STRUTTURE PSICOPATOLOGICHE


Introduzione alla lettura (2003)

Dopo due anni di ricerca, sulla scorta dell'identificazione dei due bisogni (d'integrazione sociale e d'ndividuazione) fondamentali nell'evoluzione della personalità e nella sua strutturazione conscia e inconscia, i tempi sembravano maturi per delineare un modello psicopatologico dinamico e dialettico. Per un verso, infatti, la teoria dei bisogni, con la tensione ad essi intrinseca, forniva uno strumento concettuale molto utile per capire il formarsi di un conflitto strutturale in conseguenza di un'interazione con l'ambiente che ne produceva la scissione e l'alienazione. Per un altro, la stessa teoria, implicando il riferimento ad un bisogno di socialità primario estremamente potente, la cui prima espressione poteva essere ricondotta all'interiorizzazione dei valori culturali, consentiva d'intravedere immediatamente il nesso tra soggettività e storia sociale.

I tempi, però, come riesce evidente dalla lettura del Seminario, non erano maturi. La genesi e la dinamica del Super-io, vale a dire della funzione psichica che si edifica sulla base della sensibilità sociale, fa propri, in nome della società che rappresenta, i valori interiorizzati, e li mantiene in vigore in conseguenza della sua capacità di produrre sensi di colpa, erano sufficiente chiare. Il bisogno d'individuazione, invece, per quanto riconosciuto nella sua importanza, rimaneva astratto, configurandosi, sulla scorta di Jung, semplicemente come una spinta verso la differenziazione di un'identità dotata di una volontà propria e di valori culturali assimilati, personalizzati. Che su questo bisogno dovesse necessariamente edificarsi una funzione psichica in tensione dialettica rispetto al Super-io era implicito e intuito, ma non teorizzato. Difettava, insomma, il riferimento all'Io oppositivo e antitetico, che ha preso corpo solo successivamente e che, come ho scritto anni dopo in Star male di testa, rappresenta il contributo più originale, sotto il profilo psicologico e psicopatologico, del modello struttural-dialettico.

Questa carenza incide pesantemente nell'organizzazione concettuale del seminario per tre aspetti.

Il primo riguarda il concetto di struttura psicopatologica, che, in assenza del riferimento alle funzioni psichiche (il Super-io e l'Io antitetico) che, opponendosi reciprocamente, strutturano il conflitto di base tra appartenenza sociale e individuazione, volontà altrui e volontà propria, essere per l'altro e essere per sé, rimane poco definito. L'intuizione che la strutturazione di un conflitto psicodinamico, che muove dalla scissione dei bisogni fondamentali, definisce, a livello inconscio, un recinto mentale che determina l'esperienza del soggetto, riducendo la sua libertà fino al limite dell'azzeramento è, comunque, un'intuizione di grande portata. Essa assumerà il suo pieno valore solo quando, negli anni successivi, sarà chiaro che le funzioni psichiche del Super-io e dell'io antitetico rappresentano, a livello inconscio, soggettività autonome rispetto all'io, dotate ciascuna di una logica, un sentire, un pensare, un orientamento comportamentale specifico.

Il secondo aspetto riguarda l'insistenza sulle valenze ideologiche intrinseche ad ogni esperienza soggettiva e in particolare di quella psicopatologica. Da questo punto di vista, il seminario sulle strutture psicopatologiche risente dell'influenza di uno che lo precede (Il diagio psichico come vicolo cieco ideologico). Oggi non utilizzerei più il termine ideologia, perché esso è inflazionato. Nel 1984 lo usavo per sottolineare che la soggettività, in tutti i suoi aspetti, consci e inconsci, è infuenzata dalla cultura. L'io ha una sua visione del mondo, alla luce della queale interpreta anche i sintomi e la sofferenza che vive. Il super-io e l'io antitetco non hanno una visione del mondo: fanno semplicemente riferimento a dei valori culturali che privilegiano, rispettivamente, l'appartenenza sociale e la libertà individuale. E' ovvio che tali valori, essendo culturali, fanno capo ad un'ideologia, ma, tranne i casi in cui l'io si allea con il super-io o con l'io antitetico, costruendo, in conseguenza di quest'alleanza, una visione del mondo, l'ideologia in questione è esterna al soggetto, appartiene alla storia sociale.

Il terzo aspetto concerne il riferimento all'equilibrio strutturale. All'epoca, ritenevo ingenuamente, per effetto dell'influenza di Jung, che l'inconscio tendesse naturalmente verso l'equilibrio. Penso ancora oggi che ciò sia vero, ma in termini psicobiologici. L'inconscio, in sé e per sé, è animato da un bisogno primario di felicità. Esso però si struttura culturalmente nel corso dell'evoluzione della personalità e, laddove subentra una scissione tra i bisogni fondamentali, deve fare i conti con spinte, legate al super-io e all'io antitetico, che sono conflittuali. E' vero che, nelle esperienze psicopatologiche, è facilmente comprovabile un principio compensativo, che permette di comprendere le fluttuazioni più o meno intense degli stati d'animo, dei vissuti e dei comportamenti. In presena di un conflitto, però, tale principio si realizza adialetticamente, con effetti a livello cosciente che sono squilibranti più che equilibranti. Questo è vero almeno finché la coscienza non riesce a capire quello che sta avvenendo al di sotto di essa.

Nonostante questi limiti, che attestano il carattere proprio di una ricerca la quale, per approssimarsi alla verità, paga necessariamente un prezzo in termini di imprecisioni, intuizioni confuse, errori, il seminario è importante perché le microstorie in esso riportate sono, oltre che dettagliate, molto suggestive. Non convaliderei oggi tutte le interpretazioni che vengono fornite, ma il rapporto tra soggettività e storia sociale mi sembra documentato inconfutabilmente. Questo era l'obiettivo primario della ricerca, e, all'epoca, si può ritenere raggiunto.


LE STRUTTURE PSICOPATOLOGICHE.

  1. Introduzione
  2. Le strutture psicopatologiche come visioni del mondo
  3. La struttura isterica
  4. La struttura ossessiva
  5. La struttura ipocondriaca
  6. Excursus sul problema delle nevrosi e delle psicosi
  7. La struttura maniaco-depressiva
  8. La struttura delirante
  9. L’universo psicopatologico come sistema strutturato
  10. Tragitti esperienziali nell’universo delle s.p.:

Per non concludere


Introduzione

Non è un caso che questo seminario sulle strutture psicopatologiche è preceduto da una nota sull’ideologia basagliana. Il contributo epistemologico fondamentale di Basaglia - i cui meriti storici sono fuori discussione - consiste nell’aver portato alle estreme conseguenze la scissione, ch’egli ha introdotto, tra le due facce del disagio psichico: quella sociale, in cui si riflette il gioco delle reti istituzionali, reali e/o ideologiche, che la forzano ad essere ciò che esso deve essere – una malattia da estirpare dal corpo sociale come un tumore maligno-; e quella reale, in cui si esprime il dramma di una soggettività carica di bisogni ma incapace di esprimerli secondo modalità comunicative socialmente significative. Secondo Basaglia, per le contraddizioni intrinseche, che sono una conseguenza dell’oppressione istituzionale, la faccia reale del disagio psichico è inconoscibile e, pertanto, va messa tra parentesi: solo quando saranno rimosse le incrostazioni istituzionali che la celano, e la falsificano, potremo sperare di valutarla per ciò che essa è in sé e per sé. Assumendo questo punto di vista, ogni teoria psicopatologica va squalificata, poiché essa, inesorabilmente, cerca di contrabbandare come reale, come costitutivo del disagio, ciò che è sociale. La teorizzazione, se pure ha senso, deve essere subordinata ad una pratica sociale totalmente votata alla lotta contro le logiche istituzionali alienanti.

Il discorso basagliano ha una coerenza che lo rende quasi inconfutabile. Ma esso ha un punto debole, denunciato da una categoria - quella dell’oppressione - che, estrapolata dal contesto in cui essa ha un significato specifico, e in una certa misura scientifico – contesto dei rapporti di potere tra gli uomini -, diventa ideologica, nel senso che maschera, con le sue valenze semantiche suggestive, un difetto di sapere. Quella categoria, infatti, nulla ci dice degli infiniti modi in cui, al di fuori dei circuiti di psichiatrizzazione, l’oppressione si esercita, nulla dei modi in cui essa viene vissuta, partecipata ed interagita dai soggetti che giungono ad esprimere un disagio psichico.

Il difetto di sapere riguarda, insomma, i nessi tra strutture sociali e strutture esperienziali soggettive, che vengono implicitamente assunti nell’ambito di un’ideologia che è quella del determinismo culturale. Ciò offre il fianco del discorso basagliano a due aporie. Se l’oppressione si intende come un dato costitutivo della società (ovviamente, la nostra) e come un dato disumanizzante, è la salute mentale, la ‘normalità’, che significa, per alcuni, consenso ed accettazione dello status quo ma anche, per altri, opposizione, lotta e volontà di cambiamento, a configurarsi come un problema indecifrabile. Se, viceversa, l’oppressione viene assunta come una variabile, l’affiorare del disagio in contesti partecipati da soggetti che non ammalano lascia pensare ad una qualche predisposizione genetica.

Cacciato dalla porta ideologicamente, il problema psicopatologico o, se si vuole, il problema dello ‘specifico’, della genesi, della dinamica e della struttura del disagio psichico, rientra dalla finestra con il suo carico di provocazione scientifica: come problema, insomma, che impone ad una nuova scienza del disagio psichico di farsene carico. Ma come?

Il titolo stesso del seminario offre un suggerimento. Il termine ‘struttura’ non è impiegato per caso: esso definisce forme di esperienze soggettive caratterizzate da una logica interna e da una coerenza intrinseca che si impongono alla volontà e alla libertà dei soggetti, frustrandole, con l’unica eccezione dell’eccitamento maniacale, che però è solo apparente, poiché, se non soffre di costrizioni della libertà, il soggetto in eccitamento soffre della costrizione ad essere libero.

Se si prescinde da una presunta malattia che in esse si esprimerebbe sintomaticamente, il riconoscere l’esistenza delle strutture psicopatologiche non implica alcun cedimento clinico: esse, infatti, in quanto forme di organizzazione del mondo interno e di quello esterno, sono null’altro che visioni del mondo che, una volta prodotte, funzionano come vicoli ciechi ideologici entro i quali i soggetti, ciascuno con il suo carico di storia personale, si muovono alla ricerca di soluzioni impossibili.

Quest’affermazione, che risulta immediatamente comprensibile in riferimento ad un delirio strutturato – che è, per definizione, una visione del mondo -, può sorprendere nei casi in cui il disagio si riduce ad un sintomo, per es. ad una fobia. Vedremo però che essa può essere confermata: qualunque sintomo picopatologico è la punta di un iceberg, il cui corpo è la struttura. Assumere le strutture psicopatologiche come visioni del mondo induce naturalmente a porsi il problema di ciò che, rispetto alle visioni del mondo nomali, le qualifica. Il criterio della chiusura e della staticità è importante ma non decisivo, poiché esso, per l’appunto, è comune a molte visioni del mondi che non coincidono con un disagio psichico. Il problema, a mio avviso, sta nel rapporto tra soggettività e struttura.

Mentre la normalità, la si voglia pur definire pseudonormalità, implica una concordanza, in virtù della quale il soggetto sente, a torto o a ragione, che la sua visione del mondo rappresenta una soluzione ai problemi che gli si pongono, il disagio si caratterizza per il fatto che il soggetto, sentendosi intrappolato nella struttura, non riconosce in essa la soluzione dei problemi, ma il problema, un limite arbitrario ed assurdo della sua libertà. Sicché il suo porsi in rapporto alla ‘gabbia’ psicopatologica è costantemente caratterizzato dalla volontà di disarticolarla e di evaderne. Le ‘crisi’ nel corso delle quali questa volontà si realizza, con il loro carattere disorganizzante sembrano contestare la funzionalità strutturale dell’esperienza psicopatologica: ma la destrutturazione che esse inducono è l’immagine speculare e rovesciata delle strutture da cui muovono e che le sottende, tant’è che il più spesso il loro esito è di reintegrarle.

Accettare il punto di vista secondo cui le strutture psicopatologiche, in quanto visioni del mondo, rappresentano modelli coerenti di soluzioni di problemi, è un paradosso che impone ulteriori considerazioni.

Si tratta, anzitutto, di soluzioni inadeguate in rapporto ai bisogni fondamentali, comportando esse o una chiusura al mondo relazionale o/e una dipendenza mortificante. Ma quest'inadeguatezza assume il suo significato funzionale se viene posta in rapporto alla conflittualità irriducibile che, nel corso di una vicenda umana, si è definita tra bisogni di individuazione e bisogni di integrazione sociale.

La struttura psicologica come soluzione è, dunque, inadeguata di fatto, poiché coincide con uno stato di sofferenza, ma essa, almeno su un piano logico, appare l’unica possibile se si ricostruiscono i problemi con cui il soggetto si è confrontato nel corso della vita e gli strumenti di elaborazione di cui dispone o che ha adottato. Soluzione altamente ideologica, essa corrisponde ad un processo di ideologizzazione dell’esperienza soggettiva, che è giunto a fuorviare il soggetto in rapporto al suo corredo originario di bisogni. E’ a questa alienazione di bisogni che la struttura psicopatologica tenta di rimediare.

Mi rendo conto che quanto affermato, nonché paradossale, è anche irritante. Purtroppo, che sia vero è attestato meno da arbitrii interpretativi che dalla coscienza stessa del soggetto, la quale, formulando il suo progetto di ‘guarigione’, rivela spesso, ad un livello di evidenza, i motivi per cui non può guarire. Partire dall’ideologia cosciente della malattia e della ‘guarigione’ o, nei casi in cui la malattia viene negata, dalle ideologie del vivere è il modo migliore per comprendere la funzionalità della struttura psicopatologica.

Ma questo assunto – che, per alcuni aspetti, è epistemologicamente rivoluzionario - postula il concorso della prova, che si cercherà di fornire successivamente.

Per ora, importante è ribadire che il problema psicopatologico consiste nel restaurare, a partire da verità alienate nelle strutture psicopatologiche, una vicenda umana il cui corredo di bisogni è stato prima mortificato e conflittualizzato dalle istituzioni pedagogiche, e poi, a partire da una certa epoca dello sviluppo, dal soggetto stesso in virtù della formulazione di un progetto di vita che ne riconosce solo alcuni e ne misconosce altri, ed è pertanto mortificante. A questo difetto di verità e di fedeltà a se stessi, la struttura psicopatologica tenta di ovviare, inibendo la realizzazione di quel progetto e cercando di conservare bisogni irrinunciabili ma misconosciuti.

Questo modo di porre il problema psicopatologico ricadrebbe facilmente nei lacci dello psicologismo, se non si dimostrasse che le distorsioni soggettive – sia quelle prodotte dalle interazioni ambientali che quelle riconducibili all’elaborazione soggettiva - non sono puramente psicodinamiche, ch’esse sono provocate ed alimentate da quadri mentali collettivi che rendono paurosa o mostruosa e, in fin dei conti, irrecuperabile la verità. Rispetto ad altri modi di porre il problema psicopatologico, è chiaro che il nostro postula una ricostruzione genetica d’una vicenda umana, poiché si dà per scontato che la struttura è solo un esito della storia personale. Se la struttura implica significativamente i problemi irrisolti, è nella genesi la chiave della struttura. Una psicopatologia adeguata a una nuova scienza del disagio psichico si può, dunque, definire con il termine di strutturalismo dinamico, nel senso che essa muove dalla struttura, intesa in senso funzionale, e, in virtù del metodo microstorico, ne ricostruisce la genesi.

Rispetto al riduzionismo di marca psicologista e sociologista, quest'approccio sottolinea l’attività del soggetto nel costruirsi una visione del mondo a partire dai dati dell’esperienza vissuta e degli strumenti di elaborazione che egli possiede. Visione del mondo che, quand’anche diminuisca di fatto il suo potere, non è riducibile né ad un gioco di fantasmi né ad un’oppressione subita passivamente.

E’ proprio la valutazione dell’attività soggettiva che fonda la possibilità, qualora al soggetto sia offerta l’occasione, di una rilettura della sua storia personale e di una ristrutturazione della sua visione del mondo. Con ciò non si intende attribuire al soggetto, in sé e per sé, una sorta di onnipotenza che gli può permettere, quale che sia la situazione in cui egli si trova, di cambiare. Il potere della soggettività è misurabile in termini di potere reale, intellettuale e sociale: e ciò quand’anche esso sia frustrato dal disagio psichico. In altri termini, le possibilità di guarigione non discendono mai dalla struttura psicopatologica, bensì dal potere reale del soggetto.

Ciò significa che il sociale non è affatto escluso da un approccio che privilegia la soggettività. Radicalmente coinvolto nella genesi del disagio in quanto milieu nel quale avviene la costruzione della personalità, esso, purtroppo, è decisivo anche in rapporto alla ‘guarigione’. Ché, se è vero che sono le stesse potenzialità mentali che producono il veleno psicopatologico a poter produrre il farmaco, non è meno vero che l'uso terapetìutico di tali potenzialità è imprescindibile dall’attrezzatura della coscienza e della situazione sociale in cui essa si trova immersa. Non deve dunque sorprendere se proprio l’assumere la struttura psicopatologica come un tentativo di conservare possibilità di ‘guarigione’ porta ad affermare che la malattia vera è la miseria – economica, sociale, culturale -, poiché essa può rendere sterile e insignificante quel tentativo, trasformandolo in sacrificio di sé e dei propri bisogni, in cronicità


Le strutture psicopatologiche come visioni del mondo

Quanto si è detto, implica che le strutture psicopatologiche possono essere analizzate formalmente, come ideologie o visioni del mondo, indipendentemente dalle storie soggettive che in esse esitano e con esse convivono. Si tratta, ovviamente, di un’astrazione teorica, la cui utilità consiste nel rendere trasparente la funzionalità di quelle strutture in rapporto a problemi che, per come si pongono e per gli strumenti di elaborazione che vengono ad essi applicati, appaiono altrimenti insolubili.

Quest'astrazione va, però, presa nel suo giusto senso, che non coincide affatto con un approccio di tipo fenomenologico-esistenziale. Il termine stesso di struttura è esplicito a riguardo. I vissuti, diversi a seconda dei soggetti, ci interessano meno di ciò che, a livello dinamico, li anima e li sottende, costringendoli entro recinti invalicabili se non in virtù di una rilettura della storia personale e di una ristrutturazione dell’esperienza. Come ogni formalizzazione, anche la nostra non muove dai dati immediati, bensì da presupposti teorici. Giunti a questo punto della ricerca, questi dovrebbero essere noti, ma vale la pena di riassumerli brevemente:

    ogni struttura psicopatologica, quale che sia il vissuto di sofferenza ch’essa comporta, rappresenta una condizione di equilibrio minimale, un tentativo di soluzione di problemi carichi di valenze destrutturati, e quindi tali da comportare la paura di una radicale esclusione e/o inclusione sociale;

    i problemi che sottendono una struttura psicopatologica sono sempre riconducibili ad un conflitto tra bisogni di individuazione e bisogni di integrazione sociale giunto, nel corso dell’esperienza soggettiva, a configurarsi come adialettico;

    la configurazione adialettica di questo conflitto è resa riconoscibile da indizi costantemente presenti nella struttura psicopatologica che alludono ad un’ immagine interna negativa di sé, la quale, nelle sue configurazioni estreme, si pone o nei termini di una paurosa inadeguatezza ad essere autonomi, e cioè capaci di autoregolare la propria libertà, o nei termini di una libertà incontrollabile, anarchica e ‘mostruosa’;

    ad ogni struttura psicopatologica la coscienza oppone un’ideologia della ‘guarigione’, che rivela un progetto di realizzazione di sé preesistente alla cattura psicopatologica, il quale, posto in rapporto alla storia personale, risulta inadeguato a risolvere problemi che l’individuo si è trovato ad affrontare. Ciò significa che l’ideologia della ‘guarigione’ è meno un effetto che una causa della struttura psicopatologica;

    ogni struttura psicopatologica esprime la tendenza autocorrettiva della mente, intesa come patrimonio esperenziale globale, rispetto ad un progetto, più o meno cosciente, la cui realizzazione porterebbe l’individuo fuori strada rispetto al suo corredo di bisogni originari e all’insieme di possibilità che essi rappresentano.

Le strutture psicopatologiche che considereremo sono quelle che la tradizione, incapace di apprezzarne sia la forma di visione del mondo sia la funzionalità, ha recepito solo nosograficamente, e cioè come insieme di sintomi. Adotteremo senza difficoltà un linguaggio carico di valenze pregiudiziali, prescindendo solo dalle abusate categorie di nevrosi e psicosi. Parleremo dunque di strutture psicopatologiche isteriche, fobico-ossessive, ipocondriache, depressive, maniacali, deliranti, nelle quali ci sembra di risolvere l’universo psicopatologico, specificando solo che le esperienze vissute solo raramente sono confinate nell’ambito di una struttura: i tragitti del disagio spesso attraversano due o più strutture. Da solo, questo dato, che cercheremo di documentare, toglie significato ad ogni approccio nosografico.

Un altro punto sul quale, preliminarmente, vale la pena di insistere è che, se si ricostruisse l’universo psicopatologico come un insieme di forme di esperienze, si riconoscerebbe agevolmente un’intersezione che è rappresentata dalla struttura ossessiva, caratterizzata dalla opposizione irriducibile tra bisogni di integrazione sociale, e cioè di autoregolazione e di moralità, alienatisi nelle forme di una dittatura interiore che l’individuo avverte come totalmente estranea alla sua volontà. Già più di una volta, si è detto che la struttura ossessiva è la chiave della psicopatologia. Vale la pena di insistere, ribadendo che senza una strutturazione ossessiva della personalità non può darsi disagio psichico, e che essa, dunque, è sempre latente quale che sia la forma che assume il disagio stesso. Perché, a partire da un’unica chiave dinamica, il disagio assume forme diverse, è un problema teorico non insignificante, del quale, forse, successivamente, varrà la pena di interessarsi.

Per ora, procediamo, con gli strumenti sinora elaborati, nel giardino dei sentieri che si biforcano dalle strutture.


La struttura isterica

La struttura isterica tenta di risolvere il problema di una ‘sensibilità’ affettiva incontrollabile, la cui pericolosità è identificabile negli effetti di intrappolamento relazionale che essa, lasciata libera, produrrebbe. La matrice della struttura isterica, insomma, è una perpetua schiavitù d’amore, penosa e per la completa dipendenza ch’essa definisce e per i pericoli di delusione cui espone.

La soluzione strutturale è una sorta di anestesia affettiva, che, però, per non tradursi in un gelo interiore fatale, va compensata periodicamente da eccessi di dolore, il cui significato è di confermare la persistenza della sensibilità.

L’inadeguatezza della soluzione è evidente, poiché essa comporta solo due registri di sensibilità: il nulla ed il tutto. Ma è altrettanto evidente la funzionalità della struttura in rapporto al problema di una sensibilità affettiva che si pone come incontrollabile, e che deve pertanto essere ipercontrollata senza, peraltro, andare perduta del tutto. Rilevare il riferimento immediato della struttura isterica alla sfera affettiva, non deve indurre a fatui psicologismi. L’affettività si configura drammaticamente in rapporto ad un conflitto tra bisogni fondamentali, che è irriducibile perché il bisogno di individuazione sembra potersi affermare solo in virtù di una negazione dei legami, mentre quello di un integrazione sociale tende ostinatamente verso la perdita di sé nell’abbandono totale all’altro.

Il conflitto è riconoscibile nella struttura psicopatologica poiché esso comporta una radicale dipendenza dagli altri che sembra solo strumentale: la struttura postula insomma una sorta di sfruttamento dei legami, cui non corrisponde, il più spesso, alcun'evidente partecipazione affettiva. L’accusa che viene dagli altri di egoismo, insensibilità, indifferenza, cinismo non fa che mettere in luce l’immagine interna che è la matrice strutturale. Benché densa di sensi di colpa, quest’immagine interna è alimentata di continuo perché essa fa da corazza ad una tenerezza di cuore che viene vissuta come tendenza alla dissoluzione di sé negli altri. L’aumento progressivo dei sensi di colpa comporta spesso uno spostamento della dinamica relazionale sul registro della corporeità e della sessualità. L’angoscia per l’immagine interna diventa pertanto angoscia puramente estetica, e la soluzione dell’angoscia consiste in un tentativo perpetuo di conferma che comporta un atteggiamento relazionale deduttivo. Ma, ovviamente, la sessualità, che sembra impregnare ogni relazione, non può essere che minata: essa cioè viene usata nella misura in cui può promuovere la seduzione, e rifiutata a livello relazionale reale. Ogni relazione comporta infatti il rischio dell’assoggettamento.

L’ideologia della coscienza oscilla di continuo tra il vedere la guarigione in un definitivo congelamento degli affetti – tanto che l’isterico spesso si augura di diventare veramente duro di cuore e cinico -, e il progettarsi in una mitica relazione all’interno della quale il cuore potrebbe esprimere tutta la sua passionalità senza timore di rimanere intrappolato o di essere manipolato dall’altro. Ma quest’ideologia, che attribuisce al ‘cuore’ una naturale ineducabilità, per cui gli affetti possono essere solo mortificati o espressi in termini di irrazionalità passionale, è proprio il modo di vedere che rende funzionale e necessaria la struttura isterica. All’interno di questa, le mente esprime la sua tendenza autocorretiva in due modi: producendo emozioni intense, dolori fisici e psichici folgoranti, quando l’esperienza di orienta verso l’anestesia totale; e, viceversa, impedimenti funzionale – anestesia e paralisi - quando l’esperienza si orienta verso una totale perdita di controllo affettivo (e /o erotico).

La struttura isterica è una visione del mondo – interiore e relazionale - che si articola a partire da un nucleo problematico universale, che riguarda l’educabilità o la sostanziale irrazionalità degli affetti, l’essere cioè l’emotività una dimensione esperienziale che può essere integrata a livello razionale o solo contrastata o mortificata, e il rapporto di potere o di impotenza che discende dall’uno o dall’altro corno del dilemma.

E’ evidente che ciò che rende funzionale la struttura isterica è il fatto di assumere come dato di natura ciò che è un dato di cultura: il ruolo del ‘cuore’ nell’integrazione della personalità e delle relazioni sociali. E’ altresì evidente che questa confusione deriva da un vissuto esperienziale che naturalizza, e cioè assume come dato immediato di esperienza, ciò che è un dato culturale: il vivere l’infanzia, con i suoi squilibri affettivi e i suoi eccessi di misura, non come una fase evolutiva, bensì come l’espressione di una debolezza costitutiva della natura umana, come una condizione di abiezione e di vergogna che, anziché essere integrata, va radicalmente risolta

Questo dato, ovviamente, non esiste nell’orizzonte psicologico dell’infanzia: ma può esservi acquisito in conseguenza di un'esperienza infantile disagiata, fino al punto di essere partecipato e vissuto. In rapporto a ciò, la struttura isterica pone rimedio ad una regressione che farebbe ricadere nell’abiezione originaria, e, al tempo stesso, frustra la possibilità che il divenire adulti e autonomi si realizzi in virtù di un’anestesia totale.

Vale la pena di rilevare che, nei termini esposti, la struttura isterica va ben al di là del disagio – definito come nevrosi isterica - in cui essa si esprime in maniera manifesta. Molteplici aspetti della vita interore e relazionale attribuiti alla ‘schizofrenia’ (nelle pretese varianti simplex ed ebefrenia) sono riconducibili infatti alla struttura isterica, e, in particolare, alla possibilità che essa veicola di polarizzare l’esperienza sui registri dell’anaffettività o della dipendenza totale. Ma, con la sua problematica universale, la struttura isterica partecipa, in qualche modo, a tutte le esperienze di disagio psichico.

Il rapporto con la struttura-chiave sembra oscuro. Ma è ricostruibile con precisione. Lo spostamento della problematica affettiva sul corpo e sulla sessualità induce infatti una criminalizzazione, che si configura diversamente nell’uomo e nella donna: in questa, infatti, essa coincide con il fantasma della prostituzione, in quello con la paura di uno scatenamento che darebbe luogo a violenza. E’ da questa criminalizzazione ossessiva che muove la struttura isterica.


La struttura ossessiva

La struttura ossessiva è una dittatura interiore che mira a preservare, a qualunque costo, un ordine meramente formale, sovrapponendo rigide leggi di comportamento ad un’anarchia pulsionale che, per i modi in cui si pone, sembra sfuggire ad ogni altra possibilità di controllo che non sia assicurata dalla minaccia e dalla repressione.

E’ il dramma di una libertà impossibile, perché pericolosa, e, al tempo stesso, irrinunciabile, che la struttura tenta di mediare, sovrapponendo un rigido ipercontrollo ai fantasmi dell’anarchia.

La soluzione è inadeguata perché l’ipercontrollo genera l’incontrollabilità e viceversa. Ma è l’unica possibile laddove in una struttura esperienziale libertà personale e legge vengono ad opporsi irriducibilmente, nel senso che la libertà, per essere tale, non deve riconoscere alcuna limitazione, e la legge, per tutelare un bene sovraindividuale, deve imporsi in maniera repressiva e mortificante.

Nella struttura ossessiva, l’opposizione tra bisogni fondamentali si configura in maniera drammatica: il bisogno di individuazione non può esprimersi che trasgressivamente, e cioè in riferimento ad una norma da infrangere; il bisogno di integrazione sociale non viene riconosciuto che come imposizione dell’altrui volontà, e, infine, di una volontà parassitaria.

La struttura ossessiva comporta una duplice alienazione: l’alienazione del bisogno di individuazione in una libertà che, per essere solo trasgressiva, forza il soggetto a riconoscere la sua ‘natura’come anarchica e mostruosa; e l’alienazione del bisogno di integrazione sociale in un rispetto meramente formale e subito di leggi che oppongono l’interesse sociale a quello individuale. E’ evidente che questa duplice alienazione ha origine nell’impossibilità, spiegabile sulla base della storia interiore, di riconoscere il bisogno di autoregolazione come bisogno proprio, che permette di esercitare la libertà in positivo – come scelta tra liberazione e costrizione – e di vedere nella socialità un strumento di arricchimento e di valorizzazione della libertà.

Alla base della struttura ossessiva, c’è un’immagine interna costante che è quella del ‘folle criminale’ capace di pensare, desiderare ed agire ‘tutto’; incapace, però, di chiedersi perché il desiderabile non possa essere altro che ciò che è vietato dalla moralità e dalla legge, e la cui realizzazione, temuta, comporterebbe l’esclusione dal contesto sociale, e una repressione oggettiva sotto forma di carcerazione o di internamento coatto.

L’ideologia cosciente che si elabora a partire dalla struttura, riconosce, come costitutivo dell’esperienza umana, lo scarto tra desiderabile e possibile, e cioè tra un mondo privato anarchico che va accuratamente celato agli occhi degli altri, e un comportamento pubblico ipercontrollato e conformistico. Quest’ideologia che contrappone irriducibilmente natura e cultura, riconosce due varianti: la prima, è caratterizzata dal fatto che il soggetto, per quanto colpevolizzato, si allea con la natura contro la cultura, sviluppando una visione del mondo nietzschiana, asociale o perversa, nell’ambito della quale vale la legge dell’ homo homini lupus; la seconda, viceversa, vede il soggetto alleato con la cultura, impegnato in uno sforzo di dominio della ‘bestialità’ umana che assume connotazioni ascetiche, con valenze religiose o semplicemente filosofiche.

In entrambi i casi, il progetto di ‘guarigione’ della coscienza risulta irrealizzabile: nel primo, poiché esso comporta un esercizio della libertà che promuove un’immediata repressione sociale; nel secondo, poiché postula una rinuncia spirituale che, per essere espressione di paura e non di una scelta radicale di vita, non riesce ad estinguere la pressione dei bisogni rifiutati. Il più spesso, il soggetto oscilla tra queste due soluzioni estreme, andando incontro a brusche rotture pulsionali e ad affannosi recuperi spirituali, caratterizzati dal senso di colpa e dall’autorimprovero.

La struttura ossessiva comporta due confini esperienziali egualmente paurosi: l’uno è il confine della solitudine, sfiorando il quale il soggetto intuisce che il prezzo della libertà totale è la sua partecipazione o l’esclusione sociale; l’altro è il confine della socialità vissuta come trappola, sfiorando il quale il soggetto sente di dover rinunciare del tutto alla sua libertà personale. La relazione con il mondo, specie a livello interpersonale, è segnata da bruschi ritiri dalla situazione e da reiterati tentativi di porsi in condizioni tali da non potersi liberare.

L’oscillazione del soggetto tra i due poli strutturali comporta una singolare dinamica che concerne la volontà. Qualunque atto di volontà, infatti, postulando una scelta e, dunque, una rinuncia, viene vissuto, dopo essere stato formulato, come un’arbitraria limitazione, che traduce la scelta in una sorta di autoimposizione, in un "se vuoi così, allora devi", che induce immediatamente un rifiuto, e la tendenza ad operare una scelta in opposizione. Qualunque sia la scelta, però, non c’è scampo: il soggetto vive la sua libertà solo nel poter scegliere, non nello scegliere. E’ questo il motivo che dà alla struttura ossessiva la configurazione del dubbio sistematico e che la caratterizza come ‘malattia’ della libertà, nel senso che, al suo interno, la libertà è una mera potenzialità, e va perduta nell’esercizio decisionale.

Ma questa sospensione del soggetto, che, a livello di realtà, rende praticamente insolubile qualunque problema, esprime la tendenza autocorretiva della mente rispetto a due estreme possibilità che mortificherebbero entrambe il suo corredo di bisogni: per un verso, la possibilità che la libertà sia esercitata solo in opposizione ad una legge, e che dunque non sia mai agita in positivo; per un altro, ch’essa sia totalmente perduta in virtù di un assoggettamento alla volontà altrui.

L’autocorrezione può avvenire, pertanto, solo in virtù del recupero del bisogno di autoregolazione come promotore di libertà personale e di integrazione sociale. E’ l’alienazione di questo bisogno, dovuta sempre all’interazione con le istituzioni pedagogiche e con i valori mortificanti che esse veicolano, ad avviare la strutturazione ossessiva, come estremo rimedio al fantasma dell’incontrollabilità nel quale, come in un vicolo cieco, va ad incunearsi il bisogno di libertà personale.

Non ci si può, a questo riguardo, non porre una domanda. Se gran parte dei modelli pedagogici ancora attualmente attivi adottano l’ideologia dell’opposizione tra natura umana e cultura, perché solo in alcuni casi ciò produce una strutturazione ossessiva? Non penso di andare lontano dal vero affermando che quell’ideologia produce disagio psichico in due situazioni, spesso concorrenti: la prima è caratterizzata dall’adozione rigida e coerente di quell’ideologia da parte delle istituzioni, che le induce a farsi carico dell’educazione come impresa il cui obiettivo è di estirpare i ‘germi cattivi’ presenti nella natura umana; la seconda dalla dotazione della personalità di una particolare e precoce sensibilità morale, che induce una totale e partecipe adesione al modello di vita proposto.

Non penso si debba aggiungere molto per quanto riguarda il rapporto tra struttura ossessiva e quadri mentali collettivi: essa è nulla più che una variazione sul tema – il rapporto natura umana/cultura – che da sempre assilla ogni civiltà. Non di rado, la struttura ossessiva rimane latente e, a livello di vissuto, affiora sotto forma di fobia, e cioè di paura panica di situazioni, eventi, persone, oggetti, animali, ecc. a cui il soggetto attribuisce il potere di mettere in moto reazioni emotive e comportamentali incontrollabili. L’universo del ‘phobos’ ha una complessità che sembra frustrare ogni tentativo di sistematizzazione. Ma, ad un’attenta riflessione, esso appare strutturato da due paure fondamentali, egualmente intense: la paura di una costrizione che, non lasciando scampo alla libertà personale, mette in moto un incontrollabile bisogno di rompere le catene, a qualunque costo; e la paura di una totale libertà, che, per essere vissuta come incontrollabile, postula il ricorso ad un controllo esterno. Ogni fobia riconosce, insomma, una struttura riconducibile alle categorie in opposizione perdita totale di libertà /libertà incontrollabile, e cioè alle categorie proprie della struttura ossessiva. A livello vissuto, la fobia funziona come la punta di un iceberg perché essa fa affiorare solo una di queste paure, ma è ovvio che si tratta di paure complementari, ciascuna delle quali postula l’altra, e che rimandano ambedue alla struttura ossessiva.

En passant, per l’interesse pratico che comporta, vorrei rilevare che la struttura fobica di maggior interesse non si identifica con nessuna delle fobie che la letteratura recepisce. Essa investe, infatti, l’atteggiamento che il soggetto assume nei confronti del disagio e della cura. Molto genericamente, si possono individuare tre configurazioni di questa struttura fobica. La prima è la negazione del disagio e della necessità di una cura, che implica il vivere la malattia com'espressione di libertà e la cura come intollerabile costrizione. Che si tratti, in questo caso, di un’esperienza strutturata è attestato dal fatto che l’esercizio della libertà assicurata dal disagio spesso mira, inconsapevolmente, ad attivare la repressione. La seconda è la paura della malattia, che comporta una dipendenza interminabile dalla cura, alla quale si attribuisce – si tratti di un farmaco o psicoterapia - la capacità di controllare dall’esterno uno squilibrio soggettivamente incontrollabile. La terza è caratterizzata da un’ambivalenza, che produce fasicamente il rifiuto della cura e la paura della malattia.


La struttura ipocondriaca

Mentre la struttura ossessiva oppone il controllo sociale, sotto forma di istituzioni segregative all’esplosione anarchica del bisogno di individuazione, la struttura ipocondriaca mira ad impedire che questo bisogno si realizzi in virtù di un isolamento totale. Il pericolo che la struttura tende a scongiurare non è lo scatenamento pulsionale, bensì un’autarchia che lascerebbe insoddisfatti bisogni di protezione e di cura.

Nella struttura ipocondriaca non c’è l’opposizione drammatica tra ‘istinti’ e società, bensì tra autosufficienza, intesa come condizione atta ad assicurare una piena libertà personale, e legami sociali, che, in una certa misura, la limitano e la mortificano. Anziché alla trasgressione sistematica della legge, il soggetto mira ad un’indipendenza che gli dovrebbe consentire di sentirsi libero dai legami e nei legami. Il progetto, in sé e per sé, è significativo, ma le strategie adottate per realizzarlo privilegiano la libertà dai legami come presupposto necessario per essere liberi di legarsi. L’obiettivo è irrealizzabile poiché esso trascura bisogni relazionali, che possono essere organizzati su livelli di sempre minor dipendenza, ma non possono essere negati se non al prezzo della paura di morire.

Questo limite, segnato dai bisogni, è però rifiutato: perciò la struttura deve restituirlo al soggetto sotto forma di minaccia, di paura di morire che lo costringe, sia pure nell’ottica dell’ideologia medica, a chiedere aiuto. L’insistenza della coscienza nell’ideologia medica attesta l’impossibilità di recuperare bisogni di legame, di protezione e di cura se non nei termini di una malattia che frustrerebbe per sempre l’individuazione.

E’ evidente che la struttura muove da una dialettica di bisogni che è giunta a cristallizzare i bisogni di integrazione sociale come un'espressione morbosa, che comporta dipendenza e manipolazione, e ad opporre ad essi bisogni di individuazione che mirano all’autarchia.

Non si stenta a comprendere che questa dialettica è comprensibile nella sua genesi. Laddove le cure rivolte al soggetto, anziché promuoverne la crescita, mirano a farlo rimanere in una condizione di dipendenza, il bisogno che esse soddisfano può giungere ad essere vissuto come una debolezza e un difetto. L’equivoco soggettivo, da cui muove la struttura, consiste nell’assumere il bisogno di relazione e d'aiuto come morboso, piuttosto che le manipolazioni cui esso è stato sottoposto.

Non è forse inutile sottolineare la differenza della struttura ipocondriaca rispetto a quella isterica: in questa è il ‘cuore’, con la sua intensità di affetti e di passioni, ad essere vissuto come malato; nella struttura ipocondriaca non è in gioco l’intensità degli affetti bensì un bisogno più elementare, il bisogno di legame, inteso come canale entro cui scorrono cura, interesse, partecipazione, conforto.

L’ideologia della coscienza, che si oppone alla struttura, ma che, ovviamente, la precede, consiste nell’isolare una ‘malattia’ la cui guarigione restituirebbe una salute che essa minaccia. Quest’ideologia si organizza secondo due configurazioni significative. Talora, essa concerne una ‘malattia’ che, non curata, potrebbe dar luogo ad una dipendenza interminabile; talaltra, una malattia che non curata, potrebbe portare a morte, ma, identificata e trattata, può guarire e dar luogo ad una completa restituzione di salute. Quest’ideologia, apparentemente rivolta alla salute, in realtà lascia trasparire un progetto, che assegna all’integrità fisica, il valore di presupposto d’una totale autosufficienza. In rapporto a questo progetto, che nega i legami e i limiti che essi impongono, nonché i bisogni di autoregolazione, le tendenze autocorrettive della mente si esprimono sotto forma di minacce che, recepite come tali, in realtà hanno il significato di restituire all’individuo i suoi bisogni misconosciuti di dipendenza, di protezione e di cura, e, soprattutto, la necessità, in virtù di questi bisogni, di esercitare, entro i vincoli sociali, un potere di contrattazione che miri ad integrarli.

E’ fuor di dubbio che l’investimento del corpo, la cui malattia produce limitazioni arbitrarie, che nessuno riesce a curare, muove dalle difficoltà del soggetto di riconoscere e valorizzare i limiti della mente come strumento di progressiva liberazione che avviene entro e in virtù dei rapporti. E’ inutile, forse, insistere sul fatto che questa difficoltà, nonostante alcune distorte interpretazioni psicoanalitiche, non è intrinseca al corredo originario di bisogni, ma è il prodotto di un’esperienza che comporta un prezzo da pagare, sotto il profilo dell’autonomia, troppo rilevante per la soddisfazione dei bisogni di protezione e di cura. Ciò che il soggetto rifiuta è di riconoscere una dipendenza che gli restituirebbe una realtà d'inadeguatezza, di insufficienza e di miseria: ma questo rifiuto non si genera che in virtù di circostanze che inducono il soggetto a vivere la dipendenza, e il bisogno degli altri, in questi termini.

Muovendo dall’identificazione della dipendenza, e del bisogno di integrazione sociale, con una ‘malattia’ la struttura ipocondriaca non fa che portare alle estreme conseguenze un’ideologia della salute e dell’indipendenza che è un quadro mentale collettivo. Un vero e proprio mito, che, se per un verso sollecita la massima espressione dell’autonomia umana, dall’altro induce a vivere persecutoriamente i limiti di quest’autonomia, che derivano dal corredo dei bisogni umani. Non vale la pena di spendere molte parole sulla funzionalità di questo mito all’interno di una struttura sociale che impone codici di normalità che sono astratti, e corrispondono ai bisogni delle strutture piuttosto che degli individui. Basterebbe rileggere "Nemesi medica" di I. Illich per apprezzare lo scarto tra un’ideologia della salute tecnicistica, il cui obiettivo è che la macchina umana funzioni produttivamente al 100%, e il concetto della salute come progetto etico, che comporta la lotta contro il dolore ma anche contro l’accettazione consapevole della sofferenza come limite dell’esperienza umana. Limite significativo, poiché da esso nasce la solidarietà e l’aiuto reciproco, e cioè la funzione della società, che, però, va negato collettivamente laddove il bisogno di aiuto viene vissuto come debolezza che espone agli attacchi, e individualmente nei casi in cui la dipendenza di fatto è utilizzata dagli altri per imporre con la cura, il dominio.


Excursus sul problema delle nevrosi e delle psicosi

Nell’introduzione, nevrosi e psicosi sono state definite categorie abusate. Il perché è evidente. Indipendentemente dall’ideologia, che basterebbe ad invalidare sul piano scientifico l’uso di termini scorretti e pregiudiziali, si tratta di categorie cliniche che comportano sostanzialmente un giudizio diagnostico e prognostico di minore (nevrosi) o maggiore (psicosi) gravità. Adottando un punto di vista struttural-genetico, che vede nelle strutture psicopatologiche l’esito di un tragitto esperienziale, da analizzare in tutte le sue componenti – disposizionali, ambientali e soggettive -, finito in un vicolo cieco che ha un significato funzionale – di male minore rispetto a problemi che si pongono come altrimenti irresolubili -, il criterio clinico appare assolutamente inadeguato a fornire un qualunque giudizio sull’entità del disagio psichico e sulle sue possibilità evolutive.

Ogni struttura, proprio per il suo carattere funzionale, comporta possibilità di guarigione – in virtù di una ristrutturazione spontanea o terapeutica dell’esperienza -; possibilità evolutive – d’incremento del circolo vizioso strutturale, con pericoli di destrutturazione, e cioè di transizione ad una struttura ancora più chiusa -, e possibilità di cronicizzazione. Tutte queste possibilità nulla hanno a che vedere con la clinica, poiché esse dipendono da una serie di variabili le più importati tra le quali – in una certa misura decisive - sono l’atteggiamento del soggetto nei confronti del disagio e la situazione socioculturale nella quale egli è vissuto e vive.

In un certo qual modo, rileggendo la letteratura psichiatrica, si può dire che le qualità strutturali del disagio psichico si sono imposte per forza di cose. Nevrosi e psicosi, oggi, non designano quadri clinici, bensì quadri strutturali: per ogni struttura, si danno varianti nevrotiche e psicotiche. Si riconosce, insomma, una nevrosi e una psicosi isterica, una nevrosi e una psicosi ipocondriaca, una nevrosi e una psicosi ossessiva, una nevrosi e una psicosi depressiva.

Solo l’eccitamento maniacale e il delirio strutturato sono considerate psicosi. Adottando un punto di vista struttural-genetico, la confusione clinica può essere in gran parte risolta. Ogni struttura, infatti, rappresentando un equilibrio minimale ma dinamico, organizzatosi, cioè, intorno ad un nucleo problematico di fondamentale importanza, se non intervengono cambiamenti dall’esterno, può tendere a cronicizzate o ad incrementarsi. L’incremento della conflittualità intrinseca ad ogni struttura comporta una diminuizione del potere dell’individuo sul mondo esterno e su quello interno, e cioè in pratica un ‘peggioramento’. Ma ciò che appare importante è che la categoria di nevrosi e di psicosi corrispondono a diverse categorie strutturali.

L’ipotesi che mi sembra di poter avanzare riconosce infatti una struttura primaria – quella ossessiva -, tre strutture – l’isterica, l’ipocondriaca e la depressiva - che si possono considerare varianti derivate, e due strutture – la maniaco-depressiva e la delirante - che si possono definire secondarie, nel senso che esse, anche quando affiorano ex-abrupto, devono far pensare ad una lunga incubazione della struttura primaria, che è andata incontro, più o meno repentinamente, ad un processo di destrutturazione e di ristrutturazione, atto ad assicurare un equilibrio minimale migliore.

In pratica, le cosiddette nevrosi corrispondono a strutture di primo livello, le cosiddette psicosi a strutture di secondo livello. Dal mio punto di vista, il secondo livello non è mai raggiunto (nonostante le apparenze cliniche) d’emblee, ma postula sempre una transizione, talora ma non sempre latente, per il primo livello. Forse è superfluo aggiungere che questa transizione corrisponde ad un’attività soggettiva la cui ricerca di equilibrio non è mai riducibile a momenti meramente psicodinamici e /o intrasistemici (familiari).

Questa nota rende, forse, più accessibili le misteriose strutture ‘psicotiche’


La struttura maniaco-depressiva

Nonostante l’apparente complementarietà delle fasi che la compongono, questa struttura non nasce ex-abrupto: è la depressione, vera cerniera tra strutture di primo e di secondo livello, che dà ad essa origine quando raggiunge un certo livello di profondità. E’ dalla depressione, dunque, che occorre partire per capire il significato funzionale della struttura.

Nonostante la vasta letteratura che la riguarda, soprattutto ad orientamento psicodinamico, la depressione rappresenta, ancora, una forma di esperienza mal compresa. Ciò che sembra certo è che essa, quando assume un rilievo psicopatologico, corrisponde ad una marcata inibizione della vita interiore e relazionale che mira a tutelare il soggetto dall’esplosione di desideri vissuti come pulsioni allo stato puro. A differenza della struttura ossessiva, che lascia scorrere i desideri criminalizzandoli e sottoponendoli ad un marcato ipercontrollo, la depressione comporta un affievolimento ‘vitale’ che sembra tendere al loro azzeramento. E’ evidente che la depressione insorge nel momento in cui la spinta pulsionale non è più controllabile in virtù di minacce sociali (il carcere, il manicomio), e va pertanto respinta alla radice, in virtù d’un inibizione funzionale.

Perché è lecito parlare di una struttura di secondo livello? Perché nella depressione la degradazione di bisogni relazionali in pulsioni è tale da mettere il soggetto a contatto diretto con un mondo pulsionale asociale e amorale. Il vissuto da cui muove la depressione corrisponde ad un equivoco ideologico del quale il soggetto non può rendersi conto, poiché esso è l’espressione di un lungo processo nel corso del quale i bisogni relazionali, frustrati e mortificati, si sono intensificati e si sono degradati fino al punto di trasformarsi in mere pulsioni.

Quest’equivoco, che rappresenta un primo livello di strutturazione psicopatologica, ne genera a sua volta un altro: quello in virtù del quale il soggetto, sentendo che il suo bisogno del mondo è solo pulsionale, non può che rinunciare al mondo, ritirandosi nella depressione, che è sottesa sempre da una profonda vergogna sociale.

Se la struttura ossessiva corrisponde insomma ad una feroce dittatura interiore, che tiene sotto controllo, senza estinguerlo, l'anarchia pulsionale, la struttura depressiva rappresenta una dittatura ancora più marcata che quel pericolo giunge ad estinguere, spingendo il soggetto nel limbo dell’assenza di desiderio. All’ascetismo ossessivo fa riscontro, nella depressione, l’incapacità di peccare per difetto di tentazione.

E’ evidente che la struttura depressiva si offre a facili equivoci sia organicisti che psicodinamici. L’inibizione che essa adotta, di fatto, può facilmente far pensare ad un meccanismo d'innesco biochimico. Ma, dal mio punto di vista, appare più probabile il contrario: e cioè che imprescindibili esigenze di equilibrio interno, volte a scongiurare un’esplosione pulsionale, comportino una disattivazione funzionale, e, al limite, anche biochimica, dei desideri. Quanto alla pretesa trasparenza delle pulsioni originarie – erotiche e aggressive - nei vissuti profondi del soggetto, il problema è proprio nella trasparenza, che nulla dice del processo in virtù del quale bisogni originari di relazione con il mondo siano giunti a degradarsi. Il mistero della depressione sta, insomma, proprio nel suo essere una struttura di secondo livello, che non può adottare che soluzioni disperate nel momento in cui essa si trova ad affrontare problemi posti in modo drammatico.

E’ nella genesi, nel processo che trasforma i bisogni originariamente relazionali, e miranti all’integrazione, in pulsioni, soggette al principio della ‘scarica’, la chiave della struttura depressiva. Quanto alla genesi, ciò che si può dire è intuitivo: è una lunga storia di frustrazioni ambientali prima e soggettive dopo, che investe vuoi la tendenza all’opposizione vuoi i bisogni di legame affettivo e erotico, che degrada il bisogno di individuazione in cieca rabbia rivolta contro l’aggressione e il bisogno di integrazione sociale in pulsione erotica mirante a soddisfare negando ogni vincolo di ordine morale e sociale.

Il motivo per cui la depressione sopravviene frequentemente in rapporto a frustrazioni di aspettative, delusioni sentimentali, perdita di legami o di persone, sradicamenti socioambientali è ovvio: finché il soggetto riesce in qualche modo a mantenersi vincolato alla realtà, sia pure solo in virtù di una speranza, le minacce pulsionali sono sotto controllo. E’ quando egli si trova slegato, e, talora, libero, che quelle minacce s'intensificano e postulano la depressione.

Giunta ad un certo livello di profondità, la depressione comporta due rischi: per un verso, il suicidio, inteso come soluzione radicale ad una pulsionalità incoercibile; per un altro, un vissuto di congelamento e di morte interiore, che induce il soggetto a sentire che il rapporto con il mondo gli è precluso per sempre. Se non si realizza il suicidio, sono queste circostanze – immediatamente o dopo un intervallo - a dar luogo allo scatenamento pulsionale che caratterizza l’eccitamento.

Anche l’eccitamento è una condizione ingannevole, poiché, nonché di uno scatenamento, si tratta di una vera e propria costrizione ad essere liberi che la dice lunga sulle mortificazioni che l’individuo ha subito o si è imposto. Interpretare l’eccitamento come una prova diretta della pericolosità degli ‘istinti’ sottratti al principio di realtà sembra banale per più aspetti.

Intanto, è chiaro che l’individuo eccitato mira piuttosto ad infrangere delle regole, che non a realizzare i propri desideri: è il piacere della trasgressione il leit-motiv dei comportamenti maniacali. In secondo luogo, il venir meno di ogni ritegno e l’ostentazione scandalosa di sé pongono in luce un altro obiettivo perseguito dalla struttura maniacale: l’eliminazione della vergogna sociale. Ma ciò che affranca l’eccitamento da ogni interpretazione istintualistica è la sua qualità angosciosa, che connota il bisogno divorante del mondo nei termini dell’ultimo pasto del condannato a morte. Qualità angosciosa che è dovuta al fatto che la struttura mira a che si realizzi ciò ch’essa sembra scongiurare: un incidente che induce la repressione sociale. Non si comprende nulla della struttura maniacale se si prescinde dal fatto che il soggetto vive nel panico di una qualunque limitatezza della libertà, poiché egli intuisce che l’esercizio della libertà che si concede è finalizzato ad indurre la repressione dall'esterno

Dopo un episodio di eccitamento, la struttura si chiude perché è come se l’individuo avesse avuto la prova della pericolosità delle pulsioni che animano il suo mondo interno. Gli intervalli che sopravvengono rappresentano fasi di pseudonormalità, nel senso che i confini dell’esperienza soggettiva segnati dalla struttura sono molto stretti. E’ proprio negli intervalli che la funzionalità della struttura latente si rivela in pieno, costringendo l’individuo a vivere in una dimensione di prudenza e di paura, con lievi oscillazioni depressive che lo tengono al riparo dalle esplosioni e sporadici momenti di animazione e di euforia che allentano la dittatura, ma al tempo stesso, inducono aggiustamenti non più calibrati dalla vita interiore.

Come ogni struttura, la maniaco-depressiva non si identifica con la forma del disagio che tradizionalmente la manifesta. Essa sottende, in pratica, tutte le depressioni, anche se, nel corso di molte di esse, la polarità maniacale va ricostruita in rapporto a vissuti o contenuti onirici. Questa notazione è importante per due aspetti. In primo luogo, essa conferma che la depressione funziona come una cerniera tra struttura di primo e di secondo livello: e, se funziona, essa rimane in sospeso tra il primo e il secondo livello. In secondo luogo, aiuta a comprendere che ciò che è in gioco nella depressione è sempre la paura dello scatenamento maniacale.

L’atteggiamento del soggetto nei confronti della struttura è evidente nei casi conclamati: la depressione è vissuta come una malattia, l’eccitamento come uno stato di benessere. Si tratta di un’ideologia presente, e ricostruibile, anche nei casi in cui non si realizzi un eccitamento ‘clinico’. Ideologia comprensibile, se si tiene conto delle mortificazioni che il soggetto ha subito o si è imposto: ma, ancora una volta, si tratta di un’ideologia che allontana il soggetto dalla verità, almeno nel senso che l’obiettivo cui egli aspira – di sentirsi vivo e partecipe del mondo - è costantemente fallito proprio perché egli mira a realizzarlo con strategie che, anziché esprimere la sua libertà, la degradano. La costrizione ad essere liberi non è infatti una libertà totale, ma dimidiata: libertà da, incapace di esprimersi sotto forma di libertà di.

Un paradosso, sul quale non si rifletterà mai abbastanza, è che la struttura maniaco-depressiva, che sembra deporre a favore di una teoria pulsionale della natura umana, ne rappresenta invece la contestazione più clamorosa. Se quella teoria infatti fosse vera, tutta l’umanità sarebbe preda della struttura maniaco-depressiva, e la normalità, dovendosi fondare sulla rinuncia alla soddisfazione pulsionale, risulterebbe null’altro che una forma di depressione mascherata! Il che, se non difetta del tutto di verità, denuncia una verità storica: laddove infatti una civiltà assume le pulsioni piuttosto che i bisogni come motori dello sviluppo, essa non può produrre che una normalità fondata sulla paura dello scatenamento maniacale (la paura di impazzire, che sottende e tiene sotto controllo tante persone che non manifestano disagi psichici).

Il quadro di mentalità entro il quale si iscrive la struttura maniaco-depressiva è agevole da identificare, poiché esso comporta la frustrazione degli ‘istinti’ come momento fondamentale della civilizzazione. Ora, se gli ‘istinti’ sono mitologie grossolane, che ignorano in quale misura la natura umana è predisposta ad essere educata e a realizzare il suo bisogno del mondo in forme sempre più ricche e integrate, la frustrazione coincide con codici culturali – pedagogici e sociali - ben individuabili storicamente, e con una struttura sociale che deve negare agli uomini il diritto di godersi il mondo poiché questo diritto è imprescindibile dall’offerta di eguali opportunità di sviluppo individuale e relazionale.


La struttura delirante

Come per la struttura maniaco-depressiva, anche per quella delirante si può affermare che non si tratta mai di una struttura ex abrupto. Essa postula una lunga genesi che, transitando per le strutture di primo livello,può risultare impercettibile socialmente. Ma ciò non è vero che raramente: il più spesso la regressione strutturale è partecipata, con minore o maggiore consapevolezza, dalle persone che circondano il soggetto, e, comunque, è sempre ricostruibile nella sua drammaticità sul versante soggettivo.

Occorre dunque partire dal primo livello per capire come e perché si rende necessaria una strutturazione delirante. Al primo livello, il bisogno di integrazione sociale, inteso come bisogno di legame significativo con gli altri, è sempre contrastato e rifiutato, poiché esso viene vissuto in termini di cedimento, di dipendenza, di inadeguatezza o di esposizione a minacce relazionali. Il rifiuto assume forme diverse all’interno delle varie strutture, ma riconosce sempre un nucleo ideologico che riguarda alcuni aspetti del mondo interiore. Nella struttura ossessiva il mondo interno è vissuto in termini di mostruosità e il mondo esterno è vissuto in termini di un tribunale pronto a far scattare meccanismi segregativi in rapporto a manifestazioni comportamentali folli o criminali; nella struttura isterica è il mondo degli affetti ad essere vissuto in una dimensione di incontrollabilità da indurre il pericolo di una paurosa cattura da parte dell’altro (e il rimedio di una fuga liberatoria nella seduzione e nella sessualità risulta peggiore del male); nella struttura ipocondriaca è il bisogno di una ‘cura’ ad esser vissuto come una radicale inadeguatezza che espone alle manipolazioni. E’ evidente che, in tutte e tre le strutture, alla percezione di bisogni degradati in minacce interne corrisponde una visione del mondo persecutoria, e che la persecuzione – si ponga essa come cattura, assoggettamento o manipolazione - è scongiurata da un rigido ipercontrollo interno.

Ma, dato che le minacce interne esprimono bisogni degradati, l’ipercontrollo non può funzionare che fino ad un certo punto. Non di rado, in virtù di circostanze favorevoli, la struttura di primo livello si cristallizza. Ma, a volte, la sua dinamica a circuito chiuso si incrementa fino al punto che l’ipercontrollo non è in grado di assicurare un equilibrio minimale. E’ in questi casi che avviene una destrutturazione e una ristrutturazione al secondo livello.

L’essenziale del passaggio al secondo livello è dato dal fatto che il controllo, avvertito all’interno come troppo pericoloso, perché mirante ad azzerare del tutto la libertà personale, e, al tempo stesso, precario, perché sottoposto a pressioni enormi, viene proiettato all’esterno. La struttura delirante è caratterizzata dall’assumere il mondo come un tribunale inquisitorio al quale non si può sfuggire, e che, pertanto, assicura un controllo radicale e potente sulla vita interna. Ma questo tribunale funziona in maniera diversa: talora tende a spiare, ad indagare, a perseguire la ricerca di prove, e gli strumenti che adotta – dagli occhi e le orecchie della gente ai telefoni controllati, alle microspie - non concedono alcun scampo all’intimità; talaltra esso si avvale delle provocazioni, delle calunnie, della derisione per indurre il soggetto a scoprirsi; talaltra ancora, come se fosse stato emesso un verdetto, esso tende direttamente a punire, minacciando la sopravvivenza stessa del soggetto con azioni rivolte a danneggiarlo.

Questa visione del mondo si esprime in forma evidente nella cosiddetta paranoia. Ma non esito ad affermare che essa è presente, con le sue varianti, in tutte le strutture deliranti.

Ciò che importa rilevare è che, nella struttura delirante, un bisogno di autoregolazione, già alienato nell’ipercontrollo al primo livello, viene ulteriormente alienato proiettandolo all’esterno e trasformandolo in controllo sociale. L’economia della proiezione è evidente. Per fare un solo esempio, se un ossessivo, sentendosi vicino all’esplosione ‘folle e criminale’, proietta il controllo all’esterno, il sentirsi accusato di colpe e delitti che non ha mai commesso, gli consente di recuperare repentinamente la sua innocenza. Equilibrio precario e rischioso: ché, sottoposto a continue accuse, egli può di fatto reagire brutalmente con la convinzione di fare giustizia.

Ma questo è il limite della struttura di secondo livello, che, nell’immediato, consegue un allentamento dei conflitti interni, ma, a lungo andare, può comportare rischi soggettivi e sociali rilevanti.

La struttura delirante comporta un insegnamento ancora più prezioso: l’efficienza relativa del controllo sociale quando viene meno l’autoregolazione. Ciò significa che né filogeticamente né ontogeneticamente si può attribuire al controllo sociale la civilizzazione. Esso funziona quando riesce a promuovere l’autoregolazione e il bisogno di integrazione sociale; quando risulta solo frustrante, quando intende esercitarsi su una tabula rasa o, peggio ancora, su una natura umana originariamente distorta, esso rischia di produrre più danni che vantaggi. Senza la presa di coscienza, da parte del soggetto, che l’autoregolazione, nonché limitare, fonda ed esalta la libertà, poiché permette di esercitarla, ogni controllo – interno e/o esterno - viene vissuto come un incatenamento che, prima o poi, scatena la ribellione.

L’atteggiamento del soggetto nei confronti della struttura delirante è caratterizzato da un sentimento d'impotenza e di umiliazione in rapporto al mondo la cui cattiveria è esasperata dalla gratuità dei modi in cui si esprime. Al soggetto non rimangono che due possibilità: o arrendersi, facendosi carico di quella cattiveria e subendola, o reagire, calandosi nella figura eroica dell’uomo contro tutti.

In ambedue i casi, l’ideologia dell’individuo investe il mondo di significativi negativi e disumanizzanti. Un mondo di lupi, in cui si può essere solo lupi o agnelli.

Non è chi non veda in quale misura la visione del mondo che muove dalla struttura delirante e dall’atteggiamento che il soggetto assume nei confronti del controllo esterno sia espressione di un quadro mentale collettivo che postula la cattiveria intrinseca della natura umana e dà al sociale il significato di un patto di alleanza in virtù del quale quella cattiveria viene contenuta o, qualora si esprima, repressa. La specificità della struttura delirante consiste nell’inserire in questo quadro elementi dell’esperienza privata, ai quali il soggetto attribuisce una pericolosità e una ‘mostruosità’ che essi, di fatto, non hanno a livello sociale. C’è, nella struttura delirante, la ricostruzione di un mondo di atteggiamenti che hanno avuto, di fatto, una loro validità storica, ma che sembrano ormai superati. Basta rileggere la microstoria riferita nel seminario sul disagio psichico come vicolo cieco ideologico per rendersi conto di ciò. Ma – se questo è vero - l’utilità, sotto il profilo epistemologico, della struttura delirante è di far apparire quadri mentali collettivi che hanno avuto un loro peso ma sono cambiati, o hanno un significato marginale rispetto alla mentalità corrente: e di aiutare a comprendere, a ritroso, quale carico di sofferenza essi possono aver prodotto a livello collettivo, quando erano vere e proprie prigioni mentali.

E’ pur vero, però, che i quadri mentali collettivi, se funzionano all’interno di esperienze soggettive, devono essere stati veicolati e partecipati. Ciò significa che i cambiamenti di mentalità non investono mai la società nel suo complesso: avvengono a certi livelli di classe dominante, s'impongono come visioni del mondo, ma solo lentamente, e verticalmente, pervadono le altre classi sociali, nelle quali, per lunghi periodi rimangono attivi i vecchi quadri di mentalità. Lo scarto tra i nuovi e vecchi quadri mentali – i nuovi attivi e livello apparente, i vecchi a livello latente - è una delle matrici della struttura delirante. Permeati da questi ultimi i soggetti, in virtù di un livello di coscienza che privilegia i ‘nuovi’ non possono coglierli come facenti parte della globalità della loro esperienza.


L’universo psicopatologico come insieme strutturato

Per quanto il tentativo di delineare le strutture psicopatologiche come forme di esperienza dotate di una logica interna e di una coerenza intrinseca, si possa ritenere ampiamente insoddisfacente, che esse, nel complesso, configurino un insieme strutturato mi sembra indubitabile.

Questa nota tenta di delineare un po’ meglio i rapporti tre le strutture, la specificità di ciascuna e la loro appartenenza ad un insieme. L’universo psicopatologico riconosce un’intersezione, che rappresenta la matrice di tutte le strutture: tale intersezione è data dalla opposizione conflittuale e adialettica tra bisogni di individuazione e bisogni di integrazione sociale. Questa opposizione nasce da una duplice alienazione dei bisogni, comprensibile sulla base della storia interiore: i bisogni di individuazione giungono infatti ad identificarsi con una libertà che, per essere tale, non deve riconoscere alcuna limitazione; i bisogni di integrazione sociale, altresì, si identificano con costrizioni sociali, vissute a livello relazionale o introiettate, alle quali l’individuo si assoggetta solo per paura dell’esclusione. Tra la libertà alienata nell’anarchia e il bisogno di autoregolazione alienato in un controllo, comportamentale o interno, solo formale, il soggetto è preso in una trappola nella quale i suoi bisogni originari risultano mortificati e incapaci di evolvere.

Quest'interazione, che oppone irriducibilmente libertà e controllo, è la chiave dell’universo psicopatologico. Essa si esprime direttamente nelle strutture di primo livello, la differenza tra le quali è data dai significati diversi che, in virtù di diversi tragitti di esperienza, assumono la libertà e il controllo. Nella struttura ossessiva, la libertà s'identifica con l’infrazione di tutte le leggi morali, civili e penali, con una mostruosità folle e criminale che viene scongiurata dalla minaccia della repressione carceraria o manicomiale; nella struttura isterica la libertà viene vissuto nei termini di un totale abbandono affettivo e /o sessuale, e va pertanto controllata con l’anestesia e l’impotenza; nella struttura ipocondriaca, in virtù di una negazione del bisogno di ‘cura’ e di legame, la libertà si identifica in una totale autosufficienza, la cui pericolosità in termini di isolamenti e solitudine interiore, viene frenata dalla paura di morire che costringe l’individuo alla dipendenza familiare e medica.

Ogni struttura di primo livello riconosce una dinamica intrinseca che, in rapporto alla situazione sociale nella quale l’individuo si trova, può tendere ad una soluzione spontanea (rara ma non impossibile), alla cronicizzazione o ad una conflittualizzazione crescente. In questo terzo caso, si possono realizzare due eventualità: o l’innesto, nella struttura di primo livello, di spunti od elaborazioni deliranti che non pervengono però ad una sistematizzazione – si parla, in questi casi, di ‘psicosi isterica, ossessiva, ipocondriaca -, o una brusca destrutturazione che dà luogo ad una ristrutturazione maniaco-depressiva o delirante. Questa eventualità drammatica si realizza allorché il soggetto, per non rimanere paralizzato dal conflitto di primo livello, si allea con una delle polarità. Nella struttura maniaca-depressiva l’alleanza concerne una pulsione erotica (in senso lato) che viene vissuta ed esercitata – nelle fasi di eccitamento - misconoscendo i bisogni di autoregolazione e di relazione con il mondo che, canalizzandola, danno ad essa la possibilità di esprimersi in forme sempre più integrate e soddisfacenti.

Nella struttura delirante, per quanto ciò possa apparire paradossale, l’alleanza si instaura con i bisogni di controllo, che il soggetto proietta all’esterno per renderli più funzionali e implacabili. Ciò accade perché egli giunge a vivere come distruttive le pulsioni che ha dentro di sé ed intende esserne protetto.

Se le strutturazioni di primo livello riconoscono quadri mentali collettivi la cui adozione vota il soggetto ad un vicolo cieco, il passaggio dal primo al secondo livello riesce comprensibile solo in virtù di un’ulteriore ideologizzazione del mondo interno, che viene percepito in termini tali – di pulsionalità incontrollabile - da non poter postulare altro che una repressione. Mentre però le strutture di primo livello sono controllate dall’interno, quelle di secondo livello sono più precarie, poiché, laddove fallisce il controllo interno – caratteristicamente, nel corso della crisi - esse postulano un controllo esterno. Nonché lottare per la libertà, che ha assunto forme tali da essere al tempo stesso desiderabile e penosa, il soggetto, senza volere e senza sapere, lotta per essere represso, poiché, tra l’altro, la repressione lo conferma nella convinzione di essere, dentro di sé, infinitamente libero.

Ma si tratta di un bisogno di libertà alienato, che non può riconoscere l’autoregolazione come costitutiva del suo esercizio.

La regressione delle strutture psicopatologiche sembra, insomma, una regressione evolutiva che ripropone – sul piano sia onto che filogenetico - il mito dell’opposizione irriducibile tra individuo e società, libertà e legge, ‘istinto’ e civiltà. Ma si tratta, per l’appunto, di un mito: ciò che le strutture di secondo livello rivelano è in quale misura l’evoluzione di una personalità, con il concorso di cause ambientali, può finire in vicoli ciechi che, impedendo ai bisogni fondamentali di esprimersi e di integrarsi, li degradano fino al punto ch’essi sono forzati ad esprimersi sotto forma di pulsioni anarchiche. Degradazione in cui si esprimono sì le valenze intrinsecamente pericolose della libertà, ma com'espressione della civilizzazione, piuttosto che della natura umana. Quest'assunto suonerebbe come ideologico, se esso non potesse essere comprovato. Ma sono le strutture psicopatologiche stesse a comprovarlo, poiché il privilegio che in esse viene accordato al controllo mette in luce drammaticamente le tendenze proprie della ‘natura umana’ alla regolazione.

Tale tendenza non è contraddetta né dagli auting-out, né dagli stati di eccitamento né dalle crisi acute se in essi si legge, in virtù di una trasparenza che è assicurata dalla provocatorietà degli atteggiamenti e dei comportamenti, un bisogno di repressione che, per realizzarsi, deve indurre questa. Da questo punto di vista, la presunta irragionevolezza dei soggetti in crisi – motivo ricorrente di frustrazione per gli operatori che ricusano la logica della repressione - assume un significato nuovo che impone di riflettere sui paradossi cui giunge l’alienazione del bisogno di autoregolazione. Farsi carico di questo problema e chiedersi come sia possibile rispondere ad un bisogno alienato senza confermarlo, si può ritenere la frontiera operativa della nuova scienza del disagio psichico.


>Tragitti esperienziali nell’universo delle strutture psicopatologiche

Le strutture psicopatologiche, nella ricostruzione teorica che ho operato, hanno una coerenza intrinseca, un rigore logico ed una trasparenza che confermano, inconfutabilmente, ch’esse sono visioni del mondo, elaborate a partire da dati di esperienza personale interpretati alla luce di quadri mentali collettivi, e funzionali – sia pure in maniera inadeguata - alla soluzione di problemi la cui matrice univoca è la configurazione conflittuale non dialettica assunta dai bisogni di individuazione e di integrazione sociale. La chiave delle strutture, come si è detto, è nella genesi, e cioè nel tragitto esperienziale che – in virtù di interazioni con l’ambiente prima e di elaborazioni soggettive poi - esita in quella configurazione conflittuale. Ma è inevitabilmente dalle strutture che si parte per ricostruirne la genesi, e più precisamente dallo scarto, che rappresenta lo specifico del disagio psichico, tra livelli di coscienza e conflitti interiori strutturati, e cioè tra il progetto di vita del soggetto e i vincoli imposto dalle strutture. Tale scarto rappresenta, in rapporto al conflitto tra bisogni di individuazione e di integrazione sociale e all’alienazione del soggetto rispetto ad esso, l’unico modo possibile di conservare una condizione di equilibrio minimale.

Lo scarto tra soggettività e struttura, che è la malattia, contiene le possibilità di guarigione, intese come restituzione al soggetto di un capitale di verità in difetto del quale egli non può vivere che un’esistenza alienata. Ma è inutile, forse, dire che queste possibilità riconoscono tre limiti: uno soggettivo, uno temporale e uno sociale.

Il limite soggettivo è rappresentato dall’attrezzatura mentale di cui l’individuo dispone per riappropriarsi della struttura. Se è vero, infatti, che il disagio si origina sempre in virtù d’un acuta percezione dello scarto tra bisogni umani e possibilità di sviluppo offerte dalle istituzioni sociali, non è meno vero che questa percezione, per essere elaborata e non rimane semplicemente intuitiva, richiede un’attrezzatura culturale atta e esplorare i nessi tra mondo e mondo interno.

L’attrezzatura culturale è il frutto di un apprendimento ed è un indizio abbastanza fedele dello status sociale. Una vivace intelligenza non attrezzata può dunque essere una leva senza punto d’appoggio. Questo limite soggettivo non va considerato fatalisticamente, perché nulla vieta di pensare che esso possa essere colmato da un intervento terapeutico che prescinda dalla banalità psicoanalitica per cui il soggetto non sa di sapere, e parta dal presupposto ch’egli non può sapere perché non dispone di alcuni strumenti culturali.

Il limite temporale è più serio, poiché lo scarto tra soggettività e struttura si paga al prezzo di tempo da vivere e, nel tempo, tende ad approfondirsi piuttosto che a ridursi. Ciò significa che, all’interno di ogni esperienza di disagio, c’è un punto di non ritorno: un punto cioè al di là del quale occorre arrendersi a rimaneggiamenti strutturali e non mirare ad una ristrutturazione, poiché la scoperta della possibilità di vivere vanificata può risultare fatale piuttosto che terapeutica.

Il limite sociale è il più grave, poiché esso, che già è evidente nell’attrezzatura mentale che il soggetto possiede, è rappresentato compiutamente dalle possibilità reali che si offrono all’individuo di tradurre in potere sul mondo esterno il potere che egli consegue sul mondo interno. Questo limite è ricavabile dalla situazione sociale nella quale il soggetto si trova, e, per quanto anch’esso non vada assunto fatalisticamente, è certo il più arduo da superare. A questo livello hanno senso gli interventi assistenziali o politici, volti a modificare condizioni di vita che, in sé e per sé, possono rendere sterile l’aumento del potere sul mondo interno.

Il materiale che segue non trascura nessuno di questi limiti, ma non li sottopone neppure ad una riflessione approfondita, rimandata alla fase di ricerca dedicata all’intervento terapeutico. Esso è organizzato in modo da verificare le premesse teoriche sinora elaborate, in rapporto ad esperienze reali.

Si tratta di esperienze alla cui ristrutturazione, più o meno soddisfacente, ho partecipato personalmente in virtù di un ruolo di terapeuta che, per ora, è l’unico che permetta l’uso, nella sua piena potenzialità, del metodo microstorico ispirato ai principi dello strutturalismo dinamico. Non ignoro, ma non saprei apprezzare l’incidenza della mia ideologia; essa peraltro, interessa meno del metodo. Questo può infatti essere acquisito, quella trascurata o messa da parte.


1) Claudio

A 16 anni Claudio lamenta delle violente extrasistoli e un dolore al petto, che, talora, diventa folgorante. Per alcuni mesi, specie quando è per strada, teme di morire da un momento all’altro. La paura si attenua tra le mura domestiche. Lentamente, Claudio si arrende a trascorrere in casa il tempo libero dagli impegni scolastici.

A 17 anni un acne di antica data inizia ad essere vissuta con un’angoscia che sembra sproporzionata all’entità delle lesioni dermatologiche. Claudio trascorre gran parte del tempo di fronte allo specchio, e, esplorando il viso, scopre ciò che ha sempre trascurato: l’acne ha prodotto vere e proprie caverne che hanno sfigurato il volto, rendendolo orribile e mostruoso. Questa condizione è avvalorata dagli sguardi di ripugnanza che Claudio registra stando con gli altri, specie da parte delle compagne di scuola. Un giorno, passando davanti alla vetrina di un negozio Claudio vede in essa riflessa un’immagine terrificante, che gli richiama alla mente quella, vista in un film, di mister Hyde. Si isola quasi totalmente, e riesce, l’anno seguente, a conseguire il diploma solo in virtù di una carriera scolastica che è stata in passato brillantissima e del ruolo, che si va definendo, di persona malata.

Nonostante abbia paura di mostrarsi in pubblico, s'iscrive alla facoltà di medicina. Il primo giorno di frequenza, in aula, la vista si riduce nettamente. Torna a casa quasi brancolando, convinto che la miopia, di cui soffre da bambino, ha assunto un carattere progressivo, e di essere destinato pertanto alla cecità. Non esce più da casa se non di rado ed accompagnato dai suoi. Ovviamente, il progetto universitario è accantonato.

Subentra una disperazione totale, vuoi per l’angoscia dell’imminente cecità vuoi per la situazione di dipendenza familiare e di carcerazione che si è venuta a creare. Sempre più spesso, Claudio si rotola per terra in preda ad un convulso di rabbia e batte violentemente la testa contro il muro. Viene ricoverato in un ospedale psichiatrico per breve tempo, e dimesso, su richiesta dei genitori, con una diagnosi che non lascia speranza di schizofrenia.

Poco tempo dopo, il cerchio sintomatico, come se non bastasse, si chiude per l’affiorare di una paura inconsueta. Claudio comincia a temere che la vescica possa bloccarsi, e non rispondere più al controllo volontario. Per essere certo che ciò non avvenga, deve provare di continuo a mingere. Lo svuotamento non è mai avvertito come completo, e, d’altro canto, dopo che esso si è realizzato, Claudio non ha alcuna prova che la vescica non si sia bloccata. In pratica, passa la giornata e, talora, le notti, entrando e uscendo dal bagno, preda di un’angoscia difficile da descrivere. Nei confronti dei suoi, che non credono alla fondatezza delle paure, manifesta un’aggressività crescente, che in rapporto alla madre assume anche delle connotazioni francamente erotiche. Una fantasia insistente, che sarà confessata solo dopo anni, è di usare violenza alla madre e successivamente di strangolarla. Più volte, senza farle male, le porta le mani alla gola.

La struttura psicopatologica descritta è complessa. Essa si definisce nel giro di alcuni anni, facendo affiorare prima una minaccia di morte e la convinzione di una mostruosità estetica che inducono un progressivo ritiro dalla vita sociale, poi l’incubo di una cecità che definisce un destino di totale dipendenza dalla famiglia, e, infine, il dubbio d’una paralisi della volontà che azzererebbe l’ultimo potere che rimane a Claudio: quello sulle funzioni escretorie. Apparentemente, questa struttura sembra solo minacciosa, e mirante a realizzare una condanna: quella di morire intossicato dai ‘rifiuti’. Se si desse un valore causale alla ‘bestialità’ che affiora nei confronti della madre, tutto riuscirebbe chiaro. Basterebbe far ricorso al mitico Edipo…

Assumendo un punto di vista funzionale, l’Edipo non basta; le atroci conseguenze ch’esso comporta, infatti, lasciano insoluto il problema dell’associarsi, all’interno della stessa esperienza, di una radicale immoralità e di una sensibilità morale fin troppo spiccata. A quale problema, dunque, pone rimedio una struttura la cui drammaticità sembra comportare enormi pericoli, anche in termini di sopravvivenza, per il soggetto?

Da un punto di vista funzionale, lo scopo verso cui tende la struttura sembra essere quello di conservare una radicale dipendenza dalla famiglia, anche al prezzo di una paralisi della volontà. Dando credito a quest'ipotesi, si dovrebbe ammettere che, libera da impedimenti, la volontà di Claudio si sarebbe indirizzata alla eliminazione dei suoi e che questo progetto, per quanto motivato, avrebbe sortito effetti più catastrofici rispetto a quelli che abbiamo descritto. E’ sostenibile siffatta ipotesi, che appare a tutta prima per lo meno bizzarra?

Motivi per non desiderare altro che liberarsi dai suoi Claudio ne ha a sufficienza. Figlio unico di una coppia di genitori fragili che, anziché solidarizzare, hanno trascorso la vita a guerreggiare per assicurarsi, ciascuno, un impossibile dominio. Claudio è stato manipolato nel peggiore dei modi. La madre lo ha usato come ‘ruota di scorta’ nei periodi in cui il padre si allontanava da casa, relegandolo nell’ombra quando questi faceva ritorno. Il padre lo ha sempre beffeggiato per il suo essere il ‘cocco di mamma’, indegno insomma della condizione di erede maschio. Claudio ha subito, nel corso degli anni, l'ossessività morbosa della madre e il disprezzo manifesto del padre, prefiggendosi un solo scopo, che si è definito progressivamente: vendicarsi dell’una e dell’altro, abbandonandoli alla loro sterile guerra. Ma questa fantasia vendicativa, riconoscibile a livello cosciente, ha in sé le ragioni del suo scacco: la sua elaborazione e l’efficacia della realizzazione postulano l’intuizione della fragilità, della solitudine, della dipendenza e dell’inadeguatezza dei genitori. Essa ha senso poiché Claudio sa che i suoi sarebbero letteralmente finiti se egli li abbandonasse a se stessi. Ma, intuendo ciò – espressione al tempo stesso di intelligenza, di affetto e di sensibilità morale -, come è possibile porre in essere l’abbandono?

Il progetto di liberazione, nel quale Claudio vede la salvezza personale, è maturato entro un sistema familiare le cui contraddizioni lo hanno reso una trappola mortificante per tutti: ma ciò che intrappola Claudio nel sistema, al di là di una certa fase evolutiva, sono meno le strategie adottate dei genitori, che egli è in grado di criticare, che non i suoi affetti e una sorta di pietas insopprimibile. Quel progetto risulterebbe pertanto realizzabile solo se Claudio divenisse duro, cinico, spietato, insensibile alle sofferenze dei suoi.

Un ‘mostro’ di crudeltà, insomma, in rapporto a quello che di fatto è. L’immagine di mister Hyde che balena nella vetrina del negozio è significativa a riguardo. Ma, nonché risolvere il problema del legame con i suoi, essa ne origina un altro. Se per liberarsi dai suoi, Claudio deve diventare un mostro incapace di nutrire sentimenti, e dunque incapace di legami significativi, a cosa servirebbe questa libertà se non a votarlo ad una solitudine atroce e totale? E, nel caso che essa fosse non una trasformazione bensì una mera finzione strategica, non rischierebbe d’incappare in una relazione d’amore ugualmente penosa?

Non occorre molto per capire che questo dramma soggettivo si muove in un quadro di mentalità che vede nel ‘cuore’ una sorta di tallone d’Achille che espone al rischio di fatali ferite. Per quanto questo vissuto si possa ritenere ricavato dai dati dell’esperienza infantile, è chiaro che esso si è organizzato in virtù di un quadro mentale che, universalizzandolo, lo ha reso insolubile, nel senso che, contro quel quadro è possibile solo o soffrire atrocemente o anestetizzarsi affettivamente.

Non si tratta, peraltro, d’un’illazione. La famiglia di Claudio ha una visione del mondo tipicamente piccolo-borghese, incentrata sull’angoscia dell’estraneo, e su di un vissuto sociale sostanzialmente persecutorio. Prima ancora di ammalare, Claudio è vissuto in casa come un recluso, separato dai coetanei sui quali incombeva il fantasma delle cattive compagnie. Divenuto adolescente, egli è stato messo in guardia dalla madre e da un altro pericolo: quello delle donne, che, a suo avviso, sono per natura ‘puttane’.

Impregnato di questa visione del mondo, personalizzata e nobilitata in virtù d’una cultura incline al pessimismo (Claudio è un lettore accanito di Euripide, Shakespeare, Pirandello, ecc.), la liberazione dalla famiglia si apre su di un mondo senza speranza, dal quale non c’è da aspettarsi che male. Perché dunque rischiare?

Frustrando quell’assurdo progetto, la struttura psicopatologica sceglie il male minore: evitare un’irrazionale fuga dal mondo e conservare il rapporto con la famiglia. Ma questa soluzione non può essere scelta da Claudio, la cui rabbia nei confronti delle manipolazioni subite ha raggiunto livelli di guardia: deve, pertanto essergli imposta. La ‘mostruosità’ prima, l’incubo della cecità poi non hanno altro significato che di restituirlo alla famiglia come malato e invalido, in una condizione di totale dipendenza che diventa una vendetta in negativo. Ma non basta: proprio perché è chiuso in una situazione senza scampo, Claudio corre il rischio di esplodere. Le aggressioni, anche erotiche, nei confronti della madre confermano questo rischio, mettendo in luce la natura vendicativa piuttosto che desiderante dell’Edipo.

Occorre dunque avere la prova che, nella peggiore delle ipotesi, la rabbia non giungerebbe a far male ai suoi, ma solo a sé. Dando la testa al muro, è questo che Claudio vuole provare. Ed è anche questa la chiave del blocco vescicale, se è vero che la paura di una paralisi della volontà non dà luogo all’effetto che dovrebbe seguirne – l’incontinenza -, bensì ad un ipercontrollo rigidissimo.

In breve, ricapitoliamo il significato funzionale della struttura psicopatologica. Essa si edifica a partire da una fantasia di liberazione vendicativa nei confronti della famiglia che, data una visione del mondo sociale pessimistica e persecutoria, darebbe luogo, nel caso si realizzasse, ad un rimedio peggiore del male: il trovarsi solo ed esposto al rischio di fatali ferite relazionali. Per di più, quella fantasia trascende del tutto la pietas di Claudio nei confronti dei suoi, dando per scontato che essa si possa risolvere in virtù di una trasformazione radicale della sensibilità in insensibilità

Data l’importanza del problema, la struttura psicopatologica – per evitare il duplice rischio di un imbestialimento o di un’esposizione traumatica al mondo - non può assumere che una configurazione inibente, mirando ad una paralisi della volontà.

Dall’esterno dell’esperienza si intuiscono altri possibili modi di risolvere i problemi che si pongono a Claudio. C’è per esempio, la possibilità di integrare la pietas nei confronti della famiglia e il bisogno d'individuazione e di autonomia passando da un ruolo dipendente e subordinato al ruolo di protettore dei genitori. Ma questo salto comporta la necessità di comprendere le strategie familiari dall’esterno, come soluzione errate di problemi reali. E ancor più di comprendere il nesso tra quelle strategie e una visione del mondo sociale sostanzialmente persecutoria. C’è la possibilità, infine, di liberarsi personalmente di una sovrastruttura ideologica, che a quella visione del mondo ha dato un carattere di assoluta verità, vanificando il significato della socializzazione. Di riscoprire il mondo interno e il mondo esterno come un insieme di possibilità che non si esauriscono nell’uso che ne fa una famiglia. La possibilità di guarire, insomma, senza diventare un mostro e senza dover commettere crimini: guarire appropriandosi dei significati della struttura psicopatologica, e realizzando in positivo ciò che essa può esprimere solo nel registro degli impedimenti.

Rimanere, in ultima analisi, legato alla famiglia, in virtù dell’assunzione di un ruolo non più subordinato bensì protettivo, e, contemporaneamente, aprirsi ad un mondo visto come insieme di possibilità relazionali non scevro di pericoli ma non solo persecutorio.


2) Francesco

A 17 anni, dopo una brillante carriera scolastica, Francesco comincia ad accusare dei vuoti di memoria e di concentrazione che lo relegano ben presto tra i mediocri. C’è di mezzo un amore per una compagna di classe ch’egli vive con estrema intensità, e che viene meno repentinamente quando, su di un pulmann, la vede accompagnarsi con un altro ragazzo e sente la ferita del tradimento. Vive per mesi come stordito dalla delusione. Alla fine del 2° liceo classico, raggiunge a stento la sufficienza. Libero dalle pene dello studio, la prima mattina di vacanza, si affaccia al balcone di casa e si chiede come potrà occupare il tempo libero. Repentinamente, gli balena nella testa la fantasia di sodomizzare il fratello e, quasi per effetto di un’istantanea condanna, di doversi gettare nel vuoto. Arretra terrorizzato per questi pensieri che, per la prima volta, inducono in lui la convinzione di essere un ‘mostro’ pericoloso per sé e per gli altri.

Il fratello investito dalla fantasia attraversa una fase critica: rifiuta d’andare a scuola, si comporta come un ribelle, protesta contro tutto e contro tutti, profitta dell’arrendevolezza dei genitori per maltrattarli accusandoli di infinite colpe. Da tempo, Francesco avverte nei suoi confronti una rabbia tremenda e la tentazione, che tiene a freno, di dargli una lezione. La fantasia potrebbe dunque semplicemente esprimere il desiderio di metterlo a posto, assoggettandolo e passivizzandolo. Ma che senso ha questo desiderio d'ordine che si realizza in virtù del disordine?

Il problema è tanto più inquietante quanto più il mondo interiore di Francesco, dopo quel primo episodio, sembra letteralmente terremotato da fantasie terrificanti. A tavola, deve rinunciare all’uso del coltello perché teme di rivolgerlo contro i suoi. Nel chiuso della stanza, e a livello onirico, è ossessionato da fantasie incestuose rivolte alla sorella e alla madre.

Angosciato dai sensi di colpa, Francesco giunge a pensare che solo l’impotenza potrebbe metterlo al riparo dalla paura di commettere un orribile crimine. L’impotenza si realizza sia sul piano della sessualità, che si estingue, sia sul piano delle energie, che vengono meno in virtù di una grave condizione neurastenica. Conseguito il diploma con voti mediocri, Francesco si ricovera a Roma in una clinica psichiatrica. Ne esce, dopo un mese, malato ma convertito ad un progetto di vita al quale affida le sue residue speranze di guarigione: mettere la testa a partito, trasferirsi a Roma, trovare lavoro e raggiungere una condizione economica che gli permetta di pagarsi un trattamento psicoterapeutico.

Non è un caso che ho usato il termine conversione. Il progetto di vita che Francesco formula ristruttura radicalmente la sua visione del mondo, rimasta ancorata per anni ad una religiosità vissuta con estrema partecipazione e, successivamente, dall’età di 17 anni, caratterizzata da un’adesione incondizionata al marxismo rivoluzionario, tradottasi in una militanza in un gruppo extraparlamentare. Al progetto rivoluzionario, spirituale prima e politico poi, subentra una visione del mondo machiavellica: accettando il principio dell’homo homini lupus, Francesco s'iscrive in un partito di centro e, con un atteggiamento strumentale e disincantato, comincia la carriera clientelare, trasferendosi a Roma, dove, frequentando dei politici, in virtù di un marcato servilismo, comincia l’ascesa sociale. Il cinismo della conversione non ha peraltro un significato solo egoistico: oltre che alle possibilità di curarsi, Francesco si assume l’impegno di riassestare le sorti di una famiglia caduta in disgrazia per via di squilibri temperamentali e comportamentali di più membri, tra cui il padre.

Deve, però, sfidare il tempo, ché l'incubo di una ‘tara’ psichica familiare, che prima o poi affiorerà in lui sotto forma di follia criminale, è confermata da sintomi, che si incrementano di continuo ed investono praticamente tutti gli ambiti della vita.

Alle minacce rivolte ai familiari, che si attivano quando torna a casa si aggiungono altre paure: quando è in compagnia, e specie durante le riunioni di lavoro, Francesco sviluppa fantasie aggressive, alle quali pone rimedio l’impulso a fuggire, ch’egli contiene a stento; quando è solo, comincia a vivere crisi di ‘depersonalizzazione’, di perdita dell’identità che danno corpo alla paura di non poter recuperare il controllo di sé. Quasi ad ogni istante, Francesco vive l’angoscia di stare lì lì per crollare: i fantasmi del manicomio e del carcere incombono perpetuamente su quella che egli vive come una ‘follia criminale’.

L'unico rimedio a questa minaccia egli pensa sia una ragione di vita totalmente votata al lavoro e all’ipercontrollo. L’immagine sociale che egli riesce a costruirsi è di ragazzo serio, laborioso, impegnato, fedele, responsabile: e, nell’ambiente economico e politico, ove la doppiezza e il tradimento sono regole del gioco, queste qualità gli valgono un aperto apprezzamento e una carriera rapida e prestigiosa. Ma il problema è che Francesco sa che quelle qualità sono l’espressione di un’accorta strategia: il rispetto dell’autorità corrisponde ad un intimo e incoercibile disprezzo, l’attaccamento al lavoro è motivato solo dalla sete di guadagno, la fedeltà è solo un’alleanza strumentale con il più forte. Francesco ha creato una rete di relazioni con i potenti caratterizzata da una radicale ambiguità: tutti si fidano di lui e lo ritengono alleato, egli, per conto suo, si barcamena con abilità, spostandosi di volta in volta dalla parte del vincente. Strategia relazionale complicatissima, che può essere realizzata solo in virtù di equilibrismi raffinati, che impongono un ipercontrollo comportamentale, comunicativo ed emotivo. Sotto la maschera dell’integrato, continua a premere la rabbia sociale, il ribellismo, la passione rivoluzionaria. Francesco si sente, nelle istituzioni, come un infiltrato, un terrorista: teme e sa che, un giorno o l’altro, il gioco verrà alla luce e che lo pagherà.

In questione è solo il prezzo che, coincidendo con una caduta verticale, aumenta via via che egli ascende nella scala sociale. Il regime di vita che Francesco si impone, sostanzialmente ascetico, è un ordine apparente, sotto il quale egli sente urgere un infinito disordine, nel quale identifica la sua vera natura. Un disordine pulsionale che si traduce in fantasie erotiche e aggressive sempre più trasgressive, che è una minaccia perpetua di destrutturazione, e al tempo stesso, il punto su cui fa leva la volontà disperata di non lasciarsi andare, imponendosi di non impazzire e di non commettere crimini. E’ un circolo vizioso, che esclude ogni possibilità di abbandono: per non crollare, Francesco deve marcare stretto ogni desiderio e ogni umano bisogno. Non può ribellarsi né entrare in conflitto con chicchessia, non può nutrire affetti, non può amare né far l’amore. Il modello di vita è, insomma, quello dell’ora et labora, se alle preghiere si sostituiscono gli infiniti rituali ossessivi che, nei momenti liberi dagli impegni, Francesco deve assolvere per non esplodere.

C’è, in questa struttura d’esperienza, un autoinganno clamoroso: il disordine, da cui Francesco si sente minacciato, è un tentativo di riequilibrare una struttura troppo precocemente votata all’ordine, e la cui organizzazione, se si realizzasse nella sua completezza, coinciderebbe con una schiavitù comportamentale che non lascerebbe alcuno spazio ai bisogni personali. Il disordine, nell’esperienza di Francesco, si pone in termini d'infinita libertà, non rispettosa di alcuna legge, poiché i bisogni che esso esprime sono assoggettati, da sempre, ad un ipercontrollo frustrante e mortificante che mira ad azzerarli. Il modello latente nel progetto di vita di Francesco è, insomma, l’automa, colui che esegue fedelmente e meccanicamente le istruzioni che conosciamo: lavorare, ascendere socialmente, risollevare le sorti della famiglia, e, poi, compiuto il proprio dovere, crollare, e finire in carcere o in manicomio. Curarsi, per Francesco, alimenta una tenue speranza nella possibilità di sfuggire ad un destino fatale, nel quale si riflettono le ‘tare’ della famiglia. Di quali ‘tare’ si tratta? E come è finito Francesco a formulare un progetto di vita così disumano?

La paura di Francesco non è del tutto infondata. Il gruppo parentale, inteso in senso largo, da cui egli proviene è segnato da una sorta di mescolanza di genio e di sregolatezza. L’ascesa sociale e la rovina fanno parte del romanzo familiare, e attestano l’esistenza sia di grandi capacità sia d’un irrequietezza profonda. Singolare, a questo riguardo, è la vicenda di una zia, che, finita in un convento per vocazione, si è spogliata e trasferita a Milano, ove fa la vita. Anche nella famiglia ristretta di Francesco sono presenti queste contraddizioni. Il padre è stato uno studente prestigioso. Andato in seminario per farsi prete, quando tutti pronosticavano un grande avvenire, ha lasciato il seminario per sposarsi. Non è finita qui: da sposato, ha continuato a coltivare grandi progetti che sono andati tutti falliti in conseguenza di una vita disordinata, che ha conosciuto spesso rotture caratterizzate dalla passione per il gioco e per le donne. In questo contesto, segnato da una successione continua di ascese e di cadute, la madre ha rappresentato l’unico elemento di equilibrio, votandosi ad un ruolo rassegnato e sacrificale, e istillando nei figli il disprezzo per il disordine e la dissipatezza. Precocemente, Francesco ha operato una scelta tra questi due modelli di vita. E’ stato un bambino modello, studioso, docile, laborioso e ubbidiente. Conscio dei disagi familiari, ha rinunciato ad esprimere i suoi bisogni. La fede, partecipata con passione nell’adolescenza, ha valso a dare alla sua vita una connotazione ancor più marcatamente ascetica.

La stessa presa di coscienza politica, con l’adesione ad un gruppo rigidamente marxista-leninista, ha rappresentato una scelta d'impegno, di disciplina e di rigore. E’ evidente che il regime cui si sottopone Francesco corrisponde, oltre che ai suoi bisogni di ordine e di moralità, alla paura dello scatenamento istintuale. Data la storia familiare, è altrettanto evidente che questa paura non corrisponde ad un vissuto, alla percezione di una minaccia interna, bensì ad un dato culturale, a una visione del mondo, veicolata dalla madre, nell’ambito della quale dovere e piacere, onore familiare e scandalo, lavoro e dissipazione sono categorie in opposizione radicale. Francesco si impegna a tenere sotto controllo le tendenze all’immoralità ch’egli crede ereditarie: di fatto, è il suo stesso eccessivo impegno di normalizzazione che le produce. Ma quello che affiora è un disordine estremamente significativo: per un verso, infatti, egli intende dare una lezione mortificante al fratello che attacca la famiglia; per un altro, scopre di essere un mostro che può introdurre morte e immoralità nella famiglia. Il senso di questo disordine è evidente, in virtù della fuga fobica che esso determina.

Il culto della famiglia, e soprattutto il desiderio di restituire ad essa l’onore e uno statuto sociale apprezzabile, ha incapsulato Francesco in un’ideologia familistica, che frustra ogni bisogno di piacere come una minaccia di dissipatezza. I sintomi segnalano ch’egli deve separarsi dalla famiglia, e orientare altrove i bisogni per non crollare. Ma a Francesco, ovviamente, sfugge questo significato funzionale delle fantasie che affiorano, e la cui intensità misura la qualità costruttiva dei legami. Egli li vive come indizi di una ‘tara’ che, nonostante il rigido autocontrollo, riaffiora. E progetta la sua vita a partire da questa tragica intuizione: ma la progetta incrementando il controllo su di sé, isolandosi e piegando i suoi bisogni di un mondo diverso ad un’accettazione strumentale e cinica del mondo così com’è.

L’ideologia della ‘tara’ comporta la rinuncia ad ogni legame affettivo e ad ogni desiderio, e induce una totale dedizione al lavoro. Quest'eccesso di costrizione rende immediatamente comprensibili la paura di impazzire nelle due situazioni in cui essa compare: nelle riunioni di lavoro, quando Francesco sente chiusa la sua esperienza umana dal dovere, e in solitudine, quando egli misura il vuoto che si è realizzato in virtù della rinuncia ad ogni legame affettivo.

Ma i sintomi, che tentano di impedire un totale sacrificio di sé, sono letti alla luce di un’ideologia che, anziché coglierli nel loro significato funzionale, li assume come indizi di una ‘follia criminale’ che richiede ulteriori mortificazioni e rinunce.

E’ evidente che la ristrutturazione dell’esperienza di Francesco richiede una diversa significazione dei sintomi, che può avvenire solo in virtù di una rilettura critica della sua storia personale, familiare, e sociale. Occorre, che egli comprenda il romanzo familiare, i modelli di vita con cui si è confrontato e gli effetti disordinati del regime di vita che si è imposto. E ancora: che la paura dell’esplosione, che incombe sul suo orizzonte esistenziale, esprime il desiderio di liberazione dalle autocostrizioni che non va atteso fatalisticamente, e temuto fino al punto di vederlo incarcerato nel momento stesso in cui si pone, ma può essere recepito e organizzato arricchendo affettivamente e sessualmente una vita realizzata solo per metà. Occorre insomma che egli riconosca che il male non sta laddove appare, nella struttura psicopatologica, bensì in un progetto di vita nel quale si è investita una ricchezza di qualità umane che rischiano di essere sprecate.


3) Caterina.

A 13 anni, Caterina, un’adolescente precoce e molto graziosa, studiosa e socievole, consulta uno psichiatra perché si sente oppressa dal padre, che non le lascia molta libertà. La accompagna o la fa accompagnare a scuola, in palestra, alle feste e vigila su di lei con un interesse che Caterina ritiene ‘morboso’. Alle sue rimostranze, per altro molto misurate, il padre risponde che è piccola, ingenua e inesperta del mondo. Un mondo del quale egli, imprenditore e uomo d’affari, ha una visione tragica e disincantata.

A 14 anni, frugando nel portafoglio del padre, Caterina scopre la fotografia di una donna con una dedica d’amore inequivocabile. Esplode in una crisi d'agitazione psicomotoria nel corso della quale devasta l’arredo prezioso del salotto. Manifesta un’aperta ostilità nei confronti del padre, e la volontà di allontanarsi da una famiglia che giudica un 'nido di vipere'. Ricoverata in una clinica privata, si esibisce per due settimane in un rrepertorio di comportamenti disinibiti, volgari e osceni.

La crisi di Caterina, che scopre gli ‘altarini’ del padre, avvia un "processo" familiare. I genitori non hanno rapporti da oltre 10 anni. Con la donna della fotografia il padre ha intrattenuto una lunga relazione, finita, da alcuni mesi, in seguito alla morte per cancro. E’ un uomo affranto, che protesta di non aver trascurato la famiglia. Si fa una sola colpa: di aver creduto che il benessere economico rappresentasse la felicità, e di aver lavorato come una bestia per raggiungere quest'obiettivo. La madre è una donna fredda e implacabile nel giudizio: la malattia della figlia, dal suo punto di vista, non fa che mettere in luce la natura corrotta ch’essa ha ereditato dal padre, definito con disprezzo un ‘puttaniere’. Il processo si conclude con un’apparente pacificazione, votata alla guarigione della figlia.

Superata la crisi, la vitalità di Caterina sembra spenta. Sviluppa una depressione inibita con forti componenti di vergogna sociale, che la isola dalla cerchia degli amici. Il rendimento a scuola diminuisce paurosamente. Caterina comincia ad essere angosciata dall’aspetto fisico: frequenta assiduamente un salone di bellezza. Ciononostante, continua a vedersi brutta.

A 16 anni, nel corso di una vacanza trascorsa con i genitori, fa per la prima volta l’amore con un fidanzato ufficiale. Scopre di essere frigida. La scoperta attiva una crisi di eccitamento maniacale nel corso della quale seduce molti uomini e si lascia possedere. Viene ricoverata nuovamente in clinica e continua a vivere il suo ruolo di donna fatale e disinibita. Il leit-motiv dell’esperienza interiore si chiarisce: frigida con il fidanzato, Caterina ha scoperto di essere invece ‘calda’ nei rapporti trasgressivi. La sua libertà si identifica con l’infrangere le norme e i valori tradizionali. Quest'esperienza viene ideologizzata: al conformismo alto-borghese della famiglia, Caterina oppone un progetto di vita incentrato sulla liberazione sessuale, che giunge a configurarsi come il cardine di un cambiamento che vede nella normalità repressione, grigiore e ipocrisia.

I limiti di questo progetto sono due, uno soggettivo e uno sociale. Sul piano soggettivo, esso comporta anziché un lento lavoro di critica e di elaborazione dei valori tradizionali interiorizzati, una brusca rottura con la moralità intesa come costrizione, e dunque il passaggio "rivoluzionario" dalla moralità tradizionale all’immoralità. Sul piano sociale, il progetto, poi, per risultare significativo nel suo carattere di contestazione, non può realizzarsi in privato: la liberazione sessuale deve essere, insomma, esibita, e cioè sfidare il giudizio della gente. Questi due limiti, sommandosi, definiscono un circolo vizioso nel quale l’esperienza di Caterina finisce con l’intrappolarsi.

Impattando in una struttura fin troppo precocemente ordinata, e votata a rispondere alle aspettative paterne, il comportamento immorale produce una negativizzazione estrema dell’immagine interna, alla quale corrisponde un’elevata angoscia sociale. Per lunghi periodi Caterina vive in una condizione depressiva strisciante, che affiora sotto forma di angoscia estetica. Si vede brutta, tende alternativamente a trascurarsi, mimetizzandosi in abiti piuttosto infantili, o a curarsi eccessivamente, ponendo agli estetisti una serie di problemi insolubili. Si chiude in rapporti di fidanzamento ufficiali all’interno dei quali sperimenta la frigidità e una certa avversione alla sessualità.

Quando giunge al fondo di questa depressione, e si sente ‘morta’ e bloccata, si avvia quasi repentinamente – una due volte l’anno - una crisi di eccitamento. Caterina si veste e si trucca da donna fatale, sta fuori casa tutto il giorno, seduce con facilità gli uomini, scoprendo che la sua sessualità è tutt’altro che frigida, si comporta in pubblico senza ritegno, spende grosse cifre di denaro. Ma – quel che è peggio - non può fare a meno di raccontare ai suoi, con abbondanza di particolari, le avventure cui si abbandona, suscitando il disgusto di entrambi, fino a far scattare l’inevitabile repressione e l’internamento in clinica. Anche in clinica, nonostante i massicci dosaggi farmacologici, il suo atteggiamento rimane provocatorio, sfidante e disinibito. Subentrano poi l’angoscia di colpa, la vergogna e la depressione, che la restituiscono ai suoi come una bambina malata. Per anni, l’esperienza di Caterina si svolge su questo duplice registro di una dipendenza penosa e di una guerra d'indipendenza votata allo scacco.

I mezzi ingenti della famiglia sono posti al servizio di una causa sbagliata. Sia i ricoveri in clinica che un lungo periodo di soggiorno in una comunità svizzera non conseguono altro effetto che di reprimere una rivoluzione che rimane latente.

Periodicamente, anche sotto trattamento farmacologico, Caterina esplode e con rischi sociali sempre più rilevanti. A 17 anni, durante una gita in Inghilterra, viene incarcerata per cleptomania, dopo essere uscita senza pagare da un grande magazzino con una busta piena di capi d’abbigliamento. A 20 anni è di nuovo in carcere per aver insultato degli agenti di polizia che l’avevano fermata per un controllo, e viene condannata con la condizionale. A 21 anni rimane incinta ( non si saprà mai di chi) e, solo dopo lunghe esitazioni, si decide ad abortire. A 22 anni fa un viaggio in Sud-America e rimane di nuovo incinta. Il partner, giovane come lei, le si affeziona e decidono di sposarsi. Il mantenimento della famiglia è assicurato dal padre. Ma i problemi restano: Caterina rifiuta di calarsi nel ruolo di madre e di casalinga, continua a sperimentare, nel matrimonio, la frigidità, e, all’interno del rapporto, tenta di assicurarsi una posizione di dominio maltrattando il marito. Nonostante abbia un profondo bisogno di dipendere, s’impegna in nuove guerre di indipendenza, che culminano in un tradimento clamoroso: rientrando a casa, il marito la trova a letto con il cugino di soli 17 anni. Caterina viene nuovamente ricoverata, anche perché la ‘malattia’ serve a giustificare il comportamento inqualificabile. Tra l’altro, non si pente: parla del tradimento come affermazione della sua libertà, sembra ancora votata a trasgredire e a scandalizzare.

La famigliola si trasferisce a Roma. I genitori, da qualche anno, si sono separati. Il padre assicura il mantenimento, ma vivendo nell’ombra: ufficialmente, vive fuori dall’Italia per motivi di lavoro. E’ chiaro che le crisi di Caterina hanno come referenti i genitori e i valori che le sono stati imposti: l’immagine di brava bambina che il padre ha coltivato per anni, e il perbenismo ottuso della madre.

Caterina avvia un processo psicoterapico, ma non accetta di criticare la sua ideologia libertaria e anticonformista. La sua vita si svolge sul consueto registro di accettazione passiva dei ruoli familiari e domestici e di aspettative delle crisi, nel corso delle quali si sente viva e libera. La frequenza delle crisi, nel corso delle quali si sente viva e libera. La frequenza delle crisi diminuisce, ma conservando sempre le stesse caratteristiche: ostilità aperta e cinica nei confronti di tutte le persone cui è legata – genitori, marito, figlio e analista -, fantasia di liberazione dai legami e di disinibizione erotica. Caterina continua a vivere decentrata in questo progetto, il cui prezzo è l’inibizione della vita sociale, la frigidità e la persistenza di un’angoscia estetica che pone in luce un’immagine interna negativa. Cosa c’è dietro questo sacrificio di sé in nome di una causa perduta in partenza? Perché Caterina si affanna a distruggere legami in difetto dei quali sarebbe perduta? Perché non può vivere la libertà se non in termini di trasgressione delle norme, e cioè nei termini di una costrizione ad esser libera che coincide con un’alienazione della libertà?

Il duplice registro su cui si svolge la sua esperienza, che sembra riconoscere solo i ruoli di bambina innocente e incapace e di una donna corrotta e cinica, è sufficientemente indicativo. Ma si tratta di spiegare la drammaticità con cui queste categorie impregnano l'esperienza di Caterina, fino a strutturarla e a mortificare altri possibili modi di essere ch’essa contiene. Quel registro infatti corrisponde ad un codice mentale così diffuso, che rende impossibile qualificarlo immediatamente patogeno. Esso, che comporta il passaggio alla vita adulta e all’autonomia come una colpa, produce pseudonormalità e disagio psichico manifesto. Ciò impone di rintracciare nell’esperienza di Caterina le variabili che hanno reso patogeno quel codice. Variabili familiari e, ovviamente, soggettive.

I genitori di Caterina sono entrambi impregnati del mito dell’innocenza: da non perdere, per quanto riguarda la madre: da recuperare, per quanto riguarda il padre.

La madre di Caterina si fa vanto di essere rimasta sempre onesta prima, durante e dopo il matrimonio. Nella sua mentalità, ciò significa essere rimasta fedele ai valori tradizionali inculcati severamente dai suoi. E’ giunta vergine al matrimonio, e l’offerta della verginità, dal suo punto di vista, ha rappresentato un dono tale da giustificare una gratitudine perenne da parte del marito. Non lo ha mai tradito e, dopo la separazione, si è chiusa in un totale isolamento. Questa fedeltà ai valori tradizionali è stata pagata al prezzo di un ipercontrollo sulle emozioni e sui desideri, che l’ha resa una donna frigida e anafettiva. A suo modo, si è anche ribellata alla tradizione, realizzandosi solo sul piano lavorativo (è maestra di scuola) e rifiutando, con l’alibi di una costante neurastenia, i ruoli domestici. La casa è stata portata avanti dalla cameriera, Caterina è stata allevata da governanti, e, negli studi, da ragazze universitarie. L’onestà che essa incarna, insomma, è una commistione d'infantilismo e di ribellione vissuta sul registro della passività.

Il padre di Caterina è di umili origini ed ha avuto un’infanzia disagiata. Di carattere buono e generoso, ma impulsivo, si è lanciato nella vita con grande ingenuità. Ha subito una serie di delusioni affettive e sociali (era un sindacalista comunista degli anni ’50) tanto gravi da indurlo ad incattivarsi. Ha sviluppato un atteggiamento cinico e disincantato nei confronti delle donne (paradossalmente, da quando ha preso a trattenerle come oggetti di piacere, ne ha avute tante!), e, con espedienti leciti, si è lanciato nel mondo degli affari, divenendo un imprenditore di successo. Il danaro ha finito per stravolgere i suoi valori originari, dando luogo ad una visione del mondo totalmente dominata dall’avidità umana e dall’interesse. La moglie l’ha sposata perché, in virtù dell’educazione da essa ricevuta, vedeva in lei una sorta di donna angelicata, ingenua e pulita. Deluso dalle sue freddezze, ha continuato a coltivare i suoi sogni: la relazione che ha avuto - l’unica dopo il matrimonio - sembrava realizzarli. Ma, al di là di questo, la visione tragica di un mondo fondato sulla legge dell’homo homini lupus non ha mai soffocato il sogno di un mondo innocente e incorrotto. Nostalgicamente, questo sogno ha individuato nell’infanzia il paradiso terrestre perduto: paradiso terrestre ove non esistono la bramosia del denaro e del sesso che tutto corrompono e sporcano.

Caterina è stata investita dal sogno d’un’innocenza, minacciata o perduta nella vita adulta, ch’essa doveva incarnare.

C’è un episodio familiare che vale come prova. Mentre la madre era incinta, il padre mostrò la foto di una bambina angelicata, dal visino pulito, bionda e con gli occhi azzurri, chiedendole di darle una figlia come quella. Caterina, purtroppo, è nata bella, bionda e con gli occhi celesti! Con il sogno parentale essa ha interagito calandosi nel ruolo di bambina brava, affettuosa, diligente, senza malizia. E’ vissuta, cioè, come un angelo, fino a 13 anni, occultando accortamente i suoi desideri, le curiosità, le malizie infantili ed adolescenziali. Era già sdoppiata nell’immagine sociale di angelo e in quella interna di ‘diavolo’, quando ha intuito che l’organizzazione della sua vita, vigilata e seguita passa passo dal padre, dall’autista, dalla governante, dalla ripetritice mirava sì a proteggerla da un mondo cattivo, ma al prezzo della sua rinuncia a crescere e ad affermare i suoi bisogni di libertà personale. L’autoinganno in cui è caduta, comprensibile ma fatale, è stato quello di squalificare del tutto la sua immagine sociale, ritenendola falsa e frutto solo di condizionamenti esterni, e di assumere come vera quella interna, carica sì di bisogni personali ma, nella sua negatività perversa, non meno condizionata dall’esterno di quella sociale. Da qui prende origine il vissuto di oppressione e di limitazione della libertà personale che affiora a 13 anni come primo segno di disagio.

La scoperta del tradimento paterno assume però un valore precipitante a livello strutturale poiché essa, smascherando la doppiezza del padre, è come se rendesse lecito l’affrancamento dall’immagine sociale buona e la disinibizione della libertà personale sul piano dell’erotismo. La reazione dei genitori in rapporto ai suoi comportamenti osceni non fa che avvalorare la convinzione ch’essi vogliono che rimanga una bambina innocente, dipendente e sorda ad ogni bisogno di crescita e di realizzazione personale. Non insignificante è, infine, l’atteggiamento dei medici, che restituiscono a Caterina le crisi nei termini di una malattia dovuta ad uno squilibrio umorale, curare il quale significa tornare ad essere quello che era prima.

Nel momento in cui Caterina, ricusando l’immagine sociale nella quale è stata costretta a calarsi e identificando la libertà con la trasgressione erotica, butta via l’acqua sporca dei condizionamenti con la sua sensibilità, si chiude, senza sapere, in una struttura senza scampo. I suoi bisogni di dipendenza, infatti, non possono più evolvere, perché vengono identificati con una debolezza che espone alle manipolazioni, e non possono essere vissuti che sotto forma di accettazione passiva di un ruolo intimamente rifiutato: quello della bambina che non intende più essere brava, e rifiuta pertanto lo studio, la casa, il marito, il figlio, regredendo nell’apatia e nella depressione. I bisogni di libertà non possono essere vissuti che sotto forma di trasgressione, in virtù di una costrizione ad essere libera dai legami e dai valori che coincide con le crisi.

Il sovrapporsi a questa struttura di un’ideologia libertaria e avversa alle regole del buon vivere civile borghese non fa che drammatizzare la dinamica, rendendo comprensibile quel crescendo di trasgressioni che sembra rivolto a sfidare tutte le leggi civili e penali. Ad ogni crisi fa seguito una depressione più profonda, pervasa di sensi di colpa: ma in questi Caterina non vede che condizionamenti esterni da cui non riesce ad affrancarsi. Condizionamenti sono anche i legami affettivi con il padre, la madre, il marito e il figlio: per negare che essi esprimano suoi bisogni, Caterina è spinta ad assumere atteggiamenti di freddezza, che, nel corso della crisi, diventano brutali e cinici. L’angelo, insomma, finisce per trasformarsi in un ‘mostro’, secondo una logica dei contrari che, adottata dal soggetto come soluzione dei problemi, lo allontana dalla verità, esaltando bisogni autentici ma degradati nella forma, e misconoscendone altri.


4) Mario

A 13 anni, stando al cinema con la madre, Mario avverte una violenta costrizione al petto e una fame d’aria, che inducono, repentinamente, il terrore di un infarto. Si avvia, da quel giorno, una sequela di sintomi psicosomatici i più vari, che Mario minimizza o tenta di nascondere. E’ però inquieto, irritabile, tende a stare in casa più del solito, rifiuta di studiare.

C’è un motivo realistico che sembra sottendere l’avvio dell’esperienza: Mario, che è fisicamente grande e grosso, non ha avuto ancora lo sviluppo puberale. Il fratello, in particolare, ironizza un po’ su questa condizione. Mario teme di rimanere per sempre così. Viene visitato da un endocrinologo: un farmaco ormonale basta a sbloccare lo sviluppo. Ma, anziché migliorare, la condizione psicologica di Mario precipita; egli si abbandona a masturbazioni furiose, come se volesse recuperare il tempo perduto, e si colpevolizza. Riaffiorano minacce psicosomatiche di morte – riferite al cuore e ai polmoni - e si definisce una claustrofobia sempre più marcata. In classe, in seguito a una crisi claustrofobica, Mario, che è orgoglioso, chiede di uscire per andare al bagno. La professoressa rifiuta di concedergli il permesso. L’angoscia raggiunge vertici estremi: Mario fugge dalla classe, e non vi farà più ritorno.

I genitori, che sono entrambi intellettuali di professione, vivono con panico l’abbandono degli studi e tentano in ogni modo di indurre Mario a superare la paura, accusandolo di viltà e di pochezza d’animo. Assumono anche atteggiamenti poco tolleranti e repressivi. Accompagnato sulla soglia della scuola a forza, Mario sviluppa una reazione di panico evidente. Occorre desistere. L’abbandono della scuola essendosi configurato come fulmine a ciel sereno, non c’è soluzione di ricambio. Viene richiesto l’intervento di uno psicanalista, il quale afferma che si tratta di una ‘crisi adolescenziale’ e consiglia di prendere tempo.

Mario si abbandona ad una vita sregolata: dorme dall’alba a mezzogiorno, mangia avidamente fuori orario, si masturba ossessivamente, manifesta un’aperta aggressività nei confronti dei suoi. La madre si ammala di cancro al seno, viene operata e si alletta: anziché confortarla, Mario la beffeggia, la sfida ad essere forte e a non fare la scema. Questi comportamenti sregolati, amorali, cinici, dissacranti celano un vissuto di paura quasi perpetuo. Mario ha paura di morire – ha crisi d’asma, dolori al petto -, paura di impazzire – talora nelle prime ore della notte, si aggrappa alle sponde del letto perché gli sembra di stare andando fuori di testa-, paura di commettere crimini – di far male ai suoi-.

Alla paura Mario reagisce ideologizzando un modello di vita di eroe negativo ispirato ad alcune figure mitiche della musica rock. Ma i sogni sono ostacolati da una barriera di sintomi psicosomatici che lo costringono in casa. Nelle rare uscite con alcuni amici, che fumano hashish, Mario scopre di avere una vera e propria fobia per le droghe.

L’atteggiamento di Mario nei confronti della sua condizione è rabbioso. Egli ha solo un obiettivo: godersi la vita, rifiutando ogni impegno di lavoro e di studio. Ma, nella sua testa, c’è, com'egli dice, un ‘delinquente’ inteso a contrastare in ogni modo questo progetto, e a farlo disperare. Nonostante le minacce psicosomatiche, Mario, che si accredita un animo di lottatore, non cede: nei limiti in cui gli è possibile – e cioè in riferimento al sonno, alla fame e all’autoerotismo - si sregola sempre di più. Aumenta anche l’aggressività nei confronti dei suoi, che raggiunge vertici pericolosi: la madre, allettata e destinata alla fine, è fuori gioco. Nei suoi confronti Mario si limita a manifestare una cinica freddezza. Al padre frattura il setto nasale e una mano; ferisce il fratello ad una coscia con una lametta. Pugni e percosse quotidiane creano in famiglia un clima di terrore, vissuto con un rassegnato stoicismo. Oltre alle minacce psicosomatiche, l’unico freno alle violenze di Mario sembra essere la paura del manicomio e del carcere.

Cosa c’è dietro un progetto di vita così ispirato al principio del piacere? Qual è il motivo della rabbia che esplode nei confronti della famiglia? E, infine, donde muovono gli impedimenti che costringono Mario in una dimensione di dipendenza familiare e di clausura domestica?

La famiglia di Mario è di alto lignaggio. Entrambi intellettuali – docenti universitari - i genitori di Mario hanno aderito al comunismo negli anni ’50, e, nonostante una crisi seguita all'invasione dell'Ungheria, sono marxisti ortodossi. Di formazione cattolica, il marxismo per essi è, oltre che uno strumento di analisi della realtà, un’etica rigorosa incentrata sul senso del dovere, sullo spirito del sacrificio, sull’onestà e sul rifiuto radicale di ogni cedimento borghese. La pedagogia che discende da questi presupposti è singolare: essi intrattengono con i figli un rapporto spontaneo, tenero e protettivo, ma sono, al tempo stesso, d’un incredibile severità nei confronti di tutte le manifestazioni infantili che, ai loro occhi, assumono il significato di ‘debolezze’. Essi impongono in pratica un modello di sviluppo precoce e di tipo ‘calvinista’ ( la definizione è del padre stesso).

Mario è un bambino sensibile, dipendente, un po’ pauroso e molto incline al gioco: tutte queste tendenze, viste da un’ottica pedagogica severa, sono difetti da stroncare. Nonostante l’amore dei suoi, Mario viene sottoposto ad un insidioso trattamento che lo induce a vivere queste tendenze in termini di debolezza ridicola e vergognosa.

L’atteggiamento dei genitori ha una comprensibilità che trascende il livello della loro esperienza soggettiva. La scelta politica che hanno operato comporta un duro prezzo, data l’epoca storica e la loro condizione sociale originaria: nonostante l’indubbio valore di entrambi, la loro carriera accademica va incontro a enormi difficoltà. Per anni, sono praticamente emarginati in sedi periferiche, costretti a viaggiare settimanalmente e a sacrificarsi. Il mondo, come essi lo sperimentano, è duro e richiede un’enorme forza di carattere per rifiutare l’integrazione. L’educazione mira a porre i figli al riparo dalla ‘cattiveria’ del mondo.

Ma Mario non è in grado di comprendere queste motivazioni complesse: egli si sente sfidato e, verso i 5-6 anni, accetta la sfida. Copre la sua debolezza e il bisogno d’amore con la rabbia: diventa aggressivo, protestatorio e violento. Reagisce alle critiche scagliando oggetti e azzuffandosi con la madre e il fratello. Medita propositi di vendetta, proiettandoli sul divenire grande. E, intanto, dato che il modello di vita che gli è proposto s’incentra sul dovere dello studio e, in prospettiva, del lavoro, studia il meno possibile, si dedica al gioco e elabora, nel corso degli anni, un’ideologia che rifiuta l’autoregolazione vedendo in essa una sorta di resa ai condizionamenti educativi.

L’abbandono della scuola segna il momento di rottura definitiva con le istituzioni. Ma non è un caso che questo momento, anziché inaugurare un’epoca di libertà, segna l’avvento delle minacce interne e induce un’ulteriore dipendenza dalla famiglia. Per anni, Mario insiste in una vana guerra di liberazione, che si riduce ad un disordine interiore e comportamentale, il cui effetto è di incrementare la paura di morire, di impazzire e di commettere crimine. Ma in queste paure Mario non riesce a leggere che un’orribile condanna a non poter vivere come desidera, che gli sembra un’ingiustizia tanto più grave in quanto non è dovuta a limitazioni esterne, bensì ad un ‘delinquente’ che si è istallato dentro di lui.

Le potenzialità evolutive di una struttura di questo genere sono intuibili, e investono in pratica tutto l’universo di secondo livello. Mario in effetti più volte tocca il confine della depressione, e medita il suicidio, più volte pensa di doversi vendicare dei torti subiti dai familiari facendosi fuori, più volte, quando tenta di socializzare, è preda di vissuti persecutori. Ciò che lo mantiene in equilibrio, e impedisce la catastrofe, è la speranza di un grande amore che cambi radicalmente la sua vita impastata d'infelicità. E' solo questa speranza che impedisce all’ideologia trasgressiva di chiudersi e di realizzarsi distruttivamente.

Il tragitto ‘terapeutico’ in virtù del quale Mario si fa carico delle sue ‘debolezze’, che, oltre a residui infantili, esprimono anche autentiche qualità relazionali, liberandole dal vissuto di nanismo che lo ha indotto a rifiutarle e a maltrattarle, e rinuncia al progetto di vita trasgressivo, recuperando il bisogno di autoregolazione, a lungo alienato nelle minacce psicosomatiche, come proprio bisogno, è di un interesse tale che meriterà un lungo discorso successivamente. C’è però un documento autografo, che segna una sorta di presa di coscienza definitiva, che mi sembra opportuno riportare quasi integralmente.

"Non c’è dubbio: negli ultimi anni ho ingannato me stesso e chi mi stava intorno. Non ho avuto il coraggio di ‘disfarmi’ di un sistema di vita che ho sempre pensato, anche nei momenti più critici, di poter rattoppare con qualche riforma, giocando continuamente a rimpiattino. Ma ora che tutto è chiaro, si impone un cambiamento. Si tratta di mettere in discussione, perché logoro (in certi periodi, però, mi è stato anche di notevole aiuto) un modo di pensare – e forse anche di agire - che mi ha portato in una situazione di grande logoramento. In quest’analisi, mi piace insistere sugli errori miei, tralasciando quelli dei miei familiari. Così come mi appare chiaro che vada fatto un passaggio di potere, penso non senza preoccupazione che un passaggio di potere lascia per forza di cose un periodo di tempo sguarnito con un’autorità vacante. Mi sforzo di precisare cosa sia in questo passaggio di potere. Il parallelo che mi viene in mente è quello di ‘rivoluzione’. Io, che volevo tutto, sono il monarca, che con le sue truffe e l’inganno respinge le richieste di cambiamento, non volendo rinunciare ai propri privilegi. Nel mio caso, i privilegi sono i miei sogni: la possibilità teorica di ‘tirare’ la vita, sfruttando gli spazi sempre più esigui che essa mi concedeva. Questo regime fa acqua da tutte le parti, è fuori del tempo: il re deve abdicare!

Certo non sarà facile effettuare questo cambiamento. Mi rimane ancora il dubbio se si tratti di ‘svecchiare’ solo la fantasia o prima la fantasia – di onnipotenza - o anche alcuni comportamenti datati. Io penso che vadano regolati prima i miei pensieri e che poi alla prova dei fatti, il resto scorrerà liscio. La mia ansia, però, è che queste fantasie, non essendo controllabile il grado di repulisti che su di esse voglio effettuare, approfittino ancora una volta per beffarmi e riproporsi come hanno fatto finora. Non voglio però che ci sia bisogno di ‘altri momenti brutti’ – che è poi un eufemismo - per convincermi a cambiare. Queste righe dunque, oltre che un aiuto che do a me stesso per spingermi a ‘precipitare’, sono anche un ‘testamento’ nel caso dovessi riuscire nell’impresa.

Il tema fondamentale per uscire da questa situazione è la regolazione delle fantasie di piacere, correlata ad una regolazione delle fantasie di dovere. Se diamo per scontato che il più autentico rappresentante del piacere è il sesso, e del dovere il lavoro, si comprende bene come io continui a vivere in questa eterna altalena di ‘grande espiazione’, ‘sopportazione’, ‘apnea’in attesa e funzione di grandi eventi ‘smodati’, ‘eccessivi’ senza limiti. Si tratta, dunque, di regolare queste due forze –il piacere e il dovere- che, per varie ragioni, hanno preso nella mia mente una configurazione opposta di scontro e di massima distanza.

Il fatto che sia stato il ‘sesso’ o la masturbazione ad essersi contraddistintisi in questi anni come massimo esponente del piacere e della sregolatezza – ecco dov’è l’errore! - non è un caso, motivato da coincidenze temporali: infatti, quando questi problemi hanno cominciato a porsi, intorno ai 14 anni, cosa avevo per manifestare questa ‘protesta’ sbagliata? La masturbazione dalla parte del piacere e il lasciare la scuola, ecc, dalla parte del dovere.

Vorrei anche dire che mi è chiaro, finalmente, anche il ruolo di ‘salvatori’ – lo debbo ammettere non senza rabbia - che hanno avuto i sintomi psicosomatici: è chiaro infatti che questi sono intervenuti per impedirmi di andare alla deriva, nel labirinto delle perversioni. Ora viene da chiedersi: c’è bisogno di presentarsi in modo così violento, non c’è altro modo di far riconciliare quelle due parti? Evidentemente è stato necessario così e forse devo a questi sintomi il non essere finito male, cioè morto, drogato, ecc.

Però, dato che peggio di così c’è a mio avviso molto poco, penso che sia giunta l’ora di cambiare, quindi questo equivoco deve finire: vanno fatti ravvicinare e rappacificati questi due ‘combattenti’.

Penso che se qualche colpo c’è ancora da dare, dovrò darlo a questo grande sogno che chiamerò di ‘reazione maschilista’ tendente a superare ogni regola, nell’eccesso, con autoesaltazione, in certi momenti, di comportamenti del genere, e paura di ripercussione in altri".

L’interesse di questa confessione è enorme, poiché, pur nella sua essenzialità (si tratta d’altro canto di un memorandum ad uso personale), esso conferma alcune ipotesi che siamo venuti elaborando.

Mario riconosce, anzitutto, che il suo disagio rappresenta una somma degli errori suoi e dei familiari. Gli errori familiari consistono nell’avergli imposto, nonostante le apparenze, un modello di vita ‘calvinista’ o, stando al sogno, stalinista (v. il sogno del lager), che, mortificando i suoi bisogni e gettando nella sua realtà infantile una luce di disprezzo, hanno introdotto una protesta ‘sbagliata’, covata nel corso dell’infanzia e esplosa con l’adolescenza.

La protesta consiste nell’aver assunto il piacere, inteso come soddisfazione pulsionale immediata, come unico obiettivo esistenziale. Quest'assunzione ideologica ha prodotto una degradazione del bisogno di autoregolazione, vissuto nei termini di dovere costrittivo, di norme imposte dall’esterno, di limite intollerabile. In pratica, per sfuggire al ‘nanismo’ psicologico, Mario ha sviluppato un’ideologia di onnipotenza maschilista, che ha avuto l’effetto di congelare il suo sviluppo, mortificando la ricchezza dei suoi bisogni e d’integrazione sociale e di individuazione. Ricchezza resa evidente dal fatto che, non appena si allenta la morsa dall’ideologia, Mario scopre, oltre al suo bisogno d’amore e di conferma sociale, l’interesse per la cultura e una spiccata sensibilità artistica (figurativa).

In rapporto alla distruzione ideologica operata dalla protesta ‘sbagliata’, è evidente la funzione autocorrettiva della struttura psicopatologica, che costringe Mario a rimanere dipendente dalla famiglia e a regolare i suoi comportamenti per effetto di minacce interne. In rapporto alla struttura psicopatologica, Mario assume due atteggiamenti: per un lungo periodo la vive in termini persecutori, come un’arbitraria e delinquenziale limitazione della sua libertà. Solo quando comincia a coglierne il significato correttivo, e ad intuire che essa esprime i bisogni di autoregolazione alienati, si realizzano le possibilità di un autentico cambiamento. E’ la stessa coscienza alienata dalle istituzioni pedagogiche e poi dalla rabbia a recuperare, insomma, il filo della verità, e ad evitare la catastrofe personale o sociale. Se si pensa al concorso di circostanze favorevoli che hanno impedito il passaggio della struttura al secondo livello (un ambiente familiare capace di reggere l’urto della violenza e di porsi in crisi senza patetiche coperture delle responsabilità di Mario; i numerosi ‘incidenti’ fortunosamente senza gravi conseguenze; l’intelligenza elevata e sofisticata, benché non colta, di Mario, abile nell’autoingannarsi come nel demistificarsi; un background socioculturale tale da escludere ogni tentazione di psichiatrizzazione; ecc.) insorge un certo pessimismo sulle possibilità che la nuova scienza del disagio psichico possa tradursi da teoria in prassi. Ma, intanto, sapere come stanno i problemi è la premessa per ‘inventare’ soluzioni.

L’ultima nota si impone e riguarda il diverso modo di porsi dei soggetti in rapporto all’ambiente. Il fratello di Mario ha vissuto la stessa esperienza, e l’ha elaborata a modo suo. Chiudendosi – secondo quanto egli confessa - a 6-7 anni nella torre d’avorio di un'indipendenza totale, il cui prezzo è la mortificazione dei bisogni d’affetto e di legame, realizzandosi nello studio e nel lavoro, ma isolandosi dalla famiglia e rinunciando ad ogni abbandono sentimentale ed erotico. Egli rappresenta, insomma, l’altra faccia della medaglia rispetto a Mario: se questi deve autoregolarsi, il fratello deve apprendere a ‘sregolarsi’, a lasciarsi andare per non continuare a vivere in una sorta di struttura congelata.


5) Massimo

A 6 anni Massimo sente le ‘voci’: nella sua testa, alcune persone confabulano progettando di rapirlo. Tenta di scongiurare il pericolo rispondendo che, se non lo rapiscono, convincerà uno zio, imprenditore edile, a regalare loro un palazzo. Poi, terrorizzato, chiama la mamma e le riferisce ciò che ha sentito. Sono brutti sogni - è la risposta. A distanza di anni, quest’episodio comporta la diagnosi di ‘schizofrenia’ formulata dagli psichiatri e la loro convinzione, esplicitata ai familiari, che si tratti di una malattia genetica. Questa convinzione viene avvalorata dal fatto che , dopo la morte della madre, anche il fratello di Massimo si ammala: si chiude in casa e, confabulando con se stesso, vi rimane segregato per un anno. Il padre, che è stato sempre un uomo ‘debole’ ed apprensivo, trovandosi da solo con due figli malati, sviluppa egli stesso una depressione incentrata sul tema d’una catastrofe imminente. L’unica scampata al naufragio è una sorella, laureata in medicina, coniugata con un figlio: lucida nei giudizi, essa rifiuta la diagnosi degli psichiatri, e denuncia la responsabilità della madre, che, a suo avviso, è stata di una severità spietata con tutti. Ereditarietà o patologia familiare, dunque? La storia di Massimo deve essere letta in controluce rispetto a due opposti quadri mentali che la danno per scontata.

E’ facile giudicare la famiglia di Massimo come una tipica famiglia ‘inadeguata’. Ma inadeguata rispetto a cosa? Ad un contesto urbano nel quale i genitori si muovono come pesci fuori d’acqua. Sono entrambi originario di un paese nelle Marche, cattolici credenti e praticanti, profondamente tradizionalisti. Sradicati dal contesto originario, incentrato sulla famiglia allargata, e trasferitisi a Roma, incontrano entrambi enormi difficoltà di adattamento. Il padre lavora al Vaticano: casa e ‘Chiesa’ esauriscono i suoi orizzonti. Non sporge mai la testa fuori da questi ambiti, perché ha paura di un mondo troppo diverso rispetto ai suoi valori, che sono quelli di un cattolicesimo bigotto e neghittoso.

La madre molto legata alla famiglia originaria, si trova a dover affrontare da sola la responsabilità di una gestione domestica e di allevamento dei figli troppo elevata. Reagisce con ‘un’esaurimento cronico’ che la rende perennemente tesa, nervosa, di malumore. L’educazione dei figli (Massimo è il primo) si traduce in una vera e propria battaglia contro tutte le debolezze e tutti i difetti. E’ severa, rimproverante e punitiva: odia, in particolare, le bugie, che reprime con violenza. A 4-5 anni, Massimo ha il terrore della madre (terrore che lo seguirà sempre), e si conforma alle sue aspettative. Di natura è docile, affettuoso e portato al rispetto: diventa timido, per nulla esigente, pauroso.

Quando nasce il fratello - Massimo ha 9 anni - l’inadeguatezza della madre diventa drammatica. Una zia nubile viene dal paese a vivere con la famiglia. L’atmosfera diventa distesa e serena. Ma, dopo alcuni anni, per dissidi, la zia torna al paese. Si ripiomba nella precarietà e nel tirare avanti con la paura di una catastrofe imminente. Avanzando negli anni, il padre vede nero davanti a sé. Nel 1977 la madre muore. Due anni dopo, la sorella si sposa. Rimane il padre, stanco, ansioso, avvilito con i due figli. Massimo ha già una carriera psichiatrica alle spalle; il fratello si chiuderà definitivamente in casa nell’82. Questo è lo scenario familiare: la tessitura dell’esperienza di Massimo, e la struttura psicopatologica che ne deriva, richiede un discorso profondo.

Benché timido, fino alla scuola media, Massimo eccelle negli studi. L’adolescenza sopravviene senza turbamenti: Massimo ignora la sessualità, eccezion fatta per vaghe fantasie oniriche, e non si masturba mai. Con l’adolescenza affiora un bisogno di religiosità, che si traduce in una fede profonda, partecipata, vissuta come uno strumento di crescita e di valorizzazione di sé. La fede induce un sentimento orgoglioso di diversità rispetto agli altri: Massimo si sente invogliato a migliorare se stesso. Ignora di star tentando di affrancarsi da bisogni affettivi e relazionali rimasti intrappolati durante l’infanzia, che sono rifiutati.

Dopo le medie Massimo si iscrive ad un liceo statale misto. Comincia ad avvertire un certo interesse per le ragazze, ma, dopo un iniziale periodo d'entusiasmo, si convince di essere brutto. Si guarda allo specchio pateticamente: ha le spalle piccole ed i fianchi larghi. Desiste dal dare spazio ai suoi bisogni affettivi. Si sente inadeguato e debole in un ambiente piuttosto duro, dove comincia a circolare il clima della contestazione. Insorge una penosa balbuzie, che lo porta all’isolamento. La contestazione del ’68, attivissima nel liceo frequentato, induce una rivoluzione interiore. Massimo giunge a pensare che è la fede ad averlo reso debole e pauroso. Se ne libera, votandosi al marxismo. Legge, studia, approfondisce e si sente rinato. Ma il cambiamento ideologico investe la famiglia, chiusa nei suoi valori. E’ la prima volta che Massimo entra in conflitto con i suoi. Dipende accanitamente le sue nuove idee, ma viene contrastato in tutti i modi.

La crisi politica, però, ad esaminarla da vicino, è un ulteriore ideologizzazione. Essa comporta infatti il rifiuto del privato, dei bisogni personali, del sentimento e di tutto ciò che rientra nell’ambito dell’individualismo borghese. E’ insomma, ancora una volta, una rivoluzione ascetica, nell’ambito della quale la rivoluzione significa ‘leninisticamente’ rinuncia a se stessi. Massimo frequenta un gruppo di extraparlamentari in cui vigono delle regole severe: si richiede, in pratica, di incarnare già prima della rivoluzione, il modello dell’"uomo nuovo" comunista. Ma questo modello reprime ulteriormente i bisogni affettivi ed erotici che Massimo ha sempre rifiutato. Non solo: impone una dimensione di lotta contro le ingiustizie che non può realizzarsi che in virtù della valorizzazione d’una rabbia rivoluzionaria. E’ un clima, quello del gruppo, di ‘guerra santa’, che impone di essere duri con se stessi e con gli altri, di imporsi una rigida autodisciplina e di essere pronti a passare all’azione.

E’ al culmine di questo processo di ideologizzazione che insorge la malattia. Un giorno, Massimo è in casa e guarda il fratello seduto su una poltrona: lo vede piccolo, debole, insicuro, esposto a mille insidie. Pensa cosa sarà di lui quando sarà grande. D’improvviso, lo ‘introietta’ (il termine è suo): se lo sente dentro, che ingombra il suo orizzonte e non gli dà più pace. L’introiezione lo induce a sentirsi, come lui, piccolo, debole, impotente. Comincia ad avere paura del mondo, non riesce più a studiare, i fumi dell’ideologia rivoluzionaria si dissolvono. Massimo si sente bloccato, inadeguato, incapace. Pensa che non riuscirà a far nulla, né a terminare gli studi né e cercarsi una famiglia. Si alletta.

Viene ricoverato in una clinica privata, tre volte in un anno, e sottoposto, senza esserne informato, ad elettroshocks. L’intento degli psichiatri è di guarire la sua depressione.

Il rimedio, ovviamente, è peggiore del male. Dopo alcune applicazioni, Massimo si sente ‘bloccato’: la personalità, nel suo vissuto, è refluita nel cervelletto, rimanendovi intrappolata. La testa, ormai svuotata, è divenuta trasparente ed espone allo sguardo di tutti la sua ‘nullità’.

Dopo due anni di inutili cure, sopravviene un terzo processo di ideologizzazione, riferito alla ‘malattia’. Massimo, infarinato di letture psicanalitiche, si convince che sono la sessualità e l’aggressività ad essere bloccate dentro di lui, e che questo blocco giustifica il non avere personalità. Inizia una terapia analitica ad indirizzo reichiano, che, naturalmente conferma le sue ipotesi e, dopo alcuni anni, provoca uno ‘sblocco’. Rimedio, anche questo peggiore del male, ché Massimo si sente invaso da tensioni incontrollabili di natura pulsionale che deve bloccare, regredendo ulteriormente.

L’essere bloccato e privo d'identità espone, naturalmente, Massimo al rischio di sentire ogni tanto che gli altri comandano la sua mente e lo influenzano. Gli episodi persecutori che sopravvengono hanno un carattere singolare: benché manipolato, Massimo pensa che ciò sia fatto a fin di bene, per sbloccarlo. Quando non delira, esponendosi agli altri, Massimo si sente giudicato come un essere ridicolo, mediocre, brutto e senza personalità. Reagisce isolandosi progressivamente, trascorrendo la vita perpetuamente a letto, gravato da un'infinita debolezza, nell’attesa che avvenga uno ‘sblocco’ miracoloso, che gli restituisca le sue energie e la sua personalità.

L’esperienza di Massimo mi sembra esemplare, poiché in essa la funzionalità della struttura e l’ideologia della guarigione appaiono in una trasparenza inconsueta.

L’immagine interna, anzitutto, è restituita con fedeltà dai sintomi e dall’atteggiamento che Massimo assume in rapporto ad essi.

In breve, l’immagine interna è quella di un ‘nano’ psicologico, di un essere ridicolo, inadeguato, brutto, debole, manipolabile e privo di personalità. E’ evidente che quest'immagine traduce il modo in cui Massimo è stato spinto, dall’atteggiamento materno e dalla cultura familiare, a vivere se stesso da bambino. Modo pregiudiziale che azzera e squalifica le qualità originarie di Massimo: qualità plastiche di intelligenza, di sensibilità, di tendenza a rispondere alle aspettative altrui. Qualità di educabilità, manipolabili e di fatto manipolate dall’ambiente: cionondimeno autentiche. Purtroppo, percependole negativamente, e confondendole con la condizione originaria di dipendenza e di oggettiva debolezza del bambino, Massimo assume nei loro confronti un atteggiamento di rifiuto, e si vota, in virtù della pratica religiosa prima e della presa di coscienza politica poi, ad un lavoro di rafforzamento e di perfezione, che, in realtà, le mortifica. Frustrando progressivamente i bisogni relazionali, egli rimane di fatto un ‘nano’. L’introiezione del fratello non è che la restituzione alla coscienza di una problematica che essa rifiuta, orientandosi sempre verso un modello di ‘durezza’ rivoluzionaria estraneo al corredo originale dei bisogni. Ma a quest'attacco dall’interno Massimo reagisce sovrapponendo alla verità – di essere debole sì, ma non sprovvisto di qualità impiegabili a livello relazionale - la teoria del blocco. Il blocco in effetti è avvenuto realmente, prima in virtù delle influenze ambientali e poi del trattamento cui Massimo si è sottoposto. Ma, nel momento in cui egli tenta di compensare il suo orribile sentirsi ‘nano’ con le fantasie di energie erotiche e aggressive rimaste bloccate, e cioè in pratica con fantasie di onnipotenza, imbocca un vicolo cieco.

Quelle energie, se sbloccate repentinamente, anziché una crescita graduale e armoniosa, comporterebbe il passaggio ad una sorta di mostruosità incontrollabile. Massimo ha bisogno di credersi un gigante incatenato, piuttosto che un essere impedito nello sviluppo delle sue qualità originarie, ma questa fantasia, che compensa l’orribile immagine interna ch’egli ha di sé, non può che rimanere bloccata.

Massimo, a conclusione di un tragitto di esperienza nel quale incidono circostanze familiari, soggettive, sociali e psichiatriche, si trova ad essere doppiamente alienato. Alienato per un verso in una malattia che gli restituisce il suo modo di essere originario in termini ridicoli, vergognosi e non evolutivi; alienato, per un altro, in una fantasia di guarigione che, comportando un’ulteriore negazione di quell’essere originario e il passaggio ad un'onnipotenza senza controllo non può realizzarsi.

Quanto all’essere originario, che va liberato dalla negatività in cui è rimasto coinvolto per essere recuperato nelle sue qualità potenziali, a partire dalle quali è possibile integrare una personalità non certo forte ma buona e socievole, è inutile riferire in quale misura Massimo si è rifiutato di riconoscerlo. C’è una chiave del discorso terapeutico – che mai come in questo caso si è configurato come critica ideologica, che credo sia opportuno riferire. Da bambino Massimo attribuisce la sua docilità e la remissività nei confronti della madre alla paura della rappresaglia: vissuto credibile e realistico. Ma, quando deve spiegare il rispetto affettuoso nei confronti della madre sino alla morte di questa, in rapporto al ricordo dei torti subiti, egli è in difficoltà. Afferma che, se non si è vendicato, maltrattandola e picchiandola, è perché, prima ancora che se ne rendesse conto, la sua aggressività si era bloccata. Questa tendenza a volgere al negativo, a definire in termini di difetto, l’espressione di qualità umane – di sensibilità, di comprensione, di perdono - è la chiave dell’esperienza di Massimo. Chiave drammatica, che comporta la possibilità di perdersi, per inseguire il sogno di essere altro da ciò che egli è, e il rifiuto di divenire ciò che egli può divenire: un essere non aggressivo né vendicativo, e, cionondimeno, né ridicolo né privo di personalità.


6) Rita

A 56 anni, dopo 25 anni di carriera psichiatrica, caratterizzata da numerosi ricoveri in clinica e prolungati trattamenti con psicofarmaci maggiori, Rita viene affidata ai familiari da un augusto docente romano con la diagnosi di paranoia cronica che comporta solo la possibilità di un progressivo peggioramento fino alla fine. La ‘paranoia’ di Rita consiste nel fatto che essa, quando esce di casa, sente che tutti parlano di lei, rievocano gli sbagli del passato, la giudicano negativamente (come una donnaccia) e la tengono sotto un assiduo controllo per verificare se, finalmente, ha messo la testa a posto o fa solo finta di essere pentita e rassegnata.

Nonostante l’età, Rita è una persona ancora vivace, ricca introspettivamente e desiderosa di ‘guarire’. Naturalmente, gli errori che la gente le rimprovera essa stessa li riconosce e se ne accusa: quello che non comprende è perché la gente debba insistere tanto su aspetti del passato di cui si è pentita e che considera ‘morti e sepolti’. Non solo ne è pentita, se ne vergogna e pensa che sarebbe meglio dimenticare tutto. Per quanto la riguarda, non c’è problema: è la gente che insiste a parlare, ad accusare, a rimproverare…

La paranoia strutturata è una sfida grave per gli psichiatri: nel tentativo di indurre un miglioramento, Rita, nel corso degli ultimi anni, è stata sottoposta ad un’escalation farmacologia aberrante. Inghiottisce senza alcun risultato compresse e gocce dalla mattina alla sera. Paranoica, nel senso classico della parola, Rita lo è senz’altro: ma gli psichiatri che intendono guarire una visione del mondo che non sanno definire che in termini di ‘malattia mentale’ non rientrano forse nella stessa categoria? Essi partecipano, con un’ingenuità cui difetta la buona fede, dell’autoinganno di cui è preda il soggetto: vedono la malattia così come il soggetto la denuncia. Sono fuori strada nella misura in cui il soggetto è fuori strada.

La malattia di Rita, infatti, sta meno nei rimproveri della gente, che realizzano un controllo comportamentale di cui essa continua a sentire di aver bisogno per non sbagliare, che nell’oggetto dei rimproveri: errori e colpe che essa stessa riconosce, ma di cui le sfugge il senso, e che, quindi, attestano ai suoi occhi un’incontrollabilità che le sembra latente ma non scongiurata.

I capi di imputazione, che inducono Rita ad assumere il mondo come Pubblico Ministero, sono riconducibili a tre: comportamenti osceni, calunnie, furti. Sarebbe troppo lungo elencare tutte le circostanze imputate. Vale la pena di riportare, per ogni capo di imputazione, degli episodi esemplari.

A 42 anni Rita lavorava come bidella in una scuola. Nell’intervallo tra le lezioni, i professori si radunavano in uno stanzino dove Rita preparava per loro il caffè. Tra i professori, uno prese discretamente a corteggiarla. Un giorno – per caso si trovavano da soli - le si accostò, l’abbracciò e la baciò. Per un attimo, Rita si abbandonò al bacio: giusto il tempo di accorgersi che la porta dello stanzino era socchiusa e che alcuni studenti transitavano nel corridoio. Dopo qualche giorno, Rita ebbe l’ennesima crisi di eccitamento con disibinizione erotica, in seguito alla quale fu ricoverata. Quando uscì, si sentiva in colpa: tutti sapevano di quanto era accaduto nello stanzino, la giudicavano male e ironizzavano sulle sue ‘voglie’ di donna già matura. Rita fu costretta a dare le dimissioni, ma il risultato fu vano. La notizia del comportamento osceno si era diffusa in tutta la città, e i giovani in particolare la giudicavano con ironia e disprezzo.

A 46 anni, Rita decise di rivolgersi ad un avvocato per sfrattare un’inquilina che sola occupava l’appartamento lasciatole in eredità dal padre. Voleva andarci a vivere lei. La causa si trascinò a lungo, e l’inquilina che aveva conoscenze tra i magistrati, manifestò nei confronti di Rita una certa tracotanza. Nell’aula di tribunale, quando fu chiaro che il suo stesso avvocato si era venduto (circostanza confermata dai familiari) Rita si scatenò contro l’inquilina precipitandole addosso una valanga di accuse infamanti. Scampò ad un processo solo perché l’episodio inaugurò un nuovo ‘eccitamento’ che si concluse con un ricovero.

In varie epoche della vita, Rita, che, quando stava bene, si presentava come una persona molto educata e godeva di buone referenze, ha lavorato come baby-sitter. In tutti i casi, dopo qualche tempo, i datori di lavoro intuivano la sua disponibilità, e la obbligavano ad orari più lunghi di quelli pattuiti e, spesso, anche a far faccende di casa. In tutte queste occasioni, Rita si è sempre vergognata di chiedere il giusto compenso, per il timore che i datori di lavoro pensassero che essa fingesse di star bene con i bambini solo per ‘interesse ‘. Prima o poi, Rita cominciava a soffrire di ‘cleptomania’: doveva asportare piccoli oggetti o piccole somme di denaro. Naturalmente , dopo qualche tempo, intuiva che tutti sapevano ch’era una ladra e la accusavano. Doveva lasciare il lavoro, e occultarsi agli occhi della gente.

A 56 anni, quando gli psichiatri la definiscono ‘incurabile’ i numerosi episodi di oscenità , di esplosioni rabbiose nei confronti di terzi e di cleptomania hanno dato luogo ad una condanna sociale che viene vissuta come un esser sorvegliata a vista: se Rita esce di casa da sola è perché va alla ricerca di un uomo, se si sofferma con delle amiche è per sparlare di qualcuno, se va in banca è per ritirare il denaro "rubato".

A cosa tenda una struttura psicopatologica di questo genere è evidente: a tener vivo un controllo sociale i cui effetti di minaccia dovrebbero realizzare un comportamento immune da ogni errore, rispettoso almeno alla legalità se non alla moralità. E’ anche evidente che, se si pone sotto controllo così spietato, Rita non si concede alcune capacità di autoregolazione.

Nonostante un certo risentimento nei confronti della crudeltà della gente, che rievoca ‘acqua passata’, Rita è convinta che i giudizi nei suoi confronti non siano infondati. In pratica, si ritiene come una donna di facili costumi, incline alla rabbia, alla calunnia e alla menzogna, e, per giunta, ladra. E’ chiaro che la ‘malattia’ non è nella persecuzione, ma nella lettura che Rita fornisce dei suoi comportamenti passati e nell’incontrollabilità che continua, nonostante le apparenze, ad attribuirsi. Ma, in ultima analisi, quei comportamenti – gli eccessi erotici, le esplosioni di rabbia, i ‘furti’- sono reali: quale altra lettura fornire?

Non sorprenderà sapere che, fino a 30 anni, Rita ha vissuto in maniera esemplare. Originaria di un paesino dell’alto Lazio, terza di 5 fratelli, educata in maniera oltremodo tradizionale da un padre estremamente severo, fin da bambina essa ha avvertito la pericolosità della sua ‘natura’ vivace, curiosa, estroversa, socievole. Con l’adolescenza, mette la testa a posto. I fratelli e le sorelle si sposano. Rita rimane nella casa paterna per curare i genitori anziani. Ignora gli affetti, l’amore, la sessualità: sacrifica se stessa sull’altare di una causa di cui le sfugge il senso. Dopo la morte dei suoi, cominciano le sue ‘sregolatezze’: ma, a ben vedere, si tratta di episodi di rottura comportamentale che muovono da una struttura di personalità ipercontrollata, di tipo ossessivo, incapace di affermare i propri diritti e di esprimere i propri bisogni. Non solo: ma tutti gli episodi sembrano mirare, anziché ad un’autentica liberazione, a creare i presupposti di un processo di colpevolizzazione. Questo spiega la docilità con cui Rita ha accettato i ricoveri in clinica, i trattamenti e i maltrattamenti psichiatrici. Il suo obiettivo, evidentemente, non è la liberazione, bensì di reintegrare un’immagine di sé buona e stimabile, nonostante le ‘colpe’ commesse. Ma, dato che queste colpe fanno capo ad una quota di bisogni di individuazione misconosciuti e rifiutati, e che, quindi, continuano a premere, il controllo non può essere assicurato che dagli autorimproveri e dalla sorveglianza sociale.

Ancora una volta, dunque, ci confrontiamo con una struttura di personalità alienata a due livelli: alienata, per un verso, in una libertà che, esprimendosi solo sotto forma di trasgressione, mortifica e non realizza i bisogni di individuazione; e, per un altro, in un bisogno di controllo, che, per essere vissuto come negazione della libertà personale, può essere esercitato solo sotto forma di repressione interna (superegoica) o esterna. Struttura rigida di sé e per sé, cristallizzata in virtù di interventi terapeutici che l’hanno puntualmente confermata, e destinata dunque alla cronicità.

Alla cronicità Rita è comunque scampata, poiché, nonostante la lunga carriera, non ha rinunciato a capire l’organizzazione della sua vicenda umana. Sorprendentemante, Rita, con le sole armi del buon senso e di una discreta cultura, aveva già riletto la sua storia in rapporto ai condizionamenti familiari ed educativi. Ciò che le difettava era comprendere il modo ‘alienato’ in cui essa aveva interagito con quei condizionamenti, votando la sua vita al sacrificio per confermarli. Acquisita questa chiave, l’esperienza di Rita si è integrata su un registro molto più sereno. Per alcuni aspetti, questo progresso si può ritenere in una certa misura spontaneo, se è vero che l’età comporta naturalmente un allentamento di dinamiche incentrate sulla libertà. Paradossalmente, ciò che alimentava la ribellione erano le cure: i dosaggi psicofarmacologici irrazionali, che confermano l’entità del pericolo di una perdita di controllo. Che la diagnosi psichiatrica di irreversibile cronicità sia stata definita proprio quando erano maturate circostanze atte ad indurre una sorta di attenuazione spontanea dei conflitti atte ad indurre una sorta di attenuazione spontanea dei conflitti interni è un dato su cui riflettere.

Pur di non rinunciare all’ideologia della malattia, gli psichiatri giungono ad ignorare quella vix medicatrix naturae che ha il pregio di essere ovvia. Patetica vix, se si vuole: ma non priva di senso. Se la paranoia, non rafforzata da interventi irrazionali, tende a spegnersi con l’età, ciò significa che essa, nonché una malattia, è una funzione di bisogni che tendono ad organizzarsi naturalmente con il tempo. La ‘malattia, insomma, si spegne quando essa non ha più senso sotto il profilo funzionale: ma questo, per quanto tristemente, ce ne restituisce il senso radicalmente umano.


Per non concludere

Utilizzo una formula che mai, come in questo caso, sembra giustificata. Se l’universo psicopatologico è, come abbiamo ammesso, un insieme strutturato che comporta un’intersezione e dei sottoinsiemi ciascuno con le sue logiche intrinseche e un’elevata coerenza interna, e se è vero che questi sottoinsiemi, come i quadri mentali collettivi, sono prescrittivi, e cioè determinano la vita mentale a tutti i livelli – intellettivo, volitivo, emotivo, fantastico -, è evidente che descrivere compiutamente quest'universo strutturato rappresenta un’ambizione teorica che nessun individuo, con la sua attrezzatura mentale, può pretendere di esaurire.

Le forme di esperienza psicopatologica – è vero - sono finite e neppure numerose: ma si tratta pur sempre di visioni del mondo – interno ed esterno - molto complesse.

Con questo seminario si è tentato appena di delineare queste forme e di metterne in luce la specificità. Cosa giustifica quest'impresa, e la affranca dal rischio di congelare in una nuova teoria il disagio psichico?

Due fatti. Il primo, è lo scarto tra i tragitti di esperienze soggettive, che riconoscono infinite variabili che coincidono con la diversità dei corredi genetici, dei contesti ambientali e delle attività soggettive, e i vicoli ciechi in cui esse, confrontandosi con alcuni problemi, esitano. Questo scarto non potrà mai essere colmato teoricamente: esso andrà sempre ricostruito minuziosamente, in virtù di ipotesi che tengono conto di quelle variabili.

Il secondo è che, dal momento in cui imbocca il vicolo cieco della struttura, il soggetto ideologizza quest'esperienza in rapporto ad un quadro mentale che è quello offerto dalla medicina con la categoria della malattia. Poco importa che egli riconosca o rifiuti di riconoscersi malato: il riconoscimento o il rifiuto sono due modi di porsi in rapporto ad un quadro mentale che è fuorviante rispetto alla verità. E la verità – almeno come a me appare - è che la struttura psicopatologica, quale che sia la sofferenza che essa comporta, funziona come soluzione di problemi che, per come si sono posti e per come sono stati elaborati, non sono risolvibili in altro modo a livello inconscio. Tale verità è preliminare rispetto ad ogni intervento autenticamente terapeutico, poiché essa comporta che la struttura sia riconosciuta come espressione della globalità dell’esperienza soggettiva, come funzione di una mente che non si ammala mai ma tende sempre e solo a correggere progetti di vita che, quale ne sia la genesi, sono sempre ideologici – e cioè sterili e pericolosi in rapporto al corredo di bisogni personali: nelle strategie e nei tempi che essi adottano, se non addirittura negli obiettivi che assumono. Questo modo di vedere comporta il rischio di attribuire alla mente un carattere impersonale e sopraindividuale, un potere di supervisione sull’uso che gli individui ne fanno: il che sarebbe confortante fideisticamente, ma inquietante scientificamente. Questo rischio è scongiurato dal fatto che la mente, nell’accezione che ne diamo, è null’altro che il capitale di esperienza globale dell’individuo che viene utilizzato dalla coscienza in maniera tale da soddisfare i bisogni fondamentali. E’ l’uso che la coscienza fa di questo capitale a determinare il potere che l’individuo ha sul suo mondo interno e, per alcuni aspetti, sul mondo esterno.

In questo potere abbiamo individuato l’indice e il metro di misura della salute mentale. Si può aggiungere che questo potere può configurarsi come dialettico, e cioè evolutivo. O come adialettico, cioè statico. La adialetticità della struttura mentale, della visione del mondo, può configurarsi in due modi alienati: il primo essendo caratterizzato dall’alienazione nella tradizione, che coincide con la normalità statica e comporta il rifiuto della problematicità dell’essere nel mondo, in virtù del riferimento a quadri mentali collettivi ideologici ma socialmente condivisi; il secondo essendo caratterizzato dall’alienazione nella trasgressione, intesa come espressione massima della libertà umana, che, postulando il misconoscimento del bisogno di autoregolazione, avvia l’individuo nel vicolo cieco del disagio psichico, che quel bisogno restituisce sotto forma di inibizioni ed impedimenti.

Normalità statistica e disagio psichico sono pertanto le due facce di una medaglia, caratterizzata dalla supina accettazione di quadri mentali collettivi o dal tentativo di ribellarsi ad essi in una dimensione privata e solitaria. Che questo tentativo finisca in un vicolo cieco non significa che quei quadri mentali, e le strutture sociali ed economiche con cui fanno corpo, siano immodificabili, bensì che il loro cambiamento non può avvenire in un ambito soggettivo. Né tantomeno, in virtù dell’adozione di una logica dei contrari che, nonché affrancare l’individuo da quei quadri, lo aliena nei suoi bisogni