse potuto conformarsi ai valori superegoici introiettati, sarebbe vissuta in una dimensione normalizzata; se, viceversa, fosse giunta, oltre che a rifiutarli emozionalmente, a oggettivarli criticamente, affrancando il suo bisogno di moralità dalla logica intrinseca alla tradizione introiettata secondo la quale l'onestà della donna è comprovata dall'accettazione di un controllo sociale, reso indispensabile dalla sua natura tendenzialmente squilibrata, Paola sarebbe potuta pervenire alla definizione dialettica di un codice di moralità autonomo. Essendosi rese entrambe queste soluzioni impossibili, la sua esperienza si configura come psicopatologica, scissa cioè tra una normalizzazione persecutoria e una liberazione desiderata ma temuta.

In conseguenza di questa scissione, Paola vive soggettivamente in un universo di colpa e di punizione: la colpa ha radici nel suo rifiuto viscerale di accettare il "destino" della donna, la punizione nell'essere isolata, privata di ogni libertà, e perpetuamente ingiuriata. Il Super-Io appare, nella trama del delirio, in tutta la sua implacabile e sadica severità, giungendo a coalizzare tutto il mondo contro Paola. Si tratta — è ovvio — di un mondo soggettivo, nel quale, tuttavia, si riflette un dramma storico: il dramma di una condizione — quella femminile — sottoposta ancora a potenti pressioni culturali, che inducono, in una quota rilevante della popolazione, il servaggio, e impegnata, in una percentuale ancora minoritaria, in una dura lotta per la conquista di una pari dignità rispetto all'uomo. Il Super-Io in Paola parla in nome di una tradizione che si fonda su un codice morale articolato, assoluto e rigoroso. Benché funzioni come istanza psicologica, è fin troppo evidente che esso fa riferimento ad un quadro di mentalità la cui appartenenza al mondo storico è indubbia. Non è, dunque, un homunculus, bensì un quadro di mentalità mirante ad assoggettare e ad assimilare l'Io, dotato di un potere tale da connotare la sua ribellione come una colpa da espiare. Il potere del Super-Io, funzionario psicologico del mito gerarchico, si fonda, dunque, meno sulla autenticità dei valori che esso veicola che sulla capacità che ha di distorcere il bisogno di opposizione, restituendolo al soggetto come una minaccia pulsionale che, se sfuggisse al controllo, potrebbe compromettere l'identità sociale. È in conseguenza di questo ricatto che l'Io, sia pure malvolentieri, è costretto ad allearsi con il Super-Io...

L'esperienza di Paola si presenta strutturata come un cristallo. Gli elementi strutturali sono agevolmente definibili. C'è, anzitutto, un insieme di bisogni — di contatto e di investimento nel mondo ma, nel contempo, di opposizione e di riscatto — frustrato e distorto fino al punto di configurarsi sotto forma di disordine pulsionale (è una perdita di controllo, di fatto, che avvia l'esperienza delirante). C'è, in secondo luogo, l'Io che, sotto la spinta delle pulsioni la cui fenomenologia rende impossibile il riconoscimento dei bisogni, tende a rifuggire da esse identificandosi con un ideale elevato, che comporta l'isolamento dal mondo e il raccoglimento nello studio. C'è, infine, la persecuzione del Super-Io che — in nome di una tradizione culturale identificabile con precisione cui Paola, nel suo intimo, si è ribellata, rifiutando visceralmente il ruolo servile da essa assegnato alle donne — si esercita sotto forma di un controllo sociale, sia pure immaginario, che la mantiene comunque nell'ordine, imponendole di vivere in una dimensione di perenne pentimento e di espiazione. Essendosi sottratta al ruolo di moglie, a Paola, in breve, non rimane altro che la claustrazione sororale...

L'esperienza di Paola rappresenta, sotto questo profilo, un'esperienza esemplare. Il delirio di amore destinato poi a connotarsi come persecutorio, insorge ex abrupto, da un giorno all'altro, nel momento stesso in cui, sotto la spinta dei bisogni, Paola apre gli occhi sul mondo. Come si configura la struttura della sua esperienza il giorno prima? Non ci può essere dubbio riguardo al fatto che il conflitto tra Super-Io e bisogni alienati fosse già strutturato e che Paola, com'è attestato dal ruolo di "madonnina" in cui si era calata, fosse già orientata verso un ideale dell'Io elevato e repressivo. La struttura preesistente al delirio si configurava, dunque, come una struttura ossessiva, atta a controllare un'esigenza di libertà identificata con una tendenza alla perdizione.

Ammettendo che la pressione dei bisogni, mirante ad affrancare Paola da un'identità superegoica alienata, abbia determinato la perdita di controllo sullo sguardo, assoggettato sino a quel momento al codice comportamentale dell'apparente indifferenza all'universo maschile, ne discende che il delirio ha rappresentato una "catastrofica" trasformazione della preesistente struttura ossessiva.

La convinzione superegoica che la natura femminile, in sé e per sé squilibrata, richiede un rigido controllo morale, rafforzata dal repentino cedimento soggettivo, si ripropone proiettivamente sotto forma di controllo sociale. Il cambiamento strutturale, che trasforma in esperienza psicopatologica una dinamica conflittuale precedentemente infraclinica, pone in luce l'opposizione tra l'identità superegoica e un bisogno di libertà incoercibile, che, in sé e per sé, potrebbe funzionare come attrattore di una riorganizzazione dialettica dell'esperienza di Paola.

La fenomenologia clinica, dunque, non è solo un indice dell'intensità del conflitto tra identità superegoica e bisogni frustrati. Ciò che determina l'irriducibilità del conflitto — e ciò, come vedremo, vale per ogni esperienza psicopatologica — è la confusione soggettiva in rapporto ad esso, che determina la scissione dell'Io. In Paola, tale confusione è attestata dal modo drammatico in cui essa elabora coscientemente il cedimento al bisogno seduttivo, che pone in luce la sua connivenza con l'ideologia della natura femminile squilibrata. Questa connivenza incrementa, nonostante la ribellione, l'alleanza con il Super-Io, determinando la fuga verso un ideale dell'Io onesto vissuto come salvifico, mentre è in realtà ulteriormente mortificante, e lo strutturarsi di un rapporto con il mondo che, per effetto della protezione/persecuzione sociale, esclude ogni ulteriore possibilità di espressione di bisogni frustrati...

Costei si perde nel labirinto di un delirio d'amore mirante a salvarla dalla perdizione in virtù dell'approdo ad un matrimonio riparatore, che la confinerebbe nel ruolo domestico assegnato alle donne dalla tradizione, poiché non riesce a dare un senso propositivo e dialettico alla sua ribellione inconsapevole, frustrata e colpevolizzata da un sistema di valori ideologico cosciente, religioso e conservatore al tempo stesso. Benché mediato dal sistema familiare, il modello di normalità che la perseguita, e a cui essa si oppone visceralmente, pur volendovisi coscientemente piegare, viene dal mondo esterno e rappresenta un codice culturale normativo di significato storico. Ma dal momento in cui Paola, terrorizzata dai bisogni disordinati che alberga e minacciata dal Super-Io, si chiude in quel modello, proiettandolo su di in mondo, quello urbano, che non riconosce più come univoco, la sua esperienza si estranea e diventa delirante. Il suo mondo, pur animato da un sistema di valori normativo, prodotto dalla storia, non coincide più con il mondo...

. La mentalità che sottende il Super-Io di questa, proiettato su un intero contesto metropolitano, per il fatto di esprimersi sotto forma di messaggi verbali — allucinazioni, indubbiamente — può essere ricostruita nei dettagli come un sistema di valori inerente il ruolo della donna nel mondo. Tale sistema muove dal presupposto che la moralità ricade nell'ambito della responsabilità femminile. Gli uomini sono esseri squilibrati, deboli — inclini a perdere la testa per uno sguardo — o amorali — pronti a profittare di ogni occasione che ad essi si offre per soddisfare i loro "istinti". L'ordine morale dipende dal comportamento, virtuoso o "vizioso" delle donne.

Il Super-Io di Paola veicola un quadro di mentalità di lunga durata le cui matrici religiose — riconducibili alla contrapposizione simbolica tra Eva e Maria e arricchite di valenze "naturalistiche" tipiche della cultura contadina, che non riesce ad affrancarsi dal fantasma del disordine prodotto dalla "femmina in calore" — sono state integrate dal codice morale borghese ottocentesco sotto forma di scissione tra "angelo del focolare" e "prostituta". A Paola tale codice arriva attraverso la famiglia e il contatto assiduo con ambienti religiosi (scuole di suore, parrocchia). Inurbandosi precocemente, e sviluppando una mentalità cosciente apparentemente aperta, la madre di Paola ha tentato di ribellarsi a quel codice, la cui persistenza è attestata, però, dall'assoluta frigidità, confessata alla figlia non come problema bensì come prova della superiorità morale della donna che si presta, per dovere, a soddisfare i bisogni fisiologici del marito. Dalla madre, dunque, Paola eredita il codice morale repressivo e nuovi bisogni di indipendenza, che quella non ha potuto realizzare. La vivace e precoce percezione degli atteggiamenti maschilisti del padre incrementa l'ansia di liberazione dal servaggio. Per mascherare il conflitto con la tradizione, e le fantasie di libertà che ad essa si oppongono, Paola, con l'adolescenza, si cala nel ruolo di "madonnina". Essa intuisce che si tratta di un ruolo falso, e che, un giorno o l'altro, dovrà liberarsene. Ma come? La vita di quartiere — un quartiere periferico ove la piccola borghesia si mescola con il sottoproletariato — offre modelli di comportamento atti solo ad incrementare il conflitto.

Le "brave" ragazze vivono, più o meno, come Paola; le ragazze "libere" sono quelle che vanno in macchina da sole con i ragazzi, cedono alle loro richieste; talora, rimangono incinte. Paola non ha né strumenti culturali né rapporti sociali che possano permetterle di mediare il conflitto che alberga. Il delirio d'amore rappresenta una drammatica quadratura del cerchio: esso si inaugura con una caduta simbolica nel peccato che poi dà luogo al ravvedimento e all'espiazione. Ma, di fatto, in virtù del delirio, Paola si affranca e dalla tradizione e dalle tentazioni del mondo. Leggere in questa esperienza gli effetti congiunturali di una tradizione culturale (conflittualizzatasi nel corso delle generazioni) e di nuovi bisogni affiorati, in conseguenza di ciò, in Paola e che questa non può realizzare secondo modelli di comportamento ad esso offerti dal mondo in cui vive, non significa ignorare altri aspetti. È fuor di dubbio, in particolare, che le "voci" da cui Paola si sente perseguitata debbano corrispondere ad un qualche disordine cerebrale, funzionale e/o biochimico. Ma è evidente che, con il loro carattere chiaro e distinto, esse, nonché mere allucinazioni, sono messaggi di una tradizione orale, di un codice culturale che, pur essendo stato secolarmente attivo, non risulta scritto da nessuna parte, non è stato ufficialmente riconosciuto né, propriamente parlando, trasmesso a voce. Non solo: il delirio di Paola, con le sue ambigue ma inconfutabili valenze protettive, che lo rendono insolubile, funziona anche come stigmatizzazione e rifiuto "viscerale" di un sistema di valori nuovo, che identifica la libertà della donna con il suo essere disponibile per uomini che continuano a trattarla come un oggetto. L'utopia di Paola, di una donna libera ma padrona di sé, che decide del suo destino, è incompatibile sia con la tradizione sia con i modelli di comportamento alternativi offerti dall'ambiente sociale in cui essa si trova a vivere.


Da Psicopatologia e Storia sociale (1999)

V La depressione delle giovani madri


Si è fatto cenno, in precedenza, alla diffusione di una sindrome da stress tra gli  educatori. L’argomento richiederebbe per essere specificata un’analisi molto lunga e dettagliata. Ci limiteremo ad approfondire un solo aspetto psicopatologico, epistemologicamente esemplare e drammatico.

La patologia in questione concerne le depressioni che sopravvengono nelle giovani madri nel corso dei primi anni dell’allevamento. Si tratta ovviamente di situazioni eterogenee, di diversa gravità, che vanno dalla depressione frusta (quello che comunemente si definisce esaurimento) alla depressione conclamata, spesso con segni di vitalizzazione (insonnia, inappetenza) e un’ansia spiccata. Il fattore comune a tutte queste condizioni è il senso di colpa. Di qualunque grado sia, la depressione riduce la disponibilità della madre nei confronti del bambino, e la riduce sia praticamente (per quanto concerne la capacità di erogare cure) che affettivamente. Non c’è difficoltà a capire che il venir meno al dovere assistenziale possa far sentire in colpa essendo il referente delle cure  un essere oggettivamente bisognoso. A ciò occorre aggiungere il sentirsi esposta ad un rimprovero sociale implicito o esplicito, perché la depressione interviene spesso nel corso dell’allevamento di un solo figlio, e non mancano mai madri, zie e nonne che rievocano la loro capacità di star dietro a una nidiata di figli.

Da un punto di vista fenomenologico, si tratta in genere di una situazione di particolare gravità anche laddove la sintomatologia appare sfumata. Le madri fanno il possibile per minimizzare ciò che di fatto provano: il rifiuto viscerale del figlio. Non appena comprendono che il contesto comunicativo è tale da porle al riparo dall’essere giudicate madri snaturate (accusa che è già presente nel loro intimo), di solito ammettono che di ciò si tratta, che al di sotto della depressione c’è la fantasia di non volerne più sapere di quell’esserino che toglie loro il respiro con i suoi bisogni. Se appena questa pista dei vissuti viene battuta senza remore, ci si ritrova di fronte, molto frequentemente, a fantasie sconcertanti. Si tratta di fantasie parassitarie, di pensieri o coazioni che attraversano le menti delle madri, e contro le quali, temendone la realizzazione, esse lottano strenuamente. Fantasie definite il più spesso pazzesche e vissute come sintomi di una disfunzione molto grave, di solito una malattia mentale. Si tratta infatti di fantasie di eliminazione del figlio, che assumono spesso connotazioni agghiaccianti (strangolamento, squartamento, defenestrazione, ecc.), aggravate dal fatto di concernere un essere vulnerabile e indifeso.

Cosa  induce a pensare che si tratti di una patologia che affonda le sue radici nella storia sociale oltre che nella storia personale? Intanto, la frequenza. Laddove si realizzano condizioni tali per cui la madre si ritrova sola col figlio gran parte del giorno, e costretta a condividere con lui la totalità della propria esperienza, è estremamente probabile che, nel giro di alcuni mesi, al massimo entro l’anno, affiori una depressione. E, inoltre, il paradosso per cui i soggetti più a rischio non sono solo donne già gravate di problemi nevrotici, quanto piuttosto madri amorevoli, efficienti (o iperefficienti), la cui dedizione all’allevamento è consapevole, partecipe e, fino all’affiorare dei disturbi, totale. Il problema  consiste nello spiegare come sia possibile che, a questo livello, la normalità si trasformi più o meno repentinamente in patologia.

Per spiegare tale patologia in termini di storia sociale, occorre tener conto di tre fattori concorrenti: i cambiamenti intervenuti nell’organizzazione della famiglia, il modo del tutto nuovo in cui il bambino viene vissuto dagli educatori, i modelli ottimali di allevamento proposti dalle scienze psicologiche e avallati dalla Chiesa. Avendoli già analizzati  in precedenza, non torneremo su di essi. Si tratta qui piuttosto di vedere in concreto, sulla base di un esempio immaginario, come essi agiscono.

Dunque una giovane madre si trova ad affrontare l’allevamento di un figlio. L’isolamento sociale può essere dovuto a due fattori: alla carenza di sostegni parentali o al rifiuto da parte della madre di utilizzarli, ritenendo naturale  di voler fare da sola.  La dedizione materna é segnata dalla percezione del bambino come essere vulnerabile, che richiede un’attenzione continua per non disintegrarsi e disperarsi. Questa percezione ansiogena obbliga la madre a decifrare tutte le richieste del bambino e ad essere pronta a rispondere. Essa inoltre, via via che si instaura un rapporto significativo, impedisce alla madre di separarsi dal suo bambino, con il quale  ha un rapporto comunicativo privilegiato. Anche se la  disponibilità del partner é significativa, non allenta mai la tensione del rapporto poiché la madre comunque si sente responsabile diretta del benessere del figlio. Che cosa accade in questa situazione, che sembra realizzare condizioni di sperimentazione dei limiti delle capacità umane di tollerare la costrizione interpersonale, di rinunciare a un minimo di libertà, e di praticare la virtù del sacrificio totale di sé a favore dell’altro? Accade che, più o meno rapidamente, quasi sempre a livello inconsapevole, il rapporto diadico si configura come una gabbia soffocante e il bambino come un persecutore. L’incapacità della madre di dare un senso umano, e non patologico, ai segnali molteplici che attestano il suo disagio, determina poi una strategia perdente. Per soffocare tali segnali, la madre si impegna sempre di più nel rapporto col bambino. E’ ovvio che questa strategia non può fare altro che incrementare il disagio stesso e portarlo alle estreme conseguenze: la nevrotizzazione e l’affiorare dei sintomi.

Il problema é che se i sintomi che affiorano rientrano nell’ambito della stanchezza e del nervosismo da stress, essi possono essere confessati. Ma allorché - ed é molto più frequente di quanto si pensi - assumono una configurazione drammatica, sotto forma di fantasie e di coazioni a far male al bambino, risultano inconfessabili, poiché la madre si sente snaturata, se non addirittura pazza, e, in riferimento all’ideologia dominante della diade madre-bambino, si sente unica nella sua mostruosità. E’ incredibile a quali livelli di sofferenza soggettiva possa giungere una situazione del genere. E come essa, in casi oltremodo rari, determini un passaggio all’atto. Ma sono proprio questi casi, che finiscono in cronaca nera, ad incidere profondamente a livello psicologico, poiché, colti come espressione di una follia criminale contro natura e non come punte di un iceberg il cui corpo é rappresentato dall’universo delle giovani madri, essi determinano un’estrema resistenza nel confessare un bisogno di aiuto. Quasi tutte le donne che vivono questo dramma sono infatti convinte che rivolgersi ad un esperto sancirà una diagnosi fatale e un internamento.La sintomatologia delle depressioni delle giovani madri ha delle caratteristiche singolari che vanno rilevate. Solo raramente essa infatti risolve radicalmente il problema dando luogo ad una condizione che impedisce di fatto alla madre di accudire i figli e la mette praticamente in sciopero. Per quanto infatti attentato dall’opposizionismo inconscio nei confronti  di una eccessiva costrizione, il dovere materno, con il suo carico di responsabilità e di sensi di colpa, raramente si allenta. La colpevolizzazione per le inadempienze dovute ai momenti depressivi dà luogo infatti ad un tentativo di compenso che si traduce periodicamente in un’iperprotezione riparativa. Il rapporto si configura perciò caratteristicamente come ambivalente, contrassegnato da atteggiamenti di cura ossessivi e da atteggiamenti di distacco e di rifiuto, con conseguenze facilmente immaginabili a livello di evoluzione della personalità filiale incapace di dare senso a questa ambivalenza. Già frequenti infatti in precedenza, per via dell’iperprotezione legata al modello pedagogico di riferimento diadico, i disturbi infantili, in particolare per quanto riguarda il sonno, l’alimentazione e l’attività motoria, tendono ad incrementarsi con la conseguenza di colpevolizzare per un verso e di estenuare per un altro la madre. Quando non viene colto nella sua drammaticità, questo circolo vizioso può, in un certo numero di casi, fare affiorare delle fantasie suicidarie che, all’estremo, coinvolgono anche il figlio che la madre non intende abbandonare.

 

VI Il disagio femminile

Analizzate in rapporto al sesso, le statistiche inerenti l’epidemiologia del disagio psichico pongono univocamente di fronte al fatto che la popolazione femminile ne è coinvolta in una misura due o tre volte superiore a quella maschile. Se si pongono tra parentesi le ipotesi genetiche che fanno riferimento alla naturale precarietà dell’equilibrio emozionale delle donne dovuta ai loro particolari assetti ormonali, questo tributo implica l’incidenza di fattori socioculturali e ambientali.

Il disagio femminile coinvolge tutte le fasce di età e tutti i ruoli sociali. Le adolescenti sono affette in particolare dai disturbi del comportamento alimentare e dagli attacchi di panico.  Le donne giovani sono falcidiate da difficoltà affettive e sessuali nella relazione con l’uomo. Le casalinghe soffrono di emicranie ricorrenti, angosce ipocondriache, depressioni cicliche più o meno mascherate, disturbi ossessivi (in particolare rupofobici). Le donne che svolgono un doppio lavoro, domestico e extradomestico, sono sempre al limite dello stress, convivono spesso con una depressione frustra e incappano di frequente in attacchi di panico. Tenendo conto della sua diffusione, sembra veramente che il disagio femminile affondi le sue radici in un malessere epocale di non facile analisi.

Un fattore esplicativo di carattere generale riguarda la carriera di vita femminile nel suo complesso che continua ad essere gravata da lacci e lacciuoli di ogni genere. Se le donne sempre più di frequente sfuggono alla nascita al rifiuto che in passato le accoglieva, e sempre meno spesso devono confrontarsi con il privilegio accordato dai genitori ai fratelli maschi, difficilmente si ritrovano a vivere un’esperienza paritaria. Solo alle bambine in genere si insegnano i lavori domestici, solo ad esse si richiede precocemente da parte delle madri una collaborazione. Le adolescenti sono assoggettate a limiti nell’esercizio della loro libertà molto più rilevanti di quelli posti ai maschi. La loro vita affettiva e sessuale deve costantemente realizzarsi nel rispetto di forme la cui trasgressione le espone a duri giudizi sociali, espliciti e impliciti. Lo spettro della solitudine e dello zitellaggio impone loro di perseguire la sistemazione matrimoniale molto più precocemente rispetto agli uomini. La soglia dei trent’anni che per costoro ormai è una soglia minimale per rinunciare allo scapolaggio, per le donne è una soglia massimale e inquietante al di là della quale si configura lo spettro della solitudine, della sterilità e della perdita del potere attrattivo. Il matrimonio le pone quasi sempre di fronte alla necessità di farsi carico dei doveri domestici e dei bisogni di cura e di affidamento degli uomini, che peraltro non vengono mai espressi come tali bensì come privilegi. L’isolamento domestico delle casalinghe, con le frustrazioni che esso produce, è pagato spesso al prezzo di un ristagno o di una regressione culturale che induce sempre più spesso, oltre al consumo di teleromanzi e di mediocri riviste, l’abuso di alcool. L’attività lavorativa viceversa le espone all’assalto, sempre meno rifiutato, della seduzione maschile. Da ultimo, c’è da considerare l’impegno richiesto sul piano dell’assistenza agli anziani della famiglia, sia della propria che eventualmente di quella del marito, resa più onerosa dalla nuclearizzazione dei gruppi familiari e dalla psicologia degli anziani che, rispetto al passato, sono  in genere molto più esigenti e egoisti.

Queste circostanze, che sommano alle ‘ingiustizie’ genetiche (le mestruazioni, il parto, l’allattamento, il decadimento fisico più precoce rispetto all’uomo, ecc.) le ingiustizie legate alla cultura maschilista, spiegano solo in parte la rabbia smisurata che pervade oggi le esperienze femminili e che si esprime in forme diverse di disagio. Le spiegano nella misura in cui la rabbia, colpevolizzata, dà luogo a depressioni, angosce ipocondriache, attacchi di panico, sindromi ossessive, mortificazioni di ogni genere, oppure si esprime attraverso comportamenti aggressivi e maltrattanti nei confronti del partner e dei figli. Ma rimane  da capire perché essa non venga quasi mai utilizzata nella ridefinizione del proprio ruolo, dei rapporti interpersonali e di un progetto di vita incentrato sui bisogni personali. Problema inquietante perché esso non investe solo la quota di popolazione femminile che, benchè investita da confuse istanze di cambiamento, rimane attestata coscientemente sul rispetto più o meno rigoroso delle tradizioni culturali, ma anche quella consapevolmente e talora pervicacemente orientata verso il cambiamento alla luce dei nuovi valori prodotti dal femminismo.

Tale problema va ricondotto ad una maledizione di antica data che i cambiamenti culturali non hanno rimosso: la condanna di dovere comunque dipendere da qualcuno (la famiglia originaria, l’uomo, il marito, lo psicologo, al limite il sacerdote) che trova il suo fondamento ultimo non già in un’imposizione sociale bensì nella convinzione, profondamente radicata a livello soggettivo, della propria insufficienza ontologica. L’identità femminile ancora oggi è vissuta come funzione di una relazione, come un essere con o un essere per qualcuno. I bisogni di indipendenza, alimentati dalla cultura femminista e dal progresso sociale, non sembrano avere inciso su questo aspetto: essi anzi lo hanno esasperato.

Il conflitto tra una dipendenza coercitiva ma mal vissuta e un’indipendenza intensamente desiderata ma impossibile è riscontrabile in quasi tutte le forme di disagio femminile, anche se esso si esprime in maniera diversa. La dipendenza coercitiva dalla famiglia originaria, riferita sia ai doveri imposti alle figlie che alle limitazioni della libertà, nella misura in cui viene posta in gioco da fantasie spesso inconsce di fuga e di scioglimento dei legami, determina gli attacchi di panico adolescenziali e i disordini del comportamento alimentare. Lo spostamento della dipendenza nel rapporto con il partner maschile produce non pochi problemi. Ad un estremo si danno le esperienze di soggetti femminili che, sotto la spinta di un incessante bisogno di relazione con l’uomo che copre la dipendenza, si sperimentano di continuo in rapporti duali che finiscono regolarmente male. L’esito si realizza o in virtù di un aggrappamento fusionale all’uomo che ne induce la fuga o di un bisogno di controllo e di dominio sul partner maschile che, nel caso questi si ribelli, dà luogo ad un’escalation conflittuale simmetrica che esita nello scioglimento del rapporto, nel caso, viceversa, di un’accondiscendenza maschile, determina un disinvestimento sentimentale. All’estremo opposto si danno le esperienze di soggetti femminili che accettano una relazione duratura, spesso matrimoniale, ma che, con una consapevolezza più o meno rilevante, si ribellano alla dipendenza secondo modalità varie che vanno dal rifiuto della sessualità alla depressione frustra o conclamata, all’ipocondria e all’aggressività isterica.

Non è facile capire il significato di un disagio di tale portata. Tenendo conto dell’universalità del bisogno di relazione duale, la tendenza femminile a lottare, più spesso inconsciamente, contro la dipendenza, a non accettarla e a drammatizzarala,  può essere facilmente scambiata come l’espressione di una cultura femminista che ha finito con l’indurre collettivamente una percezione persecutoria dell’uomo. E’ fuor di dubbio che in alcune esperienze femminili tale cultura abbia inciso e incida, com’è attestato dal fatto che, nel corso dell’analisi,  si mette a fuoco una diffidenza radicale nei confronti dell’uomo vissuto univocamente come inaffidabile e/o prepotente. Ma l’entità del disagio eccede di gran lunga questa spiegazione.

Per giungere ad una spiegazione più valida occorre tenere conto di uno scarto critico tra l’evoluzione sociale e quadri di mentalità di lunga durata che impregnano la psicologia maschile e femminile.  A livello sociale la parità tra uomo e donna è ormai riconosciuta giuridicamente e ciò implica l’attribuzione all’uomo e alla donna degli stessi diritti. Nella pratica, sia a livello pubblico che privato, familiare, la parità, come noto, è ben lungi dall’essere realizzata. Ma non è certo la quota di ingiustizie ancora presenti nella struttura sociale, benchè importanti, a permettere di comprendere un disagio che pervade gran parte delle esperienze femminili. Occorre piuttosto considerare dei tratti propri della psicologia maschile e femminile, culturalmente determinati, che sembrano incidere prevalentemente a livello inconscio.

Per quanto riguarda la psicologia maschile, si dà una contraddizione di fondo tra i privilegi dovuti ad un’antica tradizione in virtù dei quali l’uomo pretende un maggior potere rispetto alla donna e un bisogno di affidamento, particolarmente evidente in Italia per effetto dell’atteggiamento sostanzialmente iperprotettivo delle madri nei confronti dei figli maschi, in conseguenza del quale egli tende a pretendere di essere accudito. Riguardo al primo aspetto, basta considerare il diverso valore che l’uomo assegna ai suoi tradimenti, che vengono giustificati, e ai tradimenti della donna, che vengono drammatizzati. Il secondo aspetto è più inquietante. La pretesa dell’uomo di essere accudito, e quindi l’investimento simbolico della donna come madre, si fonda infatti su di una sorta di handicap o di analfabetismo culturale ancora estremamente diffuso che viene regolarmente misconosciuto. Tale analfabetismo concerne il linguaggio della vita quotidiana, il minimo di competenze domestiche necessarie per badare a se stessi: il pulire e tenere in ordine l’ambiente, la preparazione del cibo, il lavare e lo stirare i panni, ecc.

In conseguenza di questa contraddizione l’uomo si pone nel rapporto con la donna nel contempo con un atteggiamento tendenzialemnet, anche se inconsapevolmente, prepotente e bisognoso, come un gigante dai piedi di argilla.

A livello di psicologia femminile, le contraddizioni sono molteplici. Per un verso infatti le donne hanno acquisito dalla tradizione una definizione del proprio essere come naturalmente dipendente, radicalmente bisognoso della conferma maschile e, dunque, ontologicamente insussistente al di fuori della relazione significativa con l’uomo. Ciò promuove, nella relazione con l’uomo, l’assunzione di un atteggiamento complementare, il regredire in una condizione di dipendenza e il porsi in una condizione di disponibilità, di accondiscendenza, talora di servilismo. Ma, nel contempo, esse, quasi sempre inconsciamente, si ribellano a questa dipendenza. La ribellione assume due configurazioni costanti. La prima si traduce in un malessere più o meno profondo, sotteso da una depressione frusta che talora si acutizza, dall’angoscia ipocondriaca, da iinumerevoli sintomi psicosopatici, dagli attacchi di panico. Tale malessere, esplorato analiticamente, rivela fantasie incessanti di attacchi al legame che non solo non accedono alla coscienza, essendo incompatibili con la dipendenza, ma danno luogo ad un bisogno crescente di sostegno e di conferma maschile. La seconda configurazione è invece caratterizzata da una vera e propria guerra senza quartiere al maschio che si manifesta  peraltro secondo varie modalità. Talora essa si traduce in una strategia di conquista che, col suo realizzarsi, determina una completa perdita di interesse per il partner. Tale modalità comporta una prova di forza, atta a rimediare alla dipendenza, che implica il vissuto per cui chi, nel rapporto, innamorandosi rivela la sua debolezza deve essere punito, eliminato. Altre volte la guerra si traduce in un dominio costante esercitato sull’altro che azzera la sua libertà e lo pone in una condizione di subordinazione. Tale configurazione sembra denotare un’assenza di dipendenza dal rapporto. Il dominio infatti, talora, assume una valenza prepotente, aggressiva e sfidante. Ma tale valenza persiste finchè l’altro accetta la subordinazione. Se egli si ribella e propone la chiusura del rapporto, l’angoscia dell’abbandono si ripresenta con caratteristiche drammatiche.

Tutto ciò porta a pensare che il condizionamento culturale che porta molte donne a viversi come insufficienti ontologicamente e bisognose coercitivamente della relazione con un partner maschile sia incompatibile ormai con il mito dell’indipendenza e soprattutto della forza che pervade la nostra cultura.

Il malessere femminile è, da ultimo, un travaglio di parto che oppone, nelle pieghe della soggettività, ad un antico modo di vedere, incentrato sulla naturale dipendenza femminile, che stenta a morire, un nuovo modo di vedere, incentrato sull’indipendenza, che stenta a nascere.

Da Miseria della neopsichiatria.

Deliri femminili

Rossella

Nel 1974, Rossella ha solo 14 anni ma è già recintata in un mutismo glaciale che lascia spazio solo alla sua volontà dichiarata di uccidersi. Occorrono due mesi per capire che quella volontà non corrisponde ad un suo desiderio bensì ad un dovere imposto dal fatto di essersi resa conto che i suoi genitori e il mondo intero la rifiutano e la vogliono morta. 'Io non dovevo venire al mondo' ripete con un timbro atono e con gli occhi incupiti.Il rifiuto dei genitori e dei parenti le pesa addosso dacché ha acquisito coscienza di sé, ed è confermato sia dall'atteggiamento scostante che essi avrebbero sempre avuto nei suoi confronti sia dalla predilezione manifestata costantemente nei confronti della sorella minore. Al rifiuto, vissuto originariamente come ingiusto, Rossella ha reagito nel suo intimo con fantasie di rabbia, di odio e di vendetta senza limiti. Solo lentamente, attraverso l’interazione con icoetanei e con gli estranei, ha preso atto dolorosamente che quel rifiuto era dovuto al suo modo di essere.

La decisione di uccidersi è maturata infatti di recente allorché, in autobus, Rossella ha visto che le persone si allontanavano da lei con un'espressione di disgusto stampata sul volto, e ha capito che ciò era dovuto al fatto di emettere un odore nauseabondo.La circostanza ha drammaticamente confermato un'immagine radicalmente negativa che Rossella ha di sé, e che oscilla tra il sentirsi di peso, priva di valore, rifiutabile per un verso, e marcia, appestata, diabolica per un altro. Da allora non esce più di casa e, essendo sottoposta, in conseguenza di un serio tentativo suicidario, ad un assiduo controllo, aspetta solo il momento propizio per portare a termine il suo progetto. Non si tratta, dal suo punto di vista, ormai di una vendetta. L'odio nei confronti del mondo è sormontato dall'odio che prova nei confronti di se stessa. L'autocondanna a morire è un verdetto reso inappellabile dalla consapevolezza che continuare a vivere significherebbe null'altro che fare 'disastri'. La sua anima - confessa - è piena solo di fantasie cattive, sadiche e perverse, e di incubi.

I genitori riferiscono tutta una serie di indizi apparentemente inequivocabili nell'attestare una predisposizione morbosa. Rossella manifesta comportamenti strani fin dai primi mesi di vita. Piange talvolta per giorni e notti consecutive irrefrenabilmente, senza motivo. Alternativamente giace inerte e con lo sguardo spento, senza fiatare, nel suo lettino.Da bambina appare costantemente chiusa a riccio dentro di sé, spigolosa, poco affettuosa. Rifiuta con aperto fastidio le carezze e i vezzeggiamenti del padre. All'asilo lega male con gli altri, isolandosi e rifiutandosi di giocare. A scuola, il suo comportamento appare appena più adeguato ma non dal punto di vista sociale bensì per il rendimento nello studio, risultato sempre ottimo. Tranne che per i libri, Rossella non ha mai manifestato alcun altro interesse se non per un cane, al quale si è attaccata morbosamente. L'ossessione di non essere amata e che i suoi la volessero morta è stata poi un ritornello a partire dai 7-8 anni. In rapporto alla testimonianza dei suoi, l'amore viscerale per il cane, appare, in un panorama desolante autistico, l'unico filo di speranza.

Che significa questo amore viscerale espresso da un essere giudicato da tutti e da sempre insensibile, freddo e asociale? Il cane è l'unico essere vivente nel cui sguardo Rossella non ha mai intravisto il rifiuto, il disprezzo. Purtroppo, ciò non la motiva a vivere perché - dice - hanno ragione gli altri non il cane che, accecato dall'affetto, non può capire quello che gli altri capiscono.

Occorrerà un anno perché, messi alle strette da indizi che Rossella fornisce sul loro comportamento ma che appaiono del tutto incomprensibili, i genitori si decidano a dire la verità. La madre recalcitra sino all'ultimo, preda di un'infinita vergogna e scongiurando che Rossella non ne venga a conoscenza. La verità terribile è un banale segreto. Rossella è stata concepita prima del matrimonio. Entrambi i genitori erano giovanissimi e risiedevano con le famiglie medio-borghesi in una cittadina campana. Il padre frequentava l'università. Escluso l'aborto, comunicare ai parenti l'accaduto fu un dramma. Sulla necessità di coprire lo ‘scandalo’ con un immediato matrimonio furono tutti unanimi, ma, riguardo all'accaduto, si scatenò un processo che inimicò le famiglie per anni. I parenti del giovane accusavano la ragazza di non essersi comportata da donna onesta, opponendo resistenza; quelli della ragazza accusavano il giovane di avere profittato della sua ingenuità e della fiducia accordatagli. All'interno del proprio gruppo familiare ciascuno dei due fu sottoposto ad un devastante processo. Il matrimonio fu celebrato in un clima di tensione estrema, arginato appena dalla necessità di non dare nell'occhio agli invitati. Ma nel paese tutti naturalmente sapevano come stavano le cose. Il padre fu costretto a lasciare l'università e ad occuparsi in banca. Per sfuggire alla imbarazzante curiosità dei paesani, il nuovo nucleo familiare si trasferì a Roma.

Rossella nasce dunque come figlia della colpa, di una colpa che ha disonorato due famiglie, e in conseguenza della quale i coniugi saranno tenuti a distanza dai parenti per alcuni anni. Subito dopo la nascita, la madre di Rossella manifesta una preoccupazione fobica riferita alla possibilità che la figlia possa contagiarsi. In conseguenza di questa fobia rinuncia a tenerla in braccio e ad allattarla. La cura ossessivamente ma senza mai toccarla con le mani nude. La lava con i guanti di gomma e più volte al giorno strofina il suo corpicino con l'alcool per sterilizzarlo. Al padre vengono imposte le stesse regole igieniche alle quali egli si attiene perché capisce che la moglie sta male e, se perdesse Rossella, potrebbe commettere una sciocchezza. Il regime di coppia si deteriora rapidamente. Quando Rossella comincia a crescere i suoi litigano regolarmente e, al culmine dei litigi, le indirizzano delle occhiate terribili che essa decifra sentendosi colpevole della loro infelicità. Nei rarissimi momenti di incontro, i familiari sia del padre che della madre la ignorano ostentatamente e si comportano come se non esistesse.

Tutto cambia con la nascita della sorellina, che avviene quando Rossella ha cinque anni. Figlia legittima, essa è festeggiata da tutti i familiari tra i quali si ricompone un minimo di armonia. A differenza di Rossella poi, la sorellina ha un carattere espansivo, accattivante, che seduce i genitori. Rossella cresce nutrendo nel suo cuore solo rabbia e odio contro tutto e contro tutti. A dieci anni la sua mente comincia ad essere attraversata da fantasie di indicibile sadismo alle quali essa, nonostante i sensi di colpa, si abbandona ricavandone un sottile piacere.

A dodici anni sopravviene lo sviluppo puberale. Date le difficoltà di socializzazione di Rossella, non si dovrebbero nutrire grandi preoccupazioni. Ma la madre, che legge nei suoi sguardi di 'gatta morta' una luce che le fa presagire una vendetta, non si esime dall'impartirle una terrificante lezione di morale sessuale che la convince che si possono contrarre malattie mortali e rimanere incinte anche solo sfiorando le labbra di un ragazzo.Non ce n'era bisogno perché a Rossella il corpo già ripugna, e l'idea di un bacio la nausea. La lezione però la induce a coltivare anche fantasie di perversione sessuale di tipo sado-masochistico.

Per via della rabbia, dell'odio, del sadismo vendicativo e della perversione sessuale, Rossella si sente un'anima marcia. Allorché i sensi di colpa, mai sperimentati a livello soggettivo se non sotto forma di un giudizio radicalmente negativo su di sé, si realizzano proiettivamente, e Rossella prende atto che tutto il mondo ormai ha scoperto il suo vero essere, nauseabondo e appestato, la situazione precipita.

Il delirio di riferimento oggettiva dunque un giudizio superegoico che Rossella ha fatto proprio coscientemente e che, comportando l’isolamento sociale, l’esclusione, impedisce all'Io antitetico, che ha assunto una configurazione radicalmente trasgressiva e antisociale, di realizzarsi.

Il delirio di Rossella ha dunque un tessuto realistico. E' vero che non sarebbe dovuta venire al mondo e che è stata rifiutata coscientemente dai parenti e inconsciamente dai genitori. Ma, come il rifiuto di quelli, il rifiuto di questi è di ordine superegoico, culturale.Innocente, essa è stata vissuta di fatto come la figlia della colpa e del disonore, è stata trattata come tale e ha sentito gravare su di sé una maledizione impossibile da decifrare, che è giunta infine ad interpretare in rapporto alle sue fantasie reattive assunte come espressioni della sua natura intrinsecamente malvagia.

 Anche in un caso del genere, laddove l’influenza dell’ambiente è massimamente evidente, non si può fare appello ad un determinismo culturale per spiegare il delirio.La volontà di uccidersi di Rossella, che, a livello cosciente, viene avvertita come un dovere da eseguire in nome delle aspettative altrui, va ricondotta al fatto che essa ha un'immagine radicalmente negativa di sé, come attesta l'episodio delirante dell'autobus, dovuta non solo alle interazioni interpersonali squalificanti ma anche alle rabbie cieche, agli odi vendicativi e alle fantasie perverse con cui ha reagito alla situazione. Il suo sentirsi marcia, nauseabonda, appestata esprime livelli profondi di colpevolizzazione superegoica. Tanto è vero questo che l'essere messa a parte della verità non produce alcun risultato immediato, ma induce addirittura un peggioramento. Via via infatti che regrediscono i propositi suicidi, Rossella è sempre più preda di fantasie vendicative incentrate sul tema di disonorare la famiglia agendo comportamenti trasgressivi di ogni genere (dal furto alla droga al diventare una prostituta). Tali fantasie, già presenti in precedenza, vengono però ad urtare contro una rigidissima struttura superegoica, prodotta dall’interazione con la madre e dalla frequentazione di un istituto di suore. La conseguenza è duplice: per un verso le percezioni sociali pseudoallucinatorie di essere giudicata negativamente, aborrita, si incrementano; per un altro, è talora Rossella stessa, alleandosi con il Super-Io, a definirsi una sciagurata, un essere malvagio, una serpe in seno. Sono occorsi quattro anni per dissolvere quelle percezioni e per affrancarla dallo stigma di essere una ‘malnata’.

La scomparsa del delirio ha coinciso con l’allentarsi dell’Io antitetico, e con il dispiegamento dell'Io vocazionale. Come era da aspettarsi, è venuta fuori una personalità molto ricca di sensibilità sociale, fino al limite della scrupolosità, piuttosto esigente con se stessa e incline a stigmatizzare le ingiustizie sociali. Rossella ha assistito amorevolmente il padre affetto da una malattia che lo ha portato a morte.Si è laureata in pedagogia e si è sposata con un operaio (sfidando la madre e i parenti con i quali non si è mai riappacificata), dedicandosi con uno zelo eccessivo alla casa e alla figlia. Lavora in una cooperativa e assiste dei bambini autistici con i quali stabilisce dei rapporti empatici molto profondi.

Anche il delirio di Rossella dunque ha, in ultima analisi, una matrice esperienziale e culturale riconducibile ai rifiuti letti nell'inconscio genitoriale e parentale, che essa non poteva interpretare che riferendoli a sé. Si trattava in effetti di rifiuti che la investivano ma a partire da un'ideologia condivisa dal gruppo parentale - quella evidentemente dell'onore, bene comune espressivo della capacità dei membri di conformare il loro comportamento ad un codice di valori normativo, frustrando la libertà personale incompatibile con esso. Un'ideologia che si può ritenere funzionale ai bisogni del gruppo di dotarsi di un'identità culturale ma che, di fatto, può diventare, come si è visto, facilmente 'barbarica'. Un’ideologia peraltro che Rossella ha interiorizzato e che spiega infine la sua decisione di uccidersi per non disonorare la famiglia.

La storia di Rossella presenta un ulteriore motivo di interesse. Pure appartenendo alla stessa famiglia, essa e la sorella hanno interagito con due contesti radicalmente diversi: inconsciamente rifiutante l’uno, accettante l’altro. Si può ipotizzare che, in conseguenza della sua introversione, Rossella avrebbe potuto avere delle difficoltà in qualunque altro ambiente. C’è del vero in questa ipotesi e se ne terrà conto nella discussione ulteriore.  E’ però inconfutabile che il riferimento allo stesso ambiente familiare e socio-culturale, che la neo-psichiatria porta spesso come prova della vulnerabilità predisposizionale degli schizofrenici, che ammalano laddove altri fratelli non manifestano disturbi, è piuttosto superficiale. Posto ciò, arrivare a pensare che in tutti gli ambienti in cui un figlio ammala mentre altri fratelli non ammalano, si realizzino condizioni simili a quelle realizzatesi nella famiglia di Rossella, è manifestamente insostenibile. L’ammettere, con qualche riserva, una relativa omogeneità - psicologica e culturale - dell’ambiente, induce ad affrontare il problema dei corredi genetici individuali, premessa indispensabile per arrivare a discutere della predisposizione alla schizofrenia.

Elisa

Elisa ha diciotto anni quando una mattina, al risveglio, appare repentinamente fuori di sé. Ha paura che tutti le si avvicinino, risponde rabbiosamente a voci che la ingiuriano, si strofina di continuo il corpo per scacciare delle bestie schifose, si porta ogni tanto le mani alla gola come volesse liberarsi da un nodo che la stringe. Accompagnata di urgenza in Ospedale, viene diagnosticata d’emblée schizofrenica e trattata con neurolettici ad alte dosi. Quando torna a casa è intontita, ma continua a sentire le voci e ad avere attacchi di panico associati al terrore di morire.

Fin da bambina, Elisa è risultata un po’ strana: di carattere chiuso, introversivo, ha avuto sempre difficoltà di socializzazione. Il suo carattere buono e docile è stato però apprezzato sia in famiglia che da un cerchio ristretto di amiche. Con l’adolescenza, Elisa comincia a rendersi conto della sua diversità e a soffrire delle difficoltà di socializzazione, soprattutto in rapporto all’altro sesso. La frequentazione del liceo artistico accentua questo disagio. A contatto con persone estroverse, piuttosto originali e tendenzialmente trasgressive, Elisa giunge a sentirsi anormale e a desiderare di diventare come loro. A 17 anni  scopre che la marijuana e l’alcool dissolvono le sue insicurezze e le remore morali. Comincia a frequentare le discoteche e a ‘sballare’ concedendosi i primi rapporti sessuali. Per tenere a freno i sensi di colpa, incrementa progressivamente il ricorso alle droghe, ingerendo tutto ciò che le viene offerto. La famiglia, ignara di ciò che sta accadendo, valuta positivamente il cambiamento di carattere finché Elisa non comincia a manifestare una certa aggressività domestica.

Poco prima di sragionare, confessa sconvolta alla madre di essere rimasta incinta. Non sa dire con chi perché il concepimento sarebbe avvenuto in occasione di uno sballo. La madre intuisce il genere di vita che Elisa ha condotto negli ultimi mesi. L’accompagna dal medico che le prescrive la pillola del giorno dopo, che non ha effetto alcuno. Esegue un test di gravidanza, dopo pochi giorni, che risulta negativo. Ciononostante Elisa è convinta di avere abortito, se ne rimprovera e ha degli incubi notturni. La madre, che riconosce di essere stata più che ignara connivente col genere di vita condotto da Elisa perché, infelice col marito, apprezzava il fatto che la figlia si godesse un po’ la libertà, dopo essere stata per anni severissima nei suoi confronti, le impedisce di andare in discoteca. Elisa si incupisce e sembra ruminare strani pensieri. Per un verso, si sente in colpa per essersi lasciata andare e avere tradito i suoi principi religiosi, profondamente partecipati sino all’epoca dello sballo; per un altro, non vuole ricadere nella timidezza e nell’inibizione che, in precedenza, avevano contrassegnato la sua vita isolandola socialmente. La sera prima dell’attivarsi del delirio, sfuggendo al controllo della madre, tenta di andare in discoteca, ma torna dietro per il sopravvenire d’un attacco di panico.

Non ci vuole molto a capire cos’è accaduto in termini psicodinamici. Fino a 17 anni, Elisa è rimasta assoggettata ad un regime di vita superegoico che, per effetto della severità materna, ha accentuato i tratti introversivi propri della sua personalità, rendendoglieli odioso. Ha tentato poi di cambiare repentinamente vita, aderendo al modello dello ‘sballo’ e anestetizzando i sensi di colpa con la droga e con l’alcool. La presunta gravidanza, esitata secondo Elisa in un aborto, ha riabilitato il Super-io che ha assunto una configurazione persecutoria e minacciosa direttamente proporzionale ai sensi di colpa accumulati. L’attivazione del Super-io non riesce immediatamente ad avere la meglio sull’Io antitetico, a cui Elisa continua a fare riferimento vedendo in esso la possibilità di scongiurare una regressione nel modo di essere inibito preesistente, che l’ha esposta a giudizi umilianti. Se si tiene conto dei correlati neurobiologici delle due substrutture e della loro contemporanea attivazione, né lo stato confusionale delirante né i comportamenti di Elisa risultano incomprensibili.

Ciononostante, in non più di un quarto d’ora, lo psichiatra del SPDC, preso atto delle allucinazioni e della difficoltà di comunicare con Elisa, formula un inesorabile verdetto, che viene recepito dai familiari come un'inappellabile condanna. Ciò nonostante, su sollecitazione della zia materna di Elisa che, pure essendosi in gioventù ribellata alla tradizione repressiva, è riuscita a cavarsela, i familiari accettano che si avvii un trattamento psicoterapeutico.

Elisa è congelata dalla paura persecutoria di morire e bloccata ideativamente dagli psicofarmaci. Dopo alcuni incontri comincia a partecipare, a intuire, a capire qualcosa della sua storia interiore. Analizzata nella sua matrice religiosa, che comporta il riferimento ad un Dio spietatamente punitivo che non è quello in cui Elisa crede coscientemente, l'angoscia di morte si attenua notevolmente. Purtroppo, però, Elisa non ha il tempo di elaborare il rapporto con la madre e con la cultura ambigua, repressiva per un verso e anarchica per un altro, che essa le ha trasmesso, e, preso atto dell'influenza esercitata su di lei dalla madre, manifesta nei suoi confronti dei comportamenti aggressivi. Portata in ospedale in conseguenza di uno di questi, la diagnosi di schizofrenia è ribadita implacabilmente, i dosaggi farmacologici vengono aumentati e lo psichiatra fa presente che, in casi del genere, la psicoterapia può risultare più pericolosa che vantaggiosa. I genitori prendono atto di questo giudizio e interrompono il trattamento psicoterapeutico. Elisa mi telefona più volte, nei mesi successivi, per chiedermi un appuntamento, ma i suoi sono irremovibili nel rifiutarsi di accompagnarla. Si giustificano, comprensibilmente, dicendo di sentirsi tra due fuochi.

Alessia

Alessia, insegnante di matematica, che vive con la famiglia in una cittadina marchigiana, comincia a star male a 27 anni. All'inizio appare solo più silenziosa e inibita del solito. Poi, sia a scuola che a casa, manifesta comportamenti inadeguati. Rimane bloccata in piedi, emette strani risolini, fissa spesso insistentemente nel vuoto. Non ha alcuna consapevolezza di ciò che le sta avvenendo per cui è la famiglia a farla mettere in malattia. Visitata da uno psichiatra, che non riesce a cavarle una parola di bocca,  viene dichiarata brutalmente schizofrenica e aggredita con il solito cocktail di neurolettici. Si sottopone passivamente alle cure, ma, ciononostante, la situazione peggiora. Alessandra si chiude in un mutismo assoluto e comincia a rifiutare il cibo. Smagrisce, ha il colorito cereo e una mimica nel contempo atonica e disperata per via dello sguardo perduto nel vuoto. Il decorso sembra confermare una diagnosi senza scampo.

 Il contatto comunicativo non è rifiutato, ma appare improduttivo perché la coscienza di Alessia sembra immersa in un vuoto assoluto. Si trova un solo spiraglio. Da alcuni anni essa ha una relazione con un giovane del paese. Originariamente tale relazione è stata vivamente ostacolata dal padre, per via del fatto che il giovane in questione è notoriamente ateo e di sinistra. Ma, nonostante il padre abbia esercitato tutta la sua autorità nell'imporre alla figlia di desistere, questa, per la prima volta nella sua vita, si è impuntata e lo ha sfidato. Dopo circa due anni, la famiglia ha accettato lo stato di fatto. Alessia però si rende conto di essersi messa in un vicolo cieco. Il fidanzato, infatti, è decisamente anticlericale. Si è parlato di matrimonio, ma egli  ha fatto onestamente presente che non potrà mai accettare il rito religioso. Pur essendo credente, Alessia non avrebbe difficoltà a contrarre un matrimonio civile. Sa però che la famiglia, di tradizione rigorosamente cattolica, subirebbe un'offesa mortale e sarebbe disonorata agli occhi del paese. Si rende conto di non potere in alcun modo agire un comportamento a tal punto dissacrante. Dunque la sfida è stata inutile, e la relazione è a vicolo cieco. Alessandra di fatto la interrompe, ma ha già cominciato a stare male, a coltivare un deliro trasgressivo inapparente che esiterà nella crisi.

Non avendo alcuna coscienza che si tratta di un delirio, Alessia comunica l'imbarazzante segreto solo dopo alcuni mesi di terapia. Il segreto è questo. Nonostante la sua apparenza di santarellina, essa ha avuto una doppia vita nel corso degli anni, essendo stata in relazione con uomini, anche sposati, dai quali ha avuto un numero imprecisato di figli naturali. Tutti nel paese, tranne i suoi familiari, lo sanno e perciò la guardano male e la rimproverano. E' un delirio florido vissuto con una convinzione totale che si è sviluppato qualche mese prima che si manifestassero i disturbi comportamentali.

Appare immediatamente evidente una contraddizione clamorosa. Per un verso, Alessia, avendo operato la scelta di un partner non conforme alle aspettative familiari,  ha sacrificato la sua felicità in nome dell'onore familiare; per un altro, il delirio attesta che tale onore è già stato infangato da comportamenti molto più trasgressivi rispetto al matrimonio civile in questione. La soggezione superegoica, insomma, è compensata da una sfida trasgressiva e radicale incentrata sull'ideale dell'io antitetico.

L'atteggiamento di Alessia nei confronti dei contenuti deliranti è ambivalente. Per un verso, alla luce della fede, si sente terribilmente in colpa e nutre l'aspettativa di una punizione mortale; per un altro, rivendica i suoi diritti di donna libera e adulta che non deve dar conto a nessuno. Questa ambivalenza è l'indizio di una scissione tra due parti della personalità che, a livello inconscio, veicolano due diverse visioni del mondo. La prima assegna alla comunità, alle sue tradizioni e  ai suoi costumi, un valore predominante  e assoluto, al quale la libertà individuale deve essere sacrificata in nome dell'equilibrio sociale e del bene comune; la seconda, viceversa, privilegia la libertà individuale come diritto assoluto il cui esercizio non può essere inibito quand’anche entra in contrasto con le convenzioni sociali. Questa scissione spiega a sufficienza il delirio nella misura in cui questo condensa una sfida radicale ai valori religiosi, morali e culturali propri del gruppo d’appartenenza e un terribile senso di colpa. Spiega anche il fatto che, quando è "normale", Alessia è totalmente connivente con la prima visione del mondo; quando sta male, aderisce e difende la seconda. Il passaggio dalla normalità alla patologia coincide, dunque, inconsciamente con una rabbiosa rivendicazione di libertà anarchica che viene immediatamente pagata. Le voci persecutorie la bloccano, i risolini attestano la sua fierezza sfidante.

Dove affonda le sue radici questa cieca volontà di trasgredire, di sfidare l'ordine sociale e trascendente? Il contesto socio-culturale in cui vive Alessia è un contesto provinciale, tradizionale, conservatore. I pochi giovani che rifiutano di adattarsi in nome d’un crescente benessere e si sentono soffocare dal controllo sociale se ne vanno senza nostalgia. Anche Alessia lo ha progettato dopo la laurea, rinunciando poi per non dare un dispiacere ai genitori. Su questo sfondo, la famiglia di Alessia si caratterizza per un conservatorismo assoluto incentrato su di una comune fede religiosa dai tratti marcatamente integralisti.

Si tratta intanto d’una famiglia allargata. I vari gruppi parentali vivono a stretto contatto in un regime di solidarietà comunitaristica e di controllo reciproco. Il principio dell'uno per tutti e del tutti per uno è un vangelo che nessuno ha mai osato contestare. Il valore dominante il gruppo è l'onore, un patrimonio comune ereditato dagli avi che hanno condotto a memoria  una vita specchiata, il quale, rappresentandone l'eredità, va gelosamente tutelato. In questa ottica culturale, la libertà individuale deve essere sacrificata se essa entra in contrasto con l'onore, il sacrificio essendo compensato dal vantaggio di essere partecipi di un gruppo che assicura a ogni membro una rilevante sicurezza e protezione.

Il debito nei confronti della famiglia e dei genitori in particolare, che hanno sacrificato la loro vita per i figli, Alessia lo ha sempre avvertito. E' in nome di questo debito che il suo comportamento è stato sempre docile, assecondante e pienamente rispondente alle aspettative familiari. Alessia insomma non ha mai dato problemi di alcun genere. Il problema però è di essere venuta al mondo con uno spirito critico e contestatore che, nel suo intimo, ha cominciato ad avvertire nettamente dall'adolescenza in poi. Impregnata dei valori tradizionali, non ha mai concesso ad esso spazio alcuno, identificandolo con un germe maligno la cui presenza nella sua anima era perfettamente spiegabile in termini religiosi. Questa convinzione si è incrementata via via che, col passare degli anni, Alessia ha cominciato ad avere dei sintomi inapparenti sotto il profilo sociale. Di cosa si è trattato? Di pensieri, fantasie e coazioni ossessive parassitarie. Capitava insomma ad Alessia di guardare la madre e di pensare: ma quando muore?; di trovarsi in chiesa e di sentirsi spinta ad urlare o a colpire la testa di chi stava nel banco davanti; di trovarsi per strada e di sentire il bisogno di denudarsi e via dicendo. A chi poteva mai Alessia ricondurre questi pensieri e queste fantasie se non al demonio? Per liberarsene, ha adottato la strategia propria dei credenti: la preghiera, la contrizione, la mortificazione. Ciononostante, le fantasie parassitarie hanno continuato a tormentarla.

Paradossalmente, esse si sono attenuate solo allorché Alessia ha sfidato l'autorità paterna entrando in relazione con il giovane inaccettabile per la famiglia. Per due anni, pur altercando con il padre, Alessia è stata bene come non mai. Poi si è resa conto che quella sfida, portata alle estreme conseguenze, l'avrebbe posta in rotta con tutta la famiglia e l'avrebbe costretta a disonorarla. In conseguenza di ciò, le fantasie si sono ripresentate e con esse è fiorito il delirio della doppia vita, e, col delirio, l'isolamento animato da vissuti persecutori, dall'aspettativa della giusta punizione e dall'anoressia, che rappresenta nel contempo un'espiazione delle colpe, una purificazione e la volontà inconsapevole di affrancarsi dal mondo.

Ricondurre la scissione che si è instaurata in Alessia a un'ambivalenza tra amore e odio nei confronti della famiglia è riduttivo. Quella scissione di fatto fa capo a due orientamenti ideologici, a due visioni del mondo, a due modi di pensare, sentire e agire incompatibili. La prima privilegia il debito nei confronti del gruppo di appartenenza, e riconosce in esso, in quanto inestinguibile, il limite dell'esercizio della libertà personale. In caso di conflitto, da questo punto di vista, la libertà va sacrificata in nome dell'indebitamento. La seconda, viceversa, privilegia la libertà individuale come bene sommo e irrinunciabile che, per nessun motivo, deve  piegarsi ad una volontà esterna al soggetto, tranne il caso che essa sia riconosciuta come coincidente con la propria. In Alessia, queste due visioni del mondo sono entrambe rappresentate e attive sia emotivamente sia cognitivamente. Finché Alessia è inconsapevole di ciò, la prevalenza dell'una o dell'altra o la brusca alternanza tra di esse si traducono in comportamenti e vissuti sintomatici. Via via che essa si rende conto di questa scissione, paradossalmente si ritrova a ragionare coscientemente con due teste.

Un esempio tra tanti è il seguente. Una sorella sposata aspetta il suo primo bambino. Alessia decide di passare il Capodanno a Praga con un'amica. Si configura, pochi giorni prima della partenza, una minaccia di aborto. Alessia sa che il suo dovere sarebbe quello di stare accanto alla sorella per solidarietà, come fanno tutti i parenti. Pensa però che, se le cure mediche non valgono a scongiurare quella minaccia, l'assistenza dei parenti è inutile. Pur riconoscendo il valore della solidarietà di gruppo, che ha sperimentato e sperimenta allorché sta male, ritiene che la partecipazione del gruppo alla sofferenza di un membro debba avere, per non ridursi ad un rituale, un significato concreto d'aiuto. Decide di fare il viaggio, e al ritorno ricomincia a star male. E' depressa e ha degli strani sogni: in alcuni compaiono dei parenti che la proteggono e le tendono la mano, in altri gli stessi parenti e il padre, che nel frattempo è morto, proferiscono nei suoi confronti velati rimproveri e oscure minacce.

Un altro esempio concerne il lavoro. In quanto insegnante, Alessia sa che il suo dovere è di mantenere in classe una certa disciplina funzionale allo svolgimento dei programmi. Ciononostante, essa nel suo intimo condivide, rievocandolo, il disagio di un gruppo di adolescenti di stare fermi e composti per ore e ore, spesso annoiandosi. Il suo comportamento di conseguenza è ambivalente: talora apertamente permissivo, talaltra rigidamente repressivo. Quando però accade che essa punisce gli alunni, rimproverandoli o mettendo loro delle note, finisce con lo stare male pensando che qualcuno tra di loro potrebbe reagire drammaticamente alla punizione, suicidandosi.

Il conflitto tra i due modi di pensare e di sentire investe anche la quotidianità domestica. La casa di Alessia, nel pomeriggio, è un luogo consueto di ritrovo per gli zii e per le zie. Si passa il tempo a parlare del più e del meno, a giudicare un mondo che diventa sempre meno comprensibile agli occhi di una famiglia conservatrice e integralista. Alessia sente il dovere di essere presente anche se si annoia mortalmente e non condivide quasi nulla di ciò che viene detto. D'istinto le verrebbe da ritirarsi nella sua camera e di dedicarsi alle letture o al computer. Sa però che tale atteggiamento sarebbe vissuto dai parenti come uno sgarbo o, peggio ancora, come un sintomo di peggioramento. Si costringe a partecipare, ma più spesso rimane in piedi bloccata come una statua di sale emettendo ogni tanto, quando le cose che vengono dette dai parenti le sembrano ridicole, dei risolini che destano un grave imbarazzo.

Non appena lo stato quasi stuporoso indotto dai farmaci si attenua e la sua storia viene ricostruita per sommi capi nei suoi significati, Alessia comincia a prendere dopo ogni incontro degli appunti che elabora autonomamente. Ha difficoltà ad accettare l'ipotesi di essere stata sempre visceralmente critica nei confronti della cultura ambientale e familiare. Tale difficoltà è da ricondurre al fatto che, riconoscendo la dedizione dei suoi nei confronti dei figli e la loro coerenza  assoluta, non intende attribuire loro alcuna colpa. La difficoltà viene sormontata attraverso l'analisi delle mentalità familiare che consente di capire come i suoi possano averla danneggiata senza averne alcuna intenzione e consapevolezza. Alessia giunge a dare voce alle sue proteste contro una cultura angusta senza sentire di profanare l'affetto nei confronti dei genitori e dei parenti. Riesce anche a capire in quale misura i suoi vani tentativi di soffocare quelle proteste possono avere contribuito ad indurre, a livello inconscio, una rivendicazione di libertà anarchica tradottasi nel delirio della doppia vita.

Dopo due anni di trattamento il delirio sorprendentemente muta forma fenomenica. Alessia non rivendica più di avere avuto relazioni con molti uomini e un numero imprecisato di figli bensì d’essere stata sposata una volta e di avere un solo figlio. Occorrono alcuni mesi per decifrare questo cambiamento come un sorprendente delirio riparativo. Nell'ottica della tradizione familiare, il dovere assoluto della donna è di dedicarsi agli altri o come madre e moglie o come suora. Da questo punto di vista il non essersi sposata e il non avere ceduto da bambina alle sollecitazioni familiari di entrare in convento rappresentano una colpa che il nuovo delirio serve a rimediare.

Dopo quattro anni di terapia, Alessia continua ad avere alcune fantasie parassitarie e talora dei pensieri deliranti ma è in grado di criticarli. Parla di essi come un sottofondo della sua esperienza il cui senso le riesce, a freddo, del tutto chiaro. Ha sviluppato anche, nei confronti del suo ambiente culturale, una straordinaria tolleranza. Ciononostante pensa che, se fosse stata libera di scegliere, avrebbe preferito nascere e vivere in un contesto più articolato e stimolante.

Dopo due ulteriori anni, nel corso dei quali Alessia ha continuato a lavorare su di sé con un periodico sostegno psicoterapeutico, ogni vissuto delirante sembra essersi esaurito.

 

Da Star Male di Testa (2004)

19. Lui

Il non avere bisogno di niente e di nessuno è la soluzione immaginaria cui mirano le anoressiche per sfuggire ai condizionamenti socio-culturali che gravano sulla condizione femminile[1]. Apparentemente, il contrario accade a molte donne la cui esperienza è ossessivamente incentrata sulla ricerca e sul mantenimento di una relazione con l'uomo, all'interno della quale depositare il loro "disperato" bisogno di amore e di conferme, e che, ciononostante, vivono sempre sul filo del rasoio: del panico, della solitudine cosmica e dello svuotamento di senso dell'esistenza se la relazione non c'è o viene meno, dell'insoddisfazione, della precarietà e dell'angoscia di abbandono se c'è.

Il problema del rapporto con l'altro sesso è un'altra epidemia psicologica, tipica del nostro mondo, che induce sempre più spesso le donne a rivolgersi alla psicoterapia per capire cosa non funziona in loro e/o  nei partners. Con gran soddisfazione - verrebbe da dire - degli psicoterapeuti che, facendosi carico del problema, colgono due piccioni con una fava. Si guadagnano il pane, data la domanda crescente di aiuto, e si mettono al riparo dall'affrontare situazioni psicologicamente più spinose. En passant, si dà pure la possibilità che la dipendenza si trasferisca nel rapporto terapeutico e che la cura si trasformi in un vitalizio. L'intento speculativo da parte degli analisti c'è, altro se c'è, ma spesso viene alibizzato in nome della complessità del problema.

Le difficoltà relazionali vengono, infatti, ritenute l'indizio di un disturbo profondo dell'identità personale, di una ferita primaria nel rapporto con la madre o col padre, di una fissazione edipica, di un infantilismo di fondo, di una competitività inconscia con l'uomo o, addirittura, di un'aggressività latente: di problemi cioè che, per essere rimediati (parzialmente), richiedono tempo, comprensione, pazienza e il biberon della disponibilità terapeutica che, di solito, eroga conferme in misura direttamente proporzionale all'onorario. Le interessate, compiaciute dell'attenzione di cui si sentono investite, offrono prove continue della gravità del loro disagio.

Hanno tutte un contenzioso aperto con i genitori: col padre freddo e distaccato o, viceversa, possessivo e geloso, con la madre rifiutante, che, casomai, ha sempre privilegiato il figlio maschio, o, viceversa, iperprotettiva e invadente. Hanno tutte un rapporto ambivalente col partner, che oscilla sempre tra l'amore e l'odio, con una confusione tale che stargli accanto fa soffrire ma separarsene è ancora peggio.  Hanno tutte una concezione negativa dell'uomo (tranne quello "giusto", che dovrebbe cadere da un altro pianeta) e ancor più delle donne (che ritengono civette, infide, egocentriche, se non addirittura "vipere").

Su questo sfondo comune, si definiscono esperienze di disagio le più diverse.

Alcune donne, pure aspirando ad avere una relazione, non riescono a trovarla e rimangono angosciosamente sole. Dato il numero di interazioni tra persone di sesso diverso che caratterizza il nostro mondo, la cosa è sorprendente. Anche loro se ne rendono conto, e di fatto, andando in giro, si chiedono esasperate quale misterioso potere abbiano dei "cessi" per risultare felicemente accoppiate con uomini di bell'aspetto. Naturalmente, la solitudine non è casuale.

 A volte dipende dal fatto che I soggetti, senza rendersene conto, lanciano dei messaggi metacomunicativi[2] che scoraggiano anche i partners più intraprendenti: Quali messaggi? Il più frequente, e del tutto misconosciuto, è l'inaccessibilità, vale a dire il mostrare di non avere alcun bisogno di relazione.

A. s'innamora di un collega di lavoro, che sembra manifestare qualche attenzione nei suoi confronti. Dopo un anno, però, non sono riusciti a scambiare che poche parole, né mai sono usciti a prendere un caffè insieme (che, di solito, in quell'ambiente, rappresenta l'avvio di una frequentazione).  L'uomo è formalmente gentile nei suoi confronti, ma sta sulle sue. A. dice: o è un inibito (ma non sembra), o è omosessuale (id.) o semplicemente è un idiota. Lei, infatti, ha cercato di farglielo capire in tutti i modi che si aspetta che prenda l'iniziativa. In tutti i modi? Certo, per esempio guardandolo intensamente di sottecchi mentre lui guarda da un'altra parte. Una volta, pare, gli sguardi si sono incrociati. Per una settimana, però, per rimediare al cedimento, A. ha mantenuto un atteggiamento freddo e distaccato, astenendosi anche dal rituale buongiorno.

Un altro messaggio efficacissimo nel demotivare un eventuale partner è la tagliola della serietà, vale a dire il fare intendere che se uno fa un primo passo deve avere intenzioni serie e, comunque, già con quel passo si compromette.

S. è particolarmente avvenente, ma, giunta a 28 anni, non è riuscita a mettere su uno straccio di rapporto. D'accordo, gli uomini non sono affidabili. Forse però, tra i tanti che hanno fatto delle avances, qualcuno benintenzionato probabilmente c'era. Di fronte  a qualunque avance, S. ha fatto sempre lo stesso discorsetto: io non ho bisogno di avventure, non mi interessano le storie fini a se stesse, sono una donna ultratradizionale, voglio mettere su famiglia. Sono scappati tutti, meno uno, un bel ragazzo cattolico che ha detto che la pensava allo stesso modo. S. però non ci ha creduto, perché gli uomini sono fatti tutti allo stesso modo.

Altre donne, che protestano un desiderio infinito d’amare e d’essere amate, di maternità e di famiglia, rimangono sole perché il loro interesse non si accende mai quando incontrano (e ce ne sono) qualcuno disposto a farsi incastrare, mentre si rivolge costantemente e intensamente verso le anguille. Che cosa ci può essere - pensano, senza rendersene sempre conto - di più esaltante che conquistare un  uomo che non vuole sapere di perdere la sua libertà? Certo la conquista è un po' difficile, e quasi sempre non si realizza. Ma il peggio è che, se per caso l'anguilla, dopo essere sgusciata da tutte le parti per mesi o per anni, dà qualche cenno di cedimento, l'esaltazione del trionfo cede rapidamente il campo ad una completa perdita di interesse.

T., trentenne, è perdutamente innamorata di un uomo che ha chiarito esplicitamente di non nutrire alcun interesse nei suoi confronti. Gli sta dietro tre anni, pensando a lui giorno e notte, inviandogli lettere e messaggi cellulari, regali per il compleanno. E' convinta che, se lui cedesse, toccherebbe il cielo con le dita. Dopo tre anni, il miracolo si realizza con la complicità dell'estate. L'uomo la invita a cena. T. esulta e si prepara all'incontro col cuore in tumulto. Poi, seduta di fronte a lui al ristorante, scopre che il tizio le è del tutto indifferente.

Strano amore - verrebbe da dire - questo che si rivolge sempre e solo a che non ne vuole sapere della relazione. Strano ma non incomprensibile. L'oggetto dell'amore è infatti colui che, non avendo bisogno della relazione, appare forte, autonomo e autosufficiente. Per continuare a suscitare l'interesse, tale deve rimanere.

Altre donne, invece, vivono letteralmente aggrappate al partner. Uomini disposti a farsi carico della dipendenza femminile per mascherare la propria, ne esistono a bizzeffe. Ma l'aggrappamento, anche quando è condiviso,  non porta mai alla serenità. Perpetuamente bisognose di conferme, le donne dipendenti ne chiedono in continuazione. Il problema è che non ne ricevono mai abbastanza, non ricevono mai quelle di cui hanno veramente bisogno, e comunque non ci credono.

Diffidenti, esse leggono sempre nei comportamenti del partner (nello sguardo, nel sopracciglio, nella piega della bocca) la terribile minaccia dell'abbandono. Dedicano gran parte del tempo libero a ruminare ansiosamente sullo stato del rapporto, a capire come è fatto l'altro, che cosa sente veramente per loro. La ruminazione consente sempre di recuperare, nell'archivio dei ricordi, qualche comportamento ambiguo.

L'insicurezza le rende ora inclini ad elemosinare l'amore ora a mettere alla prova il partner, in nome della logica per cui se si fa maltrattare e non si sottrae al rapporto, questo conferma che è veramente innamorato. Il problema è che il mettere alla prova è una strategia che, per essere rassicurante, costringe ad alzare sempre il tiro. Per questa via, ovviamente, anche un santo arriva all'esasperazione.

Un uomo sposa una donna sei mesi dopo averla conosciuta di cui è profondamente innamorato. Avvenente, sensibile e colta, la donna, però, è di una diffidenza patologica. Quotidianamente lo tormenta con i suoi dubbi, e, di fronte alla fermezza con cui lui ribadisce di amarla, si esaspera, lo scongiura di dire la verità, di non prenderla in giro. La cosa va avanti per 15 anni, le crisi "isteriche" sono sempre più violente. Come fai - dice lei - a stare con una come me? Alla fine, per completare l'opera, lo tradisce e glielo comunica. E' il colpo di grazia. Pure attaccatissimo alla famiglia e alle figlie, l'uomo sente che non si può più andare avanti. Dunque, non la ama? No, non l'ama più. La reazione della donna è sorprendente. Non batte ciglio, lo guarda fisso negli occhi con uno sguardo freddo, e gli dice: carogna, ti ci sono voluti quindici anni per tirare fuori la verità.

Drammi di questo genere riconoscono una sola possibile spiegazione. Se un soggetto femminile, a livello inconscio, ha un'immagine negativa di sé tale per cui ritiene di non essere amabile, e dunque di non potere essere amata, neppure il padreterno può riuscire a farle cambiare idea.

L'immagine interna negativa, frequentissima a livello femminile, per via della rabbia accumulata secolarmente alla quale si aggiunge quella accumulata per esperienza personale, determina, a livello relazionale, tre conseguenze disastrose: un bisogno divorante di conferme, che si traduce in una persecuzione nei confronti del partner; l'incapacità di credere nelle conferme che si ricevono e quindi di capitalizzarle, raggiungendo un minimo di tranquillità (perché le conferme vengono cancellate dall'immagine interna); e, da ultimo, come detto, la tendenza a mettere alla prova il partner. Paradossalmente, però, questi deve accettare di essere messo alla prova fino ad un certo punto, perché se si lascia maltrattare troppo, rivela la sua debolezza. Che se ne fa una donna insicura e bisognosa di conferme di un uomo debole? 

La prova di questo la si ricava dalla storia precedente. Dopo tre mesi di separazione, nel corso dei quali l'ex-marito si è comportato con estrema dignità, la donna gli chiede un incontro. Riconosce di avere sbagliato tutto, gli dice di avere scoperto di non potere fare a meno di lui, e di essere ormai convinta del suo amore. Che non c'è più.

L'immagine interna negativa spiega anche la tendenza di parecchie donne a immettersi in rapporti masochistici, vale a dire a capare dal mazzo o uomini claustrofobi che hanno sempre un piede sulla via di fuga (senza peraltro mai fuggire) o uomini che, per mascherare la loro dipendenza, le maltrattano. E il peggio è che non si rendono quasi mai conto che si tratta di claustrofobi o di esseri che hanno la fobia della dipendenza, a cui offrono la possibilità di sentirsi padreterni.

C. sta da quattro anni con uno strano tizio che, tranne che farci l'amore, la ignora. E' capace di buttarla fuori di casa subito dopo il rapporto, di farle trovare il letto sfatto come se fosse stato con un'altra donna, di scomparire per settimane e settimane. C. ne fa un dramma. Lo aspetta sottocasa, si getta ai suoi piedi, lo scongiura. Ottiene naturalmente di essere tratta come un cane. Nonostante tutti gli amici sappiano della loro relazione, quando escono in gruppo l'uomo mantiene nei confronti di C. un atteggiamento freddo e distaccato. La ignora, scherza con le altre donne, racconta le sue avventure. E' un pallone gonfiato, arrabbiato con le donne perché non riesce a sottrarsi elle grinfie della madre. Per C. invece è dio in terra e tale rimaneper quattro anni. Sopravviene poi la stanchezza, la depressione, l'orgoglio. C. per qualche tempo non si fa sentire e, naturalmente, viene tempestata di telefonate. Per non prendere atto di come stanno le cose, si cala di nuovo di corsa nel ruolo dell'amante elemosinante e disperata.

Donne che intrattengono rapporti masochistici ce ne sono tante, ma i loro comportamenti sembrano fatti con lo stampino.

Passano gran parte del tempo a ruminare ossessivamente sulla relazione. Il tempo libero dall'ossessione solitaria viene dedicato al telefono. Parte delle telefonate servono a mantenere il contatto col partner, a controllare che non sia sparito nel nulla, a prolungare indefinitamente la comunicazione perché mettere giù la cornetta è impossibile e se l’altro accenna a farlo è un dramma. Altre comunicazioni interminabili si realizzano con le amiche, parecchie delle quali hanno lo stesso problema. La comunità delle donne, che è stata sempre viva nel corso della storia, è oggi una realtà via cavo, incentrata sul chiacchericcio sentimentale. Tra amiche ci si dice tutto. Si riferisce per filo e per segno un incontro, un dialogo, un litigio e si chiede all'amica: che ne pensi? Naturalmente, nessuna donna sa come risolvere il proprio problema, ma sa come risolvere il problema di un'altra. Fioccano pertanto consigli tipo: "è un mascalzone, lascialo perdere", "fatti desiderare", "è troppo sicuro di te, fingi di tradirlo", "staccalo dalle gonnelle della mamma", ecc.

Nonostante le strategie, le ruminazioni, le consultazioni con le amiche, il sostegno terapeutico, quando si affaccia all'orizzonte la possibilità della perdita del rapporto, l'effetto è catastrofico. Si apre la voragine del vuoto cosmico, della solitudine infinita e irrimediabile, del venire meno del senso della vita, della perdita della propria identità. "Lui" insomma è fonte di vita e di morte. Il potere maschile, per cui gli uomini giungono a sentirsi padreterni anche quando non valgono un fico secco, è prodotto dalla dipendenza femminile.

Nel modo in cui le donne riferiscono i loro vissuti d'abbandono riecheggiano gli accenti strazianti delle mistiche medievali nei momento in cui, diminuendo la produzione d'endorfina dovuta all'estasi, avvertivano la perdita di contatto con Dio.

La dipendenza femminile dal partner, di fatto, è una sorta di religione privata (o - è lo stesso - di oppio) che ingombra tutto l'orizzonte dell'esperienza soggettiva. Al culto dell'uomo, alcune donne sacrificano l'intelligenza, gli interessi, il lavoro. Nulla è più patetico e drammatico, nell'ambito dello SMT, di una donna (ce ne sono parecchie) tra i 35 e i 40 anni che, dopo avere sprecato il suo tempo e il suo denaro in un'interminabile analisi, sta ancora lì a tentare di costruire l'ennesimo rapporto di coppia con le ombre del decadimento fisico che incombono e il bisogno di maternità irrealizzato.

Qual è il senso di questo dramma, vissuto con assoluta buona fede ma che, visto dell’esterno, ha qualcosa di inesorabilmente ridicolo?

Anzitutto, la dipendenza femminile è una schiavitù che viene regolarmente scambiata per amore. Molte donne ricavano dall'intensità della sofferenza la misura del loro sentimento, che è sempre all'apice della scala Mercalli. Non è normale - si chiedono - che l'amare comporti una paura terrificante di perdere il rapporto con l'amato? La paura sì, il terrore no.

Tutti i rapporti umani sono intrinsecamente precari. Indipendentemente dalla volontà dell'altro di rimanere nel rapporto, un incidente stradale o un tumore può mandare a farsi fottere qualunque passione. Entrare e stare in relazione richiede di accettare questo dato. Che cosa lo rende invivibile e intollerabile?

Primo, il fatto che, a livello inconscio, una possibilità – la perdita del rapporto - si trasforma in un'oscura necessità, in un pericolo destinato fatalmente a realizzarsi. Secondo, che un eventuale rifiuto viene vissuto come se esso definisse inappellabilmente l'essere rifiutabile, non amabile e senza valore, sancendo la fine di ogni speranza di relazione. Terzo, che il partner in questione di fatto è sempre poco o punto affidabile, vale a dire poco incline ad accettare il legame.

Il primo punto è già noto. L'ansia che trasforma una possibilità in fatalità va ricondotta all'aspettativa inconscia del male, che è inequivocabilmente un'angoscia punitiva. L'abbandono temuto è fatale in quanto esso, inconsciamente, è vissuto come meritato. In nome di che? In nome del fatto che la donna sente la sua dipendenza come insopportabile. Di fatto, la vive ma inconsciamente la rifiuta e vorrebbe liberarsene. Per ciò essa tende a rifuggire da uomini disposti a farsene carico e la rivolge costantemente verso uomini che la frustrano. In questo non è in gioco il masochismo, anche se la conseguenza è un dolore pressoché perpetuo, bensì la necessità di soffrire fino al punto di potere dire: basta, non ne voglio più sapere degli affetti! Il problema è che il basta non si realizza mai.

Se, infatti, liberarsi dalla dipendenza significa arrivare all’autosufficienza, a sentire di non avere più bisogno di niente e di nessuno, il bisogno di relazione rivendica i suoi diritti sotto forma di aggrappamento.

Dietro la dipendenza, né più né meno che nell'anoressia, c'è dunque il fantasma dell'autosufficienza, intesa come condizione ottimale di forza e di autonomia. Che senso ha questo qui pro quo senza scampo? Prima ancora che psicologico, il significato è storico.

Gli antropologi dibattono ancora sul fatto se le primitive società umane abbiano avuto un assetto matriarcale o patriarcale. Non sapremo mai nulla di certo. A lume di naso, viene però naturale pensare che, finché gli uomini vivevano di caccia e di raccolta, le donne godessero di un qualche primato. Il loro ventre perpetuava prodigiosamente l’esistenza di comunità di poche decine di persone, e la loro attività produttiva, la raccolta, provvedeva per il 75% ai fabbisogni alimentari del gruppo. Esse inoltre rappresentavano il tramite attraverso cui le comunità s’imparentavano e si rafforzavano. E’ difficile pensare che, all’epoca, potessero essere considerate inferiori agli uomini.

Con l’avvento dell’agricoltura, è presumibilmente avvenuta una drammatica riorganizzazione sociale. E non tanto perché il ruolo produttivo della donna è diventato complementare a quello dell’uomo, dotato di maggiore forza fisica. Col surplus, si sono avviate le razzie e le guerre, e la storia si è attestata sul registro della legge del più forte. In conseguenza di questo, le donne, che hanno avuto sempre poca predisposizione per le armi, si sono repentinamente ritrovate nel ruolo di esseri deboli e vulnerabili, bisognose di protezione maschile. Nel corso dei secoli, questa percezione di debolezza e di vulnerabilità, originariamente dovuta a fattori oggettivi, è stata interiorizzata. Alle circostanze oggettive, che in una qualche misura persistono (ancora oggi, nella nostra società, una donna che si avventura per la città alle tre di notte senza avere accanto un compagno è esposta al rischio di subire una violenza), si è dunque associato un vissuto in conseguenza del quale, in assenza di un punto di riferimento maschile, la donna si sente insussistente e sospesa nel vuoto. 

Condizionate dunque storicamente a concepire il proprio essere in funzione della relazione con l'uomo, parecchie donne pagano a questa remota tradizione culturale il tributo di un bisogno permanente e angoscioso. Quelle che lo accettano, non hanno difficoltà a realizzarlo perché trovano con facilità un uomo che se ne fa carico e richiede, in cambio della protezione, di essere accudito e servito.

Alcune donne, però, questo bisogno quanto più lo sentono intensamente tanto più lo odiano perché leggono in esso l’espressione di un’intollerabile debolezza. Infatti, non appena lo depositano in un rapporto fanno di tutto – richiedendo continue conferme, diffidando, aggrappandosi – per avere dal partner la prova che è intollerabile. Come se non bastasse, l’altro con cui si rapportano, per risultare attraente, deve essere immune da una qualunque debolezza, vale a dire dotato – ai loro occhi – della capacità di potere fare a meno del rapporto. Ma se il partner è forte e autosufficiente perché mai deve accettare di stare in relazione? Un giorno o l'altro è inevitabile, dunque, che si sottrarrà ad essa.

Che c'entra l'amore con tutto questo? Ben poco. Il problema è che oggi si confonde l'amore con una prova di forza, il cui obiettivo è di giungere a definire chi dei due è il più debole. E, alla luce del guai ai deboli, è implicito che colui che si ritrova in una situazione di dipendenza debba essere destinato al sacrificio, mattato insomma.

Tanto è vero questo che se le donne affette da un bisogno esasperato di conferma s'imbattono in uno che le ama, è premuroso e esprime manifestamente il suo attaccamento, o non provano alcun interesse o, dopo averlo sfruttato un po', lo abbandonano per mettersi all'inseguimento dell'uomo forte che le respinge e le maltratta. L'unica alternativa, che permette di portare avanti la relazione, è non credere nelle conferme, pensare che l'altro dice di volere bene ma, in fondo in fondo, non è vero.

L'angoscia dell'abbandono, insomma, implica una perversione dell'affettività, una subordinazione della logica degli affetti ad una logica di potere, alla logica del più forte che, se è veramente tale, non ha bisogno di relazione. Interpretare questa logica alla luce delle vicissitudini infantili, del rapporto col papà e con la mamma, è ridicolo. Può darsi benissimo che un bambino, la cui dipendenza lo vincola inesorabilmente ad un contesto familiare inadeguato, manipolativo o conflittuale, giunga a vedere in essa una dimensione da cui liberarsi per sempre e nella quale non intende ricadere. Come pure che egli confonda la dipendenza naturale, dovuta all'incapacità di cavarsela da solo, all'insufficienza della personalità, con l'affettività e giunga ad odiare anche questa. Circostanze del genere possono però produrre una tendenza all'isolamento, la caduta ricorrente in rapporti di dipendenza, un orientamento inconsapevole verso l'autosufficienza, ecc, ma non l'odio nei confronti della debolezza e tanto meno nei confronti dei deboli.

La logica del più forte non appartiene al privato, ma al pubblico, vale a dire alla storia. Antica quanto il cucco, essa persiste anche nella nostra società. Cos’altro significa il principio della concorrenza, che governa il libero mercato, se non che il più debole merita di essere eliminato? Chiedersi come e perché questa logica sia giunta ad investire l'affettività, pervertendola, è un problema che qualcuno dovrà risolvere. Un filosofo[3] ci ha provato, ma in un libro troppo prematuro per potere essere capito.

Il problema della dipendenza femminile è una delle espressioni della perversione degli affetti che vige nel nostro mondo, dovuta al fatto che anche l’affettività è stata riciclata nella logica del più forte, che, in sé e per sé, non ha nulla a che vedere con la logica degli affetti. Questa, infatti, muove dal presupposto che l'uomo, qualunque uomo è un essere bisognoso, finito e precario, che ha bisogno di solidarizzare, vale a dire di condividere la sua esperienza con qualcun altro.

Il termine solidarietà, depurato da pietismi e patetismi cristiani, è un gran bel termine. Il solido a cui fa riferimento non è ovviamente in opposizione a liquido, bensì a fragile, debole, vulnerabile. E come viene fuori il solido dall'affettività bisognosa? Semplice. Posto che due esseri umani accettino la loro umana debolezza, precarietà e finitezza, mettendola in comune possono giungere a sentirsi entrambi più forti. E non solo perché possono aiutarsi nei momenti di difficoltà. Se avviene all’insegna del volersi bene, quella messa in comune realizza un altro effetto straordinario. Le persone possono giungersi ad esporsi l’una all’altra senza difese e a sentire che nessuno dei due ne approfitterà. Venendo meno il riferimento al vulnus, la vulnerabilità scompare, e dal cilindro dell’umana debolezza vengono fuori due conigli che, ad onta delle dicerie, non tremano più come foglie.

E gli uomini - chiederà qualcuno -, gli uomini problemi relazionali non ne hanno? Altro se ne hanno, particolarmente in Italia, laddove le madri, stravedendo per i figli maschi, eseguono di solito su di loro, inconsciamente, una sorta di vendetta rituale. Privilegiandoli e accudendoli, in realtà li castrano, rendendoli per sempre dipendenti da una figura femminile. E il peggio è che gli uomini scambiano per privilegio l'handicap che da ciò discende: l'ignoranza del linguaggio della vita quotidiana (far la spesa, cucinare, lavare, stirare, accudire la casa, ecc.), che è una forma di analfabetismo[4]. Per fortuna, però, ci sono ancora infinite donne pronte a risolvere i loro problemi e a rimetterli sull'altare.

 

Da www.nilalienum.it - Psicopatologia – Aggiornamenti

LA DIPENDENZA FEMMINILE DALL'UOMO (2004)

Nonostante abbia dedicato in tutti i miei scritti (a partire dall'esperienza di Paola ne La politica del Super-Io al capitolo Lui di SMT), una grande attenzione al problema della dipendenza femminile dall'uomo, i commenti, la richiesta di delucidazioni e le critiche raccolte da parte di pazienti, ex-pazienti e lettori, m'inducono a pensare che il problema, di per sé complesso, non risulti ancora chiaro, almeno nei limiti in cui ciò è possibile. L'intento di questa nota è di colmare qualche lacuna presente negli scritti.

1.
Parlare della dipendenza femminile come un problema fa riferimento al numero straordinario di esperienze nelle quali essa si configura come tale.Tale numero comprende: quelle caratterizzate da un bisogno intenso di relazione che non trova mai modo di realizzarsi nonostante ripetuti tentativi, e il cui scacco è vissuto come un fallimento che toglie senso alla vita; le esperienze sottese, in presenza di una relazione stabile, da una diffidenza e/o un'angoscia dell'abbandono perpetue che non hanno un fondamento oggettivo; quelle contrassegnate da un senso di soffocamento che gravita verso la risoluzione del rapporto (impossibile da realizzare per via dell'angoscia della solitudine e del vuoto cosmico); quelle caratterizzate da un atteggiamento possessivo, esattivo o più o meno intensamente conflittuale, oggettivamente poco giustificato dalla qualità del rapporto, che sembra orientato a demotivare il partner e a costringerlo ad allontanarsi; quelle, infine, che, in seguito alla risoluzione del rapporto decisa univocamente dal partner, precipitano in un gorgo di disperazione e di angoscia.

Tra queste diverse esperienze il fattore comune, che non è quasi mai presente alla coscienza dei soggetti, è la dipendenza "patologica" che comporta, nel primo caso, il rifiuto inconscio della relazione; nel secondo, un malessere perpetuo associato allo stare in relazione; nel terzo, una strategia orientata a recuperare la libertà; nel quarto, infine, lo smascheramento dell'assetto dipendente della personalità. In che senso, però, essendo in gioco una relazione significativa, è lecito parlare di una dipendenza "patologica"?

L'essere umano ha un bisogno naturale di relazionarsi socialmente, e questo bisogno è caratterizzato anche dal protendersi verso la realizzazione di un rapporto duale significativo e intimo psicofisicamente. Questo significa che la socialità in senso lato e l'affettività in senso specifico implicano una "naturale" dipendenza della soggettività dallo stato delle relazioni. Che cosa permette di distinguere questa dipendenza dalla dipendenza "patologica"?

La distinzione che, sulla carta appare altamente problematica, è invece abbastanza semplice. La dipendenza naturale ha due diversi aspetti. In assenza di un rapporto duale, per quanto il bisogno affettivo sia intenso, essa può dare luogo alla percezione di qualcosa che manca nella vita, ma non ad un'angoscia estrema. In presenza di un rapporto, essa è l'espressione nello stesso tempo della sua storia e della sua qualità. E' evidente che se un rapporto dura 5, 10, 20 anni le esperienze soggettive si intrecciano: l'altro, in una certa misura, viene a fare parte dell'io. Anche in questo caso, però, se il rapporto viene meno, il dolore è vivo, ma non impedisce di riorganizzarsi e di riprendere a vivere.

La dipendenza affettiva naturale, insomma, non è un problema perché essa implica una struttura di personalità il cui legame con la vita e con il mondo esterno riconosce una totalità di interessi, di passioni, di ruoli, di rapporti tra i quali la relazione duale ha un'importanza senz'altro rilevante ma non assoluta.

La dipendenza diventa "patologica" allorché: la persistenza o la temuta (reale o meno che sia) risoluzione del rapporto con il partner diventa questione di vita o di morte; la persistenza è vissuta come assolutamente necessaria indipendentemente dalla qualità della relazione; e esso diventa l'unico legame significativo con la realtà esterna, da cui il soggetto trae conferme e senso. Queste circostanze fanno capire che la dipendenza "patologica" di fatto ha una forte componente simbolica, nel senso che essa investe la relazione e l'altro di un significato improprio: la relazione, anziché un arricchimento dell'esperienza personale, diventa una protesi dell'identità; l'altro acquista un potere e una forza, che solo di rado corrisponde alla sua reale personalità, condividere la quale è vitale.

Sul piano fenomenologico, dunque, la dipendenza patologica implica un vissuto dell'io di inadeguatezza, incompletezza, mancanza ad essere che solo il rapporto con l'altro consente di compensare. Il carattere complementare della relazione duale rispetto all'identità dell'io rivela, dunque, il carattere patologico o simbolico della dipendenza.

Dato che la complementarietà viene vissuta dai soggetti femminili come un'espressione naturale del bisogno affettivo, non c'è da sorprendersi se essi spesso negano o non hanno coscienza del problema.

2.

In effetti, la complementarietà, per cui la relazione privilegiata con l'altro è una protesi indispensabile dell'io, non è la matrice ultima della dipendenza patologica. Si danno, in effetti, a livello femminile come a livello maschile, numerose personalità che sono di fatto dipendenti dalla persistenza di un rapporto affettivo al punto che un'eventuale perdita del partner può provocare facilmente uno smottamento ansioso o depressivo dell'equilibrio psicologico. Solo apparentemente la dipendenza patologica appartiene a questo insieme. Primo, perché un numero rilevante di donne che ne sono affette manifestano per tanti altri aspetti tratti di personalità forti e autonomi: solo quando entrano o stanno in relazione con l'uomo, la loro identità sembra andare incontro ad una regressione. Secondo, perché, nonostante i soggetti esprimono e alimentano la loro dipendenza come un bisogno primario, i loro vissuti e i loro comportamenti attestano che essa è radicalmente rifiutata.

Se il primo aspetto, sottolineato dal fatto che spesso il partner maschile ha una personalità meno forte e autonoma, è già sorprendente, perché i soggetti femminili non si rendono minimamente conto di questo scarto, il secondo lo è ancora di più perché i livelli di coscienza lo rimuovono totalmente privilegiando e ingombrandosi con un bisogno di relazione che assume un carattere totalizzante e ossessivo. Pure esso è comprovato da tre indizi poco equivocabili: l'aggrappamento asfissiante al partner, la tendenza a metterlo continuamente alla prova diffidando dei suoi sentimenti, la tendenza, infine, a fare periodicamente scenate, a litigare, ad insultare, ad aggredire.

Naturalmente, l'aggrappamento è motivato coscientemente da un bisogno esasperato di contatto e di conferme; la tendenza a metterlo alla prova dal fatto che il partner non si comporta mai come sarebbe necessario per rassicurare e placare la diffidenza; l'aggressività dagli errori imperdonabili che egli commette (ritardando alcuni minuti una telefonata o un appuntamento, rivendicando la libertà di passare una serata con gli amici, dedicandosi troppo al lavoro, ecc.).

In realtà, tutt'e tre le strategie sono maledettamente efficaci nel demotivare il partner (se già non lo è), nel farlo sentire intrappolato, nel porlo di fronte ad esigenze cui non riesce mai a rispondere adeguatamente e, infine, nel rivelare un assetto di personalità più o meno profondamente squilibrato, che oscilla tra la tenerezza e la rabbia inconsulta.

La conseguenza più frequente di queste strategie è la temutissima perdita del rapporto. Se il partner la minaccia, la donna di solito lo scongiura di non farlo, riconosce il suo essere possessiva e rabbiosa (per amore), chiede scusa per i suoi errori e promette di cambiare. Rimandata la risoluzione del rapporto, di fatto, tutto ricomincia come prima. Se il partner di fatto si allontana, egli viene perseguitato in ogni modo, con le buone e con le cattive, perché rientri in relazione. Nei casi in cui non cede, viene odiato per la sua crudeltà.

Preso atto della perdita del rapporto, insorge l'angoscia da solitudine e la necessità di trovare un nuovo partner.

Solo raramente, il rifiuto della dipendenza è percepito coscientemente. In questi casi, la donna vive ugualmente aggrappata all'uomo e adotta le stesse strategie di cui si è parlato. Essa però registra una crescente insofferenza nei confronti del partner, e, alla fine, giunge ad ammettere che, se stando senza relazione sta male, stando in relazione si sente soffocare.

3.

I problemi da risolvere per interpretare la dipendenza patologica femminile sono due. Il primo sta nel capire come essa si origina; il secondo, nel capire perché essa è malvissuta e rifiutata. Per arrivare a rispondere occorre un po' generalizzare il discorso per non entrare in troppi dettagli di ordine biografico e psicodinamico. In questo caso, il gioco vale la candela.

La dipendenza, come si è accennato, non è quasi mai l'espressione di una personalità immatura e non autonoma. Ciò che sorprende di fatto è che molte donne che, stando in relazione, manifestano una forma d'infantilismo totale, in molte altre situazioni di vita, legate allo studio, al lavoro o alle amicizie, se la cavano più che bene. Freud ha sostenuto che la relazione con il partner maschile e le sue vicissitudini rappresentano una riedizione del rapporto con la figura paterna, e in particolare del rapporto inconscio con il padre. Di fatto spesso, nel corso delle terapie, si ricostruisce un rapporto difficile con il padre per molteplici aspetti. Talora questi è iperprotettivo, possessivo e geloso; talaltra inconsciamente seduttivo (fino al punto di indurre l'Edipo); talaltra ancora è freddo e distaccato; talaltra infine tradizionalista, conservatore e prepotente nei confronti della moglie e delle figlie. Come si determina, a partire da queste diverse situazioni, la dipendenza patologica? Di solito, essa si configura come una condanna inconscia che fa riferimento a rabbie intense nutrite nei confronti del padre. La colpevolizzazione di queste rabbie, che originariamente segnalavano l'esigenza di sciogliere il rapporto patologico o frustrante con il padre, fa scattare di fatto una punizione stereotipica, in conseguenza della quale se il soggetto vuole scampare alla solitudine infinita deve accettare di subordinarsi all'uomo: deve accettare insomma di dipendere.

Questa dinamica è oltremodo frequente nei casi in cui una donna che ha alle spalle un rapporto conflittuale con un padre freddo e distaccato o autoritario e prepotente opera sistematicamente, senza rendersene conto, delle scelte di rapporto che la pongono di nuovo nella situazione originariamente odiata, e che essa deve subire masochisticamente.

Apro a riguardo una breve parentesi. Che la scelta del partner sia in genere una scelta tipologica, nel senso di essere orientata dai bisogni profondi del soggetto, è fuori di discussione: vale pressoché per ogni scelta relazionale. Quando i bisogni profondi del soggetto sono conflittuali, vale a dire sottesi da un bisogno inconscio di riparazione e/o di punizione, il criterio di cui si è parlato si realizza infallibilmente. Com'è possibile - si chiedono i soggetti che ne prendono coscienza - se l'incontro è stato casuale e se il partner d'acchito sembrava ben diverso da quello che poi è risultato frequentandolo? La domanda legittima porta in luce un aspetto psicologico che mi sembra non sia stato sinora valorizzato.Occorre ammettere, sulla base dei fatti, che nell'interazione anche casuale tra persone si realizzino, a livello del tutto inconscio, percezioni molto profonde del modo di essere dell'altro: una sorta di radiografia che coglie, insomma, la struttura della personalità. Il fatto che la coscienza non abbia alcuna percezione di questo aspetto, nulla toglie al fatto che esso esiste. Se non ammettessimo questi, certi "ingranamenti" conflittuali, che si realizzano fatalmente, apparirebbero incomprensibili.

Ponendosi la dipendenza come una condanna, non c'è da sorprendersi che essa sia inconsciamente rifiutata. Ma in nome di cosa, se non di un bisogno irrinunciabile d'indipendenza?

Molte donne dipendenti che avvertono il bisogno di relazione come un bisogno primario hanno una straordinaria difficoltà a prendere coscienza del fatto che i loro stessi comportamenti, orientati sistematicamente alla risoluzione del rapporto, attestano una rivendicazione viscerale d'indipendenza. Ma che significa infine l'indipendenza? Né più né meno, come ho accennato, uno statuto di personalità che ha un centro di gravità interno e il cui equilibrio riposa non su di una relazione privilegiata con un partner maschile, bensì con un insieme di relazioni con il mondo (dalla relazione con sé alla frequentazione amicale, dalla coltivazione di interessi all'impegno lavorativo, dalla passione culturale a quella politica, ecc.) sufficientemente appagante.Nel contesto di una personalità siffatta, la relazione con il partner si configura come un arricchimento, come la possibilità di condividere un'esperienza intima, come una crescita, ma mai come una ragione di vita o di morte.

Ora la condanna a dipendere non solo spazza via quell'insieme di relazioni con il mondo, se già si danno, ma spesso polarizza l'esperienza del soggetto univocamente sul registro della relazione con il partner che, in conseguenza di questo, diventa ossessivo.

Molte donne dipendenti dicono: che senso ha la vita la mia vita se non riesco ad avere una relazione significativa con un uomo, a mettere su famiglia e ad avere dei figli?Non si rendono conto, con ciò, di esprimere nello stesso tempo dei bisogni autentici e i motivi per cui quei bisogni, in quanto rifiutati, non possono realizzarsi.

4.

A questo punto, il piano psicologico va sormontato in nome di un approccio storico e culturale al problema. Secolarmente, la donna è stata socialmente qualificata ed indotta a viversi come un essere naturalmente dipendente, la cui esistenza prendeva senso dal vivere in funzione dell'uomo. Questo condizionamento di antica data vive ancora, evidentemente, nell'inconscio femminile e si traduce in una condanna allorché il primo rapporto di subordinazione all'uomo, quello con il padre, viene consciamente o inconsciamente attaccato. Questo conflitto non è sempre riconducibile al padre reale, tranne i casi in cui esso è di fatto conservatore e autoritario, ma a ciò che egli rappresenta, e che spesso si esprime nei privilegi che egli ha rispetto alla moglie. In conseguenza di questo, il conflitto, il cui oggetto è la tradizione culturale, si può realizzare anche laddove il padre è debole e dipendente mentre la madre forte e autoritaria. Anche in questo caso, infatti, il padre gode comunque di privilegi immeritati: per esempio si mette e tavola e si fa servire.

Non ci vuole molto a capire che la naturale dipendenza della donna è un mito culturale creato per occultare il fatto che l'uomo è egli stesso un essere dipendente dalla donna: archetipicamente perché nel suo immaginario ha sempre un certo peso la Grande Madre; culturalmente perché allevato, protetto e curato da una madre reale spesso non acquisisce le competenze primarie (accudire se stesso, spicciare casa, cucinare, lavare e stirare i panni, ecc.) necessarie per non dipendere da una figura femminile. Quel mito però funziona. La dipendenza maschile è mascherata da quella femminile.

Il rifiuto implicito nella dipendenza patologica femminile è una forma di protesta contro la tradizione, la definizione della donna come essere che vive in funzione dell'uomo, dell'interdetto di raggiungere uno statuto d'indipendenza.

Se questo è vero, la domanda di cura che sempre più spesso affiora dall'universo femminile, e che quasi sempre s'incentra sul problema della relazione con l'uomo, è giusto che sia accolta a livello terapeutico. Ma sarebbe ancora meglio se essa non venisse decifrata come una domanda che fa capo a vicissitudini meramente private, ma venisse colta anche nelle due valenze psicosociologiche, culturali e ideologiche.

CARMEN di Prospero Merimée

1.

La novella di Merimée, una "piccola storia" com'egli stesso la definisce, riferita da un testimone - un archeologo - che, nel corso delle sue ricerche nella terra dei baschi, conosce casualmente i protagonisti - Carmen e il suo amante don José -, e la raccoglie dalla bocca di quest'ultimo condannato a morte per le sue gesta di bandito e, da ultimo, per l'omicidio di Carmen, decisa ad abbandonarlo, ha avuto una straordinaria fortuna. Messa in musica da G. Bizet in una delle più perfette e compiute espressioni del teatro musicale francese dell'Ottocento, ha riconosciuto varie versioni cinematografiche.

La novella è inquadrata all'uso classico: il narratore in viaggio archeologico per la Spagna, incontra il bandito José, poi Carmen, rivede infine l'uomo che attende il supplizio, e ne ascolta la miserabile storia.

Don José, brigadiere di un reggimento di dragoni, basco ardente e ingenuo, incontra a Siviglia la zingara Carmen e ne è affascinato. La lascia fuggire mentre deve condurla in carcere, ed è punito e degradato. La cerca ancora, per gelosia ucide un ufficiale, e si fa contrabbandiere con lei. La scelta è contraria al suo animo onesto, ma giustificata da una passione senza limiti e dalla speranza di avere la donna tutta per sé. Da contrabbandiere per lei si fa ladro e brigante; ma Carmen, che l'ha amato in principio, è stanca del suo amore, della sua gelosia. Ha uno sposo, all'uso gitano, che torna dalla galera. José lo uccide, è ormai il marito di Carmen, e le propone di andare con lui in America, a vivere onestamente. Essa non vuol saperne. S'è invaghita di un "picador", Luca, e ad una corrida José ha la certezza che i due si amano. La minaccia, le impone di seguirlo, ma essa si rifiuta, non perché ami Luca, ma perché vuole la sua libertà. Disperato, José la uccide.

Si tratta dunque di una delle più tipiche, suggestive storie di amore e di morte, la cui fortuna è da ricondurre al singolare personaggio femminile.

Carmen, la gitana fiera e indomabile che rivendica una piena libertà sulla sua vita e sul suo corpo, non intende assoggettarsi ad alcun uomo se non per amore, e accetta infine di farsi uccidere senza esitazione dall'amante che intende abbandonare, è diventata un'icona del movimento femminista, la precorritrice della lotta di liberazione della donna dal giogo maschile.

Nel capitolo che conclude il libro, e rappresenta un sintetico schizzo di antropologia culturale sul mondo gitano, l'autore contesta la purezza dei costumi delle zingare e la loro avversione per qualunque rapporto che riguardi uomini estranei al gruppo etnico, e rileva: "che le gitane mostrano una straordinaria devozione verso i loro mariti. Non c'è pericolo, non ci sono privazioni che non affrontino per soccorrerli nelle loro necessità. Uno dei nomi che si danno gli zingari, rome, ossia sposi, mi sembra testimoniare il rispetto della razza per la condizione matrimoniale."

Se il comportamento di Carmen attesta che la contestazione dell'autore è fondata, esso comprova anche che si tratta di un soggetto deviante rispetto alla cultura del gruppo d'appartenenza. Carmen fa uccidere il marito da don José per unirsi a lui. Quando questi è ferito, si dedica a lui amorevolmente. Nondimeno, lo tradisce e, infine decide di abbandonarlo.

Nel suo comportamento si potrebbe cogliere una rivedicazione di libertà individuale radicale. Per questa via si perviene all'icona cui ho fatto cenno. Io ritengo però che il personaggio sia più complesso rispetto allo stereotipo protofemminista. Carmen di sicuro incarna l'ideale di una donna libera dalla soggezione all'uomo, ma realizza tale ideale su di un registro manifestamente contraddittorio. Se è una precorritrice del femminismo, lo è in un senso totale: esprime i valori e i limiti del femminismo, la cui miscela, almeno finora, si è rivelata inesorabilmente nevrotizzante.

I valori sono riconducibili ad orgogliosa rivendicazione d'indipendenza. A don José che le propone di andare via in America per ricostruirsi una vita, risponde:

"Non voglio essere tormentata né tanto meno comandata. Quel che voglio è esser libera e fare quel che mi piace. Sta' attento a non spingermi agli estremi."

"Quando mi si ordina di non fare una cosa, è proprio il momento che la faccio!"

A don José che la supplica di rimanere insieme, risponde:

"Ti seguo verso la morte, sì, ma non vivrò più con te."

"Tu vuoi uccidermi, lo vedo bene. Era scritto, ma non mi farai cedere."

All'amante che la scongiura ("Ti prego," dissi, "sii ragionevole. Ascoltami! Tutto il passato è dimenticato. Eppure, lo sai, sei stata tu a perdermi: è per te che sono diventato un ladro e un assassino. Carmen! mia Carmen! lascia che ti salvi e che mi salvi con te."), oppone un rifiuto che equivale ad accettare la morte:

"José" rispose, "mi chiedi l'impossibile. Non t'amo più: tu m'ami ancora ed è per questo che vuoi uccidermi. Potrei ancora raccontarti delle bugie: ma non voglio far questa fatica. Tutto è finito tra noi. Come mio rom hai il diritto d'uccidere la tua romi, ma Carmen sarà sempre libera. È nata calli e calli morirà."

La natura libertaria di Carmen è fuori dubbio. Questo solo aspetto però non permette di cogliere psicologicamente il personaggio a tutto tondo.

Carmen è estremamente instabile nell'umore: "aveva l'umore come il tempo dalle nostre parti. Mai la tempesta è così vicina nelle nostre montagne come quando il sole è più splendente."

Una prova di quest'instabilità è comprovata da un singolare episodio. Trovata da don José a parlare con l'archeologo-narratore, che ha avuto nei suoi confronti un atteggiamento gentile e rispettoso, Carmen è attraversata repentinamente da un desiderio del tutto incomprensibile. Essa si rivolge a don José perché sgozzi l'archeologo:

"La zingara continuava a parlargli nella sua lingua. S'animava sempre più: i suoi occhi s'iniettavano di sangue e divenivano terribili, i lineamenti si contraevano, pestava i piedi. Mi sembrò di capire che lo incitasse energicamente a far qualcosa di fronte a cui si mostrava esitante. Di che cosa si trattasse credevo di capirlo fin troppo bene vedendola passarsi e ripassarsi rapidamente la piccola mano sotto il mento. Ero tentato di credere che fosse in questione una gola da tagliare e avevo qualche sospetto che si trattasse della mia."

L'episodio è indiziario di un'ostilità cieca e apparentemente immotivata contro l'uomo.

Di fatto, Carmen ha un rapporto ambivalente nei confronti dell'universo maschile. Per un verso, il suo atteggiamento seduttivo e provocatorio implica il bisogno di sentirsi confermata dagli uomini: "Aveva una gonnella rossa molto corta, che lasciava vedere delle calze di seta bianca bucate in più d'un punto, e delle graziose scarpe di marocchino rosso allacciate con nastri color fuoco. Scostava la mantiglia per mostrare le spalle ed un grosso mazzo di gaggia che le usciva dalla camicia. Aveva un altro fiore di gaggia all'angolo della bocca e veniva avanti dondolandosi sui fianchi come una puledra dell'allevamento di Cordova. Nel mio paese una donna così acconciata avrebbe spinto la gente a farsi il segno della croce. A Siviglia ognuno le rivolgeva qualche complimento salace sulle sue forme: e lei rispondeva a tutti guardando di traverso e con il pugno sull'anca, sfrontata come una vera zingara qual era." Questo bisogno di attrarre il maggior numero di uomini possibile, concedendosi ad essi a suo piacere, non esclude affatto il bisogno di un rapporto di riferimento maschile, in una qualche misura stabile. E' questa la motivazione per cui, avendo conosciuto don José, Carmen lo induce ad uccidere il marito Garcia. Essa evidentemente sposta la dipendenza dall'uno all'altro per negarla.

Intuisce, però, di essere dipendente, e se ne vergogna al punto di agire la stessa tattica che usano gli adolescenti per occultare i loro amori. Dice di lei don José: "Mi mostrava più amicizia che mai: tuttavia, non voleva ammettere di fronte ai compagni di essere la mia amante; e m'aveva anzi fatto giurare in mille modi di non dir niente sul suo conto."

Dunque Carmen dipende dalle conferme maschili e ha bisogno di un rapporto di riferimento. Non può fare a meno di calarsi nel ruolo tradizionale di romi, ma, nello stesso tempo, rivendica la libertà di rivolgersi a qualunque altro uomo che l'attiri. La doppia vita serve a celare la dipendenza dall'uomo.

La dipendenza mal vissuta comporta anche un altro meccanismo di difesa. Conscia del suo potere seduttivo, Carmen ha bisogno di squalificare gli uomini per sentirsi infinitamente superiore ad essi: gli uomini li tratta come degli esseri univocamente stupidi e mediocri. Li usa, se ne serve, li maltratta, attiva tra loro la rivalità, gode nel constatare che essi non hanno alcuna difesa nei suoi confronti. Non può fare a meno di stare in rapporto conloro, ma, nel suo intimo, li disprezza per la loro debolezza. A don José, che, essendo ancora militare, deve tornare in caserma, essa dice: "In caserma?" disse con aria sprezzante, "sei dunque un negro che ti lasci comandare a bacchetta? Sei un vero canarino, d'abito e di carattere. Ma va' là, che hai il cuore d'un pulcino."

Ancor più significativo è un altro episodio, legato alla ricerca da parte di don José di Carmen che si è dileguata:

"Alzo la testa e vedo affacciata ad un balcone Carmen, con vicino un ufficiale in uniforme rossa, spalline d'oro, capelli ricci, aspetto da gran mylord. Lei poi era vestita magnificamente: uno scialle sulle spalle, un pettine d'oro, tutta in seta. E quella briccona - sempre la stessa! - si sbellicava dalle risate. L'inglese mi gridò, farfugliando lo spagnolo, di salire, ché la signora desiderava delle arance. E Carmen mi disse in basco: "Sali, e non ti meravigliare di niente." Niente di lei, infatti, poteva meravigliarmi. Non so se provai più gioia o dolore nel ritrovarla. Alla porta c'era un marcantonio di domestico inglese tutto incipriato che mi condusse in un magnifico salotto. Carmen mi disse subito in basco: "Non sai parola di spagnolo e non mi conosci." Poi, volgendosi all'inglese: "Glielo dicevo io: l'ho subito capito che era un basco: sentirà che lingua buffa. Che aria da allocco, vero? Lo si direbbe un gatto sorpreso in una dispensa." "E tu," le dissi nella mia lingua, "hai l'aria d'una sfrontata sgualdrina, ed avrei proprio voglia di sfregiarti la faccia davanti al tuo ganzo." "Il mio ganzo!" disse lei. "To'! lo hai indovinato da solo? E sei geloso di quest'imbecille? Sei ancora più tonto che prima delle nostre serate in via del Candilejo. Ma non vedi, stupido che non sei altro, che in questo momento sto facendo gli affari d'Egitto, e nel modo più brillante? Questa casa è mia: e mie saranno le ghinee del gambero. Lo sto menando per il naso, e lo menerò là da dove non uscirà mai."

Gli uomini sono inesorabilmente tutti tonti agli occhi di Carmen. Essa li sfida, come se fosse alla ricerca dell'uomo forte capace di tenerle testa e di vincolarla, ma non lo trova. La sfida la esalta nella misura in cui conferma che è lei la più forte. Certo, l'uomo può far valere la sua maggiore prestanza fisica. Offrendosi al coltello di don José senza battere ciglio, Carmen attesta che la sua anima non teme neppure la violenza.

2.

Tutti questi dati portano ad inquadrare l'esperienza di Carmen nell'ambito della personalità isterica, e in particolare di quella variante "maligna" che, dall'800 in poi, ha rievocato il fantasma della strega e ha indotto a intravedere nella natura femminile una predisposizione alla perfidia.

In reazione a questo stereotipo psichiatrico, accolto anche da Freud, che ha evidenziato le due personalità presenti nelle isteriche - l'una raffinata e angelicata, l'altra volgare e malvagia -, il femminismo ha recuperato la presunta malvagità femminile, dalle streghe medioevali sino ad oggi, com'espressione di una sacrosanta protesta di un universo oppresso contro gli oppressori. In quest'ottica, Carmen è diventata un'icona.

In molteplici scritti ho detto che il modo d'essere isterico è univocamente riconducibile ad un conflitto tra una dipendenza, espressione di un bisogno naturale (rappresentato anche nell'uomo) e di un condizionamento culturale (tale per cui la donna deve sentirsi insussistente e priva di significato senza un referente maschile), e un bisogno d'indipendenza, che, inibito o interferito dal condizionamento culturale, si aliena e si traduce in una cieca volontà di lotta contro l'uomo.

Le espressioni del bisogno alienato d'indipendenza sono molteplici. In alcuni casi, esso si traduce in un perenne fluttuare da un uomo all'altro, in nome di vissuto claustrofobico per cui ogni rapporto, dopo qualche tempo, viene vissuto come ingabbiante e soffocante. Il trasferimento della dipendenza da un uomo ad un altro può coincidere soggettivamente con un vissuto esaltante di libertà, smentito però dal fatto che, per troncare un rapporto in atto, deve essercene già un altro di ricambio. In pratica, nonostante la presunta libertà, il soggetto non può stare un attimo senza una figura di riferimento maschile.

In altri casi, il bisogno di dipendenza viene riversato in un rapporto stabile e duraturo, di solito coniugale, ma viene compensato da una doppia vita che può riguardare anche un solo amante o più di uno nel corso del tempo.

In altri casi ancora (oggi in assoluto i più frequenti), il conflitto si realizza all'interno di un rapporto. Si danno due possibilità. La prima è caratterizzata da un lento ritiro affettivo e sessuale dal rapporto, che equivale ad una rivendicazione d'indipendenza, che lo disinveste di ogni significato senza dare luogo allo scioglimento. Tale ritiro si associa quasi sempre ad una depressione più o meno somatizzata o ad un malessere angoscioso pressoché perpetuo. La seconda possibilità, invece, si realizza sotto forma di conflitto, periodico o continuo, con il partner che viene continuamente criticato, attaccato, al limite maltrattato. E' come se la donna esprimesse, attraverso questi atteggiamenti, il suo bisogno di liberarsi del rapporto. Tale bisogno però è arginato dalla dipendenza, per cui, non appena si realizza una tensione che comporta la minaccia della risoluzione del rapporto, il comportamento della donna cambia. Essa diventa tenera e affettuosa.

A seconda dell'intensità del conflitto, questa seconda possibilità può comportare, nelle sue manifestazioni estreme, lo sdoppiamento rilevato dagli psicopatologi ottocenteschi per cui un soggetto femminile sembra dotato di una doppia personalità: l'una, dipendente, accondiscendente, gentile, affettuosa, l'altra irascibile, aggressiva, maltrattante fino al limite del sadismo.

Rinvio all'articolo sulla dipendenza femminile per un approfondimento di questa tematica, che in Carmen si esprime nella sua forma più radicale: quella del trattare l'uomo, di cui non può fare a meno, come un oggetto di cui può disporre a piacimento, data la sua debolezza.


MADAME BOVARY di Gustave Flaubert

1.

Pochi personaggi femminili hanno raggiunto, nella storia della letteratura, la fama universale di Emma Bovary, simbolo tragico del rifiuto di accettare un'esistenza mediocre, senza orizzonti, mortificata nell'adempimento dei doveri quotidiani iscritti nel ruolo di donna. Il significato culturalmente eversivo di una vicenda apparentemente privata e minuscola fu prontamente recepito dai contemporanei. Trascinato in tribunale con l'accusa di "oltraggio alla morale pubblica e religiosa e ai costumi", l'autore fu assolto, ma la sentenza non placò le polemiche. Lo scandalo, che coinvolse anche l'opinione pubblica, valse a fare assurgere la signora Bovary al ruolo di borghesuccia adultera e meschina di cui è rimasta quasi un prototipo, e a mettere in ombra il suo essere l'incarnazione triste e dolorosa dell'insoddisfazione femminile e dell'irresistibile bisogno d'evasione dalla mediocrità provinciale e borghese.

Nel corso del tempo, in conseguenza dei cambiamenti socioculturali, quest'ultimo significato è divenuto sempre più evidente. Emma Bovary è divenuta il simbolo della donna che, in nome dei diritti dell'amore, si affranca dal giogo di un matrimonio infelice e sfida le convenzioni borghesi.

Quest'interpretazione è di sicuro più vicina all'intenzione dell'autore, che non cela in alcun modo la sua commossa, per quanto ambivalente, simpatia per Emma, fino al punto di essere giunto ad affermare: "Emma Bovary sono io". L'identificazione spiega la capacità di Flaubert di descrivere con finezza alcuni aspetti propri dell'anima femminile, inesorabilmente contraddittori. Egli scrive:

"Un uomo, almeno, è libero; può passare attraverso le passioni e i paesi, superare gli ostacoli, gustare le più remote felicità. Ma una donna è continuamente frustrata. Inerte e flessibile insieme, ha contro di sè le debolezze della carne come le schiavitù del codice. La sua volontà, come il velo del suo cappello trattenuto da un cordoncino, palpita a ogni vento; c'è sempre qualche desiderio che la trascina, c'è sempre qualche convenienza che la trattiene."

Tra una natura passionale, che subordina la sessualità al sentimento, e una cultura che le impone l'esercizio della virtù, la condizione femminile è, di fatto, esposta, più di quella maschile, al rischio dell'infelicità. Forse non si tratta di una fatalità, ma le statistiche sul disagio psichico femminile, che attestano la sua diffusione in un periodo, come il nostro, caratterizzato dalla liberalizzazione dei costumi, non lasciano dubbi sulla difficoltà per ogni soggetto femminile di trovare un equilibrio tra natura e cultura.

Una rilettura attuale de La signora Bovary non può aggiungere quasi nulla ad un lavoro critico che si è esercitato quasi ininterrottamente sul romanzo, giungendo ad inserirlo tra i capolavori di tutti i tempi. Come ogni capolavoro, il testo però fornisce, ad ogni lettura, spunti ulteriori di riflessione.

La storia prende spunto da un banale episodio di cronaca (il suicidio della moglie infedele di un medico), che viene trasfigurato dall'invenzione letteraria.

Carlo Bovary, uomo semplice e mediocre, medico di campagna, sposa Emma, una graziosa e giovane figlia di un agricoltore agiato, educata da signorina in convento, ove ha sperimentato prima la suggestione del misticismo religioso e poi quella della letteratura romantica. Emma tenta di calarsi nel ruolo di moglie innamorata, ma la mediocrità del marito e la vita di provincia senza orizzonti producono rapidamente una grave insoddisfazione, che neppure la nascita d'una bambina riesce a rimediare. Un notaio tirocinante, Leone, con i quale si dà una qualche affinità emotiva e culturale, attira il suo interesse, ma Emma oppone resistenza alla tentazione del tradimento. Incapace di prendere l'iniziativa, turbato e deluso il giovane se ne va ed Emma cade in uno stato di prostrazione totale. Essa incontra poi Rodolfo, uomo affascinante e navigato, che vive di rendita. Il rapporto è intenso e passionale. Emma, sentendo di avere finalmente sperimentato l'amore vero, perde ogni ritegno, rivendica il diritto alla felicità, pensa di fuggire con l'amante. Questi, però, cinicamente all'ultimo l'abbandona. Essa quasi ne muore, poi si riprende, tenta di accostarsi nuovamente alla religione e di rivitalizzare i suoi ruoli di moglie e di madre. Benché l'ami ciecamente, Carlo però non è in grado di capire la psicologia complessa di Emma e le sue esigenze. Nel corso di una rara evasione mondana, incontra di nuovo Leone, e gli si abbandona quasi subito. Il rapporto passionale la inebria. Emma non ha più remore nel tradire e nel mentire. I lussi che si concede sono pagati al prezzo di debiti che si accumulano. Un mercante usuraio, infine, che le ha concesso credito, vuole essere pagato, fa sequestrare i mobili di casa e le presenta un conto spaventoso. Invano Emma chiede aiuto a Leone prima e a Rodolfo poi. Si rivolge infine al giudice che sarebbe disposto a venirle incontro se essa gli concedesse i suoi favori. Emma sdegnosamente rifiuta e, non avendo scampo, si uccide con il veleno. Carlo, sconvolto dalla perdita, muore poco dopo.

2.

C'è un filo sottile, sotterraneo nel romanzo. La storia dell'anima di Emma s'inaugura e si conclude sul registro religioso. Inviata in convento per ricevere una buona educazione, essa scopre colà la suggestione mistica dell'abbandono allo sposo celeste:

"I primi giorni di convento, lei non s'annoiò minimamente, le piaceva talmente la compagnia delle suore che, per divertirla, la conducevano nella cappella, cui si accedeva dal refettorio attraverso un lungo corridoio. Durante le ricreazioni giocava poco, invece era pronta a capire il catechismo, ed era sempre lei a rispondere al signor vicario, quando costui formulava delle domande difficili. Vivendo dunque, senza uscirne mai, nella tiepida atmosfera di quelle classi, tra quelle pallide donne che portavano rosari dalla croce di rame, finì per assopirsi dolcemente al mistico languore che esala dai profumi dell'altare, dalla frescura delle acquasantiere, dal raggiare dei ceri. Invece di seguire la messa, s'incantava a guardare nel suo libro le pie immagini orlate d'azzurro, s'innamorava della pecora malata, del Sacro Cuore trafitto da aguzze frecce, del povero Gesù soccombente, in cammino, sotto la croce. Provò, per mortificazione, a restare un'intera giornata senza toccare cibo. Si scervellava per trovare qualche voto da imporsi. Quando andava a confessarsi, inventava qualche peccatuccio veniale per poter restare più tempo possibile lì, nell'ombra, in ginocchio, la faccia premuta contro la grata nel bisbigliare del prete. Le similitudini di fidanzato celeste, di sposo celeste, d'amante celeste e di sposalizio eterno ricorrenti spesso nelle prediche le suscitavano in fondo al cuore inattese dolcezze."

La suggestione religiosa viene meno via via che Emma, coltivando la letteratura romantica, intuisce che la sua natura non può sopportare i dogmi e una disciplina mortificante:

"Le buone suore che avevano fatto tanto assegnamento sulla sua vocazione, s'accorsero con grande stupore che la signorina Rouault pareva sottrarsi alle loro sollecitudini. D'altra parte, loro le avevano prodigato un tal numero di uffizi, ritiri, novene, prediche, le avevano talmente predicato il rispetto dovuto ai santi e ai martiri, le avevano talmente consigliato come assicurarsi la modestia del corpo e la salute dell'anima, che Emma si comportò come i cavalli troppo imbrigliati: si fermò d'improvviso e il morso le uscì dai denti. La sua mente, positiva nel vortice degli entusiasmi, che aveva amato la chiesa per i fiori, la musica per le parole delle romanze e la letteratura per gli eccitamenti passionali, recalcitrava davanti ai misteri della fede, almeno quanto si ribellava ai rigori della disciplina contraria alla sua natura. Così, quando suo padre si decise a toglierla dal convento, nessuno rimpianse quella partenza; anzi, la superiora era del parere che negli ultimi tempi l'allieva aveva troppo mancato di rispetto alla comunità."

La morale religiosa e il richiamo mistico, però, rimangono vivi dentro di lei. La prima permette di comprendere le resistenze che Emma, dopo aver scoperto l'infelicità coniugale, oppone alle fantasie di tradimento che si realizzano in seguito all'incontro con Leone ("quanto più si accorgeva del suo amore, tanto più lo respingeva, per tenerlo celato, per diminuirlo. Avrebbe voluto che Léon intuisse, immaginava casi, catastrofi che potessero facilitarlo. A trattenerla era senza dubbio la pigrizia, oppure la paura, magari il pudore. Pensava di averlo ormai respinto troppo lontano, era passato il gran momento, tutto era perduto. E poi l'orgoglio, la gioia di dirsi: "Sono virtuosa." Si guardava allo specchio, assumendo le pose della rassegnazione, e si sentiva un poco consolata del sacrificio che credeva di compiere"), la patetica difesa dei buoni principi che essa oppone alla contestazione di Rodolfo (""Ah! sempre la stessa musica!" disse Rodolphe. "Sempre i doveri: ecco una parola che mi toglie il fiato. Un mucchio di vecchi stupidi in panciotto di flanella e di bigotte con lo scaldino e il rosario che continuano a cantarci negli orecchi: "Il dovere! Il dovere!" Eh, maledizione, il dovere è sentire quello che è veramente grande, il dovere è amare quello che è veramente bello, il dovere è non accettare tutte le convenienze sociali, con il cumulo di ignominie che ci impongono." "Eppure..." obiettava la signora Bovary, "eppure..." "Eh no! Perchè declamare tanto contro le passioni? Non son forse l'unica cosa bella che esista sulla faccia della terra, la gran sorgente dell'eroismo, dell'entusiasmo, della poesia, della musica, delle arti, di tutto, insomma?" "Ma occorre pure," disse Emma, "seguire un poco la pubblica opinione, rispettare la sua morale.") e i rimorsi ricorrenti che sopravvengono in seguito alle "cadute" ("Emma assaporò il pentimento!").

Il richiamo mistico si traduce in un'acuta nostalgia della fede, che, una prima volta, si presenta, in seguito al suono di una campana, per distogliere Emma dall'amore per Leone: "A quel rintoccare insistente, i pensieri della giovane donna si perdevano nei vecchi ricordi dell'infanzia, del convento. Le tornarono in mente i grandi candelabri che sovrastavano sull'altare i vasi pieni di fiori e il tabernacolo a colonnette. Avrebbe voluto, come una volta, confondersi nella lunga fila dei veli bianchi appena interrotta qua e là dai rigidi cappucci delle suore chine sui loro inginocchiatoi, la domenica, a messa, quando rialzava la testa a riconoscere i dolci lineamenti della Vergine tra gli azzurrastri turbini dell'incenso. Allora s'intenerì: si sentì tutta molle e abbandonata come una piuma d'uccello volteggiante nella tempesta; senza averne coscienza, si avviò verso la chiesa disposta a qualsiasi devozione pur di assorbirvi l'anima, pur di annullarvi dentro l'intera esistenza."

Una seconda volta, in seguito all'abbandono di Rodolfo, è il ritorno alla fede che risolve un'interminabile depressione: "Un giorno che, al culmine della malattia, s'era creduta in agonia, aveva voluto far la comunione; e, via via che nella camera venivan compiuti i preparativi per la cerimonia, veniva trasformato in altare il canterano ingombro di sciroppi e venivan sparsi per terra da Félicité dalie e altri fiori, lei s'era sentita passare addosso qualcosa di forte capace di liberarla d'ogni dolore, d'ogni sensazione, d'ogni sentimento. La sua carne alleggerita non aveva più peso nè pensiero, per lei cominciava un'altra vita: le parve, che salendo verso Dio, il suo essere andasse ad annullarsi in quell'amore, come, ardendo, l'incenso si dissolve in fumo. Le coltri furono asperse d'acqua benedetta, il prete estrasse dal sacro ciborio l'ostia candida; fu venendo meno d'una gioia celestiale che lei protese le labbra per ricevere l'offerta del corpo del Salvatore. Le tende dell'alcova le si gonfiavano mollemente intorno come nuvole, i due ceri accesi sul canterano le splendevan negli occhi come glorie, accecanti. Allora lasciò ricadere la testa, udiva gli spazi risuonar di arpe serafiche, scorgeva in un cielo azzurro, assiso in un trono d'oro, circondato dai santi tutti con la loro bella palma verde in mano, Dio Padre folgorante di maestà, che con un cenno faceva scendere in terra angeli dalle ali di fiamma, per portarsela su tra le braccia.

Questa splendida visione restò nella sua memoria come la più bella cosa che fosse possibile sognare; e continuava, adesso, a cercar di riaffermarne l'intera sensazione, la ritrovava, sì, ma in una maniera meno esclusiva, anche se con una dolcezza altrettanto stordente. La sua anima, stremata dall'orgoglio, riposava finalmente nell'umiltà cristiana: Emma assaporava il piacere d'essere debole, contemplava in se stessa la distruzione della volontà, sempre più arresa all'assalto della grazia. Esistevan dunque gioie più grandi della felicità terrena, un amore capace di superare ogni passione umana, un amore senza soluzione di continuità, senza possibilità di conclusione, in eterno aumento! E lei intravide, tra le illusioni della speranza, uno stato di purezza, alto sulla terra, fondentesi con il cielo, aspirò a esservi ammessa. Volle diventare una santa."

Dopo quest'estremo tentativo, Emma, incontrando di nuovo Leone, dopo aver opposto una debole resistenza alla passione ("un fruscio di seta sul pavimento, l'ala d'un cappello, una mantiglia nera... Era lei! Léon balzò in piedi, le corse incontro. Emma era pallida. Veniva avanti in fretta. "Leggete!" disse, tendendogli un foglio. "Oh! no!..." E bruscamente tirò indietro la mano, entrò nella cappella della Vergine, s'inginocchiò contro una sedia, parve sprofondare nella preghiera. Il giovane uomo s'irritò per quella fantasia di bigotta; poi, però, assaporò un certo piacere nel vederla, in quel loro convegno, smarrirsi nelle orazioni come una marchesa andalusa; comunque, non tardò ad annoiarsi, quella non la finiva più. Emma pregava, o piuttosto si sforzava di pregare, sperando che le scendesse dal cielo un'improvvisa ispirazione; e, per propiziarsi l'aiuto divino, si riempiva gli occhi dello scintillio del tabernacolo, aspirava sentori delle viole bianche spampanate nei grandi vasi, tendeva gli orecchi al silenzio della chiesa che non faceva che accrescere il tumulto del suo cuore."), precipita nell'abisso della perdizione, esprimendo una volontà luciferina di violare le convenzioni morali e sociali.

Cionondimeno, la morte di Emma avviene all'insegna del misticismo:

"Con lentezza, lei girò la faccia, e parve invasa da una gran gioia nel vedere la stola viola: certo, ritrovava in una pace improvvisa la perduta voluttà dei suoi primi slanci mistici e, insieme, incipienti visioni di beatitudine eterna.

Il prete si rialzò per prendere il crocifisso; allora lei protese il collo, come qualcuno che ha sete, e, incollando le labbra sul corpo dell'Uomo Dio, vi depositò con tutta la sua forza fuggente il più profondo bacio d'amore che avesse mai dato."

L'influenza della religione su tutte le anime sensibili, che ne rimangono impregnate nel corso della fase evolutiva, è fatale. Quando viene meno la fede, l'impregnazione continua ad agire a livello inconscio. Se questo è vero per tutti, gli effetti a livello di soggettività femminile sono incisivi. Per un verso, infatti, essi si traducono nel concepire l'amore umano in termini religiosi. Nell'amante, Emma di fatto cerca un sostituto di Dio al quale abbandonarsi totalmente e con il quale creare un legame fusionale, mistico. Per un altro verso, la persistenza a livello inconscio dei valori religiosi e della mortificazione degli istinti che essi promuovono, comporta una strenua lotta contro i desideri che, alla fine, possono realizzarsi solo in una dimensione di totale abbandono al piacere.

Questo viraggio risulta chiaro confrontando due episodi. Dopo avere opposto resistenza alla passione nei confronti di Leone, che induce questi ad allontanarsi, Emma cede per la prima volta a Rodolfo. Si tratta però di un cedimento tormentato, che avviene in virtù della superiore potenza dell'amore rispetto a i principi morali, che sono evidentemente ancora vivacissimi:

"Lui l'afferrò per il polso. Lei si fermò. Lo guardò per qualche attimo con occhi umidi d'amore, poi, disse, vivacemente: "Lasciamo perdere, non ne parliamo più... Dove sono i cavalli? Meglio tornare." Lui ebbe un gesto di collera e di fastidio. Lei insistè: "Dove sono i cavalli? Dove sono i cavalli?"…

"È tutto uno sbaglio, è tutto uno sbaglio," diceva lei. "Sono pazza a starvi a sentire." "Perchè mai?... Emma! Emma!" "Oh! Rodolphe!..." bisbigliò lentamente la giovane donna e gli reclinò il capo su una spalla. Il panno del suo vestito aderiva al velluto della giacca. Lei rovesciò il collo bianco dilatato da un sospiro e, stremata, tutta in lacrime, celando la faccia in un lungo fremito, si abbandonò."

Allorché, dopo l'abbandono di Rodolfo, Emma incontra di nuovo Leone, il cedimento, dopo una debole resistenza, avviene senza ritegno. Essi fanno l'amore su di una carrozza pubblica:

"E sul porto, in mezzo ai carri e alle botti, nelle strade, alle cantonate, i borghesi aprivano tanto d'occhi sbalorditi da un avvenimento talmente straordinario in provincia: una carrozza con le tendine abbassate che andava e veniva senza posa, chiusa come una bara, sballottata come una scialuppa.

A un certo punto, a metà giorno, in piena campagna, quando il sole dardeggiava più forte contro i vecchi fanali argentati, una mano nuda sbucò da sotto le tendine gialle e buttò via dei pezzetti di carta che si dispersero all'aria, e andarono a posarsi lontano, come candide farfalle, su un campo fiorito di trifoglio rosso."

Il foglio strappato è la lettera in cui Emma comunica a Leone la sua volontà di resistere alla passione, e per scrivere la quale ancora una volta essa si è rivolta a Dio in chiesa. Gettare fuori dalla carrozza i pezzettini di carta rappresenta una sorta di spoliazione dall'abito della virtù. Ma non è un caso che a tale spoliazione faccia seguito una sorta di anarchia morale:

"Da quel momento in poi, la sua esistenza fu un unico ammasso di menzogne. vi avvolgeva l'amore come in veli, per nasconderlo…

Era un bisogno, una mania, un piacere al punto che, se diceva d'esser passata ieri per il lato destro d'una via, si poteva star certi che aveva preso il sinistro…

Quante pazzie, il giovedì seguente, all'albergo, nella loro camera, con Léon! Lei rise, pianse, cantò, ballò, si fece portar su dei sorbetti, volle fumar delle sigarette, lui la trovò bizzarra, ma adorabile, magnifica…

Non sapeva quale reazione di tutto il suo essere la spingesse a precipitarsi ancor più nei piaceri della vita. Diventava irritabile, golosa e sensuale; andava a spasso con lui a testa alta, senza la minima paura, lo proclamava, di compromettersi."

L'anarchia morale, che spesso coincide con un'esperienza maniacale, non è l'espressione della potenza degli istinti affrancati dal controllo morale, bensì di una difesa soggettiva contro i valori mortificanti interiorizzati e i sensi di colpa che essi producono. Per negare di sentirsi in colpa, e non precipitare nella depressione, il soggetto non può fare altro che commetterne altre sempre maggiori. L'anarchia morale però può durare però solo in virtù di un'anestesia della coscienza rispetto ai sensi di colpa che, a livello inconscio, continuano a prodursi. Per questa via, la caduta del soggetto in una depressione grave sottesa da un bisogno di punizione è inevitabile. Per quest'aspetto, la conclusione della carriera di Emma con il suicidio e il pentimento mistico è estremamente significativa.

3.

All'oscillazione di Emma tra la virtù e la passione amorosa, che implica in ogni caso una tensione verso una vita piena e ricca di ideali, fa riscontro la mediocrità dei personaggi maschili. Flaubert è ferocemente critico nei confronti dell'universo maschile.

Nella sua banalità piccolo-borghese, giustificata peraltro dall'avere interagito con un padre narcisista, gaudente e irresponsabile e con una madre ambiziosa e invasiva, Carlo è il personaggio più autentico.

Emma tenta invano di aprire la sua anima verso orizzonti più vasti, di renderlo un po' più affine a sé:

"E intanto, secondo teorie della cui bontà era convinta, Emma cercava di arrivare al vero amore. In giardino, al chiar di luna, recitava al marito tutti i versi appassionati che sapeva a memoria, e gli cantava, sospirando, qualche aria malinconica; ma poi si ritrovava malauguratamente più calma di prima e, quanto a Charles, non le appariva nè più innamorato nè, comunque, più turbato. Quando ebbe battuto così per un poco l'acciarino sul proprio cuore senza farne sprizzare una sola scintilla, incapace, del resto, di comprendere quanto non provava come di credere a quanto non si manifestava in forme convenzionali, si persuase facilmente che nella passione di Charles per lei non vi era nulla di eccessivo. Le espansioni del marito eran diventate regolari, la baciava a ore fisse. Un'abitudine come un'altra, quasi un dolce, previsto per tempo, dopo la monotonia del pranzo."

La sua totale assenza d'immaginazione, d'intuizione psicologica, di fantasia, di interessi culturali definiscono una mediocrità irrimediabile, una normalità che rasenta l'imbecillità:

"Non insegnava nulla, Charles, non sapeva nulla Charles, non immaginava nulla Charles: credeva che lei fosse felice, ma lei gliene voleva per tutta quella tranquillità imperturbabile, per tutta quella pacifica pesantezza, per tutta quella stessa sazietà di cui era l'origine."

Ciononostante, egli ama autenticamente Emma, anche se non è in grado di capirne le esigenze e lo spessore della sua anima; si ritiene fortunato di avere accanto una donna che sente come straordinaria; incapace di soddisfarla, non pone alcun limite alla sua libertà e alla sua autorealizzazione, non interferendo nella coltivazione di rapporti amicali nei quali non vede alcuna malizia, assecondando il suo gusto per il lusso, spingendola a dedicarsi alla musica, ecc. Certo, egli non è in grado d'intuire il dramma interiore di una donna che non può vivere senza passione e senza un orizzonte esistenziale significativo. E' insomma terribilmente limitato nella sua angusta ottica piccolo-borghese. Ma è, nel complesso, un brav'uomo, la cui mediocrità è riscattata dal fatto che, preso atto delle colpe di Emma, riesce a perdonarla e a serbarle amore nel suo intimo, fino alla morte per crepacuore.

Leone è un personaggio contraddittorio. Egli condivide con Emma una sensibilità piuttosto fine, partecipa del suo bisogno di grandi orizzonti ("Oh! Lo adoro, il mare, io," disse Léon. "E poi non vi pare," insistè la signora Bovary, "che lo spirito spazi più liberamente su quella distesa sconfinata, la cui contemplazione eleva l'anima e prodiga idee d'infinito, d'ideale?"), la ama autenticamente, prima sul piano platonico poi su quello ferotico. Ciononostante, anch'egli ad un certo punto, è incapace di tollerare l'intensità passionale dell'amore di Emma, e giunge a disamorarsene:

"Come s'annoiava, adesso, quando Emma attaccava di colpo a singhiozzargli sul petto; il suo cuore, come capita a chi non può sopportare più d'una certa dose di musica, s'assopiva d'indifferenza nel trambusto di un amore di cui non distingueva più le delicatezze."

Quando poi Emma, disperata per i debiti, gli chiede aiuto, egli si comporta da vigliacco. Non glielo nega, ma non fa nulla per aiutarla.

Rodolfo è il personaggio più sgradevole. Uomo di mondo, egli intuisce la fragilità di Emma e ne approfitta, celando sotto enfatiche dichiarazioni d'amore un calcolo da cinico seduttore:

"Passarono sei settimane, Rodolphe non si faceva vedere. Una sera, finalmente, ricomparve. Il giorno dopo i comizi s'era detto: "Non torniamo subito, sarebbe un errore." E al termine della settimana era partito per la caccia. Dopo la caccia, aveva pensato che ormai era troppo tardi, poi fece questa riflessione: "Ma, se mi ha amato dal primo giorno, adesso, per l'impazienza di rivedermi, deve amarmi di più. Insistiamo, dunque!" Si rese conto che il suo calcolo era esatto, quando, al suo ingresso nella sala, vide Emma sbiancare."

La conquista, alimentata dalla passione divorante di Emma, per qualche tempo lo esalta, introducendo un elemento di novità nel triste orizzonte della provincia. Egli l'ama narcisisticamente per qualche tempo, perché si sente amato, anche se nel suo intimo non la stima. Sopravviene poi la noia e l'indifferenza

"Eppure lei gli piaceva sempre! Ne aveva avute ben poche lui d'un simile candore! Quell'amore senza libertinaggio era un'autentica novità per lui: lo sottraeva alle sue abitudini ormai facili, blandiva il suo orgoglio e la sua sensualità insieme. L'esaltazione di Emma, che il suo buon senso borghese non poteva fare a meno di disprezzare, gli appariva in fondo deliziosa perchè s'appuntava sulla sua persona. Certo di essere amato, finì per non aver più troppi riguardi, a poco a poco i suoi modi mutarono.

Non le rivolgeva più come una volta quelle paroline dolci che avevano la capacità di scioglierla in lacrime, non le elargiva più come una volta quelle veementi carezze che avevano il potere di farla impazzire; così il grande amore in cui viveva immersa parve impoverirlesi sotto, al pari dell'acqua d'un fiume assorbito dal suo letto, e alla fine lei scorse il fango del fondo. Non voleva crederci; esagerò in tenerezza; Rodolphe riuscì sempre meno a nascondere la propria indifferenza."

Emma, soggiogata da lui, insiste ad esprimere il suo amore e a sottomettersi alla sua volontà. Ma è proprio questo atteggiamento a rivolgersi contro di lei, perché la psicologia di Rodolfo, essendo quella di un seduttore, non tollera l'eterno linguaggio della passione e neppure l'assoggettamento:      

"Emma era tale e quale a tutte le altre sue amanti; e l'incanto della novità, cadendo a poco a poco come una veste, metteva a nudo l'eterna monotonia della passione che non cambia mai forma, non cambia mai linguaggio. Non sapeva distinguere, lui uomo essenzialmente pratico, la diversità dei sentimenti sotto l'identità delle espressioni. Dato che labbra libertine o venali gli avevan bisbigliato frasi simili, lui prestava solo debole ascolto alla verità di quelle di Emma; meglio far sempre la tara, pensava, i discorsi esaltati stan lì a ricoprire gli affetti mediocri; come se la ricchezza dell'anima non traboccasse a volte nelle metafore più vuote, come se a questo mondo fosse effettivamente possibile esprimere esattamente i propri desideri, le proprie idee, i propri dolori, come se la parola umana non fosse un vaso di rame incrinato su cui battiamo cadenze capaci al massimo di far ballonzolare gli orsi, mentre aspireremmo a intenerir le stelle.

Ma, con quella facile superiorità di critica propria a chi, in qualsiasi impresa, si tiene indietro senza compromettersi, Rodolphe intravide in quell'amore altri godimenti da assaporare. Giudicò fuori luogo ogni pudore. Trattò l'amante senza il minimo riguardo. La ridusse alla più assoluta docilità, alla più convinta corruzione. Emma aveva per lui un attaccamento idiota, ribollente d'ammirazione, ne ricavava una gran voluttà, una beatitudine paralizzante: la sua anima si sprofondava in quell'ebbrezza, vi s'annegava, vi si annullava."

Il cinismo di Rodolfo giunge al punto di mostrare complicità in rapporto al progetto di Emma di fuggire insieme. La bellezza di Emma lo attrae ancora, ma non fino al punto di promuovere la decisione di assumersi un impegno relazionale vincolante:

""Ma che imbecille sono!" disse, e bestemmiava orribilmente. "Però, era una magnifica amante!" E di colpo gli insorse contro la bellezza di Emma, con tutti i piaceri di quella relazione. Dapprima s'intenerì, poi se la prese con lei. "Non posso mica andare in esilio," esclamava, gesticolando, "e addossarmi anche un figlio non mio." Si ripeteva queste cose per rafforzarsi nella decisione presa. "E poi i pasticci, le spese... Ah! no, no, mille volte no! Via, sarebbe stata una bestialità troppo grossa!""

L'abbandono e il tradimento della fiducia di Emma è dunque inevitabile, e avviene all'insegna di un disprezzo totale nei suoi confronti :

""Povera donnicciola!" pensò con una certa tenerezza. "Mi crederà più insensibile d'una pietra, ci sarebbe voluta qualche lacrimuccia qui sopra, ma io non so proprio piangere, io, non è mica colpa mia, sono fatto così, io.""

Emma è ingenua nel coltivare il sogno di un amore eterno, ma la sua autenticità passionale risalta come un tratto di nobiltà a confronto degli amanti che, nonostante la sua idealizzazione, sono inesorabilmente mediocri.

4.

Emma insegue perpetuamente la felicità come un miraggio. In alcuni momenti, come per esempio dopo il primo tradimento, ha la certezza esaltante di averla raggiunta:

"Ebbe subito come una vertigine: rivedeva gli alberi, i sentieri, i fossati, Rodolphe, soprattutto, sentiva ancora la stretta delle sue braccia mentre le foglie frusciavano e i giunchi sibilavano. Ma, vedendosi nello specchio, si stupì della propria faccia. Non aveva mai avuto occhi così grandi, così neri, così profondi. Qualcosa di sottile era diffuso sul suo corpo, la trasfigurava. Si ripeteva: "Ho un amante! Un amante!" appassionandosi a un simile pensiero come all'idea di una nuova pubertà. Dunque avrebbe posseduto le famose gioie dell'amore, la febbre di felicità di cui aveva disperato. S'inoltrava in un'era meravigliosa in cui tutto sarebbe stato tempesta dei sensi, estasi, delirio; un'immensità celeste la circondava, le cime del sentimento scintillavano nella sua mente, l'esistenza normale le appariva ormai così lontana, in basso, nell'ombra, tra i vuoti di quelle altezze. Allora ricordò le eroine di tutti i libri che aveva divorato, e la lirica legione di quelle adultere cominciò a cantare nella sua memoria, le loro voci eran voci di sorelle, la incantavano. Diventava lei stessa una parte vera di tutte quelle invenzioni, traduceva in realtà il lungo fantasticare giovanile, riconoscendosi in quel personaggio di donna amante cui tanto aveva aspirato. E, d'altronde, Emma assaporava il gusto della vendetta. Quanto non aveva patito! Adesso, invece, trionfava e l'amore, per tanto tempo raffrenato, sgorgava libero, con allegra effervescenza. Lo apprezzava senza rimorsi, senza inquietudini, senza turbamenti."

Di fatto l'amore si rivela insufficiente a colmare il vuoto dell'anima, come riesce chiaro in seguito alla relazione con Leone: "Anche se lo amava non era felice, non era mai stata felice. Di dove le veniva, dunque, quell'insufficienza della vita, quella putrefazione istantanea di tutte le cose su cui s'appoggiava?..."

La storia di Emma è quella di un'insoddisfazione cronica, spesso coincidente con una depressione, che viene temporaneamente risolta da alcuni momenti di esaltazione.

I neopsichiatri non avrebbero difficoltà ad etichettare questo dramma riconducendolo ad un disturbo dell'umore bipolare. E' quanto, del resto, fanno in rapporto a soggetti femminili la cui esperienza è tessuta dagli stessi vissuti di Emma (insoddisfazione cronica, accensioni passionali, delusioni) e sottesa dalle stesse dinamiche. Si tratta al solito di una tendenza ad etichettare le vicende umane che implica un'incomprensione totale del loro significato. Per illuminare questo significato, occorre imboccare un tragitto interpretativo più complesso che eviti le secche nosografiche e, nello stesso tempo, vada al di là dell'ideologia femminista.

Flaubert in più momenti rileva gli effetti deleteri della letteratura romantica sulla personalità di Emma. Ma il romanticismo, con il suo culto delle emozioni che sormontano la banalità del quotidiano, con il suo misticismo che sembra assegnare alla soggettività la capacità di fondersi con l'infinito, anche senza la mediazione della religione, è orientato a risolvere un problema di fondo della mente umana: l'intuizione dello scarto tra la finitezza individuale e l'infinito. Universale, vale a dire presente in qualunque esperienza soggettiva, tale scarto è più o meno acutamente avvertito a seconda della ricchezza emozionale individuale. E' probabile che le donne, dotate mediamente di una più viva sensibilità rispetto agli uomini , avvertano quello scarto in maniera più acuta.

Questo non il solo, ma è uno dei fattori che spiegano perché esse siano più esposte alla suggestione religiosa, che si mantiene spesso anche in età adulta. Nella misura in cui la religione appaga la tensione verso l'infinito, essa però condiziona la soggettività femminile a ritenere quello scarto intollerabile. In conseguenza di questo le donne, rispetto agli uomini, sia che continuino a credere o perdano la fede, sono esposte al rischio di investire la vita di un significato improprio, riconducibile all'azzeramento di tale scarto.

Per ciò la loro esperienza tende a collocarsi spesso su di un registro eccessivo, sia esso quello della virtù - la dedizione perfezionistica alla casa e ai figli - o quello della trasgressione morale, spesso giustificata dall'intensità della passione amorosa.

Sarebbe ingenuo non considerare che questo rischio trova un humus fertile in tutte le esperienze caratterizzate da una frustrazione reale del bisogno di felicità. E però, come in Emma, l'insoddisfazione non basta a spiegare l'estenuazione nei lavori domestici e le accensioni passionali cui spesso le donne vanno incontro. In entrambi i casi, è come se esse fossero condizionate a ritenere che la vita ha senso se e solo se si mantiene su di un registro di estrema tensione.

C'è insomma un condizionamento culturale che grava sull'universo femminile, già predisposto per la sua sensibilità a cadere nel ricatto dell'infinito. Tale condizionamento, la cui prima matrice è l'educazione religiosa, orienta naturalmente le personalità verso l'eccesso nella virtù o l'eccesso nella passione amorosa, verso insomma forme d'esperienza atte a soddisfare lo scarto tra finito e infinito.

L'ideologia e l'organizzazione sociale borghese ha sfruttato la predisposizione femminile per far gravare sulle donne l'obbligo delle virtù domestiche e morali, per asservirle ai bisogni maschili e per addossare ad esse la responsabilità del mantenimento dell'ordine morale. Questo modello interiorizzato, per il suo carattere squilibrato, produce spesso compensi inconsci che portano non poche donne a fantasticare una vita di segno opposto. L'opposto del perfezionismo morale non è però la libertà, bensì il perfezionismo trasgressivo. Non è un caso che le fantasie inconsce si esprimano spesso sotto forma d'incoercibile desiderio di abbandonare la casa, il marito e i figli. Spesso esse, colpevolizzate, non producono altro che attacchi di panico e depressioni invalidanti. Nei casi, relativamente rari, in cui si realizzano, la fuga non può avvenire che all'insegna dell'assoggettamento alla passione amorosa, vale a dire all'uomo, e le conseguenze, sia sul piano della delusione che dei sensi di colpa, sono solitamente serie.

Per quest'aspetto, la vicenda di Emma è straordinariamente limpida e ha un valore universale.

Flaubert, insomma, fornisce la chiave profonda di qualunque esperienza femminile “bipolare”. Basterebbe tenerne conto per sormontare le etichette neopsichiatriche e affrontare il problema di una congiuntura tra natura e cultura che, talora, ha effetti fatali.

Da Appartenenza e Individuazione.

3. La struttura isterica

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Non diversamente da quello ossessivo, anche il modo d’essere isterico è caratterizzato da un bisogno esasperato di conferme sociali, che implica una dipendenza radicale del soggetto dalla relazione con l’altro. Si danno però alcune differenze rilevanti tra i due modi d’essere.

Mentre il bisogno di conferme dell’ossessivo serve unicamente a sancire il suo essere normale, quello dell’isterico è funzionale a colmare un vuoto interiore tale che, in difetto di una relazione confermativa, il soggetto sprofonda nella voragine dello smarrimento e della perdita d’identità. Alla paura dell’esclusione sociale, intrinseca alla struttura ossessiva, corrisponde dunque, in quella isterica, la paura dell’abbandono affettivo.

Il bisogno di conferme dell’ossessivo è, peraltro, meramente formale: esso si realizza in virtù dell’apprezzamento, da parte del maggior numero possibile di persone, del suo essere efficiente, coscienzioso, inappuntabile nell’adempimento dei doveri. L’isterico viceversa ha un bisogno assoluto di sentirsi amato, che, seppure si può estendere a tutto il mondo sotto forma di esigenza di stare al centro dell’attenzione, gravita inesorabilmente verso la realizzazione all’interno di una relazione duale.

Per conseguire le conferme di cui ha bisogno, l’ossessivo si attiene rigidamente ad un quadro di regole e di valori che egli ritiene assoluti. L’isterico persegue lo stesso fine adattando il suo comportamento ai desideri e alle aspettative dell’altro, fino al limite estremo dell’asservimento.

Il soggetto ossessivo sa di non essere come appare, percependo dietro la maschera un mondo interiore limaccioso e negativo; l'isterico sa di non essere che come "appare", e dunque di dover apparire continuamente per essere. Mentre nell’ossessivo però l’apparire riguarda soprattutto il comportamento, che egli osserva e tiene sotto controllo, nell’isterico la necessità di catturare l’attenzione dell’altro richiede l’esibizione del corpo e la simulazione inconscia di un’emozionalità accattivante, che può andare da un modo di essere angelicato, infantile, innocente, orientato a sollecitare una risposta in termini di protezione, di cura e di tenerezza, ad un modo d’essere opposto incentrato sulla seduzione, sulla passionalità, sulla disponibilità erotica.

Queste differenze consentono di spiegare perché la struttura ossessiva è prevalente a livello maschile, mentre quella isterica è di gran lunga più diffusa presso la popolazione femminile. La storia sociale ha sempre imposto all’uomo il pubblico e alla donna il privato come terreni di realizzazione. Sul piano pubblico la prerogativa più importante è l’adeguatezza agli standard normativi, su quello privato la capacità di coltivare rapporti affettivi.

La struttura isterica fa incombere sull’universo femminile la necessità di relazionarsi ad un partner come indispensabile protesi di un’identità altrimenti vuota e sterile. Essa in gran parte è il frutto di questa prescrizione superegoica che, sempre più spesso, viene contrastata da una ribellione inconscia. Allentando la rimozione, che in passato costringeva le cariche di ribellione a imboccare la via dell’espressione somatica, pur non essendo riusciti ancora a sormontare quella prescrizione, i cambiamenti socioculturali hanno prodotto un cambiamento nel modo di esprimersi della struttura isterica, che sempre più spesso si rivela a livello relazionale.

Lo spettro della struttura isterica, che si articola su di un conflitto irriducibile tra dipendenza e indipendenza, va dall’estremo di un assoggettamento masochistico all’uomo all’estremo opposto di un ribaltamento dei ruoli in virtù del quale il soggetto femminile assume un atteggiamento dominante, sfidante e aggressivo.

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Le modalità estreme dello spettro sono facili da descrivere, posto che si tenga conto che esse sono le due facce di una stessa medaglia che implica un conflitto di base tra dipendenza e indipendenza..

Il modo d’essere angelicato, che può oscillare tra un’innocenza infantile e bisognosa di protezione e la serietà della donna accudente, dà luogo solitamente a rapporti di subordinazione totale del soggetto femminile: nel primo caso, un rapporto d’aggrappamento caratterizzato da incessanti richieste di attenzioni e di cure rivolte al partner; nel secondo, un rapporto accondiscendente e donativo nei suoi confronti. In entrambi i casi, dopo un periodo di tempo variabile, si definisce un conflitto, in quanto le risposte d’amore del partner non sono mai vissute come soddisfacenti. La frustrazione, che rende intollerabile il prezzo da pagare per stare in relazione, consegue effetti piuttosto diversificati. In alcuni casi, esso promuove un assoggettamento masochistico al partner, che coincide con l’affiorare di una sintomatologia psicosomatica (cefalea, gastrite, dolori addominali, reumatismo psicogeno, ecc.) attraverso la quale il soggetto tenta di promuovere maggiori attenzioni da parte dell’altro e, nello stesso tempo, esprime la rabbia dovuta alla dipendenza.

L’evoluzione del rapporto può essere esso stesso piuttosto diversificato. Talora l’aggrappamento e la dedizione masochistica si protrae nel corso degli anni, associata ad una sintomatologia psicosomatica crescente che può esitare anche in una depressione. Laddove la rabbia promuove inconsciamente la fantasia di sciogliere il legame, sopravviene spesso un attacco di panico che lo rinsalda e lo rende indispensabile.

In alcuni casi, tale fantasia affiora alla coscienza e si trasforma in un progetto di separazione. Il problema è che la sua realizzazione postula l’instaurarsi di un altro legame all’interno del quale accadono inesorabilmente le stesse cose.

In altri casi, la rabbia, tenuta a freno dalla paura dell’abbandono, si rende manifesta sotto forma di attacco più o meno aperto al partner. L’espressione della rabbia ha un effetto immediato di attenuazione della sintomatologia psicosomatica. Se il partner reagisce minacciando l’abbandono, il soggetto regredisce nella dipendenza e i sintomi psicosomatici ricompaiono. Se egli rivela un’imprevedibile dipendenza dal rapporto, la rabbia si esprime invece in forme sempre più aggressive e, al limite, oltraggiose.

Il modo d’essere seduttivo si fonda su di un atteggiamento di manifesta disponibilità erotica e di sfida all’uomo. Esso attira particolarmente due categorie di partner: quelli che hanno bisogno di assoggettarsi ad una donna dominante e quelli che accettano la sfida con l’obiettivo di vincerla. vale a dire di giungere a dominare. I primi però non esercitano alcun fascino sul soggetto femminile deduttivo. La relazione, dunque, si avvia sistematicamente con gli altri. A partire da questo presupposto, si definiscono diverse linee evolutive.

In alcuni casi, affascinato dall’apparente forza e indipendenza della donna, il partner cede rapidamente, diventa possessivo, geloso, rivelando la sua intima fragilità. Non appena questo accade, si realizzano repentini disinvestimenti in nome del fatto che un partner debole è vissuto come spregevole.

In altri casi, il partner tiene testa alla donna. Ciò mantiene il suo fascino agli  occhi di essa, ma inesorabilmente la sperimentazione di una certa dipendenza promuove atteggiamenti vieppiù conflittuali, che spesso utilizzano come arma ultima il tradimento. Se il partner cede, nel senso che lascia intendere di essere disposto ad accettare tutto pur di mantenere il rapporto, egli diventa una preda che può essere tormentata a piacere finché non viene fatta fuori per la sua spregevole debolezza. Se egli invece minaccia l’abbandono, e la donna intuisce che potrebbe realizzarlo, sopravviene un repentino cedimento da parte di questa, che giunge a livelli di umiliazione totale.

Tra questi due estremi, che rivelano le due facce della struttura isterica, si inquadrano le esperienze di donne tranquillamente sposate che o soffrono di una costante sintomatologia psicosomatica e depressiva, che fa riferimento all’insoddisfazione nel rapporto con il marito, o vivono costantemente un regime di doppia vita con uno o più amanti, rischiando costantemente di cadere in depressione per i sensi di colpa o di sviluppare attacchi di panico.

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Vissuto a livello cosciente come un bisogno divorante d’amore, il bisogno che si esprime attraverso il modo d’essere isterico è in realtà l’espressione di un dramma interiore in conseguenza del quale la relazione con il partner maschile si configura, nell’ottica di un’atavica tradizione, come una assoluta necessità per salvaguardare un’identità che, venendo meno la relazione, si dissolve. Accettata e subita o rifiutata e negata, la dipendenza (patologica in quanto la relazione corrisponde ad una protesi o ad una bombola d’ossigeno) attiva a livello inconscio una protesta d’individuazione che si esprime attraverso la sintomatologia psicosomatica o attraverso un atteggiamento costantemente conflittuale nei confronti del partner. Il prezzo da pagare per stare in relazione – vale a dire la subordinazione o l’asservimento all’altro, manifestati o celati – è prescritto superegoicamente. Tale prezzo è compensato, a livello inconscio, da un Io antitetico animato da una tensione verso una libertà che si identifica con l’autosufficienza, con il non avere più bisogno di niente e di nessuno.

E’ questa tensione sotterranea, che, in virtù di un meccanismo di colpevolizzazione, associa all’autosufficienza il fantasma di un’infinita solitudine, a mantenere un orientamento costante verso la relazione. Nella misura in cui, però, essa persiste e attiva a livello inconscio una rabbia contro la dipendenza che può rimanere rimossa o manifestarsi in forme anche estreme di aggressività, è inevitabile che si sviluppi un’immagine interna negativa che va dall’essere rifiutabile per la propria debolezza all’essere insopportabile per la propria cattiveria.

In conseguenza di queste dinamiche, il soggetto isterico fa riferimento alla relazione con l’altro come ad un’ancora di salvezza, che però, vissuta male per la percezione della dipendenza, finisce regolarmente con l’incrementare l’immagine negativa stessa. L’orientamento masochistico rivela questa immagine nella sua dimensione di colpa da pagare; l’orientamento seduttivo e sfidante, che talora giunge al sadismo, la rivela compiutamente.

Lo smascheramento dell’identità negativa a livello di relazione privata differenzia nettamente la struttura isterica da quella ossessiva: tanto quest'ultima tende ad essere inerte, rigida e ripetitiva a livello sociale, quanto la prima appare caratterizzata da una fluidità che può esitare da un momento all'altro in un brusco cambiamento di personalità. Si tratta però di una fluidità circolare: come l'isterico si affranca da una dipendenza passiva, che lo pone in balìa dell'altro, assumendo un atteggiamento di dominio e di sopraffazione, così egli, in conseguenza dei sensi di colpa, può crollare nuovamente nella subordinazione.

 La tendenza, intrinseca alla struttura isterica, ad esprimere le emozioni attraverso il linguaggio del corpo è altamente significativa del conflitto in questione. Lo era già nell’Ottocento allorché essa si manifestava nel grande cerchio in virtù del quale un soggetto, solitamente femminile, inarcava il tronco esibendo i genitali ma in virtù di una contrattura dei muscoli che segnalava l’assoluta indisponibilità alla penetrazione. Lo è ancora oggi se si tiene conto che sia l’angelicità che la seduttività isterica coincidono spesso con una totale frigidità e con l’anorgasmia. Indipendentemente dalla sessualità, i sintomi somatici si presentano sempre con un’ambivalenza che comporta, per un verso, l’inibizione funzionale – la lipotimia, la paralisi, ecc. – e, per un altro, lo spasmo, la contrattura, la crisi tetanica. Tale ambivalenza fa riferimento alla manifestazione di un’infinita debolezza e di un’incoercibile rabbia che compensa la debolezza e, in alcuni casi, può simulare uno stato di possessione demoniaca.

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Con un'evidenza maggiore rispetto alla struttura ossessiva, quella isterica pone in luce la drammatica alienazione dei bisogni fondamentali: l'integrazione sociale sembra poter avvenire solo al prezzo di un assoggettamento d’amore alle aspettative dell'altro; l'individuazione, viceversa, potersi realizzare solo al prezzo della messa in gioco del rapporto sul piano del conflitto o dello scioglimento. E’ la condanna a dipendere la chiave della struttura isterica, compensata da una protesta d’indipendenza che, finché il soggetto non prende coscienza del conflitto in questione, finisce in un vicolo cieco.

Facendo capo a due diverse identità – l’una che promuove la subordinazione, l’altra che la rifiuta -, mantenute rispettivamente dal Super-io e dall’Io antitetico, questa scissione orienta il soggetto isterico periodicamente verso due soluzioni  radicali che non possono funzionare: talora, infatti, egli appare autenticamente proteso a debellare la ribellione che si muove sempre a livello inconscio in virtù dell'assunzione definitiva di un ruolo docile,dipendente e infantile; per un altro, sembra aspirare ad estirpare la sensibilità divenendo irreversibilmente freddo, egoista e cinico. Nel primo caso, egli però, quasi inesorabilmente scivola nel masochismo; nel secondo caso, nel sadismo.

Al di la delle vicissitudini personali, che consentono di capire la genesi  del conflitto sulla base di una frustrazione originaria del bisogno di opposizione/individuazione che talora è subita, dando luogo all’attestarsi della personalità sul registro della dipendenza infantile, talaltra è interagita in virtù di una lacerazione, solitamente adolescenziale, che reprime la sensibilità lasciando affiorare una personalità tendenzialmente sfidante, è importante cogliere la matrice storico-culturale del conflitto. Tale matrice, come accennato, è riconducibile alla definizione della donna come essere naturalmente dipendente, che solo nella relazione con l’uomo trova modo di raggiungere lo statuto di persona e un senso dell’esistenza. In conseguenza di questa definizione, interiorizzata a livello femminile, ancora oggi molte donne vedono nella relazione con l’altro l’unica dimensione che le affranca dall’essere soggetti incompiuti, inutili e sterili.

Il problema è che questa definizione contrasta con la programmazione comune a tutti gli esseri umani, uno dei cui obiettivi è il raggiungimento di uno statuto interiore di indipendenza. Sicché, sia quella definizione subita o interagita, è impossibile per il soggetto isterico trovare un modo di stare in relazione senza soffrire e, spesso, senza coinvolgere l’altro nella sofferenza.

Può sembrare sorprendente e incredibile che l’ideologia della donna come essere naturalmente dipendente, quindi bisognosa del rapporto con l’uomo come una protesi della sua identità, sopravviva nel nostro mondo che ha riconosciuto da tempo la pari dignità degli esseri umani e il loro diritto ad un libero sviluppo della personalità. L’esistenza stessa della struttura isterica attesta però che alcune ideologie di lunga durata continuano a riprodursi anche laddove, a livello di superficie, una società sembra essersene affrancata.

3. 5

A lungo si è discusso sul fatto che la struttura isterica possa realizzarsi anche a livello maschile. Non c’è alcun dubbio a riguardo. Come la prevalenza della struttura ossessiva negli uomini, così la prevalenza della struttura isterica nelle donne è relativa, non assoluta.

La dinamica a livello maschile è la stessa. L’unica differenza riguarda il fatto che a livello cosciente il bisogno divorante d’amore è meno rappresentato rispetto a quello di accadimento, che tende a realizzarsi o nel rapporto con una figura femminile tendenzialmente materna o nel rapporto con una figura femminile da proteggere, alla quale però viene richiesto in cambio l’accudimento. Nella misura in cui questo bisogno è vissuto nei termini di una dipendenza malvissuta, esso viene interferito da una protesta che mette alla prova la donna materna e giunge al maltrattamento di quella da proteggere.

C’è un’ulteriore possibilità ben nota che rientra in questo ambito: il dongiovannismo, caratterizzato da una dipendenza che viene mascherata dal passare da una donna all’altra, seducendole, usandole e mettendole da parte.

Per quanto concerne la struttura isterica maschile, è intuitivo pensare che la sua genesi sia da ricondurre a vicissitudini personali più che a fattori culturali. Non è vero. Gran parte degli uomini che sviluppano una dipendenza patologica dalla relazione con una donna, hanno alle spalle una carriera contrassegnata da una figura materna tendenzialmente iperprotettiva, che opera un condizionamento sul figlio tale da impedirgli di raggiungere l’indipendenza psicologica. Che cosa si dà di culturale in questo è presto detto. Lo sappiano o no, le madri iperprotettive nei confronti dei figli maschi realizzano una sorta di vendetta rituale: subordinate all’uomo, quando allevano un figlio, lo castrano psicologicamente in maniera tale da riscattarsi dallaloro subordinazione. Se il figlio, infatti, non potrà mai fare a meno di una donna che lo accudisca, ciò significa che è l’uomo e non la donna l’essere debole.

Se questo è vero, non è affatto sorprendente che le madri che inducono nei figli una struttura isterica ne siano esse stesse affette. Si tratta in gran parte di mogli e di madri apparentemente perfette, ma, nel loro intimo, arrabbiatissime per la subordinazione all’uomo al quale la sorte le ha destinate.

Da DIS-UMANITA’ (1992)

Microstorie femminili

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A diciotto anni - lui ne aveva appena uno di più - rimasi incinta, La fiducia accordataci dalle famiglie escludeva un'intimità più audace di fugaci carezze. Fu atroce confessare una colpa che, come sapevamo, e accadde, non ci fu perdonata. Ci sposammo in fretta e furia, con una cerimonia che affidò alla silenziosa complicità dei parenti la tutela di un disonore comune.

Mi fu imposto l'abito bianco. Salii l'altare con il volto in fiamme, ne discesi con il cuore votato, senza sapere, all'espiazione.

Mia figlia nacque contaminata dalla colpa di cui era il frutto. Non ricordo di averla rifiutata, come sostengono i medici. So che l'allevai proteggendola da invisibili miasmi, rinunciando a carezzarla, pur desiderandolo, per non contagiarla, isolandola e isolandomi con lei dal mondo. Più volte al giorno, con i guanti sterili, strofinavo il suo corpicino con l'alcool. Ignorai, via via che cresceva, le premonizioni che attraversavano i suoi sguardi, freddi e cupi, sino ad illudermi di aver scongiurato, con il sacrificio della vita, la resa dei conti, che a giunta invece come un fulmine a ciel sereno.

Vive in una clinica, chiusa in un mutismo interrotto solo da un atono messaggio che agghiaccia anche i medici: non devo esistere.

Com'è possibile che sia rimasta preda del destino?

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Litigavano ogni giorno, a pranzo e a cena, lanciandomi alternativamente occhiate di rabbia e di pena, dalle quali ricavavo la colpa di obbligarli ad una vita d'inferno. Incredula prima, perplessa poi, e infine turbata, fui forzata a convincermi ch'ero io la causa della loro infelicità Se avessi saputo come erano andate le cose, mi sarei limitata a compatirli: il rispetto delle forme li aveva resi e li manteneva schiavi dell’inappellabile giudizio parentale.

Per questo stesso falso valore sono stata tenuta all'oscuro della colpa originaria, e ho dovuto colmare l'ignoranza con la convinzione di essere ripugnante a tutti. Desiderare di togliermi di mezzo è una conclusione conseguente, per quanto poco rispettosa delle forme.

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A otto anni, seppi che ci saremmo trasferiti in città. Esultai di riflesso, cogliendo negli occhi di mia madre una gioia incontenibile. Non potevo sapere che quella gioia occultava una rivoluzione che avrebbe terremotato la mia esistenza.

Mia madre era stanca di dipendere dai suoi e dal marito: per ribellarsi e raggiungere l'autonomia, scelse la strada non criticabile del lavoro. Trasferiti che fummo, si gettò a capofitto nella carriera, rivelando una straordinaria dedizione al nuovo ruolo di insegnante elementare.

Dedicò ai bambini le cure di cui avevamo ancora bisogno io e mio fratello. Gratificandomi di essere grande e matura, mi impose responsabilità che mi assunsi con la gioia dell'ingenuità. Sola per gran parte del pomeriggio con mio fratello, vissi nell'angoscia perpetua di dover affrontare situazioni imprevedibili a cui non avrei saputo far fronte.

Strinsi i denti, e respinsi le paure, inghiottendole. Sul terreno della mia anima, sconvolta da un sisma, costruii una personalità solida quanto rigida. Nel mio intimo, avvertivo ogni tanto i lampi di una rabbia spaventosa, che affondava le sue radici nel sentimento di aver subito una grave ingiustizia e si orientava verso indescrivibili vendette.

Affidai al tempo la resa dei conti. Ma il tempo è stato clemente con tutti. La paura di uscire mi trattiene nel chiuso delle pareti domestiche, la rivendicazione si è esaurita nell'imporre ai miei una totale disponibilità.

Quanto alla rabbia, che mi avrebbe spinta a danneggiare me stessa e la famiglia, si è convertita in un amore dell'ordine che mi costringe ad essere schiava di infiniti rituali. Conduco una vita orribile, riscattata da un attimo di gioia quotidiana.

La sera, quando i miei e mio fratello vanno a dormire, ispeziono la casa, metto il lucchetto alla porta, controllo che le finestre siano serrate, chiudo il rubinetto del gas. Avuta la certezza che la famiglia è chiusa in carcere, al riparo da ogni attacco, posso andare a dormire.

So che la mattina seguente, mi ritroverò sola. Ma, per quanto soffra di vivere come una prigioniera, so pure che i miei dovranno tornare e accettare che io li imprigioni.

*****

Riconosco d'aver abusato della sua docilità, imponendo alle sue fragili spalle delle responsabilità eccessive. Ad onor del vero, m'illudevo anche di aiutarla a diventare forte e autonoma. Del resto, non avrei potuto fare diversamente, dacché scoprii che la casa e la famiglia mi rendevano claustrofoba.

Me ne liberai schiavizzandomi nel lavoro, e dedicando ai bambini degli altri il tempo e le cure che avrei dovuto ai miei. Quando, divenuta adolescente, trascorreva in casa tutto il tempo libero studiando e leggendo, provai un'emozione ambivalente: esultai perché mi sembrava che fosse affrancata dai desideri che agitano il cuore delle adolescenti, ebbi paura perché, identificandomi con lei, provai nuovamente un'intollerabile claustrofobia.

Ogni medaglia ha due facce: io soffro rinchiusa nelle pareti domestiche, lei sta male ogniqualvolta mette il naso fuori della porta di casa. Non mi faccio delle colpe: né dentro né fuori casa una donna può trovar pace.



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A quarantasette anni, con tre figli sposati, il venir meno del flusso mi illuse di aver varcato la soglia di un quieto autunno.

Dopo cinque mesi seppi che, anziché un innocuo fibroma, una vita maligna mi ingrossava il ventre. Confessai ai figli, resi increduli dai capelli bianchi, la colpa e, per espiarla, mi chiusi in un isolamento totale.

Partorii in casa e ne uscii solo per il battesimo, sfidando la beffarda curiosità dei paesani. Allevai mia figlia come un fiore di serra, frustrandone ogni vitalità e destinandola, nel mio cuore, al convento. Fu il caso o il presagio della malattia a intorbidare il suo sguardo quando divenne adolescente?

La tempesta si preparò a lungo, sconvolgendo la vita di due vecchi: infine, colei che doveva essere di Gesù, si rivelò preda del demonio.

L'ultima volta che l'ho vista, in manicomio, legata al letto, digrignava i denti e aveva la bava alla bocca.

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Avevo quasi sessant'anni quando seppi che mia moglie aspettava un'altro figlio. La scongiurai di abortire. Sarebbe stato ridicolo che i nipoti si ritrovassero ad avere uno zio più piccolo di loro. E poi nel paese si sa da sempre che i figli al tramonto sono una maledizione. Imbeccata dal prete, è stata dura come una capra. ed è accaduto quel che è accaduto.

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Non ho chiesto di nascere io. Ma, una volta venuta al mondo, perché mi si è fatto vivere come una reclusa? Fossi stata brutta e storpia sarebbe stato meglio. Invece ero bella, e quando divenni adolescente, i ragazzi all'uscita dalla scuola mi ronzavano intorno come mosconi. Non diedi loro mai confidenza, ma mia madre era convinta che avessi il diavolo in corpo. A 16 anni, persi la testa per un uomo sposato e tentai di sedurlo. Non mi misero al rogo. Mi chiusero in manicomio, ch'è peggio.



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A trent'anni, non cedetti alla passione, ma alla paura dei miei di lasciarmi sola al mondo con un patrimonio invidiabile. Sposai un uomo debole e senza fortuna; non mi interessava avere un marito quanto risultare in regola agli occhi della gente.

La nascita di un figlio sancì la mia normalità per poco tempo. Come tutti i diseredati, mio marito non accettava un ruolo subordinato, intendeva farla da padrone. Mi sottrassi a lui rubandogli il figlio e investendo parte del patrimonio in una causa interminabile che si concluse con l'affidamento.

Come madre, mi proposi un solo scopo: allevare mio figlio ripulendolo da tutti i germi di volgarità e di materialismo e che dovevano pur essere nel suo sangue misto. La religione mi apparve il rimedio migliore per avviarlo a sentire il disgusto delle cose terrene, e a nutrire amore per ciò che è elevato.

Non fu facile dominare il suo innato disordine, la sfrenatezza alimentare, una violenta aggressività. Con l'adolescenza, l'impresa sembrava conclusa. Mio figlio era un modello (eccessivo, addirittura) di ordine, di controllo, di misura.

Godetti del trionfo giusto il tempo di capire che si trattava di un'illusione. L'ascetismo di mio figlio si nutre di beni materiali. Egli - è vero - ama solo cose elevate: libri di scienza, filosofia e teologia, cibi raffinati, mobili di antiquariato. Ma questo amore sta dilapidando il patrimonio familiare.

Né posso fare alcunché, poiché egli nutre un disprezzo così profondo per il mondo da non poter tollerare alcun contatto con la gente. Non so se è malato (i medici dicono di sì). So di essere schiava dei suoi rituali, di dover provvedere a tutti i suoi bisogni, di dover fornire alimento continuo alla sua insaziabile fame di sapere e di godere intellettualmente.

Mi porterà alla rovina con gli stessi mezzi con cui intendevo affrancarlo dalle volgarità del mondo.



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A trent'anni mia madre, di famiglia siciliana, fu posta di fronte alla scelta di sposarsi o monacarsi. Difettava di vocazione per entrambi i ruoli, ma scelse il male minore (o quello che, allora, riteneva tale), arrendendosi ad un matrimonio combinato. Non c'è de sorprendersi che giudicasse una disgrazia nascere donna.

Mio padre, che aveva quasi quarant'anni, fece di tutto per confermare questa convinzione: non una moglie gli serviva, ma una serva. Non potette frustrare il suo desiderio di maternità, ma la mise sull'avviso: non voleva figlie.

Con il primo parto, mia madre lo accontentò; con il secondo dovuto ad un deplorevole incidente, lo deluse. Venni su all'ombra della commiserazione dell'una, del rifiuto dell'altro e della severità di entrambi.

Nonostante le apparenze di una totale subordinazione, non mi piegai nè a loro nè all'uomo cui mi avevano destinata - che recusai - nè a Gesù. Mi immersi, a tredici anni, in un delirio d'amore che mi ripaga di ciò che non ho avuto e mi affranca da ogni servaggio.



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All'origine il colore della vita è un fascio di luce bianca che ogni esistenza rifrange.

Ai miei occhi di fanciulla giunsero solo colori vivi e netti. Perennemente armoniosa, come un prisma deformato, la mia famiglia ignorava (o temeva) il dolore. Fui allevata nel culto ingenuo del bene, dell'onestà, dell'amore. Il dovere di essere degna dei miei mi indusse a sposare, senza interrogarmi, l'uomo che scelsero per me, ritenendolo dotato di eccellenti virtù.

L'intimità della vita coniugale, con l'imposizione di pratiche perverse, squarciò il velo delle apparenze. Seppi d'essere stata sacrificata per interessi patrimoniali.

Compresi per mezzo di ricorrenti esaurimenti che la virtù, spesso, è un surrogato di viltà. Quando incontrai l'altro, un malavitoso, fui indotta a credere che ogni medaglia ha il suo rovescio. Mi abbandonai alla passione godendo finchè cominciò a ricattarmi.

I colori della vita, che si erano ravvivati, si mescolarono repentinamente producendo la cupa nuvolaglia che da due anni incombe sulla mia anima.



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 Chi entra in casa e disordina le mie cose? Da due anni a questa parte, le invasioni avvengono quotidianamente. Non c'è mobile che non ne porti il segno. Tutto è macchiato, graffiato, sbeccato. Dicono che ho le traveggole, abitando al quarto piano con la porta blindata e le sbarre alle finestre (chi le ha montate ancora ride). Dicevano lo stesso vent'anni fa quando intuii che mio marito mi tradiva. Ma come, un uomo del genere che stravede per te! E lui lí, tutto ligio, amorevole e compassionevole. Mi ha fatto curare per due anni da uno psichiatra prima che, casualmente, venisse fuori la veritá. Aveva avuto un figlio dalla mia migliore amica e lo aveva riconosciuto. Puó accadere di tutto nella vita. Che ne sa la gente?

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Adesso, è pazza davvero. Non dorme nè giorno nè notte per far la guardia. Vuole che sporga ogni giorno denuncia contro ignoti, e s'arrabbia perché non le credo. So cosa pensa nel suo intimo. E' una storia vecchia. E poi se, dopo aver partorito nostro figlio, non avesse blindato e sbarrato il suo corpo, non l'avrei tradita.



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Come tutti i servi passati dalla parte dei padroni (il nonno era il custode di una casa gentilizia), mio padre, della cui ricchezza ignoro le origini, ha avuto un solo assillo: asservire tutti al suo potere, al fine di scongiurare l'atroce solitudine che avvolge come un bozzolo chi è spinto dalla vita a credere che non esistono affetti ma solo interessi.

Io, sua unica figlia, l'ho adorato perché mi ha circondato sempre, fin dall'infanzia, di cameriere, governanti, autisti, maestre che, per bisogno, si adattavano ai miei capricci, alle prepotenze, ai maltrattamenti. Avrei dovuto capire che il troppo rapido avvicendamento di persone in quei ruoli attestava nel contempo la mia insopportabilità e una dignità umana che resiste anche al bisogno. Non avendolo capito, mi sono inebriata dell'esercizio di un potere che mi dava gioia nella misura in cui provocava umiliazione e dolore.

Incautamente, quando sopravvenne l'adolescenza, pensai di poter sfidare anche mio padre. Mi aspettavo che egli mi desse la prova di essere veramente il padrone, sottomettendomi.

Ho scoperto invece che la sua anima era rimasta quella di un servo senza dignità. Ha accettato tutte le umiliazioni che gli ho inferto senza reagire, dimostrandosi incapace di abbandonarmi. Dovrei godere d'averlo assoggettato. Ma posso ignorare che la mia volontà di dominio si estingue al di fuori di questa gabbia dorata?



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Cosa può fare una donna che odia il marito e non ha alcun reddito? Può, come me, fare la schiava e concedersi ogni tanto la vendetta dell'evasione. Non parlo dei tradimenti, che, non essendo comunicabili, non feriscono. Esistono vendette più banali e sottili: l'emicrania, per esempio, che martella le tempie, mi affranca dai lavori domestici, mi isola nel buio della camera da letto e sconsiglia di disturbarmi. Una banalità: pure, per un giorno, lui, che non è in grado di cuocersi un uovo e di stirarsi la camicia, è disperato. Si aggira per la casa come un bambino sperduto. Vorrebbe aiutarmi, perché ha bisogno di me, ma non osa entrare in camera, perché sa che la testa potrebbe continuare a farmi male per giorni e giorni. Tanto mi basta. Il prezzo? Chi conosce le pene della schiavitù, sa che la libertà di un giorno non ha prezzo.



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Da me si volle che diventassi grande troppo in fretta. A dodici anni ero già una donnina con la testa a posto, in grado di accudire la casa, i fratelli e di mediare le interminabili liti tra i miei.

A venti anni, quando ero sul punto di votarmi a Gesù, inaspettatamente mi innamorai e scoprii di avere un cuore selvaggio e avido di affetto chiuso in un corpo immune alle tentazioni. Agli uomini non piace un'anima appassionata in un involucro di ghiaccio. Fui rifiutata più volte.

L'alcool sciolse la mia freddezza, rendendomi libera di godere e di non ricordare alcunché. La coscienza ebbra si perde con facilità, ma cancella pietosamente le sue cadute. Non posso più, periodicamente, rinunciare a bere.

Negli intervalli, continuo ad essere una donnina con la testa a posto che ama Colui che perdona.



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Devo essere nata indemoniata. Venendo fuori dal ventre di mia madre, le procurai un esaurimento nervoso che per un anno e mezzo le impedì di allevarmi e di toccarmi. Di quel periodo non ricordo ovviamente alcunché. I primi ricordi risalgono all'età di tre anni, e lampeggiano dentro di me come un'atroce verità.

Ero un demonio scatenato, impossibile da quietare e da soddisfare. Aggredivo - per rabbia e per gusto - cose e persone. Mia madre, che era guarita, mi temeva a tal punto che si chiudeva in camera, lasciando che per ore io tempestassi di pugni e di calci la porta.

All'asilo a tempo pieno - un intervallo quotidiano smisurato di carcerazione per la mia anima irrequieta - riscattavo la solitudine con una prepotenza che induceva timore anche nei maschi. A cinque anni, il demonio mi indusse a scagliarmi contro una porta a vetri, lacerandomi il corpo in più punti.

Ero destinata a finir male se non mi fossi imposta una disciplina rigorosa. Chiusi il diavolo che era dentro di me in una lastra di marmo. Non importa che, da allora, sia considerata fredda e insensibile. Con l'adolescenza ho scoperto di poter affidare le mie emozioni allo scritto.

La poesia scorre dentro di me come un fiume silenzioso, che si apre in estuari di pace e di gioia profonda. Vivo incarcerata nella mia camera? Non c'era altro rimedio. La dedizione totale e l'amore di mia madre mi impediscono di pensare che non sia io ad essere nata male. Nel profondo della mia anima, il demonio continua a possedermi, ma io posseggo, ormai, lui.

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Ho riconosciuto mia figlia solo quando era in grado di camminare e di parlare. L'esserino che c'era prima al suo posto, capace solo di piangere, urlare o ridere stolidamente, di sporcarsi e di mangiare avidamente, ai miei occhi snaturati non aveva sembianze umane: mi appariva né più né meno un mostriciattolo che, se solo gli avessi permesso di aggrapparsi a me, mi avrebbe trascinato nel suo caotico disordine.

In quell'anno e mezzo - tanto è durato il rifiuto - non fingevo, stavo male veramente: allettata gran parte del tempo, svuotata di ogni energia, dovevo essere accudita io stessa. Riconoscerla è stato vano: il diavolo era già entrato nella sua anima col veleno del mio rifiuto.

Ho nascosto la mia vergogna sotto l'alibi offerto dal suo comportamento, giungendo con il tempo a farmi giudicare anche da lei - e da tutti - una madre straordinaria. Con una dedizione assoluta, ho pagato e pago le mie colpe. Dovrei confessarle?

Se potesse annullare l'accaduto, non esiterei a farlo. Ma chi potrebbe credere che un bambino piccolo può essere identificato con un persecutore fino al punto di vederlo come il simbolo stesso del disordine, dell'incontrollabilità e dell'avidità di vivere? Mia figlia, almeno, l’ho riconosciuta. Il demonio degli istinti l’ho esorcizzato per sempre.



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E’ inutile che mia madre cerchi di convincermi che una donna deve essere orgogliosa delle mestruazioni poiché sono il segno della sua fecondità. A me non interessa avere figli e, seppure mi interessasse, non capirei il senso di sgocciolare periodicamente sangue dall’odore nauseabondo per trentacinque anni. Io penso che si tratti di un errore di programmazione della natura. La stessa funzione biologica si sarebbe potuta realizzare senza obbligarci a portare i pannolini. Che importa se mantenere immacolato il mio corpo mi costringe a una dieta da fame? Se vivere non è un dovere, meno ancora lo è accettare i ghiribizzi del caso.

E' un modesto sacrificio la frigidità a confronto della gioia che ne ricavo. Essendo bella, di una bellezza — dicono — ammaliante, gli uomini li attiro come le mosche. Mi si avvicinano e sono storditi dal calore della mia pelle e dalla mia voluttà. Mi penetrano come furie, e con facilità perché sono sempre umettata. Poi, repentinamente, sopravviene la secchezza e la freddezza. Nessuno desiste. Peggio per loro. Possono starmi dentro e darsi da fare per ore, finchè non devono arrendersi alla loro impotenza. Non è colpa mia se nessuno di loro riesce a possedere il mio cuore.



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Essendo destinata presumibilmente a morire, mi indigna il fatto che, sui giornali e in televisione, il mio dramma, comune a tante altre, sia banalizzato. Che c'entra l'estetica col vedermi orribilmente grassa allo specchio, nonostante pesi 33 chili? Dovrebbero spiegarmi, gli esperti, che cosa vedo, se è vero che loro e tutti gli altri mi giudicano orribile per il motivo opposto. E, ancor più, perché, toccando il mio corpo, quando sento la pelle ben tesa sulle ossa, provo un euforico senso di forza, mentre quando, col pollice e l'indice, riesco a far venir fuori un rotoletto di adipe, inorridisco della mia mollezza. Questo orrore mi chiude lo stomaco.

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La madre l'avrà pure manipolata, come dicono i dottori. Ma, rozza e ignorante com'è, mi riesce difficile pensare che mia figlia, dotata da sempre di un'intelligenza superiore, possa essersi fatta irretire. Sono io responsabile del fatto di averla educata ad amare le cose belle e grandi e a disprezzare quelle futili e meschine. Le ho impedito di istupidirsi su Cappuccetto rosso leggendole Omero, di rovinarsi il gusto con le canzoncine per bambini facendole ascoltare Mozart. Quanto al televisore, non è mai entrato a casa nostra. Forse ho sbagliato, ma, tornassi dietro, non accetterei che mia figlia diventasse come le altre. Fino a 13 anni, era un po' isolata per forza di cose, ma orgogliosa della sua diversità. Poi s'è istupidita. Che c'entra la grandezza dell'anima con la bilancia?



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Essere servi di Dio è, forse, uno dei possibili modi di affrancarsi dai pesi terreni. Mia madre, che aveva gli occhi inquieti di passione, si votò a Dio, investendo i suoi doni nell'amore dei fratelli e delle sorelle.

Tutto il paese la ricorda come una santa. Io, la figlia maggiore, fui l'umile ancella che le permise di edificarsi sostituendola, dall'età di dieci anni, nell'assolvimento dei doveri domestici. A trent'anni - mia madre era volata in cielo - scoprii d'essere null'altro che una serva, affrancata da una fede alla quale imputai d'avermi fatto vivere con gli occhi chiusi.

Mi lanciai nel mondo con l'affanno di dover compiere l'impresa di dare senso all'esistenza. Purtroppo, mossa da una cieca rabbia, ebbi l'ardire di misurarmi con mia madre, tentando di realizzare in negativo ciò che essa aveva realizzato in positivo. Santificarsi, evidentemente, e più facile che perdersi. Mi affanno, invano, da dieci anni a raggiungere il fondo dell'abiezione.

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Potessero le mie ceneri parlare, direi a mia figlia, che asservii alla mia ambizione di santificarmi, da non affannarsi troppo a praticare il negativo della virtu.

Come non esiste il paradiso, non esisterà l'inferno. Santi e peccatori sono le due facce di una stessa medaglia, due forme di disperazione terrena Dovrebbe pensare a vivere, non ad emularmi in negativo vendicandosi di me.



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Ho odiato mia madre fin da quando mi resi conto che, ritrovandosi accanto un uomo buono e totalmente disponibile nei suoi confronti, lo umiliava, lo maltrattava e lo tradiva provocatoriamente. L’ho odiata ancora di più allorchè, dopo la separazione che mi privò di un padre che idolatravo, mi impose la convivenza con un uomo rozzo e impulsivo che spesso la picchiava. A 18 anni potei andarmene a vivere da sola poiché mio padre, intanto, aveva fatto fortuna. Ero piena di buoni propositi. A 26 anni mi ritrovo ad avere accanto da due anni un ragazzo che mi adora e soddisfa tutte le mie aspettative. Ma per la terza volta il coronamento del mio sogno coincide con un disinvestimento sentimentale e sessuale che mi obbliga a tradirlo. Non lo maltratto né lo maltratterò. Mi chiedo quanto tempo però sopporterà il ruolo del cavalier servente. Ripercorrere le orme di mia madre mi tormenta. E’ un difetto genetico o cos’altro che ci spinge ad essere così irrazionali? L’unica certezza è che, non tollerando le violenze fisiche, non incapperò nel persecutore che mi farà pagare le colpe commesse nei confronti degli esseri buoni.



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Il castello è decrepito, ma è pur sempre un castello. Mio padre, a settant’anni, esce ancora per il paese impettito a cavallo. Mia madre, un’attrice di terzo ordine, ha ricavato dall’imparentamento nobiliare solo le sopracciglia perennemente rivolte verso l’alto che le consentono di guardare tutti con sussiego. Sterili, mi hanno adottato tardivamente strappandomi ad una madre zingara, ballerina di successo a Parigi. Sono stata scelta per la mia bellezza decorativa, che, nel corso degli anni, associata ad un carattere irrequieto, è divenuta per loro un pericolo. Non ho mai condiviso il loro mondo, il loro modo di essere, la conventicola di nobili decaduti con cui fanno lega.

Mi hanno educato o meglio fatto educare da una odiosa governante come una principessina ignari del fatto che le buone maniere rappresentavano un implicito insulto per il mio sangue e la mia razza. Preso atto che non mi lasciavo domare, hanno cominciato a disprezzarmi a modo loro. Non hanno ostacolato le mie fughe di pochi giorni con uomini i più diversi (quasi sempre artistoidi), fanno finta di ignorare la fama che ho nel paese, svalutano i miei disegni nei quali rappresento un mondo a loro alieno. Si preoccupano solo del fumo e del fatto che, un giorno o l’altro, potrei rimanere incinta e far partecipe della loro eredità (ridotta ormai al lumicino) un essere di oscure origini.

Incapaci di comprendermi, danno credito alle diagnosi degli infiniti psichiatri da cui mi hanno fatto visitare che, prezzolati, fanno riferimento ad una malattia genetica che li mette al riparo dal prendere atto di essersi imbarcati in un’impresa superiore alle loro forze.

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Era selvaggia, e tale è rimasta nonostante i nostri sforzi. Purtroppo il cognome ce l’ha e non si può tornare dietro. Aspetta la nostra morte per godersi la libertà e l’eredità, che, pur ridotta al minimo, è ancora un bel gruzzolo. Non sa ed è bene che non sappia che l’eredità è già stata impegnata come lascito per una clinica svizzera che l’accoglierà. Continueremo a prenderci cura di lei anche dopo la morte, impedendole di disonorarci ulteriormente.



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Il mio corpo è freddo e inaccessibile. Esercita per questo — suppongo — più che per le sue forme un’attrazione irresistibile sugli uomini. Ciascuno di essi, quando prende atto della mia anorgasmia, si esalta sentendosi sfidato ad essere il primo a violare la mia verginità erotica. E’ incredibile in quale misura gli uomini pensino che lo sfregamento dei genitali debba infine accendermi l’anima. Alcuni, prima di cedere, insistono per ore. Più insistono peggio è. Mentre si danno da fare con la lingua, con le mani, col pene, e mi blandiscono guaendo come agnelli o muggendo come tori, io mi distacco, guardo ciò che avviene dall’esterno, dall’alto, e raggiungo nel silenzio e nella freddezza l’infinito piacere razionale di sentirli inferiori: bestioline condizionate dagli istinti a perdere la loro dignità.

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Si chiuda pure a riccio nella sua torre d’avorio razionale. A me interessa possedere il suo corpo. Della sua anima, sterile e presuntuosa, non so che farmene. E’ fredda come il marmo. Ciò almeno mi mette al riparo dal dovere andare in giro per i musei col rischio (che si è realizzato una volta) di essere colto mentre mi masturbo accanto ad un busto femminile. Lo so che pensa che io sia come gli altri. Glielo faccio credere: sarebbe un bel problema se cambiasse idea.



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La mia casa è a duecento metri dal mare, ma per anni l'ho ignorato. Un vago odore di aria salmastra e di libertà ha fasciato la mia esistenza senza orizzonti. Sono vissuta come una macchina impegnata giorno dopo giorno ad assolvere scrupolosamente i doveri domestici e giungere a sera con la coscienza tranquilla, sgombra da quel vago senso di colpa che mi inquietava al mattino.

Raramente, marito e figlia dicevano che ero esagerata: ma la luce di soddisfazione che coglievo nel loro sguardi mi sollecitava a fare sempre meglio. Che cosa sia avvenuto dentro di me non so. Dio e il demonio devono aver contemporaneamente occupato la mia anima. Un dio cattivo, non il dio d'amore nel quale ciecamente credevo.

Un dio esigente, implacabile, mai pago delle mie fatiche, che mi toglieva il sonno, anticipando all'alba la schiavitù. Quanto al demonio, doveva trattarsi di un buon diavolo, chè la tentazione si limitava a suggerirmi di buttar tutto a mare. Sussurratami insistentemente all'orecchio, la metafora mi aprì l'orizzonte di una liberazione totale.

L'inquietudine delle onde mi affascinò repentinamente come ciò che si muove affascina ciò che è inerte. Dopo aver messo in ordine la casa e preparato il pranzo, mi abbandonai ad esse, vestita di tutto punto come una sposa.

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I medici non sono stati in grado di fornire alcuna spiegazione del gesto. Ci hanno interrogato a lungo - me e mia figlia - per tentare di ricostruire l'esordio e lo sviluppo di una malattia, che noi non avremmo capito. Se mettere in ordine la casa, fare la spesa e il pranzo, lavare e stirare i panni, spolverare e lucidare è una malattia, mia moglie è malata dacché la conosco.

Negli ultimi tempi, forse, era, più che mai, senza tregua ma chi poteva pensare che covava quel progetto? Da lei i medici non sono riusciti a ricavare nulla: ha dimenticato l'accaduto come si dimentica un brutto sogno. E’ tornata ad essere quella di prima: silenziosa, infaticabile. Io e mia figlia siamo rimasti segnati da un terremoto: ci alterniamo giorno e notte in una vigilanza estenuante e, apparentemente del tutto inutile. Ma chi può escludere che quanto è accaduto possa ripetersi? In passato, la sua schiavitù ci ha reso liberi; adesso, la sua folle e imprevedibile sete di libertà ci rende schiavi.



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L’ingratitudine umana è senza limite. Io mi considero una benefattrice, ma molti di coloro cui ho fatto bene mi odiano e mi maledicono. E’ vero: li ho sedotti col mio viso angelico e con un corpo sensuale, li ho ammaliati sino a far quasi perdere loro il senno e, poi, resili dipendenti da me come bambini, li ho sistematicamente umiliati, traditi, maltrattati sino a indurre l’abbandono per disperazione. Per i più tenaci nel non volermi perdere indubbiamente è stato un calvario. Ma che colpa ho se la dipendenza infantile dei maschi mi disgusta, e se il loro attaccamento d’amore, superato un certo limite, mi fa sentire nonché donna la madre che ho sempre rifiutato di essere? Maltrattandoli, talora brutalmente, cerco di svezzarli, di farli diventare finalmente adulti. Quasi tutti, in effetti, dopo essersi liberati di me, sono divenuti più maturi. Perché dunque mi odiano? Perché la loro sete di vendetta, che avverto nell’aria, incombe nella mia anima come una minaccia di morte che mi costringe a stare chiusa in casa?



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Mi ha reso la vita impossibile con la sua mania dell’igiene. Come non bastasse, ha cominciato a rifiutare i rapporti sessuali e a tradirmi con i suoi stramaledetti libri. Ho resistito per via dei bambini piccoli. Lei è divenuta sempre più dura, ostile e scostante. Mi sono allontanato da casa solo quando ho avvertito che la rabbia poteva sfuggire al controllo e indurmi a picchiarla. Dopo la separazione è cambiata. Mi accoglie in casa con tenerezza, ha mille attenzioni e mi guarda con un morbido sguardo d’amore. Ho attribuito ciò alla gelosia, poichè sa che sto con una donna più giovane di lei. Ho diffidato di lei, chiudendomi a riccio e facendole sentire il mio disprezzo. Ha accettato tutto, continuando a idolatrarmi. Infine, mi ha confessato il suo amore, senza chiedermi nulla in cambio se non di rispettarlo. Così, non ho più moglie, ma una donna devota che tale rimarrà per sempre.

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Ho scoperto d’amarlo visceralmente dopo la separazione. Ma non desidero affatto che torni con me. Posso essere devota solo ad un uomo che mi tiene a distanza e rifiuta di assoggettarsi a me.



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Mi riesce difficile capire da dove tragga le energie mio marito per adempiere ogni giorno il suo dovere coniugale, tra l’altro con una passione incomprensibile dato che stiamo assieme ormai da venticinque anni. Dice di amarmi come il primo giorno. Ne sono lusingata ma non fino al punto di ignorare come stanno le cose. La mia serenità lo induce a pensare che sia all’oscuro degli infiniti tradimenti che lo smentiscono. Da vent’anni ha un pied-à-terre nello stesso palazzo in cui ha lo studio. Quando mi telefono premuroso per avvertirmi che non verrà a pranzo o che si tratterrà fino a tardi per motivi di lavoro, so che deve soddisfare le voglie dell’ennesima cliente. L’impotenza crescente degli uomini che rende le donne insoddisfatte e le spinge a rivolgersi al ginecologo per tacitare le loro proteste psicosomatiche — vaginiti, alterazioni del ciclo e via dicendo — è una sfida per lui che non ha mai avuto una defaillance. Penso che il suo prestarsi senza tregua a curare queste proteste sia una sorta di missione, un modo per riscattare l’onore maschile. Talora entra nel letto avendo ancora addosso l’odore della donna con cui è stato.

Ho perso molte amiche per via del modo in cui ho affrontato il problema, comprendendo e chiudendo gli occhi. Le donne sono stupide. Desiderano tutte, anche quelle brutte e il cui corpo precocemente sfiorisce, avere l’esclusiva sul partner. Non capiscono la soddisfazione che ricavo dall’uscire sempre vincente dal confronto con infinite rivali.

E lui poi, che conduce la sua doppia vita senza inciampi, è sereno come un bambino e mi guarda estasiato della mia ingenuità.



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Nacqui da nobile e ricca casata: non si potrebbe desiderare di meglio, secondo alcuni. Ma i privilegi di sangue comportano insospettati pericoli: io, che l'ignoravo, l'ho sperimentato sulla pelle.

Com'è uso nel nostro rango, mia madre ricusò le cure del corpo: mi dette a balia e, fino all'adolescenza, fui affidata alle governanti. Sarebbe ingiusto che dicessi che i miei non mi amarono. Ma il loro amore riguardava solo l'anima, lo spirito, la parte nella quale specchiavano la loro ancora orgogliosa nobiltà. Il corpo, questa volgare appendice che, purtroppo, fa gli uomini uguali, fu ricusato e affidato a mani servili.

Delle governanti, la maggior parte lo rispettarono. Una lo usò per soddisfare i suoi desideri e, forse, l'astinenza cui era costretta per tutelare il posto e assicurarsi le referenze. La mia ingenua connivenza, che giunse quasi alla gratitudine per il mondo nuovo di sensazioni che mi si schiudeva, la mise al riparo dalla denuncia.

Senza che me ne rendessi conto, quell'esperienza - e l'indifferenza dei miei - incise nel mio corpo il marchio della volgarità.

La mia anima nobile non si riconosce nelle oscenità a cui il corpo si abbandona e delle quali gode, e vive perpetuamente immersa nei rimorsi e nella espiazione. Riuscirò mai ad essere degna dei miei natali?

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Quando nacque, prima e ultima femmina, ebbi un tuffo al cuore.

La nobiltà si eredita non meno dei vizi. Nel suo volto colsi precocemente la somiglianza con mia nonna, una ballerina che, nonostante la fortuna toccatale di sposare un nobile di antica stirpe, non ne fu degna, poiché insozzò il titolo con una vita licenziosa, cui pose fine solo il ricovero a vita in una clinica tedesca. Il presagio di una nuova sventura mi spinse a dedicarmi alla sua educazione come se dovessi affrancarla da un'impurità giunta col sangue sino a lei, nonostante mia madre ed io avessimo condotto una vita integerrima.

Gli insegnamenti religiosi e morali lottarono, però, contro un'anima passivamente docile ma insensibile ai valori elevati. A dodici anni sedusse il giardiniere, un padre di famiglia la cui debolezza gli costò il posto e le referenze. L’internamento in un collegio religioso non valse che a rimandare la resa dei conti. Quando ne uscì, nonchè redenta, era posseduta dal demonio. E’ un fatto cui occorre rassegnarsi che un’anima tanto volgare alberghi in un corpo le cui fattezze ne segnalano inconfondibilmente le origini.



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Non mi ci volle molto a capire come stavano le cose nel mondo. Mio padre, quand'era fuori, chiudeva a chiave mia madre in casa; quando era in casa, trovava ogni occasione buona per aggredirla. Mi ci volle del tempo a capire cosa fosse la gelosia: in quegli anni, impercettibilmente, il cuore si caricò di paura e di odio nei confronti i mio padre.

Un po' più di tempo mi occorse per capire che non era pazzo: ragionava come tutti al paese. Solo a vent'anni, lavorando in fabbrica, intuii che il paese non era tutto il mondo. Mi ero già fidanzata da due anni con un ragazzo che non mi piaceva (allora, ci si fidanzava per avere il diritto di uscire di casa), e, per rispetto della tradizione, avrei dovuto sposarlo se non fosse morto di cancro.

Non ero insensibile, ma non mi sorpresi di esultare nel sentirmi liberata da un peso. Non me n'ero liberata che di fatto: agli occhi dei paesani, ero stata di un uomo, e nessuno avrebbe osato sfidare il ridicolo per maritarsi con una donna già usata. Fortuna volle che incontrassi uno ‘straniero’, libero da pregiudizi e comunista.

Costui mi aprì gli occhi sulla realtà nella quale vivevo, ma non tenne conto che quella realtà ormai faceva parte di me. Gli occhi di mio padre e del paese mi seguivano ovunque e mi bloccavano anche nel letto coniugale. Per liberarmi da questa persecuzione, avendo avuto già due figli, decisi da sola di farmi sterilizzare.

Quando uscii dall'ospedale ero ebbra di orgoglio: senza saper bene perché, sentivo di aver rotto irreversibilmente con la tradizione. Pensavo di non dover più lottare, e invece la lotta cominciò proprio allora. Un'angoscia di morte perpetua ingombra l'orizzonte della mia vita: non posso uscire di casa per la paura di venir meno, devo avere sempre qualcuno accanto a me, sono diventata frigida e apatica.

Vivo come una condanna la condizione nella quale, apparentemente senza soffrire, visse mia madre e un'infinità di donne.

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Mia sorella ha tempo e denaro da perdere. Va a Roma a farsi curare da un ciarlatano. Di quale malattia soffre? Non vuole stare a casa a fare il suo dovere? Vuole andarsene a spasso da sola a cercar guai? Vuole godere e non subire il rapporto con il marito? Belle pretese.

Io sto a casa, esco sempre e solo in compagnia di mio marito, mi concedo a lui quei pochi istanti che gli bastano a sfogarsi. Sono malata, forse? Da che mondo è mondo, nascere donna comporta più pene che gioie.

Ma avere la coscienza tranquilla e non doversi vergognare di nulla agli occhi degli altri non è forse la felicità?

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Mia figlia insiste a fumarmi in faccia, benché le dica da anni che una donna onesta queste cose non deve farle. Ha paura del mio sguardo e del mio giudizio? E perché allora non si arrende a vivere come Dio comanda? Si lamenta d'essere nata donna. Se la prenda con la madre: io l'avevo detto che figlie femmine non ne volevo.



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Non si educhino le figlie a essere sottomesse all'uomo, pronte ad assecondare ogni suo desiderio e soddisfatte solo della felicità che riescono a dargli.

Può accadere, come a me, che esse rispettino rigorosamente questa legge, ma non nei confronti di un solo uomo, bensì di tutti.

La matrice della virtù è imperscrutabilmente la stessa della perdizione.



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Nonostante la sterilità, che i medici non sono riusciti a spiegare, sono stata una buona moglie. La fede e la passione comune per la musica mi hanno aiutata a rimanere vincolata ad un uomo che apprezzo, ma che non ho mai amato. Mi conobbe ch'ero pazza per un altro che mi aveva sedotta (gli psichiatri sostenevano che ciò era frutto della mia fantasia). Gli confessai la verità, e non esitò a sposarmi.

Nonostante il debito perenne di gratitudine per avermi restituito la fiducia nella vita, il fuoco della passione ha continuato a covare sotto le ceneri, riaccendendosi ogni tanto sotto la forma di un quieto delirio d'amore, che mi faceva trascorrere alcune notti insonni e mute alla finestra. Tranne lui, nessuno ha mai sospettato alcunché.

Ho ingannato tutti, non la mia coscienza. Quando mi è stata offerta la candidatura al consiglio circoscrizionale, motivata dall'integrità della mia condotta morale, che mi avrebbe assicurato il voto delle donne oneste del quartiere, sono ammalata di nuovo, più gravemente.

Nel cuore della notte, ho urlato a squarciagola il mio amore dalla finestra.



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Paralizzandosi il mattino stesso che avevo deciso di abbandonare per sempre la famiglia che la sorte mi ha assegnato, la cui mediocre normalità, esasperata dall’agiatezza, mi ha sempre ripugnato, le gambe, che avrebbero dovuto percorrere il mondo intero alla ricerca di una vita sensata, si sono alleate con la paura del cambiamento in cui sono stata allevata. I medici hanno fatto la diagnosi guardando il mio volto atono e indifferente alla circostanza. Una paralisi isterica la definiscono. Mia madre, perennemente al capezzale, cura la sua bambina e non osa chiedermi il senso della valigia che ha trovato in camera. Continui pure a non capire. Se e quando le gambe avranno riacquistato il senno, fuggirò.



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Per anni, ho dovuto sopportare di convivere con mia suocera, il cui amore morboso, e ricambiato, mi alienava il marito. Quando è morta, ho tirato un sospiro di sollievo.

Dopo un anno, è nata lei, un amore di bambina. Non appena l'ha vista, il padre si è illuminato in volto, poiche aveva gli stessi occhi celesti e infidi di sua madre.

Mi sono sentita venir meno: dal mio ventre era uscito quell'esserino che lo aveva sedotto al primo sguardo? Non ho odiato mia figlia: ho odiato in lei l'altra, che si era incarnata per continuare a tormentarmi. Distinzione troppo sottile per un'anima ingenua.

Dacché è ammalata, mia figlia mi accusa di volerla avvelenare. La verità - di cui nessuno ha colpa - e che ci siamo avvelenate la vita a vicenda.

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Nulla più dell'indifferenza può fomentare l'amore in un cuore infantile e renderlo imperituro. Svezzato appena, mio padre fu abbandonato da colei che lo mise al mondo, donna di affascinante e gelida bellezza, che si dette alla bella vita. Deturpata dagli anni e dai mali, gli chiese aiuto, e mio padre capì che, accogliendola in casa, non l'avrebbe più perduta. La curò con una tenerezza e una dedizione che lo resero insensibile ai doveri nei confronti della moglie e dei figli. Quando ella morì, cadde in una prostrazione totale, poiché la morte non concede ritorni. Così si dice, ma non sempre è vero. Nacqui con gli occhi dello stesso glaciale colore, e, crescendo, pareggiai la fascinosa bellezza di quella. Ho vissuto all'ombra di due feroci gelosie di segno diverso, per sedare le quali avrei dovuto, nel contempo, non essere e non divenire. La quadratura del cerchio mi si è offerta all'improvviso, in virtù della convinzione di non essere figlia di coloro che dicono di avermi messa al mondo. Può darsi, come sostengono i medici, che si tratti di un delirio: ma, di fatto, cosa avrebbe potuto salvarmi se non un'altra genealogia?

Dicono che deliro. Può darsi.

Talora dubito io stessa che colei che si dice mia madre voglia avvelenarmi. Sono però certa da sempre che, se potesse, mi caverebbe gli occhi.



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Per tre anni mi ha illusa, affermando di essere disposto, per amor mio, a rinunciare alla carriera e agli agi di cui godeva in virtù di un matrimonio di interesse. Alla prova dei fatti, messo alle strette dal suocero, è venuto meno come un codardo.

Le argomentazioni con cui ha tentato di farmi accettare la fine del rapporto come una soluzione ragionevole mi sono apparso meschine tanto più che esse miravano a riattivare in me il dolore della separazione dai miei; le conclusioni, spogliate di retorica, si riducevano al fatto che non vale la pena perdere tutto per una donna.

Un calcolo, un puro calcolo, che ha segnato irreversibilmente la mia anima (purtroppo, ancora giovane). A chi potrò più credere? Mi sarei dovuta vendicare perseguitandolo e rendendogli impossibile la vita. Mi sono limitata invece a danneggiare con un martello il calcolatore elettronico destinato a spodestarmi dal ruolo di capocontabile nella ditta del suocero.

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Porterò per sempre dentro di me l'ignominia e il rimorso.

L'ho amata veramente e continuo ad amarla. Ma lei ormai crede che io sia null'altro che un meschino parvenu, e in ciò, paradossalmente, è alleata di mio suocero. Non posso fare nulla per cambiare questi giudizi se non opporre ad essi una verità, che per amore ho tentato di negare a me stesso.

Nonché dall'ambizione, dagli agi e dal denaro, la mia vita è segnata dall'incubo della fame originaria. E` un luogo comune affermare che non si vive di solo amore: ma io l'ho sperimentato sulla pelle, ché mia madre non aveva altro da offrirmi.



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Per tutta la vita, ha giocato con me come il gatto col topo. Era un uomo esuberante e fascinoso quanto io modesta, trepidante, chiusa a riccio nel ruolo di casalinga e di madre. Certo della mia infantile subordinazione, si è concesso ogni libertà. Non sempre con discrezione.

Per riscattarmi piu che per vendicarmi, ho sperato che, invecchiando, ammalasse, finendo preda delle mie cure. La sorte ha assecondato i miei propositi: alle soglie della pensione, un tenue tremore alle mani ha inaugurato una malattia che, nel giro di un anno, lo ha ridotto come un tronco d'albero rinsecchito. Aveva bisogno di essere accudito, imboccato, guidato per mano. Lo portavo con me a passeggio, in chiesa, al bar come un cagnolino, godendo degli sguardi pietosi della gente che, umiliandolo, esaltavano il mio sacrificio. Farfugliava spesse rimproverandosi le colpe commesse.

L'orgoglio però sopravvive anche all'arteriosclerosi. Da un giorno all'altro, ha rifiutato ostinatamente il cibo. Secondo i medici, è morto di cuore, ma io so che si è lasciato morire per sottrarsi alle mie cure.

Ora, il suo potere è infinito, poiché il vuoto che si è aperto nella mia vita è perseguitato giorno e notte dal suo fantasma rancoroso. Benché sano, il mio organismo non può sopravvivere ad una veglia perenne. Presto - ne sono certa - lo raggiungerò, e, se Dio è giusto, me lo affiderà per sempre.

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Perché non le è bastato il mio sacrificio? Per amor suo sono cresciuto debole, pallido e astenico come una donniciola. A ventidue anni, quando una donna si illuse di sottrarmi al mio destino, fu il mio corpo senza identità a tradirmi. Entrambe le mammelle si rigonfiarono secernendo un siero lattiginoso. La vergogna mi pose al riparo da ogni altra avventura. Consapevole d’essere senza scampo, tentai un velleitario suicidio, prima di rassegnarmi definitivamente. Sono rimasto accanto a mia madre come se rinunciare a vivere fosse stata una mia scelta.

Non ha capito nulla di me. Ora smania per ricongiungersi a mio padre, indifferente alla solitudine cui mi abbandonerà. Lo ha odiato per tutta la vita istillandomi l'odio di essere uomo. Di lui, però, ha bisogno, non della mia inetta fedeltà.



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Per vent'anni, non ha fatto altro che rifiutarmi; più mi asservivo aggrappandomi a lui e implorando briciole di amore, più si ribellava umiliandomi e respingendomi. Sono stata sciocca - o pietosa - a non capire che, per sentirsi libero, aveva bisogno di liberarsi di me ogni giorno. Quando è troppo intenso, e dunque imperscrutabile nelle sue logiche, l'amore confina con la sragione.

Dopo vent'anni, ho ceduto, sono andata via, lasciando scritto - suprema, crudele ingenuità - ch'ero disposta a soffrire le pene dell'inferno pur di dargli la pace,

Per non umiliarsi si è tolto la vita.

Lo confesso: mi sono sentita liberata da un incubo, e repentinamente certa di un amore che non si era mai espresso. Non era amore? Che importa. Adesso so che non poteva vivere senza di me.



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Per vent'anni sono vissuta sotto il giogo di un padre seducente, che, certo di possedermi totalmente, non mi concesse mai una carezza. Me ne affrancai con il matrimonio e la frigidità. Purtroppo, mio marito nulla ha capito di me. Insiste a compiacermi per ore, nonostante la secchezza del mio corpo lo irriti e lo estenui. Ho sempre intuito che, se mi avesse appena sfiorata, avrei raggiunto l'orgasmo. Purtroppo, egli ha preteso di curarmi, di accendere il fuoco laddove c'è, e ci sarà sempre, una fredda autonomia. Non se ne abbia a male, dunque, se frequento un adolescente la cui impotenza gli impedisce di penetrarmi, ma le cui mani inesperte producono un interminabile orgasmo.



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Procedo spedita, a testa alta, e lui mi segue a distanza come un cagnolino. D'improvviso, una vertigine mi fa sbandare e la vista si annebbia. Sono costretta a rallentare il passo e a tendere una mano in cerca di un sostegno. D'un balzo, nonostante la ruggine d'un'incipiente vecchiaia, mi è d'accanto e mi sostiene, premuroso e servile. Vertigine e nebbia scompaiono: lo allontano con un gesto altezzoso, che lo respinge, e riprendo il cammino, più spedita di prima. So che continua a seguirmi come un'ombra. Nella sua silenziosa fedeltà, non difetta l'insidia. Due volte in trent'anni sono stata costretta a volgere il capo per la paura che il silenzio segnalasse l'abbandono. Tanto gli è bastato.



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Quando lo incontrai, fui sciocca ad illudermi che l'amore sarebbe durato per sempre. Avevo quarantadue anni, ma ero avvenente, vitale, insensibile all'approssimarsi dell'autunno. Lui ne aveva la metà, ed era timido e inesperto come un fanciullo. Lo iniziai alla vita: scoperse con me il piacere e, per a1cuni anni, mi fu grato e fedele,

Il tempo poi compì la sua opera impietosa, devastando il mio corpo. Rimossi i primi segni di disaffezione, che ingenerarono però dei dubbi. Conoscendo la mia natura passionale, avrei dovuto guardarmi dall'indagare. Divenni invece sospettosa e possessiva.

Accadde quel che doveva accadere: scopersi che aveva un'altra donna, non bella ma giovane, dalla quale attendeva un bambino.

Amandolo, non avrei potuto fargli del male; essendo vigliacca, non trovai la forza di togliermi la vita, Guardandomi allo specchio, rinunciai ad esprimere una gelosia che mi avrebbe resa ridicola.

Gli concessi la libertà, ma lo supplicai di ingannarmi, di aiutarmi a credere che non era vero ciò che sapevo, di far finta, ogni tanto, di volermi ancora bene. La mistificazione a riuscita in maniera perfetta confermando che l'evidenza è nulla in confronto al bisogno di illudersi.

Quando mi si avvicina, sento che le sue mani pietose desiderano ancora un corpo che a me ripugna.



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Quante volte mi sono sentita come una bambina caduta in un pozzo, che nessuno veniva a salvare. Gridavo aiuto e, ogni tanto dall'alto cadeva un sasso.

Per ore e ore mia madre ha pianto davanti al televisore, finche non ne ho potuto più. Ho urlato quello che sentivo: era disumano farlo soffrire quel bambino. Se lo si voleva aiutare, bisognava mandargli giù un biberon col cianuro.

Mi ha chiamata serpe, ed io mi sono avvinghiata al suo collo per impedirle di sputare altro veleno.



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Ricchi entrambi per eredità, i miei si sono sentiti sempre in debito nei confronti del mondo, e hanno tentato di riscattarsi lanciandosi in opere di beneficenza e di assistenza sociale. Come se non bastasse il fatto di non aver tempo per i figli, hanno tentato di convincerci che la vita vale la pena di essere vissuta solo sotto forma di impegno sociale. Il privilegio di nascita - almeno per quanto mi riguarda - si è tradotto perciò in un duplice danno: l'aver avuto solo sulla carta un padre e una madre, e l'essere stata indotta a vergognarmi della mia condizione sociale, e, in fin dei conti, del desiderio di godermi la vita. Non so se per l'una o l'altra circostanza, fin dai nove anni cominciai a pensare al suicidio. L'ho tentato anche più di una volta, senza riuscirci (per viltà suppongo). Sono rimasta un'inetta, incapace di usare la vita a vantaggio mio o degli altri.



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Scoprire a 35 anni la verità è quasi intollerabilmente doloroso. Ho sempre pensato alla felicità nei termini di un’esperienza affettiva condivisa. Per questo mi sono sposata e, non avendola trovata, ho avuto il coraggio di separarmi e di mettermi con un altro uomo. Quando questi, dopo avermi promesso mari e monti, mi ha lasciato, il mondo mi è crollato addosso e una coltre di grigiore ha coperto la mia anima. La solitudine mi riusciva insopportabile, e sono vissuta in un lutto profondo fino a qualche tempo fa. E’ accaduto poi un evento casuale che mi ha restituito la verità. E’ uscito in libreria l’ultimo romanzo di un autore che amo. La notizia, che in passato mi avrebbe esaltato, mi ha lasciato fredda. A che vale - ho pensato - leggerlo senza poterne condividere la gioia con qualcuno. L’ho comprato per abitudine, e per varie settimane ha fatto compagnia alla mia solitudine. Un sabato, ravvolta nei miei pensieri grigi, l’ho preso tra le mani meccanicamente. Non mi sono neppure accorta di averlo aperto e di avere cominciato a leggerlo. Per tre ore sono rimasta ammaliata e stordita dal piacere, fuori del mondo. Al risveglio ho capito. La felicità del passato era solo una felicità di riflesso. Godevo affinchè l’altro potesse godere. Non mi sono mai autorizzata a godere autonomamente. Vivevo insomma in funzione dell’altro. Perciò anche soffrivo, smaniavo e ho contribuito a rendermi insopportabile. Perciò ho, senza volere, distrutto i rapporti. Condividerò la mia felicità quando essa sarà un capitale appropriato. Se ancora mi interesserà condividerla, ovviamente.



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Se qualcuno mi chiede l'accendino, perché non prestarglielo un attimo? Lo usa e me lo restituisce: non è mai capitato che ne cavasse più d'una fatua fiammella. Lo stesso accade con il corpo: a credere agli sguardi degli uomini, ne hanno bisogno e lo desiderano. Lascio che lo usino, come vogliono. Io non sono il mio corpo: sono la vergine che risiede in esso.



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Se i miei sapessero, morirebbero di crepacuore. Una figlia unica che è stata sempre il loro fiore all’occhiello, sposata con un uomo bello, ricco e importante che adorano, madre di due figlie ormai grandi, funzionaria di Stato, che si concede a cinquant’anni un tradimento passionale. Se sapessero, e lo sapesse anche mio marito, penserebbero che la menopausa mi ha tolto il senno.

La verità è che mi sono svegliata da un lungo sonno. Sono vissuta in una totale soggezione alle aspettative dei miei prima e di mio marito poi. In una sola circostanza, a vent’anni, mi ribellai innamorandomi di uno studente universitario sessantottino di lingua di lingua tedesca. Mio padre — attendente di un generale - aveva già provveduto a farmi fidanzare con un uomo scelto da lui: un aitante tenente di belle speranze. Quando gli comunicai che non intendevo sposarlo, per la prima e l’ultima volta fui picchiata.

Il matrimonio apparentemente è andato bene. Mio marito ha fatto carriera, e, dall’alto del suo charme, mi ha assegnato un ruolo di rappresentanza. Per quanto elitario, l’ambiente diplomatico mi ha fatto sempre schifo. Gli uomini sono burocrati, le donne non sanno parlare d’altro che di abiti firmati e di luoghi di vacanze.

Nell’intimità, poi, mio marito — incredibile a dirsi — ha avuto sempre dei problemi. Il suo rapporto con i subordinati mi ha indotto più volte il dubbio di un’omosessualità latente.

Mi ero arresa alle forme allorchè, alcuni mesi fa, il mio primo amore mi ha scritto chiedendomi di vederci. Dopo trent’anni, abbiamo scoperto che il filo della passione non si era interrotto. Lui è rimasto lo stesso: i capelli lunghi, ma ancora biondi, l’abbigliamento casual, un lavoro precario, la volontà di non integrarsi. Ma è vivo, santo Iddio, spontaneo e soddisfatto di sé. Non è cresciuto, ma proprio per questo il suo sguardo di adolescente ha dissolto il gelo in cui sono vissuta.

Se i miei sapessero, morirebbero di crepacuore. So che non me ne farei una colpa: per vivere in pace mi hanno sacrificato sull’altare dei loro pregiudizi.

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Pensa che io sia all’oscuro di tutto, e va bene così. L’ho sposata per coprire il mio ‘vizietto’, e per non correre troppi rischi ho scelto una donna bene educata e non molto attraente. L’ho resa infelice. Adesso è giusto che si vendichi con l’uomo che ama e che ha sempre amato. Questo mi affranca dal dovere coniugale al quale mi sono piegato malvolentieri per coprire la mia doppia vita. Nessuno saprà mai nulla. Se si venisse a sapere, poi, lei sarebbe giudicata pazza e io un buon marito capace di perdonare e di tenerla ancora accanto a sé.



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Si addormenta accanto a me come un fanciullo, incurante di un pericolo che ignora e che non posso confessare. Lo veglio terrorizzata che il suo essere indifeso possa indurmi a realizzare le fantasie che, da sempre, pervadono la mia insonnia.

Più volte, nel corso della notte, lo sveglio, accampando la scusa di invidiare il suo riposo. Quando, al mattino, si alza con gli occhi pesti per il dormiveglia che gli impongo mi assopisco tranquilla, ché non posso fargli del male.

Ma - infine - l'odio che squassa le mie notti è rivolto contro di lui o contro il bisogno, umiliante e totale che ho di lui?

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Mi distruggerà. Vive aggrappandosi a me - durante il giorno mi telefona infinite volte sul lavoro scongiurandomi di soccorrerla - e tormentandomi la notte.

Non mi sento amato di giorno più di quanto mi senta odiato di notte. So di essere colui che la protegge e la vincola. Perché non si libera di me? Perché non mi libera?



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Una coppia male assortita secondo tutti: io femminista, trasgressiva, comunista; lui un impiegato di banca tradizionalista, conservatore, legato alle forme. Dopo avergliene fatte vedere di tutti i colori, cedetti alla sua corte insistente ma sottile. Col matrimonio avvenne in me un sorprendente cambiamento. Mi ritrovai calata nel ruolo di casalinga, di moglie e di madre e scoprii, non senza sorpresa, di sentirmi non solo a mio agio ma di non desiderare altro. Rinunciai perciò ad un lavoro creativo che, a detta di tutti, mi avrebbe assicurato il successo. Dopo un anno — ero incinta del primo figlio - lui divenne quasi del tutto impotente. Ne avessi avuto la forza, avrei dovuto lasciarlo. Invece, frustrata e umiliata nella giovinezza e nell’ amore, rimasi al mio posto. Gli ho scaricato addosso una rabbia terribile per vent’anni. Ho assistito al suo travolgente successo professionale, adeguandomi ad un’agiatezza alla quale non saprei rinunciare. Ho pensato di tutto riguardo al disturbo che ci ha rovinato la vita. Ma non sarei mai potuta giungere ad una verità che egli ha confessato solo di recente. L’impotenza è relativa. Con altre donne è riuscito a fare l’amore ma sempre e solo in situazioni trasgressive. Ciò che lo ha bloccato è l’essersi trovata accanto una donna del tutto diversa da come apparivo: in breve una moglie. Ciascuno di noi era una medaglia a due facce. Col matrimonio si sono rovesciate.


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Non ci si affanni a capire. La vita scorre come un fiume neghittoso sulla cui superficie repentinamente, di rado, si formano dei vortici. Una pagliuzza, giunta lì perché incapace di opporre resistenza, scompare nel gorgo. Che importa?

All'alba, ai piedi del letto, ha preso forma il mio destino. Un molle ovale che interseca, quasi fratturandosi, la giuntura del parquet. L'ombra si prolunga in un filo che svanisce nel nulla. Attendo immobile che l'incerta luce dell'alba decida di me.

Squilla il telefono. Stacco la spina. Il trillo continua a rimbombare disperato dentro di me. Una voce, anonima, mi scongiura di continuare ad esistere. Sono il cappio di cui ha bisogno per infilarselo al collo e urlare di gioia quando, all'ultimo istante, riesce a scampare. Chi sarà mai?

La luce, interferita da un sottile velo di nuvole bianche, stenta ad avanzare. Chiudo gli occhi e, nel dormiveglia, mi abbandono ai ricordi.

La nebbia, che diventa sempre più fitta via via che retrocedo nel tempo,mi impedisce di fissare il momento in cui intuii di albergare, sotto le apparenze innocenti, una natura demoniaca. Di sicuro, ne presi coscienza piena a vent'anni. Mio padre, ancora giovane, era moribondo in ospedale, assistito dalla moglie. Rimasta sola, organizzai a casa una festa invitando amici, conoscenti e sconosciuti. Inebriata dall'alcool, ballai sino all'alba nello sbigottimenti di coloro che sapevano di mio padre. Quando andarono via tutti, la casa era devastata. Nella tarda mattinata, appresi che mio padre, dopo aver rantolato tutta la notte, stava per finire. Non provai nulla, tranne che l'atroce gioia di non essergli stata accanto.

Il ricordo si è risvegliato stamattina. La monocamera in cui vivo da sola è in uno stato penoso di abbandono. Abiti, biancheria, libri e riviste sono sparsi ovunque. Sulla scrivania, c'è la busta del latte e i resti della frutta con cui, forse, ho cenato ieri sera. O l'altra, o l'altra ancora. Da quanto tempo mi sono ritirata nella cella della morte?

A ventuno anni avevo già imboccato la via giusta, perdendo il sonno, l'appetito e la voglia di vivere. Smagrii, persi i capelli e, per sei mesi, il sangue non mi visitò più. Esploravo con gioia nello specchio l'immagine raggrinzita che, finalmente portava alla luce, quello che ero dentro. Le medicine, il tempo, il caso furono inclementi. Agli occhi degli altri, tornai ad essere me stessa.Ero un'altra invece, perché avevo gustato il dolce nettare dell'annullamento.

Tentai invano di rimanere come sarei dovuta essere: una bambola caricata a batteria. Il demonio ha tentato di infondermi la vita, di risvegliare il corpo e l'anima dal sogno dei miei di cui sarei dovuta rimanere prigioniera. Non ha tenuto conto che, ad ogni risveglio, il dolore di non essere vissuta mi spingeva a diventare preda degli altri.

A venticinque anni, sposandomi, tentai l'azzardo di diventare normale senza esserlo. Da una docile subordinazione a mio marito e alla sua famiglia affondai in un'inerzia passiva. Non è un caso che il mio ventre sia rimasto sterile, né che mio marito non si sia arreso a perdermi. Quando mi sono ribellata, drogato della mia dipendenza, ha preso a perseguitarmi. Liberando me stessa, libero anche lui.

Ora mi sento innocente. Il mio corpo nudo e magro sotto le lenzuola appare quello di una bambina. Nessuno approfitterà più di me, a nessuno farò pagare il prezzo di avere approfittato di me.

Non più angelo né demonio, né serva né padrona, né maschera né vuoto. La luce ormai è alta. L'anello del cappio è ben sostenuto dalla corda che appare salda controluce. Non è tempo di indugiare. Qualcuno pensi alla gattina, che rimarrà con gli occhi sbarrati vedendomi, infine, penzolare dalla mia libertà.

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Andando a raggiungere suo padre, mia figlia non ha lasciato per me neppure un biglietto. Sul tavolo c'era solo un'agenda scarabocchiata. Solo due pagine erano nitide. Su una era scritto:"Sul ballatoio della casa ove ho trascorso l'infanzia, una finestra si spalanca. Due mani avvolte in guanti di gomma scaraventano fuori un gattino bagnato e tremante. Con gli occhi smarriti avanza a sghimbescio verso l'inferriata e precipita nel vuoto: Assisto sgomenta all'evento. Tutto avviene in silenzio.". Sull'altro:"Sono sul banco degli imputati di fronte ad un tribunale che non consente di sperare nella clemenza. Di cosa mi si accusa? Non so né posso saperlo. La sentenza, appena sussurata, mi obbliga a subire l'asportazione totale dell'utero e delle ovaie. Purtroppo esulto, e la pena viene rimandata sine die. E' una punizione o una liberazione?" il medico di famiglia dice che, quasi di sicuro, si tratta di sogni. Chissà che significano.