Prassi Terapeutica Dialettica (1987-88)


Introduzione alla lettura (2007)

Seconda versione del saggio sulla terapia, questo testo risente ancora dei limiti teorici che ho segnalato nell’introduzione a quella del 1984.

Se mi chiedo come mai, pur avendo già tutti i dati necessari, all’epoca non ero riuscito ancora ad identificare l’Io antitetico, non mi riesce facile rispondere. Presumo che l’impegno di portare alle estreme conseguenze la scoperta del Super-Io freudiano mi abbia indotto a porre in ombra quella che pure era una conseguenza logica della nuova teoria sulla funzione superegoica.

In conseguenza di questa lacuna linguistica più che concettuale, il conflitto psicopatologico viene univocamente ricondotto alla "persecuzione” repressiva che il Super-Io esercita sul patrimonio dei bisogni il cui dispiegamento è necessario perché la struttura della personalità raggiunga un livello minimale di integrazione e di equilibrio.

Il concetto di bisogni frustrati viene quasi univocamente riferito al bisogno di opposizione/individuazione, anche se, qua e là, traspare l’intuizione che anche il bisogno di appartenenza/integrazione sociale può andare incontro ad una repressione.

Il riferimento al fatto che un’inibizione nel dispiegamento di un bisogno geneticamente programmato ne determina l’ingorgo, la turbolenza e il disordine, e che, di conseguenza, il conflitto strutturale assume facilmente la forma di un circolo vizioso le cui polarità si autoalimentano e si scindono progressivamente, è del tutto evidente.

Su questo dato dinamico si articolava, all’epoca, l’intervento dialettico, cercando di aiutare l’ìo a prendere coscienza della quota dei bisogni frustrati e ad utilizzarne le potenzialità dinamiche nella direzione di una maggiore integrazione.

Com’è accaduto costantemente nel corso della ricerca, le storie cliniche sono addirittura più significative delle interpretazioni che ne vengono fornite. Esse già implicano, senza che all’epoca me ne rendessi conto, gli sviluppi teorici destinati a sopravvenire ulteriormente nel corso degli anni Novanta e che ritengo, con gli ultimi articoli pubblicati (nella sezione Psicopatologia Teorica), pervenuti alla massima profondità raggiungibile da parte mia.



Prassi Terapeutica Dialettica (1987-88)


INDICE

(La Parte Seconda non è ancora disponibile)

Parte Prima


1. Introduzione
2. Obiettivi e metodologia
3. Il paradosso dialettico
4. Dai bisogni alienati ai bisogni autentici
5. La doppia identità:
- santa/puttana
- santo/criminale
6. La drammatizzazione dialettica
7. Scissione psicopatologica e condensazione fenomenologica
8. La matrice conflittuale di base e l'arte dialettica
9. Psicopatologia e storia sociale
10. Il problema della crisi acuta
11. Resistenze all'intervento dialettico

Parte Seconda


La tecnica dialettica:
- Introduzione 1
- Introduzione 2

Frammenti di esperienze e commento:

1. Natalità
2. Portamento, contegno, habitus
3. Fotografie
4. Specchi
5. Interazioni
6. Crisi ideologiche

I. Introduzione

Ne "La Politica del Super-Io” sono stati posti i fondamenti di una nuova scienza del disagio psichico capace, alla luce della scoperta freudiana del Super-Io, portata alle estreme conseguenze epistemologiche, di decifrare i nessi tra corredo psicobiologico, storia, contesti socio culturali, strutture ed esperienze psicopatologiche

Fatta eccezione per i casi in cui l'assoluta prevalenza di una motivazione radicalmente espiatoria dà a quell'economia un orientamento rigidamente masochistico, per cui i soggetti si votano ad un incessante maltrattamento fisico e psichico e sembrano orientati, nell'interazione con l'ambiente, ad attivare solo reazione di rifiuto, di ostilità e di disprezzo, si tratta di solito di un'economia di scambio dinamica, protesa talora a scongiurare un eccesso di frustrazioni, che potrebbe indurre una disperazione assoluta, talaltra invece ad invalidare gratificazioni che, data la negatività che il soggetto si attribuisce, potrebbero farlo sentire immeritevole e indegno, dunque maggiormente colpevole.

Quali che siano le formule dinamiche attraverso le quali viene mantenuta l'omeostasi del bisogno di punizione, rimane il fatto che, dal momento in cui si definisce una struttura psicopatologica, il rapporto con l'ambiente viene mediato selettivamente dalla configurazione di tale bisogno. Esso perde, in breve, ogni significato dialettico ed evolutivo, perché viene sempre e comunque subordinato sistema di significati superegoici.

Questo modo di vedere non comporta il misconoscimento dell'influenza della rete di relazioni sociali di cui fa parte e con cui interagisce ogni soggetto, né, tanto meno, una sottovalutazione delle dinamiche familiari messe in luce, da angolature diverse, dalla psicanalisi e dalla teoria dei sistemi. Esso, però, riconduce tali interazioni nell'ambito di una legge economica determinata intrinsecamente dalla struttura psicopatologica, una volta che essa si sia definita. Ciò, che porta a ritenere la soggettività come una variabile di stato intermedia, è comprovato dalla coazione a ripetere, dalla tendenza, cioè, di ogni esperienza psicopatologica, posta in contesti ambientali diversi rispetto a quelli familiari o consueti, a duplicarsi, cioè a riprodurre le stesse dinamiche di interazione e a strutturare un micro-universo sociale e frustrante.

Fatta eccezione per le esperienze di disagio infantile o adolescenziale, per le quali il concetto di interdipendenza sistemica o dinamica vale in senso proprio, l'intervento sull'ambiente, quando è in gioco una struttura psicologica, adotti esso tecniche socio-assistenziali o relazionali, urta, nonostante vantaggi apparenti ma transitori che ne possono derivare, contro la difficoltà insormontabile di un'economia soggettiva devoluta a favore dell'istanza superegoica più che dei bisogni autentici.

Il mettere tra parentesi il problema del potere deterministico dei conflitti che assumono una configurazione strutturale, che è il problema psicopatologico per eccellenza, vedendo in esso la riproposizione di una teoria intrapsichica che pone in ombra i fattori ambientali e socioculturali, ha prodotto sul piano della prassi terapeutica, congiuntamente allo scarso impegno delle forze politiche e delle amministrazioni locali, enormi difficoltà alla realizzazione delle potenzialità implicite nella legge 180. Al difetto di mezzi, strutture e operatori, si è sommato, infatti, un difetto di cultura che impedisce l'acquisizione di un patrimonio sulla genesi e l'evoluzione delle esperienze psicopatologiche nei più vari contesti ambientali e socioculturali che possa permettere di progettare, oltre ad un'assistenza efficace, la prevenzione, che è il momento propriamente politico della legge.

Anche laddove i servizi territoriali funzionano, gli operatori sono costretti a farsi carico di una quota crescente di esperienze strutturate delle quali, con enormi sacrifici, riescono ad impedire la cronicizzazione ma non l'evoluzione interminabile per crisi e remissioni. Scongiurare i ricoveri ospedalieri e aiutare i pazienti a vivere con la malattia, secondo l'insegnamento basagliano, hanno rappresentano indubbiamente carte di credito a favore della legge 180. Non si può negare però che molti operatori, cui va riconosciuto il merito di aver raggiunto e di mantenere obiettivi che, anni fa, sembravano utopistici, accusano e talora drammaticamente la frustrazione di un lavoro che, se dimostra la possibilità di archiviare gli orrori manicomiali, non dimostra la possibilità di liberare i soggetti disagiati da una condizione che, pur non essendo un "processo", appare configurarsi spesso come un "destino”. Non è confortante, inoltre, constatare che in via via che passano gli anni dall'entrata in vigore della legge 180, questo destino sia condiviso, sotto forme di/burn-out, da alcuni tra gli operatori più impegnati a lottare contro di esso.

È il momento, dunque, di rimuovere ogni riserva ideologica, e di affrontare il problema psicopatologico così come esso si pone nella realtà: come problema di esperienze soggettive determinate intrinsecamente oltre che estrinsecamente.

Questo problema, dall'interno del movimento psichiatrico alternativo, è stato posto dieci anni fa con effetti lacerante da G. Jervis. Ne "Il mito dell'antipsichiatria" egli scrive: "Non può darsi che il folle, esattamente al contrario di come ce lo presenta una lunga tradizione compiaciuta e ipocrita, non sia un individuo che esprime la libertà, ma piuttosto una persona che l'ha perduta? non uno che sceglie ma uno che non può più scegliere? il prodotto di una regressione e di una normalizzazione più che di un rifiuto e, persino il prodotto più tipico della normalità borghese, indissolubile anzi da quest'ultima, e dal suo reticolo di inganni, insomma un essere divenuto ipernormalizzato, e anche l'esempio - fabbricato per questo dal sistema - di una non-rivolta, di uno scacco, di non riuscire più a creare cultura?

Non può darsi che la follia faccia parte dell'istituzione psichiatrica fin dal suo nascere? Non può darsi che la violenza sociale, che come tutti sanno si esprime contro il folle, si è esercitata anche, in primo luogo all'interno della sua persona, da lui stesso contro se stesso, e che proprio in questo consista la sua follia?

[...] è sgradevole ammetterlo: ma ciò che pensiamo sia la follia somiglia in realtà per lo più, e da vicino, alla protervia......... di un individualismo possessivo portato all'estremo: cioè somiglia al sogno della libertà totale del soggetto, al desiderio di poter rompere ogni convenzione sociale, di potersi impadronirsi di tutto e subito, di esprimere e volere, nella singolarità del gesto, in una immediatezza irragionevole, fuori dalle pastoie del tempo della storia, la festa, l'onnipotenza, l'appagamento...

[...] occorre insistere nel dire che la follia, pure essendo molte cose, e pur non essendo qualcosa che può essere definito con esattezza, non somiglia alle immagini mitiche che le vengono attribuite. Essa non è rifiuto della norma, non è l'alterità, il vogliamo tutto, la sragione, né l'esclusione e la povertà di spirito: al contrario essa è chiusa nella norma, fa parte del nostro comune mondo psicologico quotidiano, così come sui mostri sono la necessaria parte notturna della razionalità borghese.

[...] per quanto possa sembrare paradossale, la follia è un ricadere malamente nella normalità nel momento in cui si cerca di uscirne"

C'è in queste righe più di un'intuizione interessante, che rimangono soffocate in un discorso meramente fenomenologico e descrittivo. Che l'esperienza psicopatologica sia un ricadere malamente nella normalità nel tentativo di uscirne, un esercitare violenza su se stessi e, talora, attivarla dall'esterno sono verità inconfutabili per chiunque non abbia bisogno di accecarsi ideologicamente, e di contrapporre fittiziamente normalità e anormalità, ignorando che esse sono lo le due facce di una stessa medaglia. Ma si tratta di verità che vanno approfondite, per non rischiare di assumere come matrice dinamica della psicopatologia la volontà di onnipotenza, il narcisismo, l'anarchia pulsionale, reificando il principio di realtà freudiano.

Ciò che Jervis descrive fenomenologicamente come una chiusura nella norma sterilmente contraddetta da fantasie di onnipotenza o trasgressive coincide con una struttura psicpatologica e cioè con la cattura dell'esperienza soggettiva in un regime superegoico, che, sia esso immediatamente - in quanto punitivo - o mediatamente - in quanto seduttivo - frustrante, si autoalimenta a partire dal disordine pulsionale che esso stesso produce. E solo il riferimento all'istanza superegoica che permette di superare la sterile opposizione tra determinismo ambientale e determinismo soggettivo, poiché permette di cogliere l'interiorizzazione e la progressiva autonomizzazione di un conflitto che, all'origine, è sempre interattivo.

Questo riferimento ha il pregio di essere ovvio, nel senso che permette di decifrare immediatamente il senso di molteplici contraddizioni espresse nelle esperienze psicopatologiche, ma, al tempo stesso, il difetto di essere troppo impregnato delle valenze ideologiche della teoria psicoanalitica che lo ha prodotto. Dato che l'intento di questo saggio è di dimostrare la possibilità di una traduzione in prassi della teoria delineata ne " La politica della super-io” appare opportuno dedicare qualche ulteriore riflessione alla teoria materialistica dei bisogni e al problema della doppia identità che si definisce in conseguenza della loro alienazione.

Ho definito i bisogni fondamentali - di appartenenza/integrazione sociale e di opposizione/individuazione - come vettori psicobiologici dell'evoluzione della personalità e della sua interazione dialettica con il mondo esterno. In quanto vettori è lecito ipotizzare che essi coincidano con potenzialità funzionali proprie della struttura cerebrale, geneticamente determinate, dunque in una qualche misura programmate, riconducibili ad una apertura al mondo atta a dar luogo, attraverso un processo attivo di interazione, al definirsi dell'identità, e cioè di una conoscenza di sé differenziata in rapporto al mondo. In un certo qual modo, i bisogni assolverebbero, a livello psicobiologico, una funzione omologabile a quella dei meccanismi immunitari in rapporto all'individualità biologica: sarebbero cioè devoluti al riconoscimento di sé e dell'altro, alla differenziazione e al mantenimento di un rapporto tra mondo interno e mondo esterno di scambio e al tempo stesso di difesa.

È fuor di dubbio, però, che, assolta la loro funzione primaria psicobiologica, di integrazione di un'identità differenziata e relazionata, i bisogni assumono una configurazione specifica a livello psicologico: divengono cioè motivazioni, e cioè tendenze ad agire nei due mondi - quello interno e quello esterno - che essi hanno valso a differenziare, per perseguire dialetticamente l'obiettivo di una sempre più ricca integrazione dell'identità personale e sociale. Dato un ambiente adeguato e cioè tale, nelle fasi evolutive della personalità, da non alienarli e, successivamente, da offrire loro opportunità di sviluppo, la tensione motivazionale dialettica dei bisogni umani si esprime realizzando le potenzialità funzionali proprie del sistema cerebrale di gratificazione. Tale sistema produce una conferma incentivante, e cioè un appagamento che promuove ulteriori attività, come conseguenza di una prassi che va dalla vita sociale, nelle sue manifestazioni più varie, agli effetti privati, dal lavoro al gioco, dalla coltivazione della creatività al ripiegamento interiore e riflessivo.

Esigenze evoluzionistiche, legate all'allentamento dei meccanismi di controllo istintuale, rendendo l'uomo libero, e dunque educabile, hanno prodotto un sistema complementare rispetto a quello di gratificazione. I neurobiologi definiscono tale sistema come sistema di punizione, poiché la sua stimolazione produce negli animali reazioni avversativo e di inibizione, allarme e paura, e nell'uomo (nel corso di interventi neurochirurgici) stati di animo di angoscia con intensi vissuti di colpa.

E' evidente che il termine punizione non attiene che ad una modalità di funzionamento del sistema, quella evocata sperimentalmente da stimoli traumatici. Nell'uomo le potenzialità funzionali di tale sistema sono, con ogni probabilità, devolute a favore di una sensibilità educativa atta a promuovere, in conseguenza di influenze ambientali, la coscienza dell'errore e della culpa. La lunga dipendenza dell'infante è funzionale al passaggio da questa condizione eterodiretta allo sviluppo di una capacità di autoriflessione e di autovalutazione del mondo interiore e dei comportamenti.

Lo strutturarsi della coscienza morale avviene dunque lentamente e per gradi. Da prima essa si riduce a emozioni di colpa indotto dall'ambiente, poi si arricchisce di criteri di giudizio cognitivi, infine si integra in virtù della definizione di un sistema di valori dotato di un qualche grado di coerenza.. È evidente che il sistema di punizione, necessario ai fini dello strutturarsi, in seguito alla crisi adolescenziale, della coscienza morale, rappresenta, per così dire, un punto debole della natura umana. Se infatti il sistema di gratificazione nelle fasi evolutive dello sviluppo promuove la tendenza a conformarsi alle aspettative, alle direttive e dei divieti ambientali, favorendone l'introiezione, il sistema di punizione assolve la funzione di fissarle, associando il rimorso ad ogni fantasia o comportamento di violazione.

Se, nel corredo genetico dei bisogni umani, non esistesse il bisogno di opposizione/individuazione, la lunga dipendenza del bambino, governata dai sistemi di gratificazione e di punizione, darebbe luogo ad un conformismo universale e radicale. D'altro canto, dato che quel bisogno si esprime periodicamente, sino all’adolescenza, sotto forma di opposizione, e cioè sostanzialmente per mezzo di attacchi ai legami significativi e alle sollecitazioni o ai divieti comportamentali che in essi scorrono, l'individuazione non può realizzarsi che in virtù di un certo un grado di tolleranza ambientale e di una qualche capacità soggettiva, legata al grado di integrazione della personalità, di elaborare i sensi di colpa.

È sul sistema di punizione, dunque, che si fonda la strutturazione del super-io inteso come sistema di significati - emozionale, cognitivo e culturale - che assoggetta l'io sul triplice registro del sentire, del pensare e dell'agire, ad un regime prescrittivo, proscrittivo e propositivo, funzionale all'omeostasi del bisogno alienato di punizione.

Se l'identità, intesa in senso formale, viene ricondotta ad un sistema di significati del mondo interno e di quello esterno che orienta il soggetto a sentire, pensare ed agire in nome di un codice di valori dotato di un certo - maggiore o minore - grado di coerenza, il problema della doppia identità, che noi ho riproposto portando alle estreme conseguenze la scoperta della super-io freudiano, non si pone più come un concetto filosofico sullo statuto dalla personalità umana, bensì assume un rilievo epistemologico che l'universo psicopatologico permette di confermare drammaticamente, offrendo le prove dell'implacabile potere del sistema di significati superegoici. Tali prove sono sotto gli occhi di tutti, ma paradossalmente vengono rilevate senza che se ne colga il valore euristico. Offriamo un esempio di questa scotomizzazione epistemologica.

In "Alienazione e personazione nella psicoterapia della malattia mentale", Benedetti introduce la nozione di destrutturazione differenziale, per indicare il fatto che "i processi disorganizzativi della schizofrenia non si sviluppano in ugual misura a carico delle tre provincie psicanalitiche della psiche, ossia l'es, l'io e il super-io". Egli rileva che, nella letteratura psicoanalitica, l'attenzione si accentra soprattutto sulla destrutturazione dell'io, sia essa intesa in termini di debolezza, di perdita di investimento o di disturbo associativo, al punto che il modello tripartito della psiche, proposto da Freud, sembra tenuto in scarso conto. E scrive: "Sorge allora, in questo ambito di pensiero, la domanda se la destrutturazione schizofrenica, che abbiamo studiata anzitutto come un processo a carico dell'io, affligge anche gli altri due sistemi maggiori della psiche ".

Porsi questa domanda sembra superfluo in rapporto ad una tradizione psichiatrica e psicoanalitica che postula che "la destrutturazione schizofrenica finisce con l'essere, quando procede sino ai suoi ultimi termini, una dissoluzione dell'intera psiche". Ma Benedetti è uno psicopatologo attento e onesto, che non rifugge la verità. "Stabilito - egli scrive - che la destrutturazione nella schizofrenia può andare avanti sino a investire l'intera psiche, bisogna adesso completare questo concetto aggiungendovi l'osservazione che in diversi casi il super-io può mantenersi relativamente indenne, mentre la frammentazione dell'io procede. Una alternativa interessante del disfacimento schizofrenico mostra la coesistenza di un io disintegrato con un super-io ancora altamente strutturato". Tale condizione, secondo Benedetti, la si ritrova "in quei pazienti i quali sembrano realizzare una qualche parvenza di esistenza egoica solo tormentandosi, accusandosi, e distruggendo". Per differenziare, un pò artificiosamente, tale condizione dal masochismo morale descritto da Freud, dal quale il soggetto ricava una qualche forma di piacere o, più propriamente, una qualche autorizzazione a concedersi qualche piacere, l'autore aggiunge: "l'lo schizofrenico non trae da queste autoaccuse e autodistruzioni alcun piacere se non quello di continuare a sentirsi, in modo ridotto una persona, un io. Poi che l'io non esiste più... la coscienza individuale del paziente cerca di salvarsi rifugiandosi completamente all'interno di quella struttura superegoica, la quale sembra essere più resistente al processo di dissoluzione di quanto non sia l'io del paziente ".

In nota, Benedetti e aggiunge: "anche l'ideale dell'io sembra più resistente dell'io reale e del sé comunicativo al processo di dissoluzione schizofrenica" .

Cosa significa tutto questo se non che super-io e io cosciente sono due diversi sistemi di significati, e che il primo, date certe circostanze, può giungere ad invalidare l'altro, fino al punto di renderlo totalmente incoerente e impotente, di disintegrarlo?

Porsi il problema psicopatologico nei termini di una doppia identità, animata da un conflitto irriducibile tra super-io e bisogni alienati, significa anche porre i presupposti di molteplici possibilità di verifica e di falsificazione della teoria che abbiamo elaborato.

La verifica consiste nell'individuare, in ogni esperienza psicopatologica, un doppio sistema di significati, ciascuno con i suoi correlati emozionali, cognitivi e ideologici, e nel dimostrare che la struttura psicopatologica, con la sua tendenza alla chiusura, all'inerzia e alla ripetizione, è riconducibile al potere del sistema superegoico di determinare il modo di essere e di porsi del soggetto nel mondo, quali che siano i suoi bisogni, vincolandolo ad una economia di scambio sostanzialmente frustrante, mortificante e punitiva.

La falsificazione consiste nel dimostrare l'essenza di tale doppio sistema di significazione sia pure in una sola esperienza psicopatologica, o meglio nel dimostrare l'adeguatezza del sistema di significati superegoici in rapporto ai bisogni del soggetto.

Quali criteri oggettivi, però, possono permettere di definire i bisogni autentici o alienati? Le esperienze psicopatologiche appaiono costantemente sottese da pulsioni anarchiche, affrancate da qualsivoglia principio di realtà, o protese verso ideali dell'io onnipotenti, siano essi di ordine ascetico - di perfezione morale - o mondano - di successo sociale. In nome di quale criterio, che non sia ideologico, si possono definire questi bisogni alienati? Il criterio è semplice e realistico: nonché irrealizzabili, quei bisogni producono, gli uni per effetto atto della paura delle conseguenze sociali, gli altri per effetto della paura di una verifica sociale, null'altro che un difetto di vita, e cioè una costante e interminabile frustrazione. Essi sono dunque alienati poiché la loro pressione o la loro seduzione realizzano, di fatto, un'economia soggettiva e relazionale punitiva

Bisogni autentici sono quelli la cui realizzazione, nei limiti delle possibilità soggettive e delle opportunità offerte dall'ambiente, potenzia il sistema cerebrale di gratificazione, dà luogo cioè ad una vita che, nell'accezione di Agnès Heller, ha senso.

Il sistema di significati superegoici, col bisogno alienato di punizione che produce, esclude o rende impossibile, se non nell'ambito di una economia di vita sostanzialmente frustrante, la realizzazione dei bisogni autentici. Convivere sotto la pressione di quel bisogno, soddisfacendolo in qualche misura e scampando alla duplice minaccia che esso fa incombere della solitudine radicale e del rifiuto sociale, è la dinamica propria di ogni esperienza psicopatologica, e coincide, pateticamente, con la chiusura nella norma di cui parla Jervis, che rappresenta null'altro, dunque, che la difesa dell'identità personale sociale secondo la ragione degli altri, rappresentata dal super-io.

Il concetto di struttura psicopatologica orienta e sostanzia una prassi terapeutica che si può definire dialettica poiché, senza ricusare alcuna delle dimensioni proprie dell'esperienza umana - il biologico, lo psicologico, il microsistemico, il macro sistemico -, colte tutte sul duplice registro diacronico e sincronico, mira ad un obiettivo costante: affrancare i bisogni alienati dalla loro configurazione pulsionale, che postula un regime superegoico frustrante ed espiatorio, e restituire ad essi il loro significato autentico di vettori orientati verso l'organizzazione d'una vita che abbia senso, e la cui economia rinforzi il sistema della gratificazione più che quello della punizione.

Sono consapevoli che la teoria struttural-dialettica ha un elevato grado di coerenza, e, tra l'altro, come attestano le citazioni di Jervis e di Benedetti, di rispondenza ad una realtà che è letteralmente sotto gli occhi di tutti i coloro che operano in ambito psichiatrico. È giusto dunque è chiedersi cosa abbia impedito sino ad oggi la sua formulazione.

A mio avviso, non v'è dubbio che si tratti di una resistenza di ordine culturale, diversamente motivata ma riconducibile ad un fattore comune: il rifiuto del cosiddetto antropomorfismo superegoica.

Ammettere una doppia identità costitutiva dell'esperienza umana, e riconoscere che l'identità superegoica, con il suo carattere impersonale, possa prevalere su quella egoica, determinando una normalità anonima o, quando si instaura un conflitto tra super-io e bisogni alienati, un disagio psicopatologico, introduce nella cultura e nel sistema sociale un dramma ben più rilevante rispetto, per esempio, alla concezione dell'inconscio freudiano che, almeno per quanto riguarda la teoria delle pulsioni, è stata assimilata dalla cultura.

Il legame tra super-io e mito gerarchico come conferma la radicale vocazione sociale della natura umana, arricchita e non compromessa dal bisogno di individuazione, così pone in luce drammaticamente la pericolosità potenzialmente disintegrativa di ogni organizzazione sociale sottesa da quel mito.

Il cosiddetto antropomorfismo superegoico, riproposto nei termini di un sistema di significati integrato - dal livello emozionale a quello cognitivo e ideologico - rivolto a confermare, a qualunque prezzo, quel mito, i rapporti di potere che esso postula naturalizzandoli, rivela la sua vera funzione che consiste nell'inattivare le capacità critiche della coscienza in rapporto al mondo, e nel trasformare in colpa ogni atteggiamento oppositivo nei confronti di qualsivoglia potere sacro. Diversamente da quanto riteneva Freud, il super-io non attesta l'onnipotenza dei valori sociali sulle pulsioni, bensì l'onnipotenza dell'alienazione sociale sulle potenzialità dialettiche intrinseche alla natura umana.

Questo modo di vedere, che come illumina di significati l'universo psicopatologico così permette di intervenire sul di esso con modalità terapeutiche dialetticamente, pone problemi che, sia sul piano psicobiologico sia su quello sociostorico, trascendono di gran lunga la nostra competenza.

Per esempio, da un punto di vista evoluzionistico, si può pensare che il corredo dei bisogni si sia definito lentamente e per fasi successive. La lunga preminenza del bisogno di integrazione sociale, inteso come bisogno di appartenenza ad un gruppo, su quello di individuazione, che potrebbe essersi definito solo successivamente, darebbe senso al carattere critico e squilibrante, fenomenologicamente negativo, con cui il bisogno di opposizione si manifesta nel corso dell'evoluzione di ogni personalità, nonché alla rimozione culturale che lo investe tuttora. La trasformazione culturale del bisogno di appartenenza sociale in bisogno di sottomissione ad un potere gerarchico segnerebbe la nascita della civiltà storica.

Nonché della lotta di classe, la storia, di conseguenza, sarebbe caratterizzata dal conflitto tra appartenenza gerarchica e individuazione, e gravitante dialetticamente verso un ecosistema sociale adeguato allo sviluppo di potenzialità individuali atte a gratificare gli individui e, nel contempo ad accrescere la ricchezza del sistema stesso. Si tratta di ipotesi la cui eventuale corroborazione richiederà un intenso lavoro interdisciplinare.

Con questo saggio, dedicato alla prassi terapeutica dialettica, non intendo accreditare alcuna di tale ipotesi. Mi basterebbe dimostrare che la psichiatria dialettica può essere efficace sullo "specifico", hic et nunc, senza immeschinirsi nella elaborazione e di scale diagnostiche computerizzate, nella reificazione del potere degli psicofarmaci, nel cieco volontarismo missionario, nell’ipocrita erogazione psicoanalitica di gratificazioni e frustrazioni controtransferali, nel gioco delle prescrizioni e dei trucchi sistemici, o nel ricatto atto speculativo - denaro per salute - delle multiforme tecniche "umano logiche” sulle quali ha giustamente ironizzato Szasz.

Ferma restando la sua appartenenza al campo interdisciplinare delle scienze che hanno come oggetto l'uomo nel tempo - e dunque nel tempo biologico, storico, istituzionale, micro sistemico, psicologico - la psichiatria dialettica non può prescindere da un atteggiamento critico nei confronti dello status quo. Vincolata ai contesti in cui opera, come la vanga ai terreni che dissocia ed esplora, essa non avrebbe senso se, allentando e rimuovendo sofferenze personali, non denunciasse gli effetti alienanti del mito gerarchico, delle istituzioni che lo vincolano e delle ideologie mistificanti che lo mascherano.

Parlerò, pertanto, in questo saggio, prevalentemente di psicoterapia dialettica, poiché l'hic et nunc della psichiatria dialettica sono le esperienze soggettive strutturate psicopatologicamente. Ciò non significa però esaurire nella psicoterapia la prassi terapeutica dialettica via, il cui fine ultimo è lottare contro tutte le situazioni ambientali e istituzionali che, mortificandoli e alienandoli, si oppongono alla realizzazione dei bisogni umani.

Da questo punto di vista, la soggettività psicopatologica si può definire come un'istituzione: la più microscopica e, allo stesso tempo, la più insidiosa perché essa, in virtù della determinazione intrinseca superegoica, rivolge la cultura contro la natura, trasformando la vocazione ad una vita che abbia senso in un destino di dolore ( per sé è e non di rado per altri).


Cap. II Obbiettivi e metodologia della terapia dialettica

In rapporto a qualunque esperienza psicopatologica, la psicoterapia dialettica si propone tre obiettivi: a breve, medio e lungo termine.

L'obiettivo a breve termine consiste nel promuovere nel soggetto una presa di coscienza del modo in cui si è strutturata la sua esperienza, del potere del sistema di significati superegoico, delle attribuzioni negative su cui esso si fonda e delle quali si autoalimenta, e, infine, dell'economia soggettiva e relazionale autopunitiva che esso impone.

L'obiettivo a medio termine consiste nell'analisi delle attribuzioni negative. Ciò comporta il farle affiorare sotto forma di capi di imputazione superegoica, il decifrarne la fenomenologia pulsionale in termini di bisogni alienati, il ricostruire la genesi primaria e secondaria dell'alienazione dei bisogni, e, infine, nel porre in luce le determinazioni estrinseche e interattive che la alimentano. A questa fase, dunque, appartiene l'analisi dei microsistemi con cui soggetto ha interagito nel corso dell'evoluzione della personalità e con cui interagisce sul piano attuale.

il terzo obiettivo consiste nell'indurre il soggetto ad allearsi e farsi carico dei suoi bisogni per realizzarli, e cioè per perseguire una economia di vita motivata dalla gratificazione piuttosto che dalla mortificazione e dall'autopunizione. In questa fase è della massima importanza aiutare il soggetto a dare senso alle ricorrenti regressioni o crisi cui va incontro, che sono sempre riconducibili alla riproporsi del sistema di significati superegoici.

Questi tre obiettivi fanno capo ad un progetto univoco, mirante, in virtù di una presa di conoscenza, ad invalidare e sovvertire il potere dell'identità superegoica a a favore di un'identità personale e sociale motivata dai bisogni e rinforzata dalla loro realizzazione. Siffatto progetto si fonda sul presupposto che, se si riesce a far funzionare il sistema di significazione egoico e ad inattivare quello superegoico, possono avvenire comunque, quali che siano le circostanze interattive di ordine psicologico, dei cambiamenti rilevanti nel modo di essere e di porsi del soggetto nel mondo.

Facendo leva sulla teoria dei bisogni e sul potere della coscienza di invalidare il sistema di significati superegoici, la psicoterapia dialettica è, dunque, centrata sul soggetto, ed esclude che un cambiamento soggettivo non possa avvenire che in subordine ad un cambiamento sistemico. Ciò non significa che essa pone fuori dal processo dialettico i membri del gruppo o di appartenenza.. Chiunque abbia rapporti significativi con il soggetto, se questi è d'accordo, può intervenire e partecipare ad una presa di coscienza che affranchi il sistema dalla pressione dei valori superegoici. Benché centrata sul soggetto disagiato, la psicoterapia dialettica non prevede, dunque, alcun set terapeutico standardizzato.

Ci si può chiedere come, di fatto, sia possibile questa apparente anarchia metodologica. La risposta concerne uno degli aspetti atti più singolari ed innovatori della psiche psicoterapia dialettica..

Occorre, infatti, tener conto che questa utilizza una serie di concetti - quali quelli di bisogni autentici e bisogni alienati, alienazione primaria e alienazione secondaria, sistemi di significazione superegoici e egoici, codici mentali, eccetera. -, che, pur descrivendo aspetti reali inerenti la genesi sociale della personalità, la sua strutturazione e la sua economia in rapporto al mondo, non sono dati alla coscienza, quali che sia la sua attrezzatura culturale, poiché, in larga parte ricadono ancora nell'ambito di una rimozione culturale ideologica.

A differenza di altre tecniche, la psicoterapia dialettica postula necessariamente un apprendimento. Tale apprendimento avviene gradualmente. Ogni concetto viene introdotto e discusso via via che l'esperienza del soggetto postula interpretazioni che ad esso fanno riferimento. Ciò non deve far pensare che la psicoterapia dialettica funzioni come una pedagogia mascherata o, peggio, come un processo di indottrinamento ideologico..

Anzitutto, il soggetto è sollecitato a mantenere un atteggiamento critico, a non concedere alcun credito ai concetti teorici che vengono illustrati finché non ne verifichi l'efficacia esplicativa e il grado di verità emozionale.

In secondo luogo, egli viene esplicitamente informato che la teoria dialettica è un corpus concettuale ancora in fase di formazione, e che, di conseguenza, non ha la pretesa di spiegare tutto ma solo ciò che, allo stato attuale delle conoscenze, è possibile. L'efficacia di tale atteggiamento si fonda sulla sua capacità di mettere in crisi il mito gerarchico che sottende la struttura superegoica della personalità.

Complementare all'apprendimento è un altro strumento che, a differenza di ogni altra tecnica, la psicoterapia dialettica utilizza: la scrittura.

Via via che il processo procede e l'orizzonte interpretativo si allarga, il terapeuta dialettico provvede a mettere per iscritto le ipotesi che sono state avanzate per valutare il grado di verità che esse sembrano avere in rapporto ai dati tratti dall'esperienza del soggetto. Ciò significa che, nonché rimanere ineffabile, frammentario o simpatetico, il lavoro terapeutico viene periodicamente documentato e commentato criticamente. Come è proprio dii ogni esperienza dialettica, infatti, può darsi che le ipotesi avanzate in una fase della psicoterapia debbano essere riviste, smentite o inserite in una cornice interpretativa più ampia. Questo aiuta il soggetto non solo a sviluppare una capacità critica autonoma ma soprattutto a dimostrare che, per quanto la psicoterapia dialettica faccia riferimento ad un corpus teorico di ordine generale, il processo terapeutico non avviene sovrapponendo schemi all'esperienza soggettiva e relazionale ma piuttosto ricavando da essa dati che vengono correlati e diventano decifrabili progressivamente in rapporto alla teoria dei bisogni intrinseci e del sistema di significati superegoici.

È ovvio che un processo terapeutico dialettico in virtù del suo sistema di riferimento teorico, come accresce la consapevolezza del soggetto sulla struttura della sua personalità e sulla determinazione intrinseca che la governa, così da luogo ad un atteggiamento critico nei confronti delle persone e delle situazioni con cui il soggetto interagisce. Tale atteggiamento concerne i microsistemi dati, come per esempio la famiglia originaria, non meno che quelli acquisiti, sia che il soggetto li abbia prodotto o si sia inserito in essi. In rapporto ai microsistemi dati, la distinzione tra valenze superegoiche e valenze egoiche può permettere al soggetto di convalidare, estinguendo i sensi di colpa, le emozioni negative sviluppate nei confronti delle prime, e di risolvere, dunque, la sua ambivalenza, associando eventualmente amore e gratitudine per le figure parentali all'odio legittimo per i valori superegoici da esse veicolate. In rapporto ai micro sistemi prodotti dei quali il soggetto giunge a far parte, l'atteggiamento critico comporta la valutazione del grado di connivenza superegoica, della misura, cioè, del grado di determinazione intrinseca ed estrinseca, e della loro eventuale interazione.

La psicoterapia dialettica, in altri termini, promuove una presa di coscienza sulla identità costitutiva della personalità, e dei miti superegoici da cui essa discende, che dà luogo ad una lettura critica della realtà sia sotto il profilo soggettivo che interpersonale e sociale. Tale lettura comporta un'acuta e costante distinzione critica dei livelli superegoici ed egoici che strutturano la personalità e i microsistemi interpersonali.

È inevitabile dunque che, nel corso della terapia dialettica, il discorso vada al di là della soggettività e dei microsistemi, e giunga ad interrogarsi sul significato dei valori superegoici. Non sempre è possibile rispondere ma qualora è possibile o addirittura necessario non c'è motivo di esitare. Qualora è possibile: non sempre di fatto lo è.

Alcune esperienze psicopatologiche e i microsistemi di cui fanno parte appaiono strutturate, spesso ma non necessariamente in riferimento ad un'ideologia religiosa, da una "delirio" espiatorio contro il quale la psicoterapia dialettica, come d'altronde ogni altra tecnica, appare impotente. Paradossalmente, in tali esperienze e situazioni, la sua efficacia risulta inversamente proporzionale alla verifica della teoria cui essa fa riferimento. Una quota di frustrazione o, se si vuole, di insuccessi, è da mettere in conto nella prassi terapeutica dialettica. Da questa constatazione, però, nonché scoramento, occorre ricavare un obiettivo di più ampio respiro, che va ben al di là dell'ambito si patologico.

Unitamente ad altre scienze umane e sociali, e con il concorso di forze e movimenti politici interessati a tal fine, la prassi terapeutica dialettica è impegnata ad affrancare l'umanità da una millenaria soggezione al sacro che, forse anche utilizzando meccanismi biologici definitisi nel corso dell'evoluzione, fa scattare la trappola dei sensi di colpa in rapporto ad ogni sia pure giusta opposizione dei subjecti. Affrancata da questa soggezione, l'umanità potrà forse utilizzare il potere critico e dialettico dell'apparato mentale per accelerare un'evoluzione culturale, sociale politica che sinora è stata rallentata efrenata dal mito gerarchico, che ha imposto impone prezzi da pagare in termini di sacrifici umani.


III Il paradosso dialettico

La psicoterapia dialettica si fonda su un paradosso che rovescia i termini della questione legata alla condizione umana così come essi si pongono nella nostra civiltà e nelle strutture psicopatologiche. Posto in termini essenziali e inquietanti, tale paradosso si può esprimere affermando che la capacità di odiare criticamente quanto, nella struttura sociale, nei rapporti interpersonali e nella personalità stessa, mira a mortificare o pervertire la natura umana, orientandola verso un interminabile espiazione o un'irraggiungibile onnipotenza, è la premessa indispensabile per ristabilire rapporti significativi con sé, con gli altri e con il mondo.

Questo paradosso affonda le sue radici nella possibilità, intrinseca ad ogni coscienza umana, di strutturarsi dialetticamente, e cioè di cogliere la realtà umana - sia sul versante soggettivo che interpersonale e sociale - come una realtà perseguitata dal mito gerarchico. Ciò comporta l'individuazione dei sistemi di significazione superegoici e l'odio critico rivolto contro di essi.

Per odio critico si intende il rifiuto radicale dei valori superegoici e dei livelli di potere che essi tendono a mantenere, da cui discende un'attività rivolta ad organizzare un modo di essere e di porsi nel mondo ispirato ai bisogni autentici. Da questo punto di vista, è chiaro che l'odio critico non ha nulla a che vedere con l'aggressività. Esso esprime infatti una rabbia giusta nei confronti di ogni forma di alienazione illuminata dalla ragione dialettica. La ragione dialettica non può prescindere dai bisogni autentici: essa comporta, dunque, un identificazione viscerale con l'altro, con qualunque altro essere umano, e allo stesso tempo l'opposizione nei confronti di qualunque tentativo di utilizzare questo legame affettivo primario per imporre un'accondiscendenza o una sottomissione passiva ai valore alienati.

La ragione dialettica porta dunque a scindere, nella soggettività, nei rapporti interpersonali, negli altri e nella struttura sociale, ciò che attiene al super-io e al mito gerarchico e ciò che attiene semplicemente all'umanità, e ad attivare, nei confronti dei sistemi di significazione e di potere superegoici, un odio critico.

Solo in circostanze del tutto particolari, per esempio, rapporto ad un regime dittatoriale che mortifica e reprime radicalmente i bisogni e i diritti umani, l'odio critico può rendere necessario l'esercizio dell'aggressività. Questa scelta, data una ragione dialettica, non può essere mai indolore, poiché, comportando l'attacco diretto a persone, violenta comunque il legame di identificazione con l'altro. Fatta eccezione per situazioni storicamente straordinarie, però, l'odio critico, nonché l'attacco alle persone, implica il riconoscimento della loro umanità alienata, distorta e pervertita dai sistemi di valore superegoici: il recupero pertanto della loro umanità, che non è affatto incompatibile con l'odiare a morte ciò che in essa vi è di oggettivamente alienato.

In rapporto alla psicopatologia, questo discorso concerne anzitutto la struttura della soggettività, che vede l'identità egoica sottomessa, minacciata e perseguitata da quella superegoica. L'odio critico, sul piano soggettivo, implica l'identificazione del sistema di significati superegoici rispetto a quello egoico, e, subordinatamente a questo, un atteggiamento critico costante rivolto nei confronti del super-io da parte dell'io, al fine di recuperare un potere di individuazione compromesso. In rapporto alla realtà interpersonale e sociale, l'odio critico si traduce nel riconoscimento dei livelli superegoici che, sia sotto forma di sistemi di valore che di rapporti di potere, le strutturano, e in una attività rivolta a contrastarli e, qualora possibile, a trasformarli.

È superfluo aggiungere, dopo quanto detto, che l'odio critico non esclude ma implica un atteggiamento autocritico costante, sia pure questo inteso rivolta ai livelli superegoici della personalità e alla loro incidenza comportamentale. Ciò che l'odio critico mira ad indurre non è il di ottimismo e il giustificazioni istmo, bensì né più né meno un "delirio" persecutorio il cui oggetto è la persecuzione reale della natura umana da parte del mito gerarchico, dei sistemi di valore superegoici e del super-io soggettivo.

Due sono le resistenza contro cui costantemente turca un processo terapeutico dialettico c'mirante a restituire alla rabbia le sue ragioni umane e a trasformarla, da minaccia incombente, il capitale necessario alla riappacificazione del soggetto consiste esso e con il mondo. Si tratta di resistenze di ordine culturale, legate al potere del mito gerarchico all'interno della nostra civiltà. La prima, cui si è fatto cenno, è riconducibile all'identificazione tra rabbia e odio, intesi come espressioni viscerali e del bisogno di opposizione, con l'aggressività e la distruttività. questa identificazione non si codice certo attribuire storicamente alla psicoanalisi freudiana, per quanto Freud, elaborando l'istinto di morte, da di essa alla versione più radicale e francamente aberrante. Per questo aspetto, Freud si può ritenere l'erede di una tradizione secolare-ebraica, per quanto riguarda-assimilata e reinterpretata dalla civiltà borghese alla luce dell'homo homini lupus hobbesiano. Tradizione che, come Freud stesso è costretto a riconoscere nelle Considerazioni sulla guerra e sulla morte attribuisce al potere - sia esso il dio biblico o lo Stato-il diritto di esercitare una distruttività spietata sui subjecti, il nome della giustizia o dell'amore di patria, e relega nell'ambito della sacrilegio, dell'abominio e della colpa irreparabile che opposizione e la rabbia dei soggetti nei confronti del potere, siano pure esse giuste e questo disumano.

Predisposto in virtù del bisogno di integrazione sociale all'identificazione con l'altro, l'uomo, come si è tentato di argomentare ne La Politica del Super-Io, è dotato anche di un bisogno di opposizione che promuove una ribellione viscerale nei confronti di ciò che ingiusto, oppressivo, prevaricatore e mortificante. La confusione della rabbia con l'aggressività è, dunque, un elemento essenziale alla persistenza del mito gerarchico, e non c'è da sorprendersi che la cultura borghese si sia affannata a ratificare e a farla passare come verità scientifica. In ambito psico patologico tale confusione rappresenta il nodo scorsoio che impedisce all'io di affrancarsi dal potere superegoica, e gli impone di rimanere in una condizione di sterile ambivalenza, la quale comporta comunque la necessità di espiare la colpa dell'aggressività.

La seconda resistenza di ordine culturale è da ricondurre alla sacralizzazione del potere, e cioè ad un processo tale per cui chiunque è investito del potere gode e deve godere di un privilegio di immunità rispetto a chi dipende. Tale privilegio serve a qualificare la rabbia dal basso non solo come espressione di cieco ostilità, di aggressività, di in docilità e di ingratitudine, bensì come sacrilegio, e c'è colpa ingiustificabile e irreparabile. Con ciò il potere si è caricato delle valenze proprie della sacralità, configurandosi come degno di generazione, di rispetto e di culto, e allo stesso tempo, come odioso e desiderabile. Evidentemente, per tentare di cristallizzare la diseguaglianza postulata dal mito gerarchico, il rischio è valso la pena di essere corso.

La secolarizzazione del potere e la laicizzazione della cultura non hanno risolto questo problema. L'investitura divina, negata ai re, si è trasferita alle autorità civili e ancor più a quelle educative. Rispetto dell'autorità in quanto sagra, e non in quanto degna di rispetto, e ancora oggi uno dei capisaldi di ogni attività educativa-familiare, scolastica e religiosa. E ciò fa sì che il bisogno di opposizione, già squalificato in virtù dell'identificazione con l'aggressività, venga ad urtare più o meno costantemente contro la barriera del sacro, che lo sovraccaricarsi di significati negativi.

In ogni esperienza psicopatologica strutturata i sensi di colpa, specie quando sono vissuti come irreparabili, si configurano come sacrilegio, che impongono di vivere in una dimensione purgatorio tale quando non addirittura infernale.

Sormontare questo blocco ostacolo culturale, particolarmente quando esso ha dato luogo al precipitare di un nucleo di negatività emozionale sul quale nel corso degli anni si è strutturato un sistema di significazione superegoici con, non è facile. Tale superamento coincide con la capacità della coscienza di dare senso alla rabbia che sottende l'esperienza psicopatologiche, e cioè di alimentare, con essa, una ragione dialettica capace di mantenere i legami di identificazione con gli esseri umani e al tempo stesso di odiare quanto nel mondo c'è di oggettivamente odioso: il mito gerarchico e il sistema di valori che lo naturalizza, ovunque e comunque, dentro e fuori di sé, esso si esprima.

Il paradosso dialettico che ho tentato di illustrare, che pone in gioco valori culturali sui quali occorrerà riflettere molto più incisivamente a livello interdisciplinare, differenzia radicalmente la psicoterapia che lo assume come momento fondamentale, e che pertanto si può definire dialettica, da qualsivoglia altra tecnica terapeutica.

Non ignoro che esistono sia teorie che pratiche terapeutiche le quali fanno riferimento ad una aggressività positiva che intendono riabilitare, ma, pur riconoscendo in esse un utile contrappeso alla psicoanalisi ortodossa e al kleinismo, non si può negare che si tratta di un riferimento piuttosto approssimativo sul piano epistemologico. Per aggressività positiva si intende, infatti, un'energia posta al servizio della difesa e dell'affermazione dell'individuo che non dà luogo a effetti lesivi a carico di altre persone. Assumendo però questo criterio valutativo, l'aggressività del rivoluzionario, costretto suo malgrado ad usare strumenti violenti, è abnorme, mentre viceversa risulta positiva l'ossessiva energia con cui un finanziere persegue, per tutta la vita l'obbiettivo di rovinare, e quindi uccidere simbolicamente, i suoi rivali in affari.

La rabbia e l'odio critico di cui noi si parla è con evidenza tutt'altra cosa. Pur considerando il rischio di essere stigmatizzato semplicisticamente come teorico della terapia dell'odio, lo corro volentieri perché sono certo che una coscienza dialettica, capace di stabilire rapporti significativi con il mondo e di conservare l'altro come referente elettivo del suo orizzonte esperienziale, non possa prescindere da una scissione, in se stessi, negli altri e nella realtà sociale, di valori superegoici e valori umani che solo la rabbia e l'odio organizzati criticamente permettono di realizzare.

Come ciò, in concreto, possa avvenire in riferimento a esperienze psicopatologiche è l'argomento dei prossimi capitoli.

Riguardo all'economia dei bisogni, laddove si dà un'esperienza psicopatologica non c'è da dubitare che si tratti di un'economia espiatoria, incentrata sul bisogno il più spesso inconscio di punizione e sulla necessità di soffrire. Le espressioni fenomenologiche di questa economia sono le più varie, dalle più evidenti alle più ingannevoli.

Le espressioni più evidenti sono le esperienze caratterizzate dal fatto che i soggetti coscientemente assumono il bisogno di punizione come proprio, ritenendosi colpevoli e condannandosi nelle maniere più varie a soffrire. In questo ambito rientrano i deliri di colpa, peraltro molto rari, alcune depressioni croniche sistematizzate, e non poche esperienze ossessive a contenuto religioso. In tutte queste situazioni, il dato più rilevante, che può essere utilizzato dialetticamente, è l'incapacità del soggetto di addurre le prove della colpevolezza che si attribuisce e la sproporzione tra le prove addotte e la punizione che si infligge.

Paola, per esempio, la cui storia è stata riferita ne La Politica del Super-Io, ritiene giusto, dopo 12 anni di persecuzione delirante, di continuare ad espiare la colpa di aver lanciato su un ragazzo uno sguardo che lo ha sedotto.

Lorenzo, uno studente in medicina, religiosissimo, intrappolato in una esperienza ossessiva, si sottopone ad un regime rigidissimo e tormentoso di vita, con rituali che spesso sfiorano il masochismo, per evitare di cedere alla masturbazione e, dopo ogni masturbazione, incrementa quei rituali fino al parossismo.

In ambedue i casi è chiaro che l'imputazione superegoica non verte sul singolo comportamento, bensì sull'immoralità radicale che esso attesta, cioè su un disordine pulsionale senza controllo. Aiutare la coscienzaa prendere atto di questa imputazione è, per l'appunto, un momento dialettico.

In altri casi, la prevalenza del bisogno di punizione nell'organizzazione della vita è assolutamente evidente sul piano oggettivo ma sfugge del tutto alla coscienza, che non lo riconosce né lo assume come proprio.

Alfredo, imprenditore industriale di 35 anni, dedica la sua vita al lavoro. Vive da solo. Nonostante elevate disponibilità economiche, non si è mai concesso una vacanza. Trascorre i fine settimana chiuso in casa, ripiegato su di un dolore esistenziale spesso amplificato da disturbi psicosomatici, nell'attesa ansiosa di lunedì mattina. È consapevole dell'inutilità del suo impegno lavorativo, non avendo alcun figlio cui far godere i frutti del suo lavoro. Ciò nonostante si rivolge ad un medico solo nel momento in cui comincia ad avvertire una perdita di memoria e di capacità di concentrazione che minaccia le sue prestazioni lavorative.

E' chiaro, dall'esterno, che una siffatta organizzazione di vitaequivale ad u'interminabile espiazione. Solo quando questo punto di vista di viene proposto, però, Alfredo, non senza difficoltà appare in grado di rendersene conto.

Altre volte, l'economia espiatoria coincide con un'esperienza di dolore alla quale coscientemente il soggetto si ribella, ma che di fatto alimenta vanificando ogni possibilità di cambiarla.

Luigia non tollera più la dipendenza dai familiari e non vede l'ora di diventare economicamente autonoma per separarsi da essi. Sa già di potere disporre di una cattedra di insegnamento nell'istituto privato presso il quale ha studiato. Procede negli studi universitari maniera molto brillante, ma, pronta già la tesi laurea, si blocca nella preparazione dell'ultimo esame e, dopo un anno di vani tentativi, rinuncia a laurearsi.

Totalmente ripiegata nell'esaurimento attribuito allo stress, Luigia non coglie il nesso è evidente tra fantasie di separazione dalla famiglia e la punizione che inattiva l'unica prospettiva concreta di realizzare quella separazione.

Altre volte, l'economia espiatoria è espressa direttamente da dolori di natura varia, persistenti e ricorrenti, che punteggiano un'esperienza soggettiva che per altri versi può apparire abbastanza organizzata.

Elvira, insegnante di 36 anni, sposata con due bambini, soddisfatta della sua vita familiare e sociale, nel giro di sei anni ha subito episodi di dolori insopportabili, variamente localizzati, sine materia a detta di tutti i medici consultati e delle analisi eseguite, durati per circa due mesi. Convinta di essere una persona più che normale, si rivolge ad uno psichiatra solo perché, dopo il quarto episodio, ha sviluppato una fobia dei dolori che la logora, poiché la induce a vivere nell'aspettativa ansiosa di un nuovo attacco.

Più ingannevoli sono le esperienze psicopatologiche incentrate, più o meno consapevolmente, su strategie di evitamento del dolore psichico, soprattutto sotto forma di angoscia. In tali casi, l'esigenza di porre al riparo la propria identità personale e sociale da attacchi disintegranti può apparire del tutto contrastante con un'economia espiatoria. Ma, di solito, basta considerare dialetticamente questa difesa in relazione al prezzo che essa comporta in termini di possibilità di vita per capire che, di fatto, corrisponde ad una logica espiatoria. Le esperienze che rientrano in questo ambito sono le più varie, ma il fattore che le accomuna è un vissuto di estrema vulnerabilità che impedisce di esporsi, di interagire con gli altri e di vivere.

Mauro, ricoverato nel corso del servizio militare in un reparto psichiatrico per disturbi ossessivi, sviluppa la fobia di essere stato contagiato dai malati di mente. Tornato a casa, questa fobia si estende a tutti coloro che in qualche misura manifestano comportamenti socialmente strani, come i barboni. Per evitare qualunque contatto con costoro, Mauro si chiude in casa per due anni, abbandonando gli studi e le amicizie, e si dedica ossessivamente a rituali igienici purificatori miranti ad annullare le tracce del "contagio" che ha portato in casa.

Per difendere la sua integrità psichica e sociale, Mauro dunque si autoesclude dalla vita e praticamente annulla i livelli di integrazione già raggiunti e le loro potenzialità evolutive.

Rita, superati gli esami di maturità, vede nella prospettiva universitaria la possibilità di spiccare il volo verso forme nuove di socialità e verso la pratica di esigenze effettive lungamente frustrate. Poco prima dell'inizio dell'università, viene colta per strada da un attacco di panico agorafobico, che la costringe a regredire per tra anni in una penosa incarcerazione domestica e in una dipendenza totale dalle figure parentali.

L'elenco di esperienze potrebbe essere molto più lungo. Gran parte dei disagi psicopatologici che insorgono a livello giovanile sotto forma di insabbiamenti, agorafobia, paura del giudizio degli altri, deliri persecutori, i quali inducono in forme più o meno rilevanti ritiri dal mondo, rientrano in questo ambito. La costanza con cui le coscienze si ossessionano sulla natura del sintomo e non colgono le conseguenze mortificanti e devitalizzanti di esso è assoluta.

Assolutamente ingannevoli infine sono le esperienze psicopatologiche che appaiono incentrate su una ricerca affannosa di gratificazione, di piacere, di libertà, di soddisfazioni narcisistica. In questo inganno cadono non solo le coscienze che la vivono ma spesso anche i parenti, gli psichiatri e gli psicoanalisti. Per convincersi che si tratta di atteggiamenti paradossalmente rivolti a rimuovere una logica espiatoria che finiscono con il confermare, basta aprire gli occhi.

Mario vive, dall'età di 14 anni, da quando cioè ha abbandonato la scuola, in un assoluto disordine pulsionale: dorme di giorno e sta sveglio la notte ascoltando musica rock, mangia a crepapelle nelle ore più impensate, si masturba per ore ed ore, aggredisce senza remore i parenti. A questo disordine, però, corrisponde un'angoscia sociale che vincola Mario agli arresti domiciliari. Le rare volte che egli esce il suo comportamento, animato dalla paura che gli altri colgono la suaa normalità, è assolutamente formale, ipercontrollato, privo di ogni spontaneità. Il suo disordine privato, in breve, è un patetico tentativo di sfondare il muro di una maschera di normalità sociale che gli impone un assoluto anonimato, e di rinunciare a qualsivoglia progetto di vita di relazione e affettiva.

Enrico, dall'età di 20 anni, vive in una condizione di totale parassitismo. Non studia nè lavora, si sveglia tardi, esce nel pomeriggio per incontrare gli amici e rimane fuori la sera. Dipende economicamente dei suoi e, nonostante la famiglia non sia agiata, manifestA una cinica tendenza ad obbligare i familiari a gravi sacrifici pur di disporre di denaro. È presuntosamente certo della sua assoluta superiorità rispetto ai comuni mortali, e aspetta solo il giorno che le ccircostanze gli permetteranno di affermare socialmente il suo eccelso valore. Questo mostruoso narcisismo è contraddetto dal fatto che, dall'età di vent'anni, Enrico è divenuto assolutamente impotente, si vergogna di questa realtà e vive nel terrore che essa possa essere intuita da qualcuno, poiché ciò, a suo avviso, comporterebbe l'emarginazione e la repulsione sociale che meritano i deboli e gli inetti.

Naturalmente, egli non si considera tale poiché vive la sua condizione come un disturbo fisico destinato a passare.

Gianna, un'insegnante di educazione fisica, ha un incessante bisogno di sedurre gli uomini, ai quali si concede con assoluta facilità. Attribuisce questo suo modo di essere ad una sessualità prepotente e infrenabile, nonché al superamento di ogni pregiudizio morale. Non si rende conto che il suo comportamento assolutamente disinibito evoca, in quasi tutti chi gli uomini cui si concede al primo incontro, una reazione di rigetto. A 29 anni decide di cambiare vita, sposando un coetaneo che la ama. Si sente appagata è soddisfatta: ma, appena tre mesi dopo il matrimonio, avviene uno strano mutamento. Senza tradirlo, comincia a tormentare il marito e a rendergli la vita impossibile. Questi conferma il suo amore. Gianna giunge a livelli di sadismo psicologico il cui unico significato è di farsi rifiutare e abbandonare. Ci riesce e trova nella presa di coscienza dolorosa che ne segue una verità che le restituisce il suo essere al mondo come orientato a fare il deserto intorno a sé.

Definire l'economia intrinseca ad un'esperienza psicopatologica e riuscire a mettere in evidenza il suo carattere punitivo ed espiatorio è il primo momento della psicoterapia dialettica. Ma esso, con il dolore e la presa di coscienza che produce, riconducibile alla intuizione di un progetto latente di cui il soggetto è schiavo di che si configura come un "destino", non ha senso se non si associa ad una messa a fuoco della alienazione dei bisogni che alimenta la struttura psicopatologica e mantiene il potere del super-io.

Per bisogni alienati, come noto,si intende una configurazione dei bisogni fondamentali - di integrazione sociale e di individuazione - conflittuale e adialettica, tale che la realizzazione dell'uno postula la frustrazione dell'altro. Il problema è che la fenomenologia dei bisogni alienati, per quanto riconducibile alla tensione più o meno consapevole verso ideali dell'io che richiedono, né più né meno, il sacrificio di aspetti propri della natura umana, ha una tale varietà da risultare spesso poco evidente.

E' a questo livello che l'approccio dialettico, capace di mettere in relazione aspetti di dell'esperienza vissuti soggettivamente come indipendenti e di ricavare da indizi visibili la prova di ciò che appare invisibile, manifesta la sua massima utilità.

Alcuni esempi sono già riconoscibili nei frammenti di esperienze riportati. In particolare, gli ideali dell'io narcisistici e onnipotenti, che appaiono ai soggetti e spesso anche agli psicoanalisti, come espressione di una fissazione individualistica, ribelle ad ogni verifica sociale, sono patetici tributi pagati sull'altare di un bisogno di integrazione sociale che, minacciato da un super-io ridicolizzante, sprezzante ed emarginante, deve alienarsi fino al punto di indurre i soggetti a sentire e credere che la persistenza della loro identità personale sociale possa essere confermata solo il nome di una maschera di normalità perfetta.

Il narcisismo onnipotente, in altri termini, è l'espressione nonché di un bisogno di individuazione esasperato di un bisogno di integrazione sociale alienato riferito ad un codice superegoico neodarwinistico, che lascia speranza di sopravvivere solo agli esseri perfetti. L'individuazione, cioè la capacità di manifestare il proprio essere nel mondo con i suoi pregi e i suoi difetti, è totalmente sacrificata sull'altare del mantenimento di un'immagine sociale di sé adeguata a quel codice quanto sterile.

Molti altri esempi possono essere fatti in riferimento ai codici mentali analizzati ne "La Politica del Super-Io", che configurano ideali dell'io alienati.

Carlo è convinto che la salvezza dall'angoscia di essere inadeguato e privo di valore che lo perseguita coincide con il conseguimento del prestigio e del successo sociale. E' lo yuppie il modello di normalità cui aspira. La conseguenza di questo ideale dell'io però è di dover mantenere nei confronti dei superiori da cui dipende un atteggiamento servile e "strisciante", e di assumere, nei confronti di coloro che non sente come superiori, e dunque anche della sua ragazza e degli amici, un atteggiamento dominante, aggressivo e prepotente. Il suo bisogno di integrazione sociale alienato da una scala di valori meramente gerarchica comporta, per un verso la mortificazione totale della sua individualità, e per un altro, l'espressione di questa individualità in termini che risultano a Carlo stesso criticabili e talora riprovevoli.

Mauro è convinto di poter stare in relazione con gli altri, e dunque di scampare all'isolamento, solo se mantiene una maschera di perfezione morale e sociale, imposta dalla tradizione familiare, che coincide con l'accondiscendere senza remore alle aspettative altrui. Perseguendo questo obiettivo, egli è esposto al rischio ricorrente di essere preda di raptus rabbiosi che lo inducono a troncare rapporti di lavoro e rapporti affettivi. Non solo: costretto a fingere tutto il giorno di essere un perfetto modello di giovane di buona famiglia, egli, di sera si abbandona ad una doppia vita che lo porta frequentare ambienti sociali pericolosi e ad avere comportamenti trasgressivi ai limiti della legge. Egli non coglie, però, il rapporto tra l'immagine sociale nella quale si costringe, che lo aliena e lo obbliga a riscattare in forma trasgressiva e il suo bisogno di individuazione.

Patrizia svilupa una psicosi delirante a carattere mistico dopo un periodo di insofferenza ai legami familiari che l'aveva indotta a progettare di separarsi. Dopo la crisi va a vivere con un'amica con la quale stabilisce un rapporto fusionale, chiuso ad ogni scambio con il mondo esterno. Sviluppa periodicamente forti depressioni che vengono risolte da crisi di eccitamento maniacale che la proiettano da sola in lunghi viaggi in giro per il mondo, i quali si concludono con deliri persecutori. La risoluzione di queste crisi coincide con tentativi di dare al suo rapporto un carattere più chiuso, dipendente e fusionale. Essa non coglie nella sua esperienza, l'alienazione di un bisogno di integrazione sociale che si configura come fusione con l'altro con effetto di generare, con il suo stesso approfondirsi, l'affiorare di un bisogno alienato di individuazione sotto forma di fuga all'impazzata nel mondo.

Massimo, a 20 anni, nel corso della sua esperienza universitaria, sviluppa una fobia di contatto incentrata sulla paura di poter fare male agli altri. Vive per due anni il dramma della sua potenziale criminalità per via di fantasie coatte e aggressive che si rivolgono sempre più di frequente su esseri inermi. Repentinamente, poi, il vissuto si converte nella fobia di una depersonalizzazione che potrebbe indurlo, contro la sua volontà, a farsi prete. Da questo momento in poi, le fobie si alternano, perché Massimo è terrorizzato ora dal pericolo di diventare un criminale ora da quello di diventare un prete. L'alienazione dei bisogni è assolutamente evidente: individuarsi si pone nei termini di un'assoluta socialità distruttiva, integrarsi socialmente nei termini di una totale rinuncia a sé.

La messa a fuoco dei bisogni alienati, della loro dinamica, delle valenze ideologiche che li sottendono, e, soprattutto, del loro carattere ingannevole, che fa sì che una coscienza, in buona fede, si presta a realizzare un progetto superegoico di infelicità, promuove un terzo momento della psicoterapia dialettica: il recupero dei bisogni autentici e la definizione di un progetto alternativo rispetto a quello superegoico che permetta di realizzarli.

Questa è, indubbiamente, la fase più complessa, poiché essa viene ad urtare costantemente contro la coazione a ripetere, e cioè la tendenza dell'economia espiatoria a riproporsi nonostante gli sforzi liberatori del soggetto. Benché dolorosa e frustrante, la coazione a ripetere può essere utilizzata dialetticamente. Essa infatti mette in luce sempre meglio il sistema di significati superegoici, permettendo di ricostruirne la genesi, l'attualità e, soprattutto, le valenze ideologiche che lo sottendono.

E' l'agire del soggetto in una direzione liberatoria che gli permette di apprezzare il significato inerziale e persecutorio del super-io rispetto ad un bisogno, quello di opposizione e di individuazione, che esso, sia in rapporto al passato che presente, criminalizza, per mantenere la sottomissione del soggetto rispetto ad un sistema di valori che implica determinati rapporti di potere tra esseri umani.

In questa fase, nonché contro il super-io, il soggetto viene spesso ad urtare contro resistenze oggettive poste dal gruppo di appartenenza o dal sistema sociale: resistenze che mirano a colpevolizzare la sua individuazione. La psicoterapia dialettica può permettergli di comprendere queste resistenze, riconducendole alla persistenza di valori superegoici nelle personalità con cui interagisce e nell'ambiente culturale.

Riporto ora alcuni esempi di come la coazione a ripetere e le resistenze al cambiamento possono essere utilizzate dialetticamente per incrementare la presa di coscienza dell'attività superegoica.


Cap. IV Dai bisogni alienati ai bisogni autentici

Proporre la rabbia e l'odio critico come capitali terapeutici, e cioè come strumenti che, a partire dal riconoscimento dell'alienazione primaria e secondaria dei bisogni soggettivi, consentono di valutare la scissione costitutiva dell'universo umano e sociale, e di dare senso ai sistemi di valore superegoici che lo sottendono, non può non destare un qualche turbamento.

C'è una lunga tradizione culturale, rievocata da Freud e portata alle estreme conseguenze ideologiche da M. Klein, che identifica la scissione come espressione propria dell'istinto di morte. C'è una tradizione più recente, coincidente con la storia della psichiatria, che assume la scissione della personalità, drammaticamente testimoniata dalla schizofrenia, come problema psichiatrico per eccellenza. Sia in senso psicodinamico che clinico, insomma, il termine scissione sembra evocare fantasmi meramente negativi.

La teoria dei sistemi, che ha posto in luce inequivocabilmente la repressione microsistemica del bisogno di individuazione, mortifica questa scoperta riconducendola ad un'universale paura del cambiamento, tale che l'intervento terapeutico da essa promosso mira sostanzialmente a porre le coscienze dei soggetti che interagiscono in grado di valutare, oggettivando la comunicazione sistemica, gli sterili equilibri che esse si affannano a mantenere. Edulcorando la teoria dei bisogni nell'ottica di un generico riferimento alle risorse umane, la teoria dei sistemi, come del resto ogni altra tecnica terapeutica, viene ad urtare contro il problema della coazione a ripetere.

La rabbia e l'odio critico rappresentano, a mio avviso, l'unica soluzione di questo problema, che è - tout-court - il problema psicopatologico. Se è vero infatti che la psicopatologia è l'espressione amplificata di un conflitto tra le due identità costitutive della personalità, e che la drammaticità delle esperienza psicopatologiche si fonda sull'incapacità soggettiva di dare senso a questa scissione, l'intervento terapeutico non può avere altro obiettivo che di indurre una presa di coscienza che permetta all'io di oggettivare il super-io con i sistemi di valore che esso veicola e i codici mentali con cui si maschera, di ricostruirne la genesi, che trascende il microsistema di appartenenza, e di valutare la sua tendenza ad autoalimentarsi in virtù del disordine pulsionale che produce.

L'insistenza con cui, ne "La Politica del Super-Io", ho sottolineato il significato del bisogno di opposizione ai fini dello strutturarsi di una personalità autonoma e integrata, dotata di una coscienza morale critica, non dovrebbe lasciare dubbi quanto al fatto che, fondandosi il potere superegoico sulla criminalizzazione di quel bisogno, la scissione promossa dall'intervento psicoterapeutico ha la funzione di restituire ad esso il carattere funzionale ed evolutivo che gli è proprio, depurandolo dalle attribuzioni negative che lo inattivano.

Mentre la scissione psicopatologica, sottraendosi alla coscienza, mantiene il potere del super-io sull'io, la scissione psicoterapeutica, mirando a restituire al soggetto una capacità critica di opposizione sia in rapporto alla colpevolizzazione o alla seduzione superegoica sia in rapporto alle sollecitazioni ambientali, induce una lenta presa di potere dell'io sul super-io, il recupero dei bisogni alienati e lo sviluppo di un sistema di valori orientato alla realizzazione dell'identità personale e sociale.

La scissione psicoterapeutica è, sostanzialmente, un processo che fa leva sulle potenzialità della coscienza il cui intento non è di separare e isolare, bensì di mettere in relazione, di stabilire nessi tra livelli oggettivi e soggettivi dell'esperienza e di coglierne la funzionalità. In tale senso, è lecito parlare di una attività eminentemente dialettica.

Ma si tratta di una dialettica concreta, non intellettualistica, il cui riferimento ultimo sono i bisogni umani e le loro vicissitudini. È intorno alla teoria dei bisogni che ruota infatti la psicoterapia dialettica, che mira a disalienarli e a restituirli all'io come bisogni frustrati alla cui realizzazione egli deve rivolgersi. La trasformazione dei bisogni alienati in bisogni autentici postula, però, la presa di coscienza dell'economia superegoica nella quale è intrappolata l'esperienza soggettiva, la messa a fuoco degli ideali dell'io alienati e delle pulsioni che questi mirano a tenere sotto controllo e a reprimere, e infine, un agire orientato a realizzare i bisogni e consapevole degli ostacoli soggettivi e ambientali che a ciò si oppongono.

Riguardo all'economia dei bisogni, laddove si dà un'esperienza psicopatologica non c'è da dubitare che si tratti di un'economia espiatoria, incentrata sul bisogno di punizione e sulla necessità di soffrire. Le espressioni fenomenologiche di questa economia sono la le più varie, dalle più evidenti alle più ingannevoli.

Le espressioni più evidenti sono le esperienze caratterizzate dal fatto che soggetti i coscientemente assumono il bisogno di punizione come proprio, ritenendosi colpevoli e condannandosi nelle maniere più varie a soffrire. In questo ambito rientrano i deliri di colpa, peraltro molto rari, alcune depressioni croniche sistematizzate, e non poche esperienze ossessive a contenuto religioso. In tutte queste situazioni, il dato più rilevante, che può essere utilizzato dialetticamente, è l'incapacità del soggetto di addurre le prove della colpevolezza che si attribuisce e la sproporzione tra le prove addotte e il bisogno di punizione.

Paola, per esempio, la cui storia è stata riferita ne La Politica del Super-Io, ritiene giusto, dopo 12 anni di persecuzione delirante, di continuare ad espiare la colpa di aver lanciato su un ragazzo uno sguardo che lo ha sedotto.

Lorenzo, uno studente in medicina, religiosissimo, intrappolato in una esperienza ossessiva, si sottopone ad un regime rigidissimo e tormentoso di vita, con rituali che spesso sfiorano il masochismo, per evitare di cedere alla masturbazione e, dopo ogni masturbazione, incrementa quei rituali fino al parossismo.

In ambedue i casi è chiaro che l'imputazione superegoica non verte sul singolo comportamento, bensì sull'immoralità radicale e sfrenata che esso attesta, cioè su un disordine pulsionale senza controllo. Aiutare la coscienza prendere atto di questa imputazione è, per l'appunto, un momento dialettico.

In altri casi, la prevalenza del bisogno di punizione nell'organizzazione della vita è assolutamente evidente sul piano oggettivo ma sfugge del tutto all'Io, che non lo riconosce né lo assume come proprio.

Alfredo, imprenditore industriale di 35 anni, dedica la sua vita al lavoro. Vive da solo. Nonostante elevate disponibilità economiche, non si è mai concesso una vacanza. Trascorre i fine settimana chiuso in casa, ripiegato su di un dolore esistenziale spesso amplificato da disturbi psicosomatici, nell'attesa ansiosa di lunedì mattina. È consapevole della inutilità del suo impegno lavorativo, non avendo alcuno cui far godere i frutti del suo lavoro. Ciò nonostante si rivolge ad un medico solo nel momento in cui comincia ad avvertire una perdita di memoria e di capacità di concentrazione che minacciano le sue prestazioni lavorative.

E' chiaro, dall'esterno, che una siffatta organizzazione di vita non ha altro senso che di un interminabile espiazione. Solo quando questo punto di vista di viene proposto però Alfredo, non senza difficoltà appare in grado di rendersene conto.

Altre volte, l'economia espiatoria coincide con un'esperienza di dolore alla quale coscientemente il soggetto si ribella, ma che di fatto alimenta perdendo o vanificando ogni possibilità di cambiarla.

Luigia non tollera più la dipendenza dai familiari e non vede l'ora di diventare economicamente autonoma per separarsi da loro. Sa di poter disporre, dopo la laurea, di una cattedra di insegnamento nell'istituto privato presso il quale ha studiato. Procede negli studi universitari maniera molto brillante, ma, pronta già la tesi laurea, si blocca nella preparazione dell'ultimo esame e, dopo un anno di vani tentativi, rinuncia a laurearsi.

Totalmente ripiegata nell'esaurimento attribuito allo stress, Luigia non coglie il nesso evidente tra lefantasie di separazione dalla famiglia e un'invalidazione punitiva che frustra l'unica prospettiva concreta di raggiungere l'autonomia.

In alrtri casi, l'economia espiatoria è espressa direttamente da dolori di natura varia persistenti e ricorrenti, che punteggiano un'esperienza soggettiva che per altri versi può apparire abbastanza organizzata.

Elvira, insegnante di 36 anni, sposata con due bambini, soddisfatta della sua vita familiare e sociale, nel giro di sei anni ha subito quattro episodi di dolori insopportabili, variamente localizzati, sine materia a detta di tutti i medici consultati e delle analisi eseguite, durati per circa due mesi. Convinta di essere una persona più che normale, si rivolge ad uno psichiatra solo perché, dopo il quarto episodio, ha sviluppato una fobia dei dolori che la logora, poiché la induce a vivere nell'aspettativa ansiosa di un nuovo attacco.

Più ingannevoli sono le esperienze psicopatologiche incentrate, più o meno consapevolmente, su strategie di evitamento del dolore psichico, soprattutto sotto forma di angoscia. In tali casi, l'esigenza di porre la propria identità personale e sociale al riparo da attacchi disintegranti può apparire del tutto contrastante con un'economia espiatoria. Ma, di solito, basta considerare dialetticamente questa difesa in relazione al prezzo che essa comporta in termini di possibilità di vita per capire che, di fatto, corrisponda ad una logica punitiva. Le esperienze che rientrano in questo ambito sono le più varie, ma il fattore che le accomuna è un vissuto di estrema vulnerabilità che impedisce di esporsi, di interagire con gli altri e di vivere.

Mauro, ricoverato nel corso del servizio militare in un reparto psichiatrico per disturbi ossessivi, sviluppa la fobia di essere stato contagiato dai malati di mente. Tornato a casa, questa fobia si estende a tutti coloro che in qualche misura manifestano comportamenti socialmente strani, come i barboni. Per evitare qualunque contatto con costoro, Mauro si chiude in casa per due anni, abbandonando gli studi e le amicizie, e si dedica ossessivamente a rituali igienici purificatori miranti ad annullare le tracce del contagio che ha portato in casa.

Per difendere la sua integrità psichica e sociale, Mauro, dunque, si autoesclude dalla vita e praticamente annulla i livelli di integrazione già raggiunti e le loro potenzialità evolutive.

Rita, superati gli esami di maturità, vede nella prospettiva universitaria la possibilità di spiccare il volo verso forme nuove di socialità e verso la pratica di esigenze effettive lungamente frustrate. Poco prima dell'inizio dell'università, viene colta per strada da un attacco di panico agorafobico, che la costringe a regredire per tra anni in una penosa incarcerazione domestica e in una dipendenza totale dalle figure parentali.

L'elenco di esperienze potrebbe essere molto più lungo. Gran parte dei disagi psicopatologici che insorgono a livello giovanile sotto forma di insabbiamenti, agorafobia, paura del giudizio degli altri, deliri persecutori, e che inducono in forme più o meno rilevanti un ritiro dal mondo rientrano in questo ambito. La costanza con cui le coscienze si ossessionano sulla natura difensiva del sintomo e non colgono le conseguenze mortificanti e devitalizzanti di esso è inquietante. La dialettica postula di mettere a fuoco l'entità della punizione sociale in rapporto ad una sterile difesa.

Assolutamente ingannevoli infine sono le esperienze psicopatologiche che appaiono incentrate su una ricerca affannosa di gratificazione, di piacere, di libertà, di soddisfazioni narcisistiche. In questo inganno cadono non solo i pazienti, ma spesso anche i parenti, gli psichiatri e gli psicoanalisti. Per convincersi che si tratta di atteggiamenti paradossalmente rivolti a rimuovere una logica espiatoria che essi finiscono con il confermare, basta adottare una logica interpretativa dialettica.

Mario vive, dall'età di 14 anni, da quando ha abbandonato la scuola, in un assoluto disordine pulsionale: dorme di giorno e sta sveglio la notte ascoltando musica rock, mangia a crepapelle nelle ore più impensate, si masturba per ore ed ore, aggredisce senza remore i parenti. A questo disordine, però, corrisponde un'angoscia sociale che vincola Mario agli arresti domiciliari. Le rare volte che egli esce il suo comportamento, animato dalla paura che gli altri colgano la sua anormalità, è assolutamente formale, ipercontrollato, privo di ogni spontaneità. Il suo disordine privato, in breve, è un patetico tentativo di sfondare il muro di una maschera di normalità sociale che gli impone un assoluto anonimato, e di rinunciare a qualsivoglia progetto di di vita di relazione e affettiva.

Enrico, dall'età di 20 anni, vive in una condizione di totale parassitismo. Non studia ne lavora, si sveglia tardi, esce nel pomeriggio per incontrare gli amici e rimane fuori la sera per giocare a poker. Dipende economicamente dei suoi e, nonostante la famiglia non sia agiata, manifesta una cinica tendenza ad obbligare i familiari a gravi sacrifici pur di disporre di denaro. È presuntosamente certo della sua assoluta superiorità rispetto ai comuni mortali, e aspetta solo il giorno che le circostanze gli permetteranno di affermarla socialmente. Questo mostruoso narcisismo è contraddetto dal fatto che, dall'età di vent'anni, Enrico è divenuto assolutamente impotente, si vergogna di questa realtà e vive nel terrore che essa possa essere intuita da qualcuno, poiché ciò, a suo avviso, comporterebbe l'emarginazione e la repulsione sociale che meritano i deboli e gli inetti. Naturalmente, egli non si considera tale poiché vive la sua condizione come un disturbo fisico destinato a passare.

Gianna, insegnante di educazione fisica, ha un incessante bisogno di sedurre gli uomini, ai quali si concede con assoluta facilità. Attribuisce questo suo modo di essere ad una sessualità prepotente infrenabile, nonché alla rimozione di ogni pregiudizio morale. Non si rende conto che il suo comportamento assolutamente disinibito evoca, in quasi tutti chi gli uomini cui si concede al primo incontro, una reazione di rigetto. A 29 anni decide di cambiare vita, sposando un coetaneo che la ama. Si sente appagata è soddisfatta: ma, appena tre mesi dopo il matrimonio, avviene uno strano mutamento. Senza tradirlo, comincia a tormentare il marito e a rendergli la vita impossibile. Questi conferma il suo amore. Gianna giunge a livelli di sadismo psicologico il cui unico significato è di farsi rifiutare e abbandonare. Ci riesce e crolla nella presa di coscienza di una verità che le restituisce il suo essere al mondo come orientato a fare il deserto intorno a sé.

Definire l'economia intrinseca di un esperienza psicopatologica e riuscire a mettere in evidenza il suo carattere punitivo ed espiatorio è il primo momento della psicoterapia dialettica. Ma esso, con il dolore e la presa di coscienza che produce, riconducibile alla intuizione di un progetto latente di cui il soggetto è schiavo e che si configura come un "destino", non ha senso se non si associa ad una messa a fuoco della alienazione dei bisogni che alimenta la struttura psicopatologica e mantiene il potere del super-io.

Per bisogni alienati, come noto, intendo una configurazione dei bisogni fondamentali - di integrazione sociale e di individuazione - conflittuale e adialettica, tale che la realizzazione dell'uno postula la frustrazione dell'altro. Il problema è che la fenomenologia dei bisogni alienati, per quanto riconducibile alla tensione più o meno consapevole verso ideali dell'io che richiedono, né più né meno, il sacrificio di aspetti propri della natura umana, ha una tale varietà da risultare spesso poco evidente.

È a questo livello che l'approccio dialettico, capace di mettere in relazione aspetti dell'esperienza vissuti soggettivamente come indipendenti o di ricavare da indizi visibili la prova di ciò che accade a livello inconscio, manifesta la sua massima utilità.

Alcuni esempi sono già riconoscibili nei frammenti di esperienze riportati. In particolare, gli ideali dell'io narcisistici e onnipotenti, che appaiono ai soggetti e spesso anche agli psicoanalisti, come espressione di una fissazione individualistica, ribelle ad ogni verifica sociale, sono patetici tributi pagati sull'altare di un bisogno di integrazione sociale che, minacciato da un super-io ridicolizzante, sprezzante ed emarginante, deve alienarsi fino al punto di indurre i soggetti a sentire e credere che la persistenza della loro identità personale sociale possa essere confermata solo il nome di una maschera di ipernormalità.

Il narcisismo onnipotente, in altri termini, è l'espressione non di un bisogno di individuazione esasperato, bensì di un bisogno di integrazione sociale alienato riferito ad un codice superegoico neodarwinistico, che lascia speranza di sopravvivere solo agli esseri perfetti. L'individuazione, cioè la capacità di manifestare il proprio essere nel mondo con i suoi pregi e i suoi difetti, è totalmente sacrificata sull'altare del mantenimento di un'immagine soggettive sociale di sé adeguata a quel codice benché sterile.

Molti altri esempi possono essere portati in riferimento ai codici mentali analizzati ne "La Politica del Super-Io", che configurano ideali dell'io alienati.

Carlo è convinto che la salvezza dall'angoscia di essere inadeguato e privo di valore che lo perseguita coincide con il conseguimento del prestigio e del successo sociale. È lo yuppie il modello di normalità cui aspira. La conseguenza di questo ideale dell'io però è di dover mantenere nei confronti dei superiori da cui dipende un atteggiamento servile e "strisciante", e di assumere, nei confronti di coloro che non sente come superiori, e dunque anche della sua ragazza e degli amici, un atteggiamento dominante, aggressivo e prepotente. Il suo bisogno di integrazione sociale alienato da una scala di valori meramente gerarchica comporta, per un verso la mortificazione totale della sua individualità, e per un altro, l'espressione di questa individualità in termini che risultano a Carlo stesso criticabili e talora riprovevoli.

Mauro è convinto di poter stare in relazione con gli altri, e dunque di poter scampare all'isolamento, solo se mantiene una maschera di perfezione morale e sociale, imposta dalla tradizione familiare, che coincide con l'accondiscendere senza remore alle aspettative altrui. Perseguendo questo obiettivo, egli è esposto al rischio ricorrente di essere preda di raptus rabbiosi che lo inducono a troncare rapporti di lavoro e affettivi. Non solo: costretto a fingere tutto il giorno di essere un perfetto modello di giovane di buona famiglia, egli, di notte, si abbandona ad una doppia vita che lo porta frequentare ambienti sociali pericolosi e ad avere comportamenti trasgressivi ai limiti della legge. Egli non coglie, però, il rapporto tra l'immagine sociale nella quale si costringe, che lo aliena e lo obbliga a riscattare in forma trasgressiva il suo bisogno di individuazione.

Concetta sviluppa una psicosi delirante a carattere mistico dopo un periodo di insofferenza ai legami familiari che l'aveva indotta a progettare di separarsi. Dopo la crisi va a vivere con un'amica con la quale stabilisce un rapporto fusionale, chiuso ad ogni scambio con il mondo esterno. Sviluppa periodicamente forti depressioni che vengono risolte da crisi di eccitamento maniacale che la proiettano da sola in lunghi viaggi in giro per il mondo, i quali si concludono con deliri persecutori e ricoveri in ospedale. La risoluzione di queste crisi coincide con tentativi di dare al suo rapporto un carattere più chiuso, dipendente e fusionale. Essa non coglie nella sua esperienza, l'alienazione di un bisogno di integrazione sociale che si configura come fusione con l'altro con effetto di generare, con il suo stesso approfondire, l'affiorare di un bisogno alienato di individuazione sotto forma di fuga all'impazzata nel mondo.

Massimo a 20 anni, nel corso della sua esperienza universitaria, sviluppa una fobia di contatto incentrata sulla paura di poter fare male agli altri. Vive per due anni il dramma della sua potenziale criminalità per via di fantasie coatte e aggressive che si rivolgono sempre più di frequente su esseri inermi. Repentinamente, poi, il vissuto si converte nella fobia di una depersonalizzazione che potrebbe indurrlo, contro la sua volontà, a farsi prete. Da questo momento in poi, le fobie si alternano, perché Massimo è terrorizzato ora dal pericolo di diventare un criminale ora da quello di diventare un prete. L'alienazione dei bisogni è assolutamente evidente: individuarsi si pone nei termini di una assoluta malvagità, integrarsi socialmente nei termini di una totale rinuncia a sé.

La messa a fuoco dei bisogni alienati, della loro dinamica, delle valenze ideologiche che li sottendono, e, soprattutto, del loro carattere ingannevole che fa sì che una coscienza, in buona fede, si presta a realizzare un progetto superegoico di infelicità, promuove un terzo momento della psicoterapia dialettica: il recupero dei bisogni autentici e la definizione di un progetto alternativo rispetto a quello superegoico che permetta di realizzarli.

Questa è, indubbiamente, la fase più complessa, poiché essa viene ad urtare costantemente contro la coazione a ripetere, e cioè la tendenza dell'economia espiatoria a riproporsi nonostante gli sforzi liberatori del soggetto. Benché dolorosa e frustrante, la coazione a ripetere può essere utilizzata dialetticamente. Essa infatti mette in luce sempre meglio il sistema di significati superegoici, permettendo di ricostruirne la genesi, l'attività dinamica e,soprattutto, le valenze ideologiche che lo sottendono.

E' l'agire del soggetto in una direzione liberatoria che gli permette di apprezzare il significato inerziale e persecutorio del super-io rispetto ad un bisogno, quello di opposizione e di individuazione, che esso, sia in rapporto al passato che presente, criminalizza, per mantenere la sottomissione del soggetto rispetto ad un sistema di valori che implica determinati rapporti di potere tra esseri umani.

In questa fase, nonché contro il super-io, il soggetto viene spesso ad urtare contro resistenze oggettive poste dal gruppo di appartenenza o dal sistema sociale: resistenze che mirano a colpevolizzare la sua individuazione. La psicoterapia dialettica può permettergli di significare queste resistenze, riconducendole alla persistenza di valori superegoici nelle personalità con cui interagisce e nell'ambiente culturale.

Riporto ora alcuni esempi di come la coazione ripetere ie l'urto contro resistenze oggettive possono essere utilizzate dialetticamente per incrementare la presa di coscienza del potere superegoico.


Cap. V La doppia identità

1. Santa/Puttana

A 32 anni, Franca, sposata e madre di una bambina di sette anni, sviluppa un delirio persecutorio. Ogniqualvolta esce di casa, avverte su di sé gli sguardi delle persone che la giudicano male e coglie sulle loro bocche giudizi infamanti. Si chiude in casa, ma la condizione di imprigionamento la rende estremamente aggressiva nei confronti della figlia e del marito. Si trasferisce a casa dei suoi genitori, ma continua a sragionare. Visitata da uno specialista, le vengono prescritti psicofarmaci maggiori.

Sentendosi ormai finita, Franca ne ingerisce un'ingente quantità, viene ricoverata in un reparto di rianimazione e successivamente in una casa di cura privata. Quando viene dimessa, chiede essa stessa di parlare con qualcuno dei suoi problemi.

L'esperienza psicopatologica di Franca è di antica data. A 18 anni, in autobus, cominciò ad avvertire che emanava cattivo odore e che le persone, percependolo, si allontanavano disgustate di da lei. Successivamente capì di essere giudicata negativamente. Da allora, non ha mai goduto di un periodo di completa serenità. Attestandosi sul registro di una vaga fobia sociale, i vissuti persecutori le hanno permesso di condurre una vita apparentemente normale: si è sposata, ha avuto la figlia e ha lavorato. Per ben quattro volte, nel giro di dieci anni, però, quei vissuti si sono riattivati, costringendola a star chiusa in casa per alcuni mesi. Ogni volta, a suo dire, la sofferenza è stata più intensa. Non avrebbe altrimenti mai osato attentare alla sua vita, dato il forte legame affettivo con il marito e con la figlia.

Il livello culturale di Franca è piuttosto modesto e non le consente di cogliere che un nesso superficiale tra la sua sofferenza e la storia personale. Il nesso è rappresentato dalle vicende travagliate della famiglia originaria, dovute ad un perenne disaccordo tra i suoi. Essendo state, però, tali vicendevissute da tutti i fratelli (è la terza di 5 figli, di cui uno solo è maschio), Franca pensa di essere nata con una qualche predisposizione ad ammalare.

Di fatto, tra i figli, è l'unica che non si è mai ribellata ai genitori: dipende da essi, li ossequia e, essendo considerata la migliore e la più affettuosa, ne subisce gli sfoghi. La sorella maggiore, separata dal marito, vive in casa dei suoi con un bambino, ma si concede, nonostante la loro opposizione, molta libertà. La seconda è anch'essa separata. Il fratello ha abbandonato alcuni anni orsono moglie e figli tornando a casa solo per imposizione dei suoi, che hanno minacciato di considerarlo morto per sempre. La sorella minore, la quinta, vive da sola, e per la vita che conduce è la spina nel fianco dei genitori.

La struttura psicopatologica e trasparente. A 18 anni il sentirsi marcia, corotta e disgustosa ha lacerato il velo ingenuo della coscienza di Franca, ponendosi come dato incomprensibile ma costitutivo del rapporto tra lei e il mondo. Essa non ha mai potuto cogliere soggettivamente questa negatività perché il suo comportamento è statoi sempre improntato dalla bontà, dall'accondiscendenza, dalla docilità e dalla volontà di non far male ad alcuno. Franca riconosce in questo suo modo di essere una tendenza naturale del suo carattere, che giudica però eccessiva, poiché l'ha indotta sempre a subire tutto e tutti.

È evidente che questo eccesso di bontà cela un'intensa paura del conflitto interpersonale e attesta una logica inconsapevolmente espiatoria: è come se Franca possa rimanere in una relazione confermativa con gli altri solo annullando la sua identità a favore delle loro aspettative.

L'inibizione del bisogno di opposizione lascia intuire l'origine della negatività imputata dal super-io. Ma perché mai tale negatività e affiorata a 18 anni? E qual è il significato della persecuzione sociale che, in forma più o meno intensa, si perpetua da allora? Qual è, infine, il motivo per cui tale persecuzione raggiunge periodicamente livelli intollerabili, che costringono Franca ad imprigionarsi in casa e a regredire affidandosi ai suoi?

Le risposte affiorano lentamente. Franca attribuisce al padre la responsabilità di un regime patriarcale oppressivo, che ha indotto in tutti i figli l'aspettativa ansiosa di una liberazione.

La sorella, maggiore di cinque anni, è fuggita da casa a 16 anni con un ragazzo per sposarsi. Franca ricorda vivacemente la vergogna dei genitori agli occhi dei parenti il giorno del matrimonio riparatore e le attribuzioni reciproche di responsabilità. La madre accusa il marito di aver creato una situazione invivibile per tutti, il padre rimprovera la moglie di non aver saputo educare convenientemente le figlie. Lo scontro produce conseguenze catastrofiche.

Non sopportando più i rimproveri del coniuge, la madre abbandona la famiglia tornando al paese dai suoi. Il padre, nell'attesa che rinsavisca, provvede a sistemare i figli in collegio. Franca trascorre due anni in un istituto di suore e matura la convinzione che, una volta uscita, dovrà trovare la strada per affrancarsi dal giogo paterno.

A 14 anni comincia lavorare e incontra un ragazzo di cui si innamora. Il rapporto rimane clandestino finché, un giorno, il padre la vede per strada in compagnia del ragazzo e, al ritorno a casa, la percuote duramente per via della giovane età e perché il ragazzo, che porta i capelli lunghi, evoca in lui una repentina diffidenza. La questione si risolve con un fidanzamento ufficiale.

Compiuti 18 anni va, Franca cede alle insistenze del ragazzo e ha con lui dei rapporti completi. Poco tempo dopo, affiora il vissuto di essere corrotta e di venire giudicata negativamente da tutti.

Il nesso non potrebbe essere più chiaro. Nel momento in cui, sentendosi grande, Franca osa sfidare la patria potestà, perdendo la verginità prima del matrimonio, ricade nell'ambito di un controllo sociale proiettivo che assume una configurazione duramente rimproverante e repressiva. Con fatica, essa ammette che, all'epoca, i giudizi negativi da cui sentiva investita riguardavano la sua immoralità.

Oltre ad aver avuto rapporti completi con il fidanzato, infatti, Franca si permette di andare in giro da sola, come se fosse alla ricerca di occasionali avventure. Nonché tutelare la propria verginità, una ragazza seria fidanzata, secondo i valori superegoici interiorizzati, deve starsene in casa o uscire in compagnia di qualche parente.

Franca non ha difficoltà riconoscere che è singolare che a Roma, nel 1975, tutte le persone la pensino come il padre, non fosse altro per il fatto che ricorda di aver visto in giro molte giovani donne da sole e di aver saputo, da alcune amiche, che avevano avuto rapporti completi prima ancora di lei.

È chiaro che, per capire l'insorgenza dell'esperienza psicopatologica, a Franca manca una chiave interpretativa, che è fornita dal sistema di significati superegoici che si è strutturato nel corso dell'evoluzione della personalità.

I primi ricordi di Franca risalgono ad epoche piuttosto remote e rievocano un'intensa ambivalenza nei confronti del padre, amato per i suoi atteggiamenti iperprotettivi e odiato per le frequenti esplosioni di ira. Successivamente, ricorda di aver preso le parti della madre che vedeva oppressa ed umiliata, e di aver provato un'avversione crescente nei confronti del padre. Tale avversione è culminata allorché, tornata a casa dal collegio signorina, Franca si è vista imporre dal padre regole severissime di vita e una costrizione totale della sua libertà.

A quell'epoca si configura anche una sorte di astio nei confronti della madre, tornata in famiglia, che, nonostante la sua condizione di vittima, appare alleata del marito nel sostenere rigidi principi di moralità tradizionale. Tali avversioni producono in Franca fantasie di rabbia, di liberazione e di vendetta che essa rievoca coscientemente ma che non hanno mai soffocato la sua pietà nei confronti di genitori che ha sempre vissuto, per alcuni aspetti, come buoni.

Sul nodo delle fantasie di rabbia e di vendetta si è strutturato il super-io colpevolizzante che, facendo riferimento ad un quadro di valori rigidamente tradizionale, ha atteso Franca al varco: la prima trasgressione ha conseguito, per ciò, un effetto catastrofico.

Si tratta di capire ora perché mai la persecuzione superegoica non sia venuta meno dopo che Franca si è sposata, ha avuto un bambino e ha dato prova di attaccamento e dedizione alla casa, al marito e al figlio.

Le crisi successive hanno avuto, in effetti, un carattere congiunturale. Pure assolvendo scrupolosamente i doveri domestici, Franca non ha voluto mai rinunciare ad avere un'attività lavorativa, e perciò è stata continuamente contestata dai suoi, alleati nel sostenere che una donna sposata debba stare in casa. Questa pressione, associata a quella esercitata soggettivamente dal super-io, permette di comprendere perché essa si è mossa sempre fuori di casa con un certo disagio. Le crisi, però, sono sopravvenute sempre in rapporto a situazioni legate ai comportamenti dei fratelli che determinano la riaccensione del conflitto tra i genitori.

Ogni separazione è stata drammatizzata da questi ultimi, che si sono sentiti esposti ad un'intollerabile vergogna agli occhi dei parenti del paese di origine, dove essi si recano frequentemente, riaccendendo tra loro polemiche mai subite.

Franca si è trovata, dunque, sempre coinvolta in un canovaccio che le ha riproposto le tematiche consuete della sua famiglia. Con essa, infatti, in quanto docile, dipendente e comprensiva, si sono sfogati regolarmente entrambi i genitori, sollecitando un impossibile consenso. I loro principi, infatti, sostanzialmente riconducibili alla necessità di soffrire pure di mantenere la famiglia in una condizione onorata agli occhi degli altri, Franca non solo gli ha sempre rifiutati ma trovati assurdi. Ogni volta che si è prodotta una crisi nella famiglia originaria, ha sentito animarsi dentro incontrollabili fantasie di ribellione e di separazione dai suoi. A queste fantasie, colpevolizzate come se significassero solo odio, ingratitudine e disamore, ha corrisposto sempre una dura rappresaglia superegoica che, facendo regredire Franca nella malattia, l'ha riconsegnata ai genitori e, facendole sperimentare la loro disponibilità a proteggerla a e a curarla, ha inibito il suo bisogno di individuazione, alimentando paradossalmente i sensi di colpa.

Solo imprigionandosi in casa e comsegnandosi nelle mani dei suoi per due-tre mesi, Franca ha riacquistato un qualche equilibrio.

È evidente però che, nel corso degli anni, il conflitto tra super-io e bisogni frustrati di individuazione si è incrementato fino a raggiungere livelli di assoluta criticità.

L'economia espiatoria ha naturalmente investito anche l'intimità della vita di Franca. Essa si è sempre sentita sorvegliata, frenata e minacciata nei rapporti sessuali con il marito. Pur amandolo e desiderandolo, non ha mai raggiunto l'orgasmo al quale si associa la paura di morire. Sopravvenendo le crisi, la sessualità è risultata del tutto bloccata e rifiutata.

È chiaro che questo è uno dei nodi dinamici del conflitto tra super-io e bisogni frustrati. La repressione paterna è stata infatti esplicitamente riferita alla natura poco controllabile e debole della donna. E non occorre molta intuizione a capire che le fantasie vendicative e adolescenziale di Franca si sono tradotte in fantasie di vita moralmente sfrenata e disonorevole. Di fatto, essa ha "trasgredito" solo fidanzandosi precocemente e intrattenendo, per alcuni anni, con il ragazzo rapporti superficiali. Ancora oggi però rievoca l'intensità dei sensi di colpa a riguardo.

L'altra grave trasgressione, come detto, è consistita nel perdere la verginità prima del matrimonio: colpa che Franca si è trascinata dentro di sé per anni con una vergogna irreparabile, vivendo nel terrore che il fidanzato potesse abbandonarla.

Tutte queste riflessioni, analisi e interpretazioni inducono in Franca la convinzione che nella sua testa c'è un giudice che, facendo capo ad attribuzioni negative quali l'aver odiato a morte il padre, l'aver desiderato di troncare i rapporti con la famiglia e l'aver fantasticato di abbandonarsi ad una vita immorale, la considera una falsa santarellina, le impone di vivere costantemente nell'espiazione e la fa giudicare dal mondo così come "deve" essere giudicata: abominevole, piena di distruttività e corrotta.

Come uscire da questa situazione soggettiva?

E'chiaro che Franca deve realizzare le sue fantasie di separazione dai genitori per giungere a sentirsi autonoma, il suo bisogno di individuazione per interagire con gli altri senza dovere subire più tutto e tutti, e infine la sua aspirazione al piacere di vivere, sia sotto il profilo della sessualità che sotto quello della capacità di godere di quanto nella sua vita c'è di gratificante.

Come risolvere però l'ambivalenza nei confronti dei genitori? Come permetterle di scalzare il potere del super-io, che l'ha assoggettata ad un sistema di valori e repressivo e mortificante?

Occorre a questo punto ricondurre il discorso del super-io, al di là delle dinamiche soggettive di cui si autoalimenta, alle sue radici familiari, sociali e culturali. La famiglia di Franca è originaria di un paese del Sud ove vige, di fatto, un regime patriarcale, l'onore familiare è tutto e le figlie sono considerate dei pesi, per giunta pericolosi.

All'ombra di questa tradizione, la donna deve vivere sotto la patria potestà non solo fino alla maggiore età, ma finché non viene affidata dal padre al marito, al quale deve rimanere fedele e assoggettata per tutta la vita. Non solo: i figli, anche da grandi, rimangono gravati di una elevata responsabilità in rapporto all'onore familiare. Qualunque comportamento negativo essi agiscono ricade infatti sulle spalle dei genitori e denuncia la cattiva educazione ricevuta.

Nonostante si siano trasferiti a Roma da anni, i genitori di Franca sono rimasti fedeli alla tradizione paesana, anche perché hanno continuato a intrattenere rapporti frequenti con quell'ambiente e con i parenti. Non è un caso che, in occasione delle sue fughe, la mamma di Franca sia stata convinta a tornare dal marito per il bene dei figli ma anche per non discreditare i parenti.

Franca si rende conto che i suoi sono vissuti nell'ossessione degli occhi della gente e che il padre, venuto a contatto con la cultura urbana, si è sentito investito della ruolo di tutore a qualunque costo dell'onore familiare. Ciò permette di comprendere le contraddizioni che egli ha espresso. Fuori casa è un uomo socievole, espansivo, stimato da tutti come un gran lavoratore. In casa ha imposto un regime dittatoriale implacabile per far prevalere quelle che egli ritiene leggi della vita. Ciò nondimeno, si è mostrato non di rado con il figli anche amorevole, partecipe e generoso. Quando i figli hanno avuto bisogno di lui, come Franca nei periodi di malattia, non si è mai sottratto alle sue responsabilità. Solo quando i figli gli si sono opposti o hanno operato scelte di testa loro, a suo avviso disdicevoli, egli ha manifestato una durezza di carattere capace di giungere alla minaccia, infinite volte proferita, di chiudere i rapporti con loro e di ritenerli morti. È evidente che, nel padre di Franca, l'identità egoica e quella superegoica sono rimasti in uno stato di scissione evidente. Franca, che di fatto è la più sensibile tre figli, pur odiando il padre per i suoi atteggiamenti superegoici, non è riuscita a risolvere l'ambivalenza riferita alla sua concreta umanità. Come, del resto, non è riuscita a risolvere il rapporto di ambivalenza verso la madre che, benché si sia ribellata sterilmente alla dittatura del marito, non gli è stata mai da meno nel proporre, particolarmente alle figlie, un sistema di valori morali rigidissimo, essendosi sentita sempre responsabile del loro comportamento.

Franca può, dunque autorizzarsi finalmente ad odiare i livelli superegoici delle personalità genitoriale e i sistemi di valore che essi veicolano senza dover troncare il rapporto con i genitori. Può autorizzarsi ad esprimere ciò che pensa e sente, poiché comprende che le minacce paterne di rappresaglia sono finzioni legate all'identità superegoica alle quali non corrisponde alcun pericolo. Di fatto, il padre non ha mai troncato i rapporti con i figli, anzi nei confronti della maggiore, la più ribelle e trasgressiva al punto che, dopo la separazione dal marito, ha convissuto con un altro uomo dal quale poi è stata lasciata, ha manifestato, date le precarie condizioni economiche in cui essa versava, un'attenzione particolare.

Non meno importante, però, è che Franca orienti la sua vigilanza sull'istanza superegoica che governa la sua personalità e ne prenda sempre più coscienza per opporre ad essa le sue ragioni, i suoi diritti, la sua volontà. Si tratta di una guerra di liberazione di lunga durata. Franca però ha acquisito strumenti che le permettano di rendersi conto delle proiezioni che, sia pure in maniera sfumata, sopravvengono. E soprattutto si rende conto della severità del super-io che vuole impedirle di partecipare alla vita godendo delle gioie che può concedersi.

Un giorno - ed è un episodio singolare- soffermatasi di fronte ad una vetrina di biancheria intima, meditando di entrare per acquistare delle calze, il suo sguardo viene catturato dalla immagine riflessa e repentinamente la sua attenzione si rivolge sul naso, che le appare orribilmente storto. Rievoca repentinamente un ricordo rimosso: l'anno precedente il sopravvenire della prima crisi, era stato ossessionata da una singoare angoscia estetica legata al naso, affetto da una lieve deviazione chr non compromette affatto la bellezza del volto. Capisce intuitivamente ciò che sta accadendo, si distoglie ed entra nel negozio per acquistare le calze. Resa vagamente euforica dalla libertà raggiunta si gratifica acquistando altri capi di biancheria.

Nessuno può immaginare, quando esce con la busta, che in esse è depositata una vera rivoluzione.

Considerazioni teoriche

Mi preme ora sviluppare alcune riflessioni teoriche sull'esperienza di Franca.

La chiave strutturale dell'esperienza psicopatologica è trasparente sin dal primo primo vissuto: l'emanare un cattivo odore atto ad indurre repulsione negli altri. Tale vissuto esprime una convinzione radicale di negatività - l'essere marcia, corrotta - a cui non può non associarsi una giusta, per quanto dolorosa, sanzione sociale in termini di emarginazione e di esclusione. Successivamente, persistendo quella convinzione, la sanzione si trasforma in una sorta di controllo sociale rimproverante e più o meno severamente accusatorio.

La trasparenza strutturale pone in luce, senza ombra di dubbio, il doppio sistema di significati che vige, dissociandola, nella personalità di Franca. A livello di io cosciente essa si sente sostanzialmente innocente e buona, pensa di meritare delle conferme ed è orientata verso una vita affrancata dall'incubo della repressione paterna e ispirata a valori semplici ma gratificanti: il matrimonio, la maternità, il lavoro.

A livello superegoico c'è invece un'implacabile imputazione di negatività radicale, dalla quale discende una condanna sociale e soggettiva: dagli altri Franca non può aspettarsi che delle disconferme - dalla repulsione al rimprovero -, e, essendo colpevole, oltre ad accettare la punizione sociale essa deve vivere sul registro dell'espiazione. Deve in breve rifuggire dalle gratificazioni che non merita poiché queste, aumentando i sensi di colpa, richiedono di essere scontate stando ancora più male.

L'io di Franca è dunque intrappolato dentro u'identità superegoica che nonché impedirle di individuarsi, progettando la sua vita affrancata dalla giogo paterno in termini personali, le impone di rimanere in una condizione di perenne minorità.

Il super-io di Franca, nonostante i cambiamenti sociali e mentali avvenuti nel contesto urbano, continua a fare riferimento ad una tradizione che identifica la donna onesta nella figlia soggetta alla patria potestà e, quando essa viene consegnata dal padre ad un altro uomo, nella moglie che vive nella riservatezza del suo ruolo domestico, dimentica di ogni altro piacere che non sia quello di servire il marito e i figli.

Il significato storico-culturale di questa tradizione è chiaro. Essa si fonda sull'attribuzione alla natura femminile. intesa come avente una sua specificità differenziata rispetto a quella maschile, di un'intrinseca debolezza morale, e quindi di un un'incapacità ontologica di pervenire all'autonomia. Senza la protezione e il controllo dell'uomo, dunque, la donna non può non cedere a tale debolezza e comportarsi in modo disonorevole e immorale.

Da più parti questa concezione è stata stigmatizzata come orientata a mantenere la donna in una condizione di subordinazione, di assoggettamento e per giunta di gratitudine rispetto all'uomo. Non v'è dubbio che ciò sia vero, ma non è tutta la verità.

L'impegno con cui il padre di Franca cerca di imporre la sua legge, esponendosi a scacchi perpetui, ricavandone cioè frustrazione e rabbia da parte della moglie e delle figlie, pone in luce con chiarezza il fatto atto che anche egli è vittima, e non solo garante, della legge. Ciò si può comprendere solo ricostruendo il significato storico del valore che sottende tale legge: l'onore familiare.

A tal fine, non c'è che da appellarsi agli studi degli storici, per capire che l'onore è un valore che obbliga i membri di un gruppo familiare a comportarsi in maniera tale da non esporre se stessi e la famiglia alla mormorazione, all'ingiuria, allo stigma sociale. L'onore implica un controllo sociale sui comportamenti individuali che fa capo ad un bene superiore all'individuo: l'immagine positiva e cioè conforme alla norma della famiglia cui appartiene. Tale valore riguarda tutti i membri, ma in particolare le donne, poiché la loro virtù o il venir meno ad essa è un fattore assolutamente decisivo ai fini di mantenere agli occhi degli altri un'immagine stimata della famiglia.

Non v'è alcuna difficoltà nel capire che l'onore svolge la funzione di mantenere la preminenza dei valori sociali, ovviamente fondati sul potere dominante, sulla libertà dell'individuo, e che pertanto rappresenta, anche in epoca recente, un codice a atto a promuovere l'integrazione sociale al prezzo della frustrazione del bisogno di individuazione.

Il delirio di Franca attualizza, dunque, nonostante i cambiamenti di mentalità, una persecuzione secolare: la mormorazione e l'ingiuria appuntati in particolare su qualunque donna osi avere un comportamento non conforme alla tradizione morale, di cui il padre e il marito sono depositari e garanti.

Il vissuto di Franca è psicopatologico però per due motivi. Anzitutto, perché esso non ha alcun referente comportamentale e, in secondo luogo, poiché proietta, su un mondo sociale la cui mentalità è in evoluzione, criteri di giudizio che fanno capo ad una tradizione locale, coincidente con il sistema familiare cui essa partecipa. Ciò attesta la potenza inerziale delle tradizioni che, com'è accaduto per il padre di Franca, tendono ad irrigidirsi in rapporto a contesti che le minacciano e, in secondo luogo, il carattere inesorabilmente microstorico dell'esperienza soggettiva, che assume, nelle fasi evolutive della personalità, i valori veicolati dai sistemi pedagogici come sacri e assoluti, e non può sottrarsi ad essi se non in virtù di una presa di coscienza che renda la rabbia funzionale alla liberazione e la affranchi dal potere del super-io, che si autoalimenta di essa.

C'è infine un'ultima considerazione da fare, di ordine tecnico. Nel corso della psicoterapia, Franca ha acquisito strumenti culturali indispensabili per decifrare la sua esperienza e per liberare il bisogno di individuazione dalla trappola superegoica. Se ci si chiede, dato lo spessore microstorico della sua esperienza, come si sarebbe potuto procedere sul piano meramente organicista, psicologico o relazionale, la risposta è ovvia: si sarebbe, tutt'al più proceduto a tentativi di soffocare la sua identità con l'uso dei farmaci o di adattarla alla situazione, promuovendo un atteggiamento più realistico e meno debole sul piano interattivo. Sarebbe valso tale approccio a destrutturare la sua esperienza superegoica e a restituirle il potere di odiare i valori superegoici senza sentirsi colpevole? penso di no.

Ciò significa a mio avviso che l'attrezzatura culturale atta a comprendere il modo in cui si è strutturata un'esperienza psicopatologica è decisiva ai fini di una terapia liberatoria. Non si tratta di pretendere dai soggetti uno sforzo che, sul piano attuale, trascende le possibilità degli addetti e lavori nel campo delle scienze umane e sociali. Ma l'essenziale, il minimo indispensabile, il punto di leva va fornito al soggetto. Altrimenti, la struttura psicopatologica rimane ferma nella sua capacità deterministica intrinseca e minacciosa nel suo potere di indurre l'io a punirsi di colpe mai commesse.

Santo/criminale

A 19 anni, poco dopo l'accesso alla facoltà di medicina, Piero comincia a vivere drammaticamente una fobia che insorge quando è in compagnia degli altri studenti: la fobia di poter fare loro del male. Per un certo periodo, questo vissuto rimane genericamente vincolato alla categoria della contagio, nel senso che Piero pensa, toccando sia pure casualmente gli altri, di poterli sporcare, inquinare, infettare.

Nel volgere di alcune settimane, il vissuto si specifica configurandosi sotto forma di paura di potersi abbandonare ad incontrollabili impulsi distruttivi. Soprattutto per strada, incrociando persone inermi - bambini, anziani, donne incinte - Piero è preda della fantasia di prenderli a calci o di colpirli e alla testa. Pur essendo certo di essere riuscito ad inibire queste pulsioni, ogni volta egli deve fermarsi, attanagliato dal senso di colpa, e ricostruire le circostanze dell'incontro per confermare la sua innocenza.

Nello stesso periodo, in conseguenza delle indescrivibili tensioni prodotte dai vissuti fobici, Piero assume nei confronti dei genitori un atteggiamento di aperta ostilità. Rifiuta di mangiare con loro, riduce al minimo la comunicazione verbale, esplode ogni tanto in eccessi di ira nel corso dei quali proferisce nei loro confronti critiche astiose e indecifrabili. Questo mutamento di carattere è reso ancora più rilevante dal suo comportamento in passato.

Pure essendo stato sempre infatti un po' chiuso e riservato, egli si è sempre comportato come un figlio docile, rispettoso ed educato.

La situazione critica è attestata anche dalla difficoltà di prendere sonno. Piero veglia sino alle due di notte e si tormenta nella sua solitudine che, per effetto dei vissuti fobici, si configura ai suoi occhi come un destino. Data la sua "cattiveria", che riesce a controllare ma gli appare inubitabile, si sente in colpa soprattutto agli occhi di Dio. Piero infatti è credente e praticante. Nell'intento di uscire dalla condizione di solitudine e nel contempo di fare qualcosa per espiare le sue colpe, comincia a frequentare un circolo parrocchiale giovanile che si dedica al volontariato. Egli soffoca la paura del contatto e cerca di guadagnarsi la stima di tutti con un atteggiamento di totale disponibilità e accondiscendenza. Il modello proposto dal gruppo, alimentato dalla le sollecitazioni del sacerdote che lo dirige, è quello della totale donazione di sé agli altri. Sentendosi un mostro di cattiveria, e dunque in debito conto tutti, Piero se ne fa carico senza remora alcuna. Tra lo studio e l'attività di volontariato la vita di Piero non ha respiro.

Per un certo periodo le fobie si allentano, ma aumentano il nervosismo, l'irrequietezza e l'insonnia.

Piero affronta ogni esame nello stato d'animo di chi si sottopone al giudizio universale. È certo che, in sede di esame, la sua negatività è destinata ad affiorare e ad essere riconosciuta da tutti. Tra l'altro è certo che i risultati che consegue, ovviamente brillanti, non segnalano i suoi meriti ma l'incapacità dei docenti di giudicarlo come merita. Egli si considera uno svogliato, un pigro, un "debosciato". La determinazione con cui studia non ha una motivazione intrinseca, rappresentando solo un modo ulteriore per espiare e per non deludere le aspettative dei suoi.

Per circa tre anni, l'esperienza di Piero si svolge su questo registro. Nonostante l'espiazione continua, la sperata liberazione da un sentimento di intima cattiveria e indegnità non sopravviene . La convinzione soggettiva di negatività comporta la tendenza a rifuggire da ogni occasione di verifica affettiva. Nonostante avverte il bisogno di un rapporto d'amore, Piero, anche quando gli si offrono delle occasioni, si inibisce essendo certo di andare incontro ad una delusione e ad uno smascheramento.

Dopo tre anni, il vissuto fobico cambia repentinamente segno. Piero comincia a temere che una volontà estranea, forse divina, possa violentare la sua, depersonalizzarlo e spingerlo, contro la sua vocazione laica, ad intraprendere una carriera sacerdotale. In conseguenza di questa fobia comincia a temere il contatto con la comunità parrocchiale e ad odiare la religione. Distrugge tutte le immagini sacre che sono in casa, cessa di frequentare la chiesa e si chiude in una solitudine totale. Da questo momento in poi la fenomenologia fobica assume un carattere oscillante: per alcuni periodi, è la fobia di essere costretto a farsi prete ad ingombrare l'orizzonte psicologico di Piero; in altri periodi, è quella di poter fare del male agli altri. Solo nei momenti di viraggio, che durano pochi giorni, quando una fobia tende a scomparire e l'altra non è ancora ricomparsa, Piero riesce a respirare. Dato, però,che ogni volta si illude che tutto sia finito, la delusione è sempre peggiore.

La struttura psicopatologica è trasparente. Essa si manifesta sotto un forma di attribuzione di una radicale negatività sociale, o meglio di una criminalità mostruosa in quanto non motivata. A questa attribuzione Piero oppone un controllo tormentoso e successivamente una strategia espiatoria incentrata sullo studio e sul volontariato. Giunge dunque, per scampare alla colpa di albergare una sorta di follia criminale, a realizzare una condizione di totale frustrazione dei suoi bisogni, e ad alimentare inconsapevolmente la rabbia.

La fobia di essere costretto contro la sua volontà a farsi prete rappresenta, in un certo qual modo, il dispiegarsi fenomenologico della struttura psicopatologica: il prete, inteso come un santo che rinuncia al mondo per dedicare la sua vita agli altri e frustra con i voti i suoi umani bisogni, rappresenta l'antitesi del criminale.

All'inizio dell'esperienza di psicoterapia, il punto di vista di Piero sulla situazione che vive è elementare, riconducendosì ai due pericoli da cui si sente minacciato: l'irruzione, per un verso di pulsioni distruttive criminali rivolte irrazionalmente contro esseri deboli e inermi; il cedimento, per un altro, della sua volontà ad una volontà estranea che potrebbe imporgli una vocazione che egli non sente. Si tratta di due pericoli di depersonalizzazione, poiché coscientemente Piero aborrisce sia la criminalità che il sacerdozio. Ma, dal momento in cui questi due modi di essere si definiscono, egli è costretto a ad oscillare fobicamente tra l'uno e l'altro.

La dinamica dell'oscillazione è legata alle strategie difensive che Piero pone in atto. La pressione delle pulsioni distruttive lo costringe infatti ad ipecontrollarsi e a cercare di confermare la sua identità sociale in virtù di un atteggiamento di totale accondiscendenza nei confronti degli altri. Via via che questo modo di essere si realizza, Piero si sente depersonalizzato: buono ma allo stesso tempo costretto ad essere disponibile, a manifestare contro la sua volontà un eccesso di virtù. Oltre a falsificarlo, questa difesa lo umilia, perché egli giunge a pensare che gli altri lo ritengono non già virtuoso ma debole, vale a dire un essere imbelle e privo di personalità. Per autenticarsi, egli è costretto repentinamente a chiudersi, a diventare freddo, ostile, intollerante, vagamente provocatorio e ostentatamente cinico. Questo irrigidimento, come conferma che egli ha una personalità definita, così lo isola, fa il deserto intorno a lui ed esasperandosi progressivamente lo induce a sentirsi insensibile, cattivo e distruttivo.

Quando Piero giunge a prendere coscienza della sua asocialità e della sua tendenza criminale ad attaccare gratuitamente gli altri per confermare la sua potenza, affiora il senso di colpa, ed egli si dispone ad espiare rientrando in rapporto con gli altri sul registro dell'asservimento. Le due polarità dinamiche tra le quali oscilla la sua esperienza sono adialettiche: nella misura in cui Piero è terrorizzato dall'una si sente attratto dall'altra e viceversa.

È chiaro che queste polarità, le quali configurano due modi di essere antitetici, rappresentano ciascuna l'espressione di una bisogno alienato: l'integrazione sociale sembra postulare l'annullamento dell'identità personale in nome di un modello di comportamento totalmente virtuoso; l'individuazione, viceversa, sembra non potersi realizzare che sul registro dell'insensibilità, del cinismo e della cattiveria.

Coscientemente, Piero rifiuta di essere sia un santo che un criminale. Cos'è dunque che, contro la sua volontà, vanifica ogni altra possibilità di esistenza estenuandolo in una perenne oscillazione tra i due modelli?

Il problema si chiarisce ammettendo che la coscienza di Piero è intrappolata entro un sistema di significati superegoici che, imputandoglì una radicale negatività, gli impone di espiarla, mettendosi al servizio degli altri, o di agirla, prendendo atto della sua asocialità e della sua indegnità di appartenere al contesto civile.

In rapporto alla teoria dei bisogni, viene da pensare che tale sistema di significati si sia strutturato a partire da una una criminalizzazione del bisogno di individuazione. La storia personale, familiare e sociale di Piero confermano puntualmente questa ipotesi.

I genitori di Piero sono entrambi cattolici integralisti. Il padre è di origini medioborghesi, la madre di origini contadine. Hanno realizzato, a detta loro, un'unione perfetta. Non c'è motivo di dubitarne. Ma, come accade a molti cattolici agiati, essi vivono in una sorta di permanente confusione ideologica. I valori cristiani in cui credono risultano infatti totalmente devoluti a favore di una logica ad essi estranea che fa del prestigio e della successo sociale il metro di misura della virtù. Tale confusione, presente da più generazioni nella famiglia paterna, da sempre ricca e cattolica, è stata accresciuta dalla vergogna materna delle origini umili e disagiate. In particolare da parte della madre, le aspettative nei confronti dei figli sono state sempre elevatissime.

Piero è il primo di due figli. Il giogo delle aspettative genitoriali e di un ideologia totalmente incentrata sulla senso del dovere sono ricaduti su di lui traumaticamente con l'avvio dell'esperienza scolare. Nei primi anni di vita, benché educato con una certa rigidità, Piero è stato un bambino vivace, estroverso, incline al gioco, abbastanza competitivo e puntiglioso. A sei anni, l'avvio della scolarizzazione determina una catastrofe. Dopo pochi giorni, la madre viene convocata dalla maestra - una suora - che le fa presente il comportamento inadeguato di Piero, troppo vivace, ciarliero e distratto. Per la madre, il richiamo è un onta. Redarguisce severamente Piero, lo minaccia di rappresaglie e esplicitamente gli impone di primeggiare e nella condotta e nel rendimento.

Piero si coordina repentinamente nel comportamento, chiudendosi a riccio, ma reagisce manifestando difficoltà di apprendimento. La madre lo giudica pigro, svogliato, lento e forse poco dotato. Ritiene pertanto giusto e necessario aiutarlo. In pratica Piero si ritrova inchiodato al tavolino per tutto il pomeriggio sotto l'occhio vigile della madre. Non c'è più tempo né per i giochi né per le compagnie.

Per alcuni anni, l'opposizione a questo regime si manifesta sotto forma di una sorta di ottusità per cui l'apprendimento richiede lunghe ore di studio. Alla fine però Piero cede e per sottrarsi alla protezione persecutoria della madre, comincia a studiare da solo con un ottimo profitto. Diventa il primo della classe e rimarrà tale sino al compimento degli studi superiori.

Le conseguenze di questo cedimento alla volontà materna, però, sono gravi: per un verso, infatti, Piero studia contro la corrente di un'opposizionismo che lo costringe a dedicare all'apprendimento tutto il tempo disponibile e a rinunciare ad ogni altra attività o forma di socialità; per un altro, egli apprende meccanicamente, manda tutto a memoria senza provare alcun interesse né partecipazione. È uno schiavo, insomma che esegue scrupolosamente il suo dovere solo per evitare la frusta. Cova nell'animo una sorda ribellione, attestata da ricorrenti incubi notturni e dalla percezione episodica ma terrificante di un odio mortale nei confronti dei grandi.

L'educazione e la pratica religiosa lo inducono poi ad acquisire e fare propri valori che razionalizzano il suo comportamento ed estinguono ogni ribellione. Lentamente, si convince che il dovere di un figlio, com'espressione di rispetto e di gratitudine nei confronti dei genitori, è di fare ciò che essi si aspettano da lui, e che il dovere di un buon cristiano è di far fruttare i propri talenti. Ambedue questi principi concorrono a ridurre la sua vita ad una attività di studio incessante e a renderlo diverso, per eccesso di serietà e di zelo, rispetto ai coetanei.

Nel corso della scuola media, il suo isolamento è totale. L'unico compenso ad un regime di vita frustrante è il cibo. Piero ingrassa notevolmente e questo lo espone al dileggio dei compagni.

Quando sopravviene l'estate, nonché gioire per le vacanze, Piero è terrorizzato dal deserto che gli si fa intorno e dalla noia. Per scampare alla disperazione, oltre a mangiare, si abbandona allle fantasie sessuali e alla pratica della masturbazione, che lo colpevolizzano atrocemente. È con questo carico di negatività, di rabbia frustrata e di disordine morale che egli giunge all'università.

La psicoterapia dialettica permette a Piero di ricostruire l'alienazione primaria del bisogno di opposizione, dovuta alle aspettative morali e sociali troppo elevate della famiglia, e l'alienazione secondaria, dovuta ad una fede religiosa vissuta e praticata sul registro dell'espiazione.

L'alienazione primaria pone in luce la confusione ideologica dei genitori, che trasforma il valore cristiano dell'impegno verso la perfezione morale in un paradossale strumento di competitività con gli altri e di ascesa sociale. Piero comprende che può serbare rispetto e gratitudine per i suoi e per la loro buona fede senza dover soffocare l'odio che le loro confuse aspettative, esercitate rigidamente, hanno prodotto su di lui. Quanto alla alienazione secondaria, non si tratta di un fraintendimento soggettivo. Piero ha colto, nel cattolicesimo, un insieme di significati che esso ha realmente, anche se esistono correnti teologiche e movimenti che sottolineano la valenza del messaggio cristiano ai fini della realizzazione individuale.

Il nodo difficile da sciogliere, a questo riguardo, concerne il bisogno di opposizione, che, nell'ottica cattolica, viene ratificato solo in quanto esso esprime un contrasto con il mondo in nome della sottomissione al volere divino. L'esperienza di Piero attesta che la sottomissione al volere genitoriale, apparentemente ispirato a valori religiosi, lo ha messo sì in contrasto con il mondo ma nel senso di isolarlo nel ruolo di antipatico primo della classe; e, cosa ancora più grave, ha inibito la soddisfazione dei suoi bisogni adolescenziali, inducendolo a frustrarli. Il problema è dunque affrancarsi dalla sottomissione superegoica, e a tal fine, è importante che egli giunga a distinguere super-io e Dio.

Ormai la struttura psicopatologica è chiara agli occhi di Piero. Egli comprende che le due fobie tra le quali oscilla non hanno lo stesso significato: nonché temere di diventare prete, egli deve liberarsi da un habitus che, sia pure in nome di valori elevati, lo ha estraniato rispetto al mondo. Deve insomma svestirsi e rifiutare i "voti" che lo hanno fatto vivere in un regime di totale frustrazione.

Quanto alla criminalità, nonché una minaccia, essa contiene il riferimento ad un bisogno di opposizione che va esercitato, dato che le rabbia accumulate nel corso degli anni possono essere investite in questo direzione assicurando la crescita e la differenziazione della personalità. Anziché vendicarsi, Piero può rivendicare con la rabbia il diritto di vivere sentendosi degno di stima, alla pari degli altri, capace di tener conto delle loro aspettative senza mortificarsi e mirando alla gratificazione piuttosto che all'espiazione.

La liberazione della coscienza rispetto alla struttura psicopatologica e al potere superegoico è dunque avvenuta: la liberazione della vita è un processo più lento ma, poste quelle premesse, inevitabile.

Sotto tutto il profilo teorico, l'esperienza di Piero presenta un interesse particolare. I terrori superegoici di dannazione sulla terra e in cielo, ai quali egli potrebbe sfuggire solo arrendendosi ad un'esperienza sacerdotale espiatoria, riconoscono la loro matrice in un sistema di valori religiosi il cui implacabile rigore è di tipo controriformistico, se non addirittura calvinista. Ma l'alienazione primaria del bisogno di opposizione è avvenuta alla luce di questi valori condensati con quelli propri della civiltà borghese: la necessità di competere con gli altri e di primeggiare scambiata come virtù cristiana, come dovere assoluto. Evidentemente, della parabola dei talenti si possono fornire le interpretazioni più varie, ed essa com'è accaduto alla madre di Piero, può anche servire ad occultare un umiliante angoscia delle origini, dando al riscatto e all'ascesa sociale un significato virtuoso.

Non è lecito assumere una confusione ideologica locale come un indizio strutturale della tendenza di sistemi di valore antitetici - quelli cristiani e quelli borghesi - a condensarsi.

Per quanto occorra essere prudenti e riguardo, su quella confusione occorre, però,riflettere, poiché essa è forse più significativa di quanto possa apparire e oggi, in Italia, densa di inquietanti riscontri.


VI. La drammatizzazione dialettica

Sia Franca che Piero, nel periodo in cui hanno preso coscienza della struttura psicopatologica in cui erano intrappolati e ne hanno colto il determinismo implacabilmente punitivo, hanno manifestato uno stato d'animo lievemente euforico, dovuto alla consapevolezza, in sé e per sé appagante, di aver afferrato la chiave del loro disagio.

Successivamente, tale stato d'animo è divenuto ambivalente, poiché quella consapevolezza, configurandosi come irreversibile, li ha posti di fronte al bisogno alienato di soffrire non più razionalizzabile, ma arduo da modificare. Per effetto della coazione a ripetere, che è l'espressione propria del parassitismo superegoico, il processo di ristrutturazione dell'esperienza psicopatologica è inevitabilmente lento: procede in maniera disarmonica con accelerazioni, brusche battute d'arresto e regressioni, e comporta, spesso, la delusione di ritrovarsi, dopo un tragitto di esperienza animato dalla speranza di una liberazione definitiva, al punto di partenza.

A ciò concorrono spesso anche dinamiche ambientali, orientate a confermare il modo di essere e di porsi del soggetto determinato dal sistema di significati superegoici. A mio avviso, però, la coazione a ripetere è dovuta soprattutto a dinamiche soggettive. È la sensibilità colpevolizzata a rendere, infatti, il soggetto incline a farsi carico delle aspettative altrui.

Una coscienza attrezzata criticamente, pure non dovendo darsi uno statuto di insensibilità, persegue tenacemente gli obbiettivi prescritti dai bisogni autentici, quando riesce a liberarsi dai sensi di colpa che associano all'individuazione la cattiveria, il disordine, l'immoralità e l'asocialità. Ciò non toglie che il processo di liberazione dal potere superegoico proceda comunque per crisi e non per lisi: crisi del soggetto e non di rado dell'ambiente con cui egli interagisce.

Se ci si chiede qual è il potenziale che permette al soggetto di rimanere orientato verso il cambiamento, nonostante la coazione a ripetere, la risposta, benché paradossale, è univoca: è la disperazione prodotta da una presa di coscienza che porta a vedere la propria vita manipolata dalla ragione degli altri, e mortificata nel suo diritto di esprimersi secondo la logica dei bisogni vocazionali.

Ciò significa che la psicoterapia dialettica mira a produrre e ad alimentare una consapevolezza lucida, e dunque sofferta, della condizione psicopatologica, vale a dire a rimuovere tutte tutte le illusioni o razionalizzazioni con le quali il soggetto tenta di sentirsi più libero di quanto in effetti sia.

Occorre in breve operare di continuo drammatiche previsioni sul vicolo cieco al fondo del quale porta la struttura psicopatologica, per effetto del suo determinismo intrinseco, per indurre nel soggetto una volontà di cambiamento che persista nonostante le molteplici delusioni cui egli va incontro, dovute alla tendenza inerziale della struttura psicopatologica.

È un costante riferimento ad un destino di dolore, prescritto dal sistema di significati superegoici, che va dal dover vivere nell'incubo di una minaccia di esclusione sociale associata all'esercizio della libertà al dovere agire inconsapevolmente per punirsi e soddisfare il bisogno di espiazione, a promuovere l'attività del soggetto verso la liberazione.

In breve, a differenza di tutte le altre tecniche, eccezion fatta per l'ortodossia che assume però come minaccia da scongiurare le pulsioni, la psicoterapia dialettica tende alla drammatizzazione dell'esperienza soggettiva.

Se ci si riconduce ad un concetto ingenuo e patetico della sofferenza psicopatologica, vedendo in essa l'espressione amplificata di incoercibili angosce esistenziali o di una debole integrazione dell'io, la metodologia dialettica può essere pretestuosamente omologata come un esercizio di "sadismo " terapeutico. Se viceversa ci si riconduce alla concezione dell'universo psicopatologica illustrata ne "La Politica del Super-Io", che, essendo dinamica, comporta la possibilità di un passaggio da un livello psicopatologico ad un altro, sia in senso discendente che ascendente, e alla teoria dei bisogni che la sottende, è chiaro che la psicoterapia dialettica è animata dalla certezza dell'esistenza in ogni esperienza psicopatologica, quale che ne sia la forma fenomenica, di un capitale - i bisogni frustrati - che, come può servire ad autoalimentare il sistema di significati superegoici, così può essere posto a disposizione dell'io per affrancarsene.

Perché ciò avvenga occorre però che l'io disponga di un punto su cui far leva, e tale punto non può essere fornito che dalla presa di conoscenza del carattere perverso del sistema di significati superegoici. Gli obiettivi che si prefiggono altre tecniche terapeutiche - il rafforzamento dell'io, l'aumento della capacità di tollerare l'ansia e la frustrazione, l'acquisizione di criteri cognitivi più realistici, il miglioramento della comunicazione interpersonale, ecc. - non vengono rifiutati dalla psicoterapia dialettica, bensì subordinati ad un obiettivo univoco: l'affrancamento dell'io dalla persecuzione superegoica e dall'oppressione ambientale dovuta a sistemi di valore superegoici.

L'affermazione di Hegel, secondo la quale la libertà è l'accettazione della necessità, va dunque riformulata: la presa di coscienza della determinazione ambientale sul proprio essere, tradottasi per effetto atto del conflitto irriducibile tra super-io e bisogni alienati, nel primato dinamico della volontà altrui sulla propria, è, nonché la libertà, il presupposto della liberazione.

Obiettivo della psicoterapia dialettica è l'autorealizzazione dell'individuo, promossa e motivata dai bisogni personali. Questo concetto perde ogni carattere di astrattezza in rapporto alle esperienze psicopatologiche strutturate dal sistema superegoico: l'autorealizzazione si configura infatti come sforzo mirante a sostituire il bisogno alienato di punizione con quello di gratificazione.

E quasi superfluo sottolineare che questo bisogno non ha alcunché a che vedere con il principio della piacere freudiano. La psicoterapia dialettica mira a riabilitare la possibilità soggettiva di usare le proprie risorse e le opportunità ambientali per organizzare una vita che abbia senso.

Una vita che ha senso è necessariamente, in virtù della logica dei bisogni, una vita attiva intrinsecamente motivata che l'individuo ricava dall'uso delle sue risorse - fisiche e psichiche - in rapporto al mondo.

Non v'è dubbio però che la drammatizzazione dialettica, nonostante sia necessaria al fine di rimuovere la coazione a ripetere, produce anche problemi nuovi rispetto all'assetto psicopatologico. Essa ha anche risvolti dolorosi, intorno ai quali non si può tacere. Di questi, tre interessano in particolar modo.

Si è detto ne La Politica del Super-Io che le teorie psicopatologiche incentrata sulla vulnerabilità, debolezza e fragilità dell'io sono ideologiche nella misura in cui, trascurando l'handicap rappresentato dal sistema di significati superegoici, rilevano e misurano oggettivamente l'interazione della soggetto con la realtà. Ciò nondimeno, occorre riconoscere che, a livello psicopatologico come a livello socio-culturale, i sistemi di valore superegoici, con i loro automatismi proscrittivi, prescrittivi e propositivi, esercitano sull'io, inconsapevole del loro significato ultimo frustrante e punitivo, un fascino protettivo rilevante.

Per quanto all'ombra del super-io, l'io possa giungere ad atrofizzarsi, esso può sentirsi anche orientato, difeso, contenuto, salvaguardato. Inducendo una scissione dialettica dell'io rispetto al super-io, si realizza pertanto un effetto liberatorio ma anche un effetto atto di "scopertura" dell'io che, sotto la spinta dei bisogni disalienati, è indotto ad agire alla ricerca di nuovi moduli comportamentali, di nuove interazioni, di nuovi sistemi di valore. Per un certo periodo l'effetto di " scopertura " dell'io può essere addirittura più rilevante rispetto atto a quello liberatorio, e dar luogo ad un vissuto di smarrimento e di confusione.

La definizione egoica della personalità sia sotto il profilo soggettivo che relazionale, sociale e culturale, è una creazione in una certa misura dolorosa, costantemente minacciata dalla nostalgia di un ordine venuto meno.

La psicoterapia dialettica non può rimediare a questo dolore che dando ad esso un significato evolutivo, e restituendo al soggetto quella nostalgia come un effetto della perversione superegoica.

Un secondo aspetto rilevante della crisi indotta da un intervento dialettico concerne l'ambiente microsistemico con cui il soggetto interagisce. La teoria dei sistemi ha colto con efficacia il significato omeostatico che un'esperienza psicopatologica può assolvere in un contesto familiare. La scissione dell'io rispetto al super-io comporta necessariamente un nuovo modo di essere e di porsi del soggetto nelle relazioni interpersonali, e di conseguenza, spesso se non costantemente, una crisi microsistemica.

La percezione di potere far male agli altri in conseguenza del cambiamento - percezione che a livello superegoico viene imputata come espressione di egoismo, cinismo e cattiveria - è indubbiamente un ostacolo rilevante.

L'odio critico alimentato dalla psicoterapia dialettica comporta, inoltre, l'acuta percezione delle persone con cui il soggetto interagisce come vittime di sistemi di valore superegoici cui esse si aggrappano inconsapevoli dell'alienazione che ne ricavano. Tale percezione, che fa capo ad una tendenza all'identificazione con gli altri sempre vivacissima nelle persone che sperimentano un disagio psicopatologico, induce talora una resistenza al cambiamento sottesa dalla motivazione di continuare a condividere la sofferenza comune o a sacrificarsi per attenuare quella degli altri.

Questa resistenza può essere utilizzata dialetticamente per contestare le imputazioni superegoiche e spesso ambientali di egoismo e cattiveria. Essa però va anche contrastata criticamente in nome del diritto a rivendicare, per sé e per gli altri, una vita che abbia senso, e dunque una vita affrancata dalla logica superegoica. Le eventuali crisi di membri del sistema familiare possono pertanto essere analizzate alla luce della teoria dei bisogni alienati.

Non è vero che alcune famiglie hanno bisogno, per mantenere il loro equilibrio, di un capro espiatorio. E'vero che in esse il bisogno alienato di soffrire ha un rilievo economico maggiore del bisogno di felicità. Cogliere dialetticamente questo aspetto incrementa, nel soggetto disagiato, la volontà di lottare contro questa economia, nella speranza che anche gli altri si decidano a farlo. Se ciò non accade, è giusto che il soggetto persegua i suoi obiettivi affrancato dal senso di colpa che glieli restituisce come orientati non già a dare senso alla sua vita ma a far male agli altri.

Il terzo aspetto legato alla drammatizzazione dialettica concerne, al di là delle dinamiche soggettive e microsistemiche, le condizioni oggettive di vita, di opportunità reali di cui l'individuo dispone per cambiare e dare alla sua vita un significato gratificante.

Questo problema è importante perché, come noto, esso ha dato luogo ad una teorizzazione sociopolitica del disagio psichico la quale, assumendo la soggettività come "specchio" delle circostanze oggettive, tende ad escludere l'efficacia di un intervento centrato sulla soggettività o a criticarlo come ideologico.

Si tratta di una teorizzazione maturata, nel corso della lotta contro il manicomio, in opposizione ad approcci psichiatrici ispirati a rigidi criteri riduzionistici - sia di matrice biologista che psicologista - volti a misconoscere o minimizzare il ruolo delle circostanze ambientali nella genesi e nell'evoluzione del disagio psichico. Il suo carattere antitetico, e quindi necessariamente adialettico, non autorizza, come si tenta da più parti, una sorta di archiviazione in nome di un presunto eclettismo neopsichiatrico, disposto a tener conto anche dei fattori ambientali.

Quella rottura epistemologica conserva ancora oggi la sua attualità in riferimento a due livelli di realtà: il primo concerne esperienze di disagio che si definiscono in rapporto a condizioni oggettive di vita inadeguate dal punto di vista economico e culturale; il secondo concerne il sistema sociale nel suo complesso nella misura in cui che esso, nonostante le apparenze, continua a fondarsi su un mito gerarchico che postula la disuguaglianza innaturale tra gli esseri umani.

In conseguenza di questi livelli di realtà, ogni esperienza terapeutica dialettica può, e in una certa misura deve approdare ad una presa di coscienza dolorosa di circostanze oggettive che hanno mortificato e mortificano il capitale dei bisogni umani, alienandolo ed impedendo ad esso di esprimersi secondo le sue potenzialità. La formula basagliana che riconduce le matrici del disagio psichico alla miseria sociale, sia essa di ordine economico e/o psicologico, non solo non va rinnegata da un punto di vista dialettico, ma fa confortata da una prassi mirante a fornire la prova della sua validità. In concreto ciò significa però cose diverse in rapporto alle diverse situazioni.

Talora il prendere coscienza delle condizioni oggettive alienanti e mortificanti può comportare l'attivazione di risorse atte, in una certa misura, a trasformare quelle condizioni. Talaltra, si danno situazioni più oggettive frustranti del tutto indipendenti dalla volontà del soggetto e immodificabili da parte sua.

A questo livello, la dialettica psicoterapica deve lasciar posto alla dialettica politica in senso proprio. La lotta contro il mito gerarchico non avrebbe senso se si confinasse entro un ambito psicosociale: essa deve essere necessariamente condotta a vari livelli della realtà sociale e con strumenti diversi.

Anche la soggettività - non esito a ripeterlo - è un istituzione: ma credere in questo, e dunque nella possibilità che essa si deistituzionalizzi, non ha nulla a che vedere con l'ideologia del volontarismo onnipotente. Affrancare le istituzioni sociali dal mito gerarchico, rendendole funzionali alla massima espressione dei bisogni umani, è un impegno politico imprescindibile nell'ottica della prassi terapeutica dialettica. Esso si configura anche come la più efficace prevenzione contro il riprodursi all'infinito di inutili sofferenze psicologiche.


VII. Scissione psicopatologica e condensazione fenomenologica

Il disagio psicopatologico di Franca e di Piero affiora repentinamente con un vissuto sintomatico: l'emanare un odore repellente nel primo caso, il poter far del male agli altri nel secondo. Se analizziamo questi vissuti alla luce della ricostruzione microstorica, due verità diventano evidenti.

In primo luogo, entrambi i vissuti rappresentano l'espressione del sistema di significati superegoici. Si tratta di imputazioni che comportano una minaccia punitiva: Franca è imputata di essere una donna corrotta, Piero di essere un criminale. La minaccia punitiva, in entrambi i casi, comporta la necessità di evitare l'esposizione e il contatto sociale, per non incorrere nell'emarginazione.

Nel contempo, entrambi i vissuti fanno riferimento ad una quota di bisogni frustrati. Come risulta chiaro dalle microstorie, il problema di Franca consiste nel liberare la sessualità da una repressione che, se non le impedisce di esercitarla, la colpevolizza e inibisce la possibilità di provare piacere; quello di Piero, invece, consiste nel riuscire ad esprimere un'opposizione che lo metta in grado di interagire con il mondo senza dover assumere un ruolo passivo, disponibile ed espiatorio.

Nella misura in cui il sistema di significati superegoici scinde l'io dai suoi bisogni e, alienandoli, tenta di indurre in esso la paura di realizzarli, i vissuti psicopatologici condensano le imputazioni superegoiche e la pressione dei bisogni frustrati.

Quale che sia il modo, più po' o meno critico, con cui si definisce un disagio psicopatologico, i vissuti e i sintomi con cui si esprime comportano sempre siffatta condensazione. Da questo punto di vista, si può dire che la psicoterapia dialettica coglie immediatamente, nella trama dell'esperienza psicopatologica, il problema da risolvere, nella misura in cui il sistema di significati superegoici lo fa affiorare come un capo di imputazione e fa incombere su di esso una minaccia repressiva. Questo giustifica l'affermazione, piuttosto paradossale, fatta ne "La politica del super-io", secondo la quale il sistema di significati superegoici è un'istanza perversa e paranoica: perversa perché, dall’interno della struttura soggettiva, tende a ad attaccare l’io e ad orientarlo a lottare contro i suoi bisogni autentici; paranoica, poiché essa vede costantemente il male dove c’è una capitale di bisogni frustrati da realizzare e il bene nella repressione degli stessi.

Possiamo, per ora, prescindere dall’interrogarci ulteriormente sul carattere misterioso di questa istanza, fermo restando il fatto che porre in dubbio la sua esistenza in nome del presunto antropomorfismo che essa introduce nella concezione della mente umana significa non tanto precludersi la possibilità di comprendere l’universo psicopatologico, quanto negare ciò che è evidente sul piano storico sociale, e cioè che gli uomini, in grande maggioranza, vivono in una condizione di programmazione sociale e ideologica che, spesso, non ha alcuna pertinenza con i loro bisogni e la loro natura.

Più importante è, da un punto di vista terapeutico, analizzare il problema della condensazione tra significati superegoici e bisogni frustrati, che porta sempre in superficie il problema da risolvere e il modo in cui esso è qualificato superegoicamente: modo che solitamente impedisce di risolverlo o propone una soluzione a rovescio.

Quando i teorici del sistema affermano che, nelle esperienze psicopatologiche, la soluzione del problema, si ponga essa sul piano della consapevolezza o meno, è in realtàil problema da risolvere, sembrano afferrare questa verità, senza riuscire peraltro ad andare al di là del paradosso. Per convincersene, basta tornare alle microstorie riferite.

Posto il suo essere "corrotta”, la soluzione del problema proposta a Franca dal super-io è di astenersi dall’avere rapporti sessuali e rinunciare al piacere: tornare insomma ad essere "onesta”, per poter stare senza disagio in mezzo alla gente. È chiaro che questa soluzione è il problema: nonché corrotta, Franca è rimasta a tal punto "onesta” da provare, quando ha rapporti sessuali, solo sensi di colpa. In breve non solo essa non deve reprimersi ulteriormente, ma in una certa misura "corrompersi ".

Posto il suo essere un criminale, la soluzione del problema proposta a Piero dal super-io consiste nell’evitare il più possibile il rapporto con gli altri e nell’assumere nei loro confronti un atteggiamento inerme e passivo, atto ad attestare la sua innocenza: dar la prova costante, insomma, anche se a prezzo di una mistificazione, di essere radicalmente buono per poter mantenere un minimo di integrazione sociale. È chiaro che questa soluzione è il problema: da sempre, Piero è vissuto nella passività, nella docilità, nella disponibilità assoluta a rispondere alle aspettative degli altri. Per integrarsi socialmente, senza sentire annullata e falsificata la sua identità, egli deve cominciare ad esprimere il bisogno di opposizione, e cioè in una certa misura a "criminalizzarsi”.

Ogni esperienza psicopatologica, nella sua trama di vissuti e di sintomi, comporta la definizione e la soluzione superegoica dei problemi legati ai bisogni frustrati, e, al tempo stesso, l’allusione ad una definizione e ad una soluzione alternativa, terapeutica e dialettica. Tener conto di questo è di somma importanza su sotto il profilo psicoterapeutico, perché permette di cogliere in superficie, a livello di vissuti, di sintomi e di comportamenti, la scissione della personalità e la condensazione delle due identità, quella superegoica e quella egoica (anche quando questa si pone prevalentemente in termini potenziali). In un certo qual modo, leggere dialetticamente un esperienza psicopatologica nella sua scissione e nella sua condensazione comporta una concretezza terapeutica che nessuna altra tecnica può vantare.

La concezione strutturalista della soggettività, incentrata sulla teoria dei bisogni, consente di contestare, anche solo sul piano fenomenologico, l’identificazione di essa sia come una scatola nera che come un universo animato solo da fantasmi.

L’ambito in cui il significato euristico e pratico di questo modo di vedere risulta con assoluta chiarezza è quello della cosiddetta psicosi maniaco-depressiva: paradossalmente, dunque, proprio l’ambito che la neopsichiatria di indirizzo organicista si affanna a ritenere probante per le sue ipotesi. Ho esposto ne "La politica del super-io” le argomentazioni che portano a ritenere che, in alcune fasi critiche psicopatologiche, si debbano ammettere dei momenti biologici che, funzionali all’origine a soddisfare delle esigenze psicodinamiche, sì autonomizzano e danno luogo ad una trascinamento dell’assetto psichico. Ricavare però da questo che la psicosi maniaco-depressiva sia una malattia è un arbitrio epistemologico.

E ciò non solo perché l’assoluta prevalenza di questa struttura psicopatologica nelle donne, con una rapporto di quattro a uno rispetto agli uomini, dovrebbe indurre una riflessione ampia e profonda sulle tradizioni culturali, di antica data, che presiedono alla proposizione di un modello di femminilità mistificata il quale, inducendo una rimozione completa di una quota di bisogni, non lascia, ad alcuni soggetti femminili, altro scampo che l’autopunizione depressiva o l’esplosione maniacale.

Ancora più rilevante sono due altre circostanze. La prima consiste nella possibilità di potere individuare, in ogni personalità che esprime una distimia, una struttura psicopatologica di tipo isterico preesistente l’avvio della crisi e latente nel corso della "psicosi”. La seconda è data dalla fenomenologia dell’eccitamento, che pone in luce una condensazione paradossale, sulla quale deve articolarsi il progetto di intervento terapeutico dialettico.

Il paradosso consiste nel fatto che l’eccitamento, come mette in luce una quota imponente di bisogni frustrati dal sistema superegoico, tal che spesso, al suo avvio, esso si configura come un’esplosione di sana vitalità e voglia di vivere, che dà luogo allo sprigionarsi repentino di potenzialità emotive, intellettive e creative sino allora inattivate e ignorate dal soggetto, così, nel suo decorso, appare, con evidenza talora drammatica, sotteso da un bisogno di repressione e di punizione che si realizza costantemente, inducendo il soggetto ad entrare provocatoriamente in conflitto con l’ambiente sociale finché non interviene la repressione.

Nulla si comprende di questa esperienza psicopatologica se non si prende a atto della condensazione fenomenologica dei bisogni frustrati e del sistema di significati superegoici. Questa condensazione lascia trasparire come soluzione al problema di un’incoercibilità pulsionale la repressione, il ripristino dell’ordine preesistente. Nonché di una soluzione, si tratta però del problema: a monte delle crisi di eccitamento e negli intervalli tra di esse, si può sempre infatti mettere in luce un’economia di vita sostanzialmente mortificante ed espiatoria. Non solo: si può mettere in luce una struttura di personalità scissa radicalmente tra una parte che, per effetto del super-io, tende a confinarsi in un ruolo infantile, dipendente, angelicato, passivo e rispondente alle aspettative altrui, e una parte, solitamente animata da un bisogno di opposizione alienato, che tende periodicamente a riscattarsi dal servaggio al super-io e agli altri con accessi più o meno violenti di rabbia. Una tipica struttura isterica, dunque, animata dalla percezione e spesso dalla rimozione di una negatività radicale, demoniaca, che il soggetto si impone di frustrare, non riuscendo a cogliere in essa una quota di bisogni alienati la cui realizzazione è necessaria per modificare un regime di vita intollerabile.

In conseguenza della condensazione, il progetto terapeutico dialettico si pone come ovvio. Nonché dell’eccitamento, tentativo disperato e votato al fallimento di sottrarsi alla persecuzione superegoica, il soggetto ha bisogno di trasformare, utilizzando il capitale della rabbia frustrata, un’economia di vita espiatoria in un’economia gratificante. Anziché concedersi ogni tanto lo sterile lusso di vivere un giorno da leone per poi regredire per lunghi periodi nel ruolo di agnello sacrificale, il soggetto ha bisogno di raggiungere una condizione umana e significativa di vita.

Il problema dunque non sta tanto nell’imbrigliare le energie "ferine” dell’eccitamento - necessità che talora si impone, ma che non deve tradursi in un progetto terapeutico - quanto nel liberare dal potere superegoico la parte della personalità che ad esso si piega sino a livelli di radicale umiliazione per scontare sensi di colpa solitamente atroci, essendo essi riferiti ad una negatività senza scampo. Data la coazione a ripetere propria della struttura maniaco-depressiva, la liberazione non può avvenire rapidamente: il tragitto terapeutico è necessariamente segnato da crisi di inabissamento depressivo e da crisi di eccitamento. Prevedere questo significa aiutare il soggetto, anche nel corso delle crisi, ad agire per smorzarle, e cioè per padroneggiare lentamente il conflitto tra super-io e bisogni alienati. Ciò che da un punto di vista dialettico, è assolutamente importante è non equiparare il significato delle crisi. L’obiettivo, dall’inizio alla fine dell’esperienza, rimane quello di aiutare il soggetto a far passare per la cruna dell’ago del sistema di significati superegoici i suoi bisogni frustrati nella direzione della gratificazione e non dell’espiazione.

Indubbiamente, dato il rilievo familiare sociale delle crisi di eccitamento, il progetto terapeutico dialettico deve tener conto che occorrerà procedere per alcuni periodi sul filo del rasoio. Ma la consapevolezza del soggetto che l’intento dell’intervento terapeutico non è di indurre la rassegnazione a vivere in una depressione più o meno larvata, assicura spesso una collaborazione e un affidamento nelle fasi critiche che consentono di scongiurare i rischi sociali.

Un particolare interesse hanno, dal mio punto di vista, per una serie di motivi, le esperienze maniaco-depressive che insorgono precocemente. In primo luogo esse, amplificando psicopatologicamente il dramma adolescenziale del venire alla luce dell’individuo attraverso un travaglio oppositivo, lasciano trasparire immediatamente il conflitto adialettico tra i bisogni e il sistema di significati superegoici. In secondo luogo, gli intervalli piuttosto lunghi tra le crisi consentono di indagare la matrice conflittuale latente della quale esse rappresentano epifenomeni dinamici. In terzo luogo, queste esperienze documentano lo scarto drammatico tra un sentire viscerale carico di una giusta rabbia e l’attrezzatura culturale soggettiva incapace di dare ad essa senso.

In questi casi, l’intervento dialettico si configura, necessariamente, come un apprendimento che, permettendo alla rabbia di incanalarsi in giuste direzioni e di spogliarsi dei sensi di colpa superegoici, consente all’io di sottrarsi ad un destino che altrimenti appare segnato. L’esperienze che riferisco, da questo punto di vista, ha un particolare interesse.

A 16 anni Sandra, che è in vacanza al mare con i suoi, trascorre una notte insonne pervasa da incubi. Il mattino seguente, sulla spiaggia, aggredisce verbalmente i suoi ai quali imputa di volerle rovinare la vita. Nei giorni successivi appare un’altra: è attiva, esuberante, disinibita, si veste e si trucca esaltando la sua avvenenza, frequenta senza la timidezza consueta comitive di coetanei. Dopo circa due settimane, questa vitalità si trasforma in uno squilibrio emotivo e comportamentale. Ossessionata dall’idea di essere stata sedotta da un ragazzo, Sandra comincia a perseguitarlo. Per farlo soffrire, si accompagna ad altri, lo ingiuria, lo minaccia. Non dorme più, appare disordinata nell’abbigliamento, si trascura ed è sempre più aggressiva con i suoi. Rapidamente attorno a lei si fa il vuoto.

I suoi la riconducono a Roma e la fanno visitare da uno specialista. Sandra appare inebetita prima ancora di cominciare la cura con psicofarmaci; poi si seda, perde ogni vitalità e regredisce in una condizione di apatica passività e di dipendenza lamentosa. Si vergogna di quanto accaduto e si chiude in casa. Con qualche settimana di ritardo, ricomincia a frequentare la scuola e riorganizza la sua vita sul modello precedente della studentessa a tempo pieno che trascorre il suo tempo sui libri.

L’episodio di malattia è archiviato, la cura sospesa, e nessuno coglie, nella dedizione ossessiva allo studio, che inibisce ogni relazione sociale, alcunché di anormale. Per tre anni, la scissione psicopatologica della personalità di Sandra si realizza in una sorta di doppia vita legata al ciclo della scuola: nel corso dell’anno, essa si tormenta sui libri; d’estate va incontro ad una crisi di eccitamento con manifestazioni di disinibizione erotica che vengono sempre più lentamente risolte da massicce cure a base di psicofarmaci.

Giunge alla maturità impegnandosi sui libri fino a notte, nella convinzione di non riuscire a trattenere nulla. Agli esami consegue, come era prevedibile, il massimo risultato: ma questo, pagato al prezzo di un regime di spietata coercizione soggettiva, rappresenta per così dire il canto del cigno della sua normalità. Nel corso delle vacanze, si realizza la consueta crisi di eccitamento: la risoluzione, però, nonostante le cure farmacologiche, è lentissima. Per circa tre mesi, Sandra vive in una condizione di smarrimento, di vergogna, di inibizione, di angoscia perpetua, confinata in casa, incapace di fare alcunché, totalmente e infantilmente dipendente dalla madre.

Riesce comunque ad ottenere l’accesso all’Accademia delle Belle Arti, e il contatto con il mondo giovanile sembra rivitalizzarla. Ma è un fuoco di paglia: a dicembre, Sandra è nuovamente in crisi di eccitamento. Estremamente aggressiva con la madre, trascorre tutto il giorno fuori casa alla caccia di uomini. Ne lascia uno e ne prendo un altro, li maltratta e si fa maltrattare, gode nell’umiliarli, nel farli ingelosire tradendoli sotto i loro occhi. Rifiuta le cure farmacologiche e sembra ciecamente votata all’autodistruzione.

Dopo circa due mesi, comincia a cedere per effetto della paura di contrarre una malattia venerea. È ridotta ormai in uno stato pietoso sia nell’abbigliamento che nel contegno. Più di altre volte, ha fatto il vuoto intorno a sé ed è riuscita ad indurre reazioni di rifiuto e di disgusto. Si aggrappa ai suoi, viene curata, ma la risoluzione della crisi avviene per "difetto”. Sandra rimane in una condizione inebetita: è quasi incapace di articolare un discorso che non sia riferito al suo sentirsi oppressa da un’angoscia intollerabile.

Il verdetto psichiatrico è senza scampo: Sandra, a detta di tre specialisti, è affetta da una psicosi mista che sta rapidamente evolvendo verso una dissociazione ebefrenica. Nessuno ha mai chiesto il suo punto di vista. Benché oppressa dall’angoscia, Sandra un punto di vista lo ha.

Essa identifica la malattia con le fasi di inibizione, nel corso delle quali sperimenta un blocco completo della volontà e il venir meno di ogni desiderio e interesse. Il suo vissuto in tali periodi è di essere morta dentro e di essere costretta a sperimentare la sua condizione di cadavere vivente. Essa rievoca gli anni dedicati allo studio come espressione non della sua volontà ma di una implacabile coercizione. Viceversa, per quanto riguarda le crisi di eccitamento, le ricorda, almeno al loro esordio, come soprassalti di vitalità, di esuberante gioia di vivere, di liberazione delle energie fisiche e psichiche. Di conseguenza, aspetta ansiosamente che si realizzino di nuovo, vedendo in esse l’unica possibilità di sottrarsi ad una condizione di angoscia mortificante.

Benché parziale, il punto di vista di Sandra non è privo di verità: ne contiene comunque di più di quello degli psichiatri che l’hanno etichettata. L’intervento dialettico se ne fa carico, inducendo Sandra a prendere coscienza della fenomenologia dell’eccitamento che evolve in due fasi distinte. In una prima fase, di fatto, nonostante una sempre manifesta aggressività rivolta nei confronti dei suoi, l’eccitamento esprime una sana e liberatoria gioia di vivere. Sandra cura la sua persona, esaltandone la femminilità, manifesta una capacità di contatto sociale spontanea e priva di disagio, si dedica con passione ai suoi interessi culturali - la lettura e la pittura -, tiene in ordine perfetto la propria camera.

C’è però un punto critico al di là del quale affiorano comportamenti del tutto diversi. Sandra comincia a trascurare ogni interesse culturale, mette a soqquadro la camera, è preda di una frenesia che la spinge a stare fuori di casa e a lanciarsi in un drammatico gioco di seduzione con i ragazzi. La disinibizione erotica è mera apparenza, perché Sandra è affetta da una totale frigidità. Essa gode nel sedurre, nel concedersi e nel tormentare. La sua massima gioia consiste nel diventare crudele nei confronti di qualcuno che si innamora di lei. In questa fase, Sandra comincia a trascurarsi, a vestirsi male, a comportarsi in maniera volgare, provocatoria e sfacciata, a concedersi a chiunque in una sorta di totale indifferenza emotiva ed anestesia morale. Con questo comportamento, riesce a scoraggiare e ad indurre disgusto in chiunque e, scavando il vuoto intorno a sé, è costretta infine a "svendersi" per strada come una prostituta.

La continuità dell’esperienza di eccitamento è dunque solo apparente. Ad un certo punto, la libertà di Sandra perde ogni connotazione gioiosa, divenendo meramente trasgressiva, sadica e autopunitiva. La sua inconsapevole lotta contro un regime superegoico mortificante, che le imporrebbe di vivere in una dimensione monastica, ricade dopo un certo periodo nell’ambito di quel regime stesso. Facendosi del male, Sandra finisce con il riconsegnarsi nelle mani dei genitori, in una dimensione sempre più regressiva ed espiatoria. È evidente che, riabilitando il potere dei suoi, Sandra sconta duramente l’attacco al legame con loro che inaugura e accompagna per un certo periodo le crisi di eccitamento.

Il nucleo dinamico dell’esperienza di Sandra è, dunque, da riconoscere in una rabbia colpevolizzata nei confronti dei suoi che, per effetto del super-io, si ritorce contro di lei, e la getta in una dipendenza sempre più marcata, gravata dalla vergogna di pesare proprio su coloro che essa apparentemente odia. Solo chiarendo le ragioni di questo odio, dando ad esso un carattere critico e produttivo, Sandra può affrancarsi da una spirale psicopatologica che appare senza scampo. Giunti a questo punto, l’analisi fenomenologica della struttura psicopatologica deve necessariamente cedere il passo alla ricostruzione della storia interiore, familiare e sociale di Sandra.

Sandra è la seconda di tre figli e, nonostante la storia familiare sia stata e sia travagliata, è l’unica ad aver manifestato un disagio psichico. La sorella maggiore, in nome di una ambizione sociale senza fine, è già avviata verso l’autonomia economica della famiglia. Il fratello minore studia con ottimi risultati ed è un ragazzo particolarmente tranquillo. La prima disavventura di Sandra coincide effetti con la sua stessa nascita.

Essa è nata troppo presto, quando la sorella aveva appena 18 mesi, e per giunta al posto dell’erede maschio intensamente desiderato dal padre. Già a quell’epoca i suoi non andavano d’accordo. Il motivo apparente di tale disaccordo era il ruolo lavorativo della madre, che insegnava. Il padre desiderava che la moglie si dedicasse solo a lui, alla casa e ai figli. La donna invece rivendicava il suo diritto a mantenere un minimo di autonomia. Il motivo apparente celava, in realtà, un conflitto ben più profondo inerente il ruolo della donna sposata, vissuto dall’uno nello stereotipo della disponibilità totale e dall’altra su di un registro di inconsapevole ma irriducibile opposizione al volere maschile. Essendo inconsapevole, tale opposizione tendeva realizzarsi in una forma abbastanza paradossale.

Dotata di uno spiccatissimo senso del dovere, inserito in un contesto di personalità con tratti tipicamente ossessivi, la madre di Sandra, dedicandosi al lavoro e alla casa con una dedizione perfezionistica, giungeva alla sera logorata, e giustificava con ciò la sua tendenza a rifiutare i rapporti con il marito. Inoltre essa, in virtù della sua fede religiosa, non ammetteva alcuna tecnica contraccettiva, utilizzando il pericolo di rimanere incinta come ulteriore fattore di contenimento della sessualità. Le "intemperanze” del marito, rivolte a rimuovere un sordo rifiuto, erano giustificate dal desiderio di paternità, incentrato soprattutto sull’attesa dell’erede maschio. La moglie intuiva che, assolto questo dovere avrebbero potuto porre fine ai rapporti. Su questo sfondo conflittuale, la nascita di Sandra ha prodotto un effetto catastrofico: la madre si è trovata gravata di due figlie piccole, schiavizzata, dunque,al suo ruolo procreativo. È crollata per ciò in un esaurimento da stress fin troppo scopertamente decifrabile nel suo significato di rifiuto.

Di ciò, ovviamente Sandra non serba alcuna memoria cosciente: ciò che essa sa è di essersi sentita sempre in debito nei confronti di sua madre e di aver percepito precocemente la necessità di scontare tale debito pesando il meno possibile e rispondendo senza opposizione alle sue aspettative. Fino all’esplosione della crisi psicopatologica, Sandra di fatto non ha dato mai alcun problema: a posteriori, la sua dedizione ossessiva per lo studio appare chiaramente riconducibile al suo sentirsi in debito e in colpa.

Con la nascita del terzo figlio, avvenuto quando Sandra aveva tre anni, il conflitto tra i genitori si è risolto su di un piano e si è aperto su di un altro. Nonché rinunciare a lavorare, la madre, protestando la sua disperazione di dover pensare a tre figli piccoli, ha rifiutato i rapporti con il marito. Le insistenze di questi, vissute ormai come prova certa della sua natura intemperante, sono venute ad urtare contro un gelido rifiuto. La soluzione del problema è stata una serie di tradimenti che, confermando quella natura e criminalizzandola, hanno consentito alla moglie di far affiorare la sua rabbia. Per anni il padre di Sandra è stato attaccato, in presenza dei figli, come un "porco”, un essere immorale e sciagurato, un esemplare di un’immonda categoria - quella degli uomini - votata ad usare le donne, volendo le une - le mogli - sante, le altre "puttane”, e tutte ugualmente disponibili. Il marito ha accettato il conflitto, accusando la moglie di essere fredda e insensibile e giustificando i suoi tradimenti con uno stato di necessità.

Due anni dopo che Sandra ha avuto la prima crisi, una relazione intrattenuta dal padre con una giovane donna ha prodotto una separazione consensuale. Ciò nonostante, il conflitto coniugale non solo non si è estinto, ma si è esasperato. I figli sono stati eletti giudici della colpa che ha prodotto la rovina della famiglia, e sollecitati da entrambe le parti ad allearsi. Essi non possono farlo perché, per un verso, pur riconoscendo la rigida severità della madre, che si è esercitata implacabilmente a livello educativo anche nei loro confronti, la vivono come una donna sola e disperata; per un altro, anche criticando i comportamenti libertini del padre, non possono misconoscere che egli non è venuto mai meno ai suoi doveri nei loro confronti, manifestando una partecipazione costantemente amorevole e interessandosi attivamente ai loro problemi.

Sandra, più degli altri, è coinvolta in questo "gioco”, com’è attestato dal fatto che, nei periodi di inibizione, sviluppa una marcata dipendenza dalla madre e una manifesta avversione nei confronti del padre, mentre, nei periodi di eccitamento, attacca la madre più che il padre.

Ridurre il dramma di Sandra nei confini delle dinamiche familiari appare però impossibile. Essa è, di fatto, è l’erede di un conflitto irrisolto inerente l’identità, il ruolo della donna e il suo dover essere in rapporto all’uomo che affonda le sue radici nella storia sociale della famiglia. Da parte materna, c’è infatti una tradizione patriarcale, rappresentata dal nonno ancora vivente, che assegna alla donna un ruolo che ne esalta la virtù nella misura in cui impone ad essa di vivere nell’umiltà, nella riservatezza, nel culto dei doveri familiare e nella sottomissione all’uomo. La madre di Sandra, a suo modo, si è ribellata a questa tradizione, sia partecipando in gioventù, con grande scandalo, a dei concorsi di bellezza, sia affermando, contro il volere di entrambi i genitori, il suo diritto a lavorare.

L’asprezza dei conflitti giovanili con il padre ha prodotto però un esito paradossale: non solo la madre di Sandra si è normalizzata nell’ottica di quella tradizione, ma ha sviluppato un vero e proprio culto per il padre. La contraddizione intrinseca alla sua personalità, organizzata su di un modello rigidamente ossessivo, si è espressa in due modi: per un verso, imponendo un regime di vita totalmente incentrato sul senso del dovere, mortificante ed espiatorio, essa fatto pagare questo sacrificio ai figli, educandoli con una durezza estrema e ricorrendo ad ogni strumento di repressione, sia fisico che psicologico, per soffocare ogni opposizione. Essa ha proposto e tentato di imporre loro un codice morale di assoluta perfezione, incentrato sul rispetto cieco della tradizione, dei valori religiosi, sull’ossequio dei grandi, sulla dedizione totale allo studio e sull’avversione nei confronti di qualunque debolezza morale o vizio. Per un altro verso, essa si è sempre ribellata al marito, manifestando nei suoi confronti, fin dall’epoca del fidanzamento, un atteggiamento conflittuale e dominante, assoggettandosi, fin dai primi tempi del matrimonio, al dovere coniugale senza alcuna partecipazione, anzi con chiari segni di disgusto e, infine, sollecitando nei figli un’avversione radicale nei confronti del padre, assunto come esemplare di perversione morale.

Queste contraddizioni sono esitate nella definizione di un singolare modello di normalità femminile: quello della donna che aborrisce l’uomo non ontologicamente ma in quanto lo riconosce immaturo e moralmente incline all’abbandono agli istinti animaleschi, e giunge a fare a meno di lui in virtù dell’indipendenza economica.

Nonché porre rimedio a queste contraddizioni, il padre di Sandra ha finito con il confermarle. Sposando la moglie, affascinato oltre che dalla bellezza, dalla moralità e dai buoni principi che essa professava, l’uomo pensava che avrebbe avuto accanto a sé una donna totalmente assoggettata ai suoi bisogni e al suo volere. Il suo vantato laicismo morale, utilizzato per giustificare le sue trasgressioni, cela di fatto un solido ancoraggio ad una tradizione maschilista. In nome di questa, egli ha scaricato sulla moglie tutto il peso della gestione domestica, le ha fatto partorire tre figli in cinque anni per realizzare l’ossessiva aspirazione all’erede maschio, e intendeva imporre, come soluzione della sua stanchezza e del conseguente rifiuto della dovere coniugale, la cessazione dell’attività lavorativa. È indubbio che il rifiuto di cui è stato investito era già programmato nella struttura di personalità della moglie, ma egli, con il suo codice maschilista, ha fatto di tutto per convalidarlo, non riconoscendo tra l’altro nei suoi tradimenti l’espressione di una debolezza o l’aspirazione ad una moralità diversa rispetto a quella tradizionale, bensì solo uno stato di necessità, la cui colpa sarebbe dovuta ricadere sulla moglie.

Alienati da una tradizione familiare densa di contraddizioni, il padre e la madre di Sandra si sono ribellati entrambi nell’ottica di quella tradizione stessa - l’una con la frigidità, l’altro con il tradimento, - rimanendo penosamente vincolati e dipendenti dal giudizio assolutorio dei figli.

Se si tiene conto del fatto che Sandra, investita fin dall’origine da un rifiuto che le ha imposto di guadagnarsi il suo diritto ad esistere in virtù di un atteggiamento costantemente rivolto a soddisfare le aspettative parentali, si è fatta inevitabilmente carico, più degli altri fratelli, delle insolubili contraddizioni familiari, il significato della sua rabbia e dei suoi comportamenti diventano evidenti, tanto più se si fa riferimento ad un sistema di significati superegoici strutturatosi sull’alienazione del bisogno di opposizione.

Nelle crisi di eccitamento essa si ribella al regime moralistico della madre, recusa di rimanere chiusa nei confronti dell’universo maschile, ma al tempo stesso, con la sua frigidità, rifiuta anche di assoggettarsi al maschio e di provare piacere. La sua rabbia diventa ancora più evidente via via che si incrementa l’eccitamento, allorché, prescindendo da una rapporto univoco, essa sente sempre più impellente l’esigenza di sedurre gli uomini e di farli soffrire, esasperandoli con la sua frigidità e con i suoi atteggiamenti "isterici”. Sandra riconosce che la sua disinibizione erotica è una mistificazione: quando si abbandona a qualunque avventura, il suo intento ultimo non è quello di provare piacere, bensì di riuscire a far male agli uomini. Essa infatti li umilia rilevando la loro incapacità di soddisfarla, li mette l’uno contro l’altro, li tradisce con un atteggiamento sfacciato. È una libertà meramente trasgressiva e sadica ad animare, dunque, l’eccitamento.

Ribellandosi al moralismo materno Sandra, al tempo stesso, si ribella anche al maschilismo paterno. Ma non può non fare i conti con un sistema di significati superegoici che non le perdona né l’una né l’altra ribellione e, imputandole un disordine morale incoercibile, la porta attraverso la repressione congiunta dei sensi di colpa e delle cure farmacologiche, a regredire in una penosa condizione di dipendenza infantile dai suoi.

Questa ricostruzione consente di restituire al dramma psicopatologico di Sandra una dignità che esso, nello stereotipo psichiatrico, non ha. Il problema da questo momento in poi, consiste nel dare alla rabbia di Sandra le sue giuste ragioni orientandola verso la definizione di una identità femminile aperta rapporto con l’uomo ma non asservita e nell’aiutarla a prendere coscienza del sistema di significati superegoici che, colpevolizzando quella rabbia, tenta di precludere il suo accesso al mondo e di rigettarla in una condizione di dipendenza infantile senza capacità oppositiva né desideri.

Il cammino è lungo. Adesso però Sandra sa ciò che odia, ciò che giusto odiare e ciò che desidera: liberare la sua identità femminile da un conflitto che le impone o di rinunciare a viverla o a dare ad essa il significato di uno strumento di riscatto malvagio e nel contempo di perdizione. L’obiettivo terapeutico non è più centrato sulla crisi, che si configura come un epifenomeno, ma sulla latente struttura isterica che impone a Sandra o il ruolo di angelo asessuata o quello di demoniaca maliarda.


Cap. VIII La matrice conflittuale di base e l'arte dialettica

L’esordio psicopatologico in Sandra è avvenuto bruscamente, da un giorno all’altro. L’evoluzione successiva, caratterizzata da crisi sempre più ravvicinate, con risoluzioni sempre più lente e il pericolo di un definitivo insabbiamento psicotico, non si offre che a due letture.

Da un punto di vista psichiatrico, è facile vedere in tale evoluzione l’espressione di una "processo”: maligno, per giunta, data la sua rapida e evoluzione. Da un punto di vista dialettico, invece, si coglie immediatamente in essa l’espressione di una struttura di personalità tanto marcatamente conflittuale quanto dinamica, con una quota di bisogni frustrati molto ricca che, per effetto di una colpevolizzazione inconsapevole, viene quasi tutta investita nell’autoalimentare il sistema di significati superegoici e nel realizzare il progetto duramente punitivo che esso veicola.

Da un punto di vista dialettico, la gravità di una condizione psicopatologica – sia sul piano attuale che in prospettiva - è da ricondurre, dunque, ad un capitale vitale che viene malamente investito sull’altare del super-io. Ciò significa che l’aspetto clinico e nosografico è ben poco significativo, mentre decisiva - sia da un punto di vista psicopatologico che terapeutico - è la matrice conflittuale di base, la struttura latente che, criminalizzando i bisogni frustrati in nome del super-io, induce l’io a rifuggire da essi o ad esprimerli in una forma che risulta funzionale ad un incremento del potere superegoico.

Ne La politica del super-io ho tentato di dimostrare che una matrice conflittuale univoca dà forma a tutto l’universo psicopatologico. Per quanto questa proposta possa apparire oggi azzardata, in una fase in cui la problematica nosografica viene rilanciata e i criteri diagnostici e prognostici sembrano configurarsi come sempre più complessi, non nutro alcun dubbio sulla sua validità.

Ciò significa che l’intervento dialettico mira anzitutto a mettere in luce, quale che sia la fenomenologia del disagio, la struttura conflittuale latente, poiché l’obiettivo terapeutico consiste nell’indurre riguardo ad essa una diversa significazione rispetto a quella superegoica. È questo rovesciamento del negativo in positivo, che poi deve tradursi in un’organizzazione del sentire, del conoscere e dell’agire orientata alla realizzazione dei bisogni frustrati, a definire dialettica la prassi che in questione.

L’individuazione e la restituzione al soggetto della struttura conflittuale di base, sulla quale si articola tutto l’intervento dialettico, è un momento creativo, che giustifica senza alcuna retorica la definizione della psicoterapia dialettica come arte. Tranne rari casi, quella struttura infatti è latente, non solo nel senso di sfuggire alla coscienza ma soprattutto nel senso di determinare il modo di essere e di porsi del soggetto nel mondo in aspetti molteplici che non appaiono affatto correlati. Invisibile, per un verso, alla coscienza immediata, essa è anche paradossalmente trasparente per una coscienza dialettica capace di coglierla non già a livello di insight ma nel suo oggettivarsi. Torniamo alla esperienza psicopatologica di Sandra.

A livello di coscienza immediata, essa coglie nelle crisi di eccitamento la liberazione del piacere di vivere dalle catene della repressione. Attrezzandosi dialetticamente, la sua coscienza coglie altresì nell’eccitamento una soluzione di continuità, una cesura qualitativa e motivazionale, al di qua della quale si esprimono i suoi bisogni autentici e al di là della quale il bisogno alienato di libertà trasgressiva, che esprime il suo sentirsi minacciata dalla rappresaglia superegoica, attiva inesorabilmente una sempre più dura repressione.

Nell’oggettivarsi della struttura psicopatologica di Sandra, non c’è alcunché, propriamente parlando, da interpretare: si tratta semplicemente di farle aprire gli occhi. Per quanto latente, ogni struttura psicopatologica ha una dimensione oggettiva, vale a dire può essere colta dialetticamente nelle contraddizioni vissute dal soggetto a livello del sentire, del pensare, dell’agire e del progettarsi. Assumendo un punto di vista dialettico, ci si può affrancare sia dall’arbitrio interpretativo psicoanalitico, rivolto insistentemente alla ricerca di fantasmi, sia dal riduzionismo sistemico che, in nome di un’oggettività che coincide con il punto di vista di chi osserva le interazioni comunicative, mutila la dimensione esperienziale della soggettività umana.

Si pone a questo punto il problema se la dialettica, applicata all’ambito psicopatologico, sia un metodo o un’arte, e cioè se essa possa essere codificata o postuli un certo grado di creatività da parte del terapeuta.

La risposta è che si tratta indubbiamente di un metodo che, nella pratica, in riferimento alla varietà infinita delle concrete esperienze psicopatologiche, non può realizzarsi che in virtù di uno sforzo creativo. Per ciò, è vano affannarsi a redigere trattati di tecnica terapeutica che prevedano e risolvono tutte le possibili circostanze nelle quali ci si può imbattere.

Il metodo dialettico implica che qualunque esperienza psicopatologica si articola su di una struttura conflittuale latente. Utilizzare però i dati offerti da quell’esperienza - vissuti, sintomi, comportamenti, ricordi, sogni, ecc.- per ricavarne una struttura è un’arte, un esercizio creativo non codificabile.

Riferendo le microstorie di Franca, di Piero e di Sandra ho tentato, con risultati indubbiamente parziali, di documentare il metodo dialettico e la creatività che esso comporta. Aggiungo ora dei frammenti di esperienze che mirano a suggerire le potenzialità di quel metodo laddove esso venga applicato creativamente.

Dall’età di 19 anni, Roberta vive in uno stato perpetuo di angoscia ipocondriaca incentrata sulla paura di morire per un infarto o per un tumore. Una sera, rientrando in casa, la gatta che ha allevato e a cui è affezionata le smaglia colle unghie per gioco una calza. Dopo una notte travagliata, il mattino seguente Roberta sviluppa la convinzione che la gatta possa averla contagiata di rabbia e cade in un panico totale. Inutili risultano le visite mediche cui si sottopone e le assicurazioni che ne seguono. Essa ormai si vede destinata a morire negli spasmi e nelle convulsioni, con la bocca digrignata e la bava. Teme anche, prima di morire, di poter impazzire e avventarsi come una furia sugli altri. Essa vigila ansiosamente sulla gatta per rilevare i segni della malattia di cui è stata contagiata. Di fatto, la gatta gode ottima salute e continua vivere immersa nella sua quieta pigrizia di felino addomesticato.

La fobia concerne dunque uno stato di addomesticamento che, per effetto di una malattia, potrebbe trasformarsi in una rabbia selvaggia rivolta contro tutti i membri della casa e infine contro di sé. Di fatto Roberta è stata allevata secondo lo stereotipo della signorina di buona famiglia, docile e passiva in rapporto alle aspettative parentali, gravate di antichi pregiudizi sulla moralità femminile. Non le è stato mai concesso di opporsi, di esprimere le sue opinioni, di effettuare scelte di vita e di comportamento che non fossero nel solco di una tradizione moralistica, che impone alla donna una condizione di perenne minorità. Per non ferire i suoi, Roberta si è adattata come meglio ha potuto a questo addomesticamento, finendo in un vicolo cieco che, per effetto del sistema di significati superegoici, associa alla pressione del suo bisogno di individuazione la minaccia della follia e della morte. Nonché temere di trasformarsi in un animale selvaggio, essa deve umanizzarsi dando senso e spazio alla sua rabbia, per sfuggire alla sorte della gatta con cui si identifica, il cui destino non è manifestamente gravato dalla minaccia di morire per rabbia, bensì da quella di continuare a vivere in una condizione di perpetuo torpore e appiattimento.

Anna, sposata e con due figli, non riesce ad avere rapporti appaganti con il marito, anzi tende a rifiutarli per la paura di rimanere incinta. Essa attribuisce a questa frustrazione il suo "isterismo": l’essere sempre nervosa, aggressiva con il marito, poco o punto disponibile con i figli, a disagio a contatto con gli altri. Decide di liberarsi dalla paura di rimanere incinta e, senza parlarne ad alcuno, si fa ricoverare in ospedale con la motivazione di dovere eseguire degli esami ginecologici, in realtà per sottoporsi ad intervento di sterilizzazione. Immediatamente dopo l’intervento si realizza uno scompenso psicopatologico: Anna comincia ad avere malori associati alla paura di morire, non può più uscire da sola da casa (in conseguenza di questa paura e perché si sente giudicata negativamente da tutto il paese), rifiuta completamente i rapporti con il marito essendo certa che, se ne avesse, rischierebbe di morire.

La sterilizzazione, dunque, ha prodotto un effetto paradossale in rapporto alle aspettative. Ma questo paradosso esprime immediatamente il conflitto strutturale di base: conflitto con una tradizione che assegna alla sessualità della donna un fine meramente procreativo o di dovere coniugale ed esclude un suo esercizio esclusivamente orientato al piacere. Sterilizzandosi, Anna senza saperlo si è ribellata radicalmente a questa tradizione, ma il Super-Io ha colto in questo atto di guerra l’espressione di una volontà di affrancamento dalla moralità comune, che attesta il desiderio di disporre liberamente della sua sessualità, dentro e fuori il matrimonio.

Nel paese di origine in cui Anna vive, le donne sposate non appena hanno figli, si trascurano, ingrassano, invecchiano precocemente. Con la cura del corpo e con la sterilizzazione, Anna manifesta, agli occhi del paese, la sua volontà di non cedere alla tradizione: segno evidente che ha grilli per la testa, che richiedono una dura rappresaglia. Se non vuole rassegnarsi al fatto che, con la maternità, la sua vita sessuale è finita, è giusto superegoicamente che essa viva nel terrore che la sua vita finisca. Con ciò la tematica psicopatologica diventa chiara. Anna deve dare senso alla sua ribellione, rivendicare il suo diritto alla vita, al piacere, affrancandosi da un sistema di valori superegoici estremamente attivo e minaccioso.

Mauro, che dall’età di 19 ha sviluppato una tipica nevrosi ossessiva incentrata su incessanti rituali di abluzione, a 21 anni decide di affrontare il servizio militare rifiutando l’esenzione per non incappare nel marchio di essere anormale. Nel corso dei primi mesi, nell’ambiente della caserma, i rituali si incrementano. Una sera, rimasto solo nello spaccio, Mauro è preda di un acting-out: scrive sui muri slogans inneggianti alle Brigate Rosse. Sconvolto dalla possibilità di essere scoperto e punito, si fa ricoverare nel reparto psichiatrico dell’ospedale militare. Quando torna a casa congedato, egli è preda della fobia di essere stato contaminato dal contatto coi malati di mente e di aver portato a casa tale contaminazione. Per attestare la sua estraneità al mondo della follia, si chiude nell’ambiente domestico per due anni e, quando ricomincia ad uscire, indossa una maschera di assoluta normalità conformistica, esaltata dal fatto di rifuggire fobicamente ogni contatto diretto e indiretto con il mondo dell’emarginazione: folli, barboni, poveri, handicappati, ecc.

È evidente che Mauro, imprigionandosi e normalizzandosi, si è duramente punito dell’atto di rottura avvenuto nel corso del servizio militare. Al tempo stesso, è chiaro che quell’acting-out ha portato in luce la sua rabbia eversiva nei confronti di un regime repressivo superegoico instauratosi nella sua vita con la nevrosi ossessiva. Se non vuole rischiare di vivere nell’anonimato assoluto di un’ipernormalità che esclude qualunque contatto significativo con il mondo, e riduce le sue rare apparizioni sociali ad una patetica esibizione di disprezzo nei confronti della devianza sociale, egli deve recuperare il senso umano di quella rabbia e renderla funzionale all’affrancamento dei suoi bisogni dalla trappola del regime superegoico ipernormativo.

Ho riferito tre esperienze reali, che dimostrano l’immediatezza con cui la dialettica permette di mettere a fuoco la matrice strutturale di base e il problema da risolvere. Si può obiettare che si tratta di esperienze singolari, incentrate su vissuti fobici: morire, impazzire, commettere crimini. Se ci si riconduce alle microstorie ricostruite per esteso, si constaterà che vissuti di tale genere sono presenti anche in esse. Per quante esperienze si possono ricostruire, la matrice conflittuale di base, sovrapponendo un sistema di significati superegoici a bisogni alienati, opera su questi ultimi una pressione che viene recepita soggettivamente sotto forma di minaccia all’identità fisica, psichica e sociale, e cioè di una minaccia la cui realizzazione comporterebbe l’esclusione radicale dell’individuo dal contesto sociale.

L’arte dialettica consista nel far affiorare e porre in luce questa minaccia e nel proporre un’inversione di senso, in virtù della quale soggetto intuisce che non già l’espressione ma la repressione dei bisogni frustrati comporta rischi gravi per la sua identità personale e la sua integrazione sociale.

La psicoterapia dialettica non si esaurisce, però, nell’indurre nel soggetto la presa di coscienza della struttura psicopatologica in cui è rimasto intrappolato, e che trasforma la sua ricchezza potenziale e attuale – il capitale di bisogni - in miseria e infelicità. L’identificazione della matrice conflittuale di base è lo schema di riferimento su cui si articola l’intervento dialettico, la cui creatività postula una ricostruzione del sistema di valori superegoici che si propone come impossibile dover essere e una spiegazione del perché quel sistema, che funziona per altre persone come normalizzante in quel particolare soggetto consegue effetti destabilizzanti e alienanti. Riconduciamoci all’esperienza di Anna.

Occorre tener conto dell’ambiente socioculturale nel quale è evoluta la sua personalità e nel quale essa vive. Ambiente di antiche tradizioni contadine, rimasto vincolato a codici rigorosamente conservatori. L’autorità predominante nel paese è ancora il parroco; ai politici non si presta credito se non per invocare favori. I comunisti sono uno sparuto drappello, il cui leader è il marito di Anna, originario di Roma, che è ritenuto una sorta di incarnazione del diavolo. Alcune consuetudini sono significative: per la nascita di un figlio maschio il padre è tenuto a pagare da bere agli amici al bar, mentre ciò non accade nel caso di una femmina. Il bar è praticamente interdetto alle donne, alle quali si richiede una dedizione completa alla casa, al marito e ai figli, e un comportamento pubblico che non dia adito a sospetti. Se escono di casa per esempio è opportuno che siano in compagnia di una parente o di una amica. Anna davanti al padre non osa fumare, poiché il fumo è un " vizio " e una donna che si abbandona ad esso lascia sospettare che non sia onesta. Prima di incontrare il marito, Anna è stata fidanzata per tre anni con un giovane del paese morto in un incidente stradale. Dopo questa morte, Anna sapeva che nessuno dei paesani si sarebbe messo con lei poiché la si considerava "usata”.

Benché parziali, tutti questi elementi integrano un quadro di mentalità che identifica la donna onesta con un essere senza desideri, totalmente votata alla cura della casa e dei figli. Per quanto indubbiamente alimentato da esasperate fantasie di liberazione anarchiche, il sistema di significati superegoico attivo in Anna veicola un quadro di valori morali e culturali realmente presente nell’ambiente in cui essa è vissuta e vive. Se non si tiene conto di questo quadro di valori, la sua esperienza riesce incomprensibile.

Ogni terapia dialettica impone, dunque, di ricostruire una cultura cui fa riferimento il sistema di significati superegoico. Per questo aspetto, si può a ragione ritenere che la psicoterapia dialettica sia uno strumento conoscitivo essenziale ai fini di mettere a fuoco i sistemi di valore superegoici eterogenei che sono giunti a stratificarsi, sotto forma di mentalità, nella struttura profonda della nostra società.

La psicoterapia dialettica impone anche di spiegare perché quei sistemi, in sé e per sé normalizzanti, producono in alcuni soggetti un’esperienza psicopatologica. Non dandosi una spiegazione univoca, il problema va affrontato operativamente in rapporto alle singole esperienze. Costantemente si giunge a ricostruire però un effetto congiunturale sotto forma di impatto di dinamiche inerenti i sistemi pedagogici e microsociali con un corredo di personalità intrinsecamente ricco di bisogni. Se è vero che la rabbia colpevolizzata è l’elemento dinamico che sottende ogni esperienza psicopatologica, e se è vero che la psicoterapia dialettica ne mette in luce sempre le giuste ragioni, occorre pensare che la natura umana sia caratterizzata da una capacità precoce e viscerale di interagire con le situazioni ambientali nella misura in cui esse veicolano un certo grado di alienazione dei bisogni. La follia, come giustamente scrive Jervis, non esprime una cultura alternativa: da un punto di vista dialettico però non si stenta a cogliere in essa una protesta disorganica contro un assetto sociale e culturale ancora poco rispettoso dei bisogni umani. Dare senso a questa protesta, criticando le manifestazioni più spesso autodistruttive e talora asociali attraverso le quali essa si esprime, è un impegno terapeutico non meno che culturale e politico. Ma perché l’uno, sempre riferito a esperienze soggettive e a microsistemi sociali, si trasformi nell’altro, occorre che la prassi terapeutica dialettica si configuri come una vasta inchiesta sui "destini” umani: ciò postula un grado di documentazione, di creatività e di coordinamento che, sinora, e difettato alla psichiatria alternativa italiana.


Cap. IX Psicopatologia e storia sociale

Ogni esperienza psicopatologica, colta da un punto di vista dialettico, è un dramma personale che rappresenta, necessariamente, un frammento di storia sociale. Ricostruire una sola esperienza psicopatologica. serve soprattutto ad esemplificare una metodologia interpretativa estensibile a tutte le altre

A 26 anni, Alberto sta per tagliare un traguardo lungamente desiderato. Operaio da 7 anni in un’azienda elettronica, sposato da cinque e proprietario della casa in cui abita, si è impegnato per conseguire un diploma tecnico frequentando una scuola serale. L’impegno è stato gravoso, ma la sua preparazione è ottima, e l'esito degli esami certo. Con il diploma, la condizione lavorativa è destinata ad aprirsi su prospettive molto positive. Nato da una famiglia di condizioni disagiate, di più alla vita Alberto, sesto di sette fratelli, non può chiedere. Egli è, infatti, contento di come le cose stanno andando.

La notte precedente l'esame orale, non riesce a dormire. Sicuramente – pensa – è un un po’ di ansia. Percepisce, però, nel silenzio della notte, con un fastidio particolare, il rumore del motorino elettrico del frigorifero. Si rende conto che non è normale, dato che il frigorifero sta lì da anni e non ci ha fatto mai caso. Ma non dà peso alla cosa.

L'esame viene superato brillantemente, ma l'insonnia persiste e si focalizza sul rumore che assume un significato vagamente sinistro e inquietante. Dopo due settimane di insonnia, comincia a star male per via di uno stato di allarme ansioso che non tarda a tradursi in una paura specifica: egli si convince che nel suo cervello qualcosa ha preso a non funzionare e che, prima o poi, impazzirà. Lavorando con i computer, è ossessionato dalle tempeste funzionali che, imprevedibilmente, investono quelle macchine che dovrebbero essere perfette. Più volte, nel corso degli anni, si è sorpreso a pensare, animisticamente, che i computer, programmati per essere docile strumenti nelle mani dell'uomo, impazzissero ogni tanto a bella posta per frustrare i programmatori. Nel suo cervello sta avvenendo qualcosa del genere: egli, che si è sempre vantato di un perfetto autocontrollo, si rende conto di non avere più alcun potere di regolazione sulla sua mente. L'inabissamento nel delirio di depersonalizzazione viene, infine, arrestato dal definirsi di un'angoscia claustrofobica.

Alberto si convince che riuscirà a mantenere la sua identità di essere normale a patto di evitare di ritrovarsi in situazioni costrittive. Si mette in malattia perché non è più in grado di prendere il pullman dell'azienda e non sopporta di star chiuso nell'ambiente di lavoro. Ma l'angoscia claustrofobica lo induce a scoprire, nella vita quotidiana, infinite situazioni costrittive. Non può usare la macchina per la paura di rimanere imbottigliato nel traffico né andare al cinema o dal barbiere né continuare una cura odontoiatrica avviata da tempo, ecc. Immaginando di porsi in situazioni del genere, egli presagisce che sarebbe preda di un raptus, che lo porterebbe a comportarsi da "pazzo", ed è certo che un solo comportamento del genere basterebbe ad invalidare per sempre la sua identità sociale. Egli deve vivere, dunque, per occultare una condizione che sente reale: il suo disordine mentale. Di conseguenza comincia a capire che, nonostante i suoi sforzi, tutti lo osservano e lo tengono sotto controllo nell'attesa che si smascheri. Non c'è altra soluzione che rinunciare a vivere socialmente.

Alberto si chiude in casa: solo la notte questo spazio protettivo, celato al controllo sociale, diventa inquietante per via del rumore del motore elettrico che rimbomba come un trapano nella sua testa. Egli deve aggrapparsi al letto e stringere i denti per non urlare a perdifiato. Staccare la spina del frigorifero è impossibile, poiché significherebbe far capire alla moglie la gravità del suo stato. E poi, tendendo le orecchie nella notte, i rumori sono infiniti: altri motorini elettrici, tubi che gorgogliano, eccetera. Uscire da questo vicolo cieco psicopatologico non è possibile con cure farmacologiche: nel corso di alcuni mesi, Alberto le ha provate tutte – ansiolitici, antidepressivi e antipsicotici.

Occorre capire come si è incuneato nel vicolo cieco della psicopatologia.

L'effetto precipitante del conseguimento del diploma è facile da interpretare. In virtù di esso, Alberto consegue una qualifica lavorativa che comporta la possibilità che l'azienda lo invii all'estero per uno o più corsi di specializzazione. Egli potrebbe rifiutare l'offerta, ma in tal caso, la sua carriera sarebbe compromessa. Lavora in un’azienda statunitense, che incentiva i dipendenti richiedendo ad essi la massima efficienza e una totale disponibilità. Egli, con la sua ansia di ascesa sociale, si è integrato perfettamente in questo sistema. Apprezzato e stimato, il "capo” stesso lo ha sollecitato a diplomarsi, concedendogli dei permessi di studio e coprendo le spese della scuola. Inebriato dalla prospettiva di far carriera, Alberto ha trascurato di tener conto di una fobia che ha sempre avuto: quella dell'aereo. Solo in prossimità dell'esame, si è reso conto di essersi incastrato con le sue stesse mani. Egli pensava in buona fede che avrebbe potuto utilizzare il treno: ma solo la notte prima dell'esame, ha capito che trovarsi chiuso in esso per molte ore si configurava come un incubo peggiore rispetto all'aereo.

Nonché promuoverla, il diploma segna dunque inesorabilmente la fine della sua carriera. Potrebbe azzardare a mettersi alla prova, ma, anche solo a livello di fantasia, è certo che rischierebbe di impazzire, buttandosi dal finestrino del treno o aggredendo il pilota per costringerlo ad atterrare. Il suo "volo” sociale è dunque inesorabilmente interrotto. Alberto deve arrendersi a rimanere un mediocre, se non vuole che affiori la sua "vera” identità: quella di un "folle criminale”. Egli anzi dovrebbe vivere per sempre nella consapevolezza di essere tale, e dedicarsi, pertanto, non già a competere con gli altri ma ritenersi fortunato se, al prezzo di una costante mistificazione, riesce a sfuggire alla emarginazione sociale.

La struttura psicopatologica è chiara: c’è, da una parte, un bisogno intenso di integrazione e di ascesa sociale, dall’altra un sistema di significati superegoici che mira a frustrare quel bisogno e minaccia Alberto di esporlo all’esclusione. È evidente che quel bisogno, in sé e per sé naturale, deve essere stato significato nei termini di una sfida lanciata da Alberto contro qualcuno, che egli dovrà perdere. Ma perché?

La claustrofobia di Alberto in realtà è di antica data. La prima esperienza di angoscia risale all’età di sei-sette anni. A quell’epoca egli viveva come uno scugnizzo: andava male a scuola, ove manifestava un comportamento indisciplinato, e trascorreva il pomeriggio per strada. Un giorno, nel corso di un gioco, egli si era infilato nel tubo di una condotta d’acqua che doveva essere installata. I compagni, entrati con lui, lo opprimevano. Allora, per la prima volta, Alberto provò l’angoscia claustrofobica. Da quel giorno, cominciò a sperimentarla anche in casa.

La famiglia di Alberto vive, in nove persone, con il solo reddito del padre manovale, in un appartamento di due camere. C’è uno stanzino minuscolo occupato dal fratello maggiore. Alberto è vissuto per anni nell’aspettativa che egli andasse via da casa per occupare quello spazio.

Disperata economicamente, la famiglia di Alberto è stata segnata anche da una disgrazia: dopo la nascita del secondo figlio, la madre ha cominciato ad avere crisi epilettica ed è divenuta insufficiente sotto il profilo delle cure domestiche. Le sue crisi ricorrenti sono state vissute da tutti, negli anni, come tali da poterne determinare la morte. A otto anni Alberto, allevato da una sorella, l’unica, che si è sobbarcata il peso della casa e dei fratelli, ha cominciato a chiedersi il senso della condizione in cui vive: l’essere stato messo al mondo, nonostante la malattia della madre e le precarie condizioni economiche, e il dover soffrire nella miseria e nell’umiliazione sociale.

Per la sua irrequietezza, il carattere scorbutico, il pessimo rendimento a scuola, le frequenti marachelle, Alberto è stato identificato fin da piccolo come un potenziale deviante. Il padre in particolare l’ha preso di punta. Comunista viscerale, egli, pur protestando contro i padroni, ha manifestato sempre nei loro confronti un ossequio piuttosto servile, riscattandosi in famiglia con l’assunzione di un ruolo prepotente e patriarcale. Incapace di prendere coscienza della sua condizione, ha allevato i figli alla luce dell’etica del dovere, del lavoro, del rispetto assoluto dei grandi e delle leggi. Alberto ricorda lucidamente di averlo odiato, e di essere stato ricambiato da lui, e che, crescendo, tendeva ad assumere sempre più il ruolo di pecora nera.

Frequentando le scuole medie, Alberto comincia a mettere a fuoco una sua visione del mondo, incentrata su una rabbia viscerale nei confronti delle ingiustizie sociali, dell’autoritarismo e del "sistema”. È rimproverato a scuola come indisciplinato, poco capace e sostanzialmente stupido. A 14 anni, all’inizio della terza media, sente di dover operare una scelta radicale: o integrarsi e riscattarsi o perdersi, seguendo l’esempio di alcuni amici che abbandonano la scuola e, anziché lavorare, imboccano la strada della piccola criminalità di quartiere. Questa seconda possibilità, che sente più propria alla sua natura ribelle, non può essere realizzata per un solo motivo: la paura di poter essere arrestato e chiuso in un riformatore.

L’angoscia claustrofobica lo salva dalla perdizione e lo spinge, suo malgrado, a chiudersi in una normalità sottesa dalla rabbia di riscattarsi, di far vedere a tutti quanto vale, di dare una lezione a coloro - il padre, alcuni fratelli, i maestri - che lo giudicano un buono a nulla.

Da un giorno all’altro, comincia a studiare ossessivamente, confinandosi in un angolo della cucina, rinunciando ad uscire di casa e a frequentare amici che comincia a temere. La reclusione negli studi e nella casa consegue effetti clamorosi: a scuola Alberto comincia a primeggiare, e in casa gli viene delegata la vigilanza sulla madre. Con il suo sacrificio, egli libera tutti gli altri da un incubo: essi infatti possono uscire liberamente, contando sulla sua presenza. Comincia a ricevere elogi e apprezzamenti.

Alla fine della terza media, gli viene assegnata una borsa di studio. La sua immagine sociale è radicalmente mutata. Sollecitato dalle gratificazioni, ma soprattutto da una volontà rabbiosa di riscatto, Alberto si scrive in un istituto tecnico. È l’unico della famiglia ad aver superato la barriera della terza media, e si sente investito di un ruolo di protagonista. Continua a conseguire risultati eccellenti nello studio, ma il prezzo è una rinuncia a vivere. Non frequenta amici né ragazze, non si concede distrazioni, sente l’obbligo di rimanere a casa per studiare e accudire la madre. Quest’ultimo ruolo diventa definitivo in seguito al matrimonio della sorella.

Alberto sembra non risentire della condizione in cui vive, poiché è orientato verso l’obiettivo inebriante di spiccare il volo sociale, riscattare tutta la famiglia, vendicarsi di coloro che lo hanno giudicato inetto. La sua rabbia, insomma, è "congelata” dentro un progetto di normalità che postula un perfetto autocontrollo, un senso del dovere estremo e la pratica di una virtù eccessiva. A scuola e in famiglia, Alberto è diventato disciplinato, ossequioso, accondiscendente, quasi servile.

Al compimento del quarto anno di istituto tecnico, la borsa di studio viene revocata dal ministero per insufficienza di fondi. Essendo grande, Alberto non se la sente di pesare sui suoi e prende a lavorare come operaio, per due anni, in una condizione di precarietà. Trova infine posto nell’azienda statunitense, nella quale, per sopperire al difetto del titolo di studio, si dà da fare in ogni modo. I colleghi lo giudicano un arrivista e, in una certa misura, lo emarginano come servo dei padroni. Nel suo intimo, Alberto sa di non essere un servo: egli lucidamente odia la struttura nella quale lavora con le sue gerarchie di potere, le logiche di sfruttamento, la mistificazione degli incentivi, le minacce velate di licenziamento che alimentano un rendimento massimale. Sa però di non avere alcuna alternativa. Perciò, persegue un progetto "politico” piuttosto singolare: lavorare e migliorare per accattivarsi i padroni, giungere ad uno status privilegiato, che gli consenta di concedersi una qualche libertà, e nel contempo continuare ad odiarli con tutta la sua anima senza mai offrire il fianco alle loro rappresaglie.

Quando gli viene offerta la possibilità di diplomarsi a spese dell’azienda con l’esonero, per un anno, di alcune ore lavorative settimanali, egli coglie al volo l’occasione, pensando che, in trasferta, potrà cominciare finalmente a lasciarsi andare e godersi la vita.

Nel frattempo Alberto si è sposato. Senza saperlo, ha operato anche in questo caso una scelta sacrificale: la donna che ha sposato, di origine straniera, sola a Roma, non lo attrae molto. Essa però gli si è aggrappata pateticamente, e Alberto non ha avuto il coraggio di deluderla. A conti fatti la sua esperienza umana si è totalmente irregimentata, per diversi motivi in uno statuto di ipernormalità.

Egli sente di aver tirato troppo la corda dall’adolescenza in poi. Nell’anno precedente la crisi avverte in misura crescente un’irrequietezza ansiosa attraversata da fantasie anarchiche di liberazione. La "claustrofilia” alla quale si è votato per non finire male, conseguiti i suoi effetti di integrazione sociale, rimette in movimento una rabbia mai estinta. Ma egli deve fare i conti con un sistema di significati superegoico, interiorizzati dal padre, che la rabbia l’ha criminalizzata e lo aspetta al varco. Rianimandosi in profondità una sfida al sistema gerarchico e all’ordine sociale, egli deve continuare a vivere nella rinuncia ad esercitare una libertà pericolosa. Nei giorni della crisi, nelle rare ore di riposo, Alberto fa spesso lo stesso sogno. È in macchina e deve fermarsi perché dal cofano esce del fumo. Aprendo il cofano, si accorge che il radiatore è in ebollizione. La tanica di acqua che, nella realtà egli porta sempre con sé, è scomparsa e dunque non c’è rimedio.

Questo sogno chiarisce il significato inquietante associato al rumore notturno del motorino elettrico del frigorifero. Da anni, per preservare la sua identità, Alberto ha congelato la sua rabbia. Non ne può più di vivere come un "automa”: ma, per effetto del sistema di significati superegoici, se egli osasse scongelarsi, dovrebbe accettare e subire le conseguenze di una rabbia incontrollata. Rabbia stratificata: dovuta alla miseria prima, ai giudizi negativi da cui è stato investito nel corso di tutta l’infanzia, alla presa di coscienza delle ingiustizie sociali e infine alla scelta frustrante che egli, per salvarsi dalla perdizione, ha dovuto operare dall’adolescenza in poi, rinunciando ad ogni piacere e sacrificandosi per riscattare stesso e la famiglia.

La sua identità personale e sociale è, in gran misura, superegoica: porla in gioco non può significare che percorrere, in maniera più drammatica, il tragitto di emarginazione che egli ha inteso scongiurare. La claustrofobia originaria legata a condizioni oggettive di vita soffocanti e intollerabili, si è trasformata nel corso degli anni in una claustrofobia psicopatologica, porre rimedio alla quale significherebbe far venire alla luce la vera identità di "folle criminale” che Alberto è riuscito a mascherare, e accettarne le conseguenze.

Non rimane dunque che continuare a vivere in una dimensione di ipernormalità priva di ogni spontaneità, compensata dalla sterile libertà di sottrarsi a situazioni costrittive volontarie. Alberto non può rinunciare ovviamente al lavoro: ma deve rinunciare a viaggiare, a frequentare cinema, discoteca e palestra, a frequentare amici, a desiderare altre donne oltre la moglie, tutte queste circostanze associandosi alla paura di trovarsi in condizioni di potere esplodere e manifestare la sua "anormalità”. Il regime ascetico di vita che egli è stato costretto a scegliere a quattordici anni va ratificato come una condanna che, per quanto dura, lo preserva dall’emarginazione.

Tutto ciò rende chiaro il cammino da fare. Naturalmente, è necessario che Alberto si renda conto della infrastruttura superegoica che governa la sua esperienza. Ma ancora più importante è che egli recuperi la rabbia che alberga dentro di sé, e ne ricostruisca le molteplici ragioni, legate alla miseria sociale, alla cultura patriarcale del padre e alle umiliazioni che egli ha dovuto accettare e subire per riscattarsi e di integrarsi. L’impiego migliore di questa rabbia consiste nell’orientarla, intanto, contro il modello di ipernormalità che egli persegue e che lo schiavizza, imponendogli paradossalmente di asservirsi per giungere ad essere libero e alla pari degli altri. In secondo luogo si tratta di investirla in una rivendicazione di vita che non si riduca alla carriera lavorativa, ma riabiliti altri e bisogni e livelli di gratificazione: non ultimo, il lottare apertamente contro l’ordine sociale ingiusto.

Quando torna al lavoro, dopo alcuni mesi, Alberto, sicuro della sua efficienza e del suo valore sul mercato del lavoro, non è più dalla parte dei padroni. Comincia svolgere un’attività sindacale, critica e si espone. Le angosce claustrofobiche si allentano, poiché egli porta avanti la sua sfida di individuazione, soffrendo ma sperimentando di non esplodere in comportamenti abnormi.

Rimane il nodo più profondo, legato all’odio nei confronti del padre: ma Alberto ormai è in grado di cogliere le contraddizioni di un’esistenza svoltasi sul piano del servilismo sociale riscattato da un autoritarismo familiare. Non si sorprende neppure del fatto che, nonostante il suo rozzo comunismo, il padre abbia imposto ai figli come valore massimo il rispetto e l’ossequio dei grandi e dell’autorità. Avendole sperimentate nella sua vita, egli sa il senso di queste contraddizioni. Sa anche che non è necessario inibirle per sempre, e che comunque si può tentare di risolverle, con l’obiettivo di vivere alla luce della propria vocazione ad essere e non secondo la ragione degli altri.

 

Cap.X. Il problema delle crisi acute

Tutte le esperienze che ho riportato sono caratterizzate da momenti critici, e cioè da condizioni soggettive che si configurano come intollerabili e/ o ingovernabili, e si manifestano socialmente, venendo percepite dai familiari e dagli altri. Tali momenti critici si realizzano ex-abrupto, come nel caso di Sandra, o dopo periodi anche lunghi di disagio soggettivo inapparente e strisciante, come nel caso di Mauro.

Da un punto di vista dialettico, la crisi è l’epifenomeno di una struttura psicopatologica di origine remota, che si è mantenuta nel corso degli anni in forma latente o tollerabile soggettivamente. Le modalità di esordio non interessano pertanto che per l’effetto immediato che le crisi producono a livello soggettivo, microcontestuale e sociale. Tale effetto può essere di repentina lacerazione di una normalità apparente, di lento e progressivo insabbiamento o regressione da uno statuto di normalità ad un altro abnorme, o, infine, di peggioramento repentino di una situazione psicopatologica già definitasi ma risultata compatibile, sino allora, con un comportamento sufficientemente adeguato. Se si seguono nel tempo, le esperienze psicopatologiche sembrano differenziarsi per un’aspetto singolare: le une appaiono strutturate in maniera tale da non riconoscere, dal loro esordio, alcun intervallo asintomatico; le altre evolvono sotto forma di crisi ricorrenti, solitamente di gravità crescente, con intervalli che, benché di durata progressivamente minore, possono essere apparentemente del tutto asintomatiche. Le prime esperienze si fanno rientrare tradizionalmente nell’ambito delle nevrosi; le seconde nell’ambito delle psicosi.

Non mancano certo delle eccezioni: alcune condizioni nevrotiche possono esordire, scomparire e ripresentarsi a distanza di tempo; alcune esperienze psicotiche possono procrastinarsi con una fenomenologia sintomatica oscillante ma continua. Tali eccezioni non sono però tanto rilevanti da invalidare un dato di ordine generale: le strutture di primo livello, una volta affiorate, tendono a persistere, comportando la possibilità di un passaggio agli altri livelli; le strutture di secondo e di terzo livello, che integrano una fenomenologia psicotica, tendono invece, almeno per un certo periodo, ad apparire e scomparire, a presentarsi cioè fasicamente sotto forma di crisi acute psicologiche.

Questo crea, sul piano dell’intervento terapeutico, una serie di problemi dei quali occorre parlare.

C’è anzitutto un problema di ordine pratico, che concerne il come intervenire. C’è, in secondo luogo, il dato di fatto delle remissioni con restitutio ad integrum o con difetto che, avvenendo il più spesso per effetto degli psicofarmaci, determinano, sia nel soggetto che in famiglia, l’accettazione dell’interpretazione "medica” della crisi. C’è infine il problema del progetto terapeutico da fare: progetto che, sia esso formulato in termini di terapia farmacologica di mantenimento o preventiva o in termini di psicoterapia individuale o familiare, tende ad essere rifiutato per via della necessità, che si pone spesso, di somministrare psicofarmaci per contenere l'acuzie dei sintomi.

Affronterò questi problemi dettagliatamente, perché essi rappresentano un banco di prova importante per la prassi terapeutica dialettica, una verifica delle sue potenzialità.

C’è da dire subito, a riguardo, che i problemi maggiori non riguardano i fatti psicopatologici in sé e per sé, bensì la confusione ideologica che vige in ambito psichiatrico. Se per esempio si accettasse il presupposto che le crisi acute rappresentano epifenomeni di una struttura psicopatologica, riconducibili al modello delle "catastrofi" di R. Thom, non sussisterebbero difficoltà di ordine pratico. Ogni crisi potrebbe, infatti, essere valutata su un piano dinamico, microcontestuale e sociale, come espressione di un conflitto tra super-io e bisogni alienati pervenuto ad un livello di intensità tale da comportare una destrutturazione. E, dato che, in assenza di una presa di coscienza, tale conflitto non può evolvere che a favore del sistema di significati superegoici, l’intervento dialettico dovrebbe essere orientato dalla valutazione - in termini soggettivi, microcontestuali e sociali - dell’intensità del bisogno inconscio di punizione che sottende ogni crisi.

Tale valutazione, approdando alla constatazione di margini di tollerabilità, potrebbe promuovere un intervento dialettico, eventualmente corroborato da prescrizioni farmacologiche il cui significato sintomatico - come si dirà meglio successivamente - deve essere chiaro sia al soggetto che ai familiari. Se la valutazione, viceversa, approda alla constatazione che non esistono margini di tollerabilità, nel senso che il soggetto è orientato a realizzare comunque, nonostante le sue intenzioni coscienti, il bisogno inconscio di punizione, non si deve esitare ad intervenire, nel senso di organizzare una situazione di tutela sia essa domiciliare o ospedaliera. Il criterio è chiaro, ma il problema è che la valutazione della situazione psicopatologica nei suoi diversi parametri - soggettivi, microcontestuali e sociali - non può essere standardizzata. Per non ricadere entro schemi psichiatrici, che sopravvalutano la "malattia", o entro schemi antipsichiatrici, che sopravvalutano le intenzioni coscienti del soggetto, e cioè per prendere decisioni adeguate alla situazione concreta con cui ci si confronta, occorrono capacità critiche rilevanti e soprattutto la capacità di assumersi responsabilità in prima persona.

Gran parte della storia della psichiatria attesta, al di là delle valenze sociopolitiche e culturali, la paura degli psichiatri di mettere in gioco la propria reputazione professionale. È superfluo aggiungere che tale paura ha conseguito l’effetto paradossale di porre gli psichiatri a riparo da imputazioni penali, ma al prezzo di gettare nel discredito la scienza da essi praticata. A nessuno ovviamente si può chiedere l’eroismo: ma la pratica psichiatrica, per il suo stesso oggetto, dovrebbe comportare una costante valutazione dei bisogni propri degli operatori e dei bisogni dei soggetti disagiati.

Come s’è detto ne "La Politica del Super-Io”, l’approccio dialettico non esclude la possibilità che dinamiche soggettive determinano squilibri funzionali e cerebrali che, ad un certo punto si "autonomizzano” sul piano dei circuiti neuronali. Per quanto gravato ormai da più di due secoli di significati impropri, il concetto di malattia mentale, in riferimento al realizzarsi episodico di quella possibilità, può essere recepito da un punto di vista dialettico, tanto più se si tiene conto che l’epistemologia medica recente, in opposizione alla concezione "ontologica” della malattia, tende sempre più a valutare gli aspetti reattivi omestatici in rapporto ad alterazioni dell’equilibrio funzionale e strutturale dell’organismo. In ambito psichiatrico, gli squilibri potrebbero essere ricondotti alla pressione dei bisogni frustrati che tendono a dispiegarsi. La patologia deriverebbe dal fatto che la norma ideale perseguita dalla reazione omeostatica, non che ai bisogni, farebbe capo al sistema di significati superegoico. Decisiva, ai fini dell’intervento terapeutico, risulterebbe dunque la valutazione della resistenza che l’io può opporre alle rappresaglie superegoiche e agli squilibri biologici che ad esse conseguono.

Non esistono purtroppo dei criteri di valutazione oggettiva di questa resistenza. L’unico forse, grossolano ma utile, è lo stato di coscienza, il potere critico che il soggetto ha in rapporto alla condizione che vive. Paradossalmente, su questo punto la psichiatria tradizionale e la psichiatria dialettica sembrano concordare: ma mentre la prima assume come indice di malattia la mancanza di riconoscimento della condizione psicopatologica in atto, la seconda assume come indice l’inganno della coscienza per cui il soggetto, vincolato alle motivazioni della crisi che vertono sulla necessità di un cambiamento strutturale di vita, non vede che i suoi comportamenti di fatto sono orientati a frustrare quella necessità e gravitano verso l’omeostasi preesistente del regime superegoico.

L’intervento dialettico in rapporto ad una crisi acuta verte sulla capacità di indurre, il più rapidamente possibile, una presa di coscienza sulle giuste ragioni da cui muove la crisi e sulle strategie adottate che, essendo influenzate dal sistema di significati superegoici, rischiano di conseguire effetti contrari rispetto a quelli che il soggetto, più o meno consapevolmente, si propone. Qualora in rapporto allo stato di coscienza, che può essere totalmente pervaso dal conflitto, ciò non è possibile, non si deve esitare a riconoscere che vale la pena, con gli psicofarmaci o con un ricovero, di ricomporre l’omeostasi preesistente. Non si fa violenza al soggetto, almeno a livelli intenzionale, se, riconoscendo le sue giuste ragioni, si prende atto del fatto che nell’immediato la sua battaglia è perduta, e concedergli di portarla avanti lo esporrebbe a rischi personali e sociali gravi. Ma, proprio in ordine al concetto di battaglia perduta, l’intervento dialettico, quando si piega a riconoscere la potenza del bisogno inconscio di repressione, non può non tradursi in un progetto terapeutico di lunga durata il cui obiettivo è di aiutare il soggetto a vincere la guerra contro il Super-Io e le circostanze ambientali che, frustrando i suoi bisogni possono avviarono verso la cronicizzazione.

L’accettazione da parte e del soggetto e dell’ambiente familiare di questo progetto e la sua realizzazione urtano contro difficoltà di vario genere. La prima è di ordine paradossale.

Di solito, infatti, tanto i soggetti in crisi appaiono avversi all’ideologia medica, tanto poi possono apparire inclini ad accettarla dopo la crisi, specie quando si realizza una remissione. Il significato di questo atteggiamento, spesso rinforzato dall’ambiente familiare, è evidente. Esso conferma il potere ipnotico dell’identità superegoica che, nella misura in cui riesce ad assoggettare l’io, tende ad ingannarlo proponendogli come normale un regime di vita insoddisfacente, e a restituirgli la crisi come velleitaria o insensata. A ciò si aggiunge la sensibilità colpevolizzata del soggetto, che tende ad rimproverarsi e ad invalidare la rabbia e gli attacchi a legami e ai valori espressi nel corso della crisi, e dunque a sacrificarsi espiatoriamente sull’altare dei buoni principi e delle buone relazioni che egli ha attaccato. A questa patetica mistificazione soggettiva, peraltro densa di significati, l’intervento dialettico oppone la tecnica della drammatizzazione, e cioè l’interpretazione dinamica della crisi e le previsioni che da essa si possono trarre. Né il soggetto né i familiari possono naturalmente essere convinti del carattere realistico delle previsioni dialettiche. Ciò non toglie che tali previsioni debbano essere avanzate, poiché, nel caso il progetto terapeutico venga rifiutato, di esse sicuramente si terrà conto quando il decorso dell’esperienza di disagio permetterà di verificarle. Naturalmente - e il caso di Sandra da questo punto di vista è esemplare - ciò non impedisce al soggetto o alla famiglia di rimanere irretiti dall’ideologia medica, specie quando questa consegue l’effetto di dar luogo ripetutamente alla guarigione di episodi critici con apparente restitutio ad integrum. La prassi terapeutica dialettica può e deve sempre proporsi come alternativa all’ideologia medica. Non può ignorare però il peso socioculturale di questa ideologia e il potere che esercita sulle coscienze. Ma la dialettica, in fondo, non avrebbe senso se non incontrasse delle resistenze.

Quando un progetto terapeutico fondato sui principi della dialettica viene ricusato, c’è solo da sperare che non ci si rivolga ad esso quando, per dirla con Laing, "il terribile e già accaduto "; quando cioè, dopo una lunga carriera psichiatrica, si è in restaurata una condizione di comicità. In questo caso, infatti, la prassi terapeutica deve rassegnarsi a salvare il salvabile, rinunciando a promuovere una presa di coscienza che risulterebbe catastrofica, poiché comporterebbe, a posteriori, l’intuizione di modi possibili di esistere vanificati. Già questo è un prezzo duro da pagare per coloro che, dopo aver sofferto per anni, in seguito ad un intervento dialettico ristrutturano la propria esperienza alla luce dei bisogni personali, dovendo prendere atto di avere sprecato letteralmente anni a sacrificarsi sull’altare del sistema di valori superegoici.

Quando, nel corso o dopo una crisi, un progetto terapeutico dialettico è accolto dal soggetto e dei familiari, il problema principale consiste nel fare accettare le sue conseguenze pratiche. Se è vero infatti che ogni crisi, almeno al suo esordio, rappresenta l’esplosione di una quota di bisogni frustrati che tendono a realizzarsi rimuovendo le resistenze superegoiche, è inevitabile che la terapia dialettica, accrescendo le consapevolezza del soggetto sulla struttura psicopatologica nella quale è intrappolata la sua esperienza, non può non portarlo nuovamente al punto di andare in crisi per verificare la sua capacità di dare spazio ai bisogni e di opporsi alle rappresaglie superegoiche e alle eventuali resistenze ambientali. Di solito, e fino alla conclusione, un tragitto terapeutico dialettico tende ad assecondare la dinamica propria della struttura psicopatologica - la coazione a ripetere - attrezzando la coscienza a volgerla a favore dei suoi bisogni. Non è un paradosso che si esce da una struttura psicopatologica per la stessa via per la quale si è entrati in essa. Occorre accettare questa legge dialettica senza troppa paura.

Nessuna esperienza terapeutica evolve secondo un processo lineare: l’importante è che essa evolva in virtù di una consapevolezza sempre maggiore da parte del soggetto di ciò che sta avvenendo e della posta in questione: la vita sacrificata sull’altare di valori alienati o spesa nel tentativo di organizzare un’esperienza umana incentrata sulla realizzazione dei bisogni autentici.


Cap. XI Resistenze all’intervento dialettico

Nel capitolo precedente ho accennato i motivi per cui alcuni soggetti atti, spesso con la connivenza dell’ambiente familiare, tendono a rifiutare l’intervento dialettico, nonostante l’evidente rilievo strutturale delle crisi. Si tratta, come accennato, di motivi nei quali confluiscono momenti soggettivi e momenti ideologici. A riguardo, non si può fare altro che impegnarsi su un piano culturale e politico che faccia maturare, in rapporto ai problemi psicopatologici, un nuovo senso comune nell’accezione gramsciana. "La Politica del Super-Io” si pone come un contributo in questa direzione. Ma non si può ignorare che il processo di sostituzione di un quadro mentale di antica data con un altro, meno mistificante e, soprattutto, meno passivizzante, avverrà (se avverrà...) con molta lentezza.

Ai fini del discorso, interessa ora analizzare le resistenze che intervengono nel corso di una psicoterapia dialettica. Se ne danno di due specie: microsistemiche e soggettive.

Le resistenze microsistemiche, e in particolare quelle familiari, sono ormai da molti anni al centro dell’attenzione della teoria e della pratica terapeutica che vede nei rapporti familiari - nelle dinamiche intersoggettive e nelle comunicazioni interpersonali - l’origine e i fattori di mantenimento del disagio psichico di uno dei membri del gruppo. A riguardo, si è scritto tanto che non sembra il caso è di aggiungere altro.

L’ottica familiare rappresenta un indubbio avanzamento scientifico sia rispetto alla concezione medica della malattia mentale che a quella psicoanalitica intrapsichica. Ma le limitazioni ideologiche che la teoria sistemica si è data per accreditarsi come una scienza oggettiva sono, ancora oggi, tali da isterilire la rottura epistemologica che essa ha inaugurato. Benché infatti la teoria sistemica consideri la famiglia come un sistema aperto, comunicante sia sincronicamente che diacronicamente con la società, essa ignora, ritenendola non indagabile oggettivamente, la storia sociale della famiglia, e, di conseguenza, rinuncia a capire il significato dei sistemi di valore e della contraddizioni che ne presiedono l’origine e ne accompagnano l’evoluzione. Per un altro verso, assumendo la soggettività come una scatola nera, la teoria sistemica si vieta di cogliere la struttura conflittuale della personalità, ciascuna con i suoi livelli superegoici ed egoici, e ancor peggio rinuncia a cogliere il relativo grado di autonomia che definisce i la struttura psicopatologica. Tutto dunque si riduce a rimestare invano intorno a concetti quali omeostasi sistemica, retroazione, paura del cambiamento, bisogno del capro espiatorio.

Non intendo dire che questi concetti non hanno alcun riferimento reale: più concretamente, sostengo che essi tentano vanamente di definire le resistenze microsistemiche all’intervento terapeutico. In riferimento ai casi in cui il membro "malato” è un figlio, quelle resistenze appaiono riconducibili a due vissuti genitoriali: per un verso, la coscienza in buona fede di aver fatto il possibile e, talora, più degli altri, per essere adeguati al proprio ruolo; per un altro, un più o meno consapevole ed oscuro senso di colpa, che porta paradossalmente a negare le proprie responsabilità. Tali vissuti talora sono concordi e accomunano i genitori, talaltra sono discordi e danno luogo ad uno scambio reciproco di accuse. In ogni caso, il loro significato è realistico ma non può essere colto che dialetticamente: la coscienza di aver fatto tutto il proprio dovere o comunque il possibile è vera in rapporto al sistema di significati superegoici cui ogni genitore ha fatto e fa riferimento; il senso di colpa, viceversa, affonda le sue radici nell’intuizione di non avere adeguatamente risposto ai bisogni del figlio. Questo conflitto si traduce in un’ambivalenza nei confronti dell’intervento terapeutico.

Se, infatti, per un verso, i genitori hanno bisogno che il figlio guarisca, e non possono intendere questo che nei termini di una normalizzazione che confermi le loro aspettative, per un altro, la malattia del figlio consente loro di scontare i sensi di colpa e di continuare a vivere in una dimensione oggettivamente mortificante ed espiatoria. Come sacrificano i figli sull’altare dei valori superegoici, le famiglie sacrificano spesso anche se stesse. Solo chi non sa, o finge di non sapere cosa significhi vivere sotto il regime tirannico e talora terroristico imposto da un figlio disagiato, può parlare fatuamente di omeostasi sistemica, di doppi legami e di capro espiatorio. In realtà, il disagio di un membro attesta spesso drammaticamente una trappola superegoica che attanaglia tutto il sistema.

Le resistenze familiari vanno dunque ricondotte al bisogno alienato di pagare, soffrire ed espiare. Se si vuole affrontarle, occorre necessariamente assumere un punto di vista dialettico: ricostruire cioè la storia sociale della famiglia, e dei singoli individui, per indurre la presa di coscienza di un’economia sistemica votata a realizzare i bisogni alienati piuttosto che quelli autentici.

In breve intendo dire che se il concetto di struttura psicopatologica concerne la soggettività, un sistema interpersonale che induce l’alienazione primaria dei bisogni (quella secondaria potendo prodursi in esso o nella pratica sociale soggettiva) deve necessariamente essere animato da dinamiche conflittuali, che riescono incomprensibili se non si fa riferimento ai sistemi di valore superegoici e all’economia mortificante che tali sistemi producono.

Ciò appare chiaro nelle famiglie incorporative, che si chiudono a riccio intorno al disagio di un membro malato. In tali sistemi talora è difficile capire chi esprime il maggiore bisogno di soffrire e di espiare. E accade spesso che il soggetto disagiato, la cui rabbia viene alimentata dagli atteggiamenti contraddittori parentali ma è tremendamente colpevolizzata dalla loro disponibilità sacrificale nei suoi confronti, giunga ad assumere il ruolo di capro espiatorio. Anche in questi casi, però, è la logica superegoica a strutturare le relazioni interpersonali e i vissuti soggettivi.

Esistono anche sistemi familiari che, in rapporto al disagio di un membro, assumono atteggiamenti espulsivi. Anche in questi casi, però, l’analisi dinamica giunge abbastanza facilmente ammette al fuoco, come matrice di quegli atteggiamenti, la necessità di confermare un quadro di valori superegoici e di rimuovere, a qualunque prezzo, intollerabili sensi di colpa.

E’ chiaro dunque che, per quanto riguarda i sistemi familiari, l’approccio dialettico, mirando a mettere a fuoco e soprattutto a storicizzare le dinamiche alienanti soggettive e interpersonali, si pone in termini alternativi rispetto alla teoria dei sistemi. Sul piano della prassi, ciò comporta due conseguenze.

Nei casi in cui, essendosi creata una situazione di con-fusione dinamica, l’intervento dialettico deve farsi carico del sistema familiare. Esso se ne fa carico nella sua ottica, mirando a mettere a fuoco l’economia del sistema, le dinamiche espiatorie spesso reciprocamente colpevolizzanti, e i sistemi di valore superegoici che sottendono quell’economia. Lo sforzo dialettico consiste nel tentare di indurre una presa di coscienza della famiglia sul suo essere espressione di una storia sociale che, alienando i bisogni autentici, la attraversa. Questa presa di coscienza è dolorosa ma necessaria, come risulta dalla seguente esperienza.

Angela, che ha cominciato a 16 anni a manifestare angosce estetiche e ipocondriache, a 22 anni, nonostante molteplici esperienze terapeutiche, è giunta a strutturare una psicosi ossessiva particolarmente grave. Assillata dalla pressione di impulsi "demoniaci”, essa si assoggetta da mattina a sera a rituali di controllo ed espiratori che le impediscono di vivere. Allo stesso tempo, assoggetta tutto il gruppo familiare ad una serie di regole comportamentali assurde che i suoi devono eseguire passivamente per non scatenare in lei una terribile angoscia distruttiva e autodistruttiva. Sia i genitori che i fratelli si sottomettono a tali regole, ma periodicamente rimproverano rabbiosamente Angela di costringerli a vivere come burattini. Il regime dittatoriale imposto dalla struttura ossessiva attanaglia il sistema, e alimenta una rabbia comune che, venendo colpevolizzata, induce tutti ad una progressiva maggiore passività..

Il senso di questa esperienza sfugge del tutto ai genitori, persone di ottimo livello culturale, le cui domande non hanno mai ricevuto una risposta dagli psichiatri e dagli psicoterapeuti. L’ultima risposta è venuta da una terapeuta familiare, che ha accusato la madre di "volere” la figlia malata. Nessuno mai si è interessato della storia sociale della famiglia, che contiene in superficie la chiave dinamica dell’esperienza.

Figlia unica di una famiglia meridionale medio-borghese, la madre è stata allevata secondo i dettami di una tradizione tanto repressiva da indurla a fantasticare durante tutta l’adolescenza una fuga da casa. L’ha trattenuta solo una fede religiosa che ha imputato come colpevoli le sue aspirazioni anarchiche. Terrorizzata da una libertà che urge dentro di lei come irrefrenabile, a 19 anni e si fidanza e si sposa con un professionista avviato ad una brillante carriera. Essa nutre un intenso desiderio di maternità, animato soprattutto dalla speranza di poter avere una bambina.

Dopo due maschi, nasce Angela. La madre è felice e si ripromette in cuor suo di concederle tutto ciò che a lei è stato negato, e di educarla nella libertà e senza scrupoli moralistici. Cosa può significare questo, alla luce del super-io, se non destinare la figlia alla perdizione? Fin dal primo anno di vita si profilano problemi: Angela è estremamente irrequieta e la madre in uno stato di ansia costante. Nei successivi due anni, i problemi si aggravano: la madre perde ogni sicurezza e non riesce più a controllare l’ansia. Angela diventa un quotidiano incubo persecutorio. A tre anni, si abbandona ad un autoerotismo sfrenato. Invano una pediatra sdrammatizza questo sintomo, riconducendolo alla ansia della madre e al suo atteggiamento efficiente ma freddo e distaccato, alieno da ogni contatto fisico. La madre e riconosce questo difetto, che peraltro non si è espresso nei confronti dei figli maschi e non si esprimerà nei confronti del quarto, ma lo attribuisce ad una incontrollabile paura di "viziare " Angela. La situazione precipita: la madre comincia a manifestare segni evidenti di esaurimento. Non c’è che un rimedio: concedere ospitalità ai suoi genitori e delegare ad essi le funzioni che la donna non riesce ad adempiere.

Il regime dei nonni è rigido e terroristico. Angela, a furia di punizioni, si riordina nel comportamento e non manifesta più irrequietezza, ma al tempo stesso si chiude in un modo di essere quasi autistico. La sua comunicazione si riduce a torve occhiate che fanno rabbrividire. Manifesta in età scolare difficoltà di contatto, di integrazione nel gruppo e di apprendimento, fino all’affiorare, a 16 anni, delle angosce ipocondriache e dei primi incubi religiosi. La durezza del regime dei nonni, che dura dieci anni, è testimoniata dal quarto figlio che, quando ormai Angela è immersa nella sua psicosi ossessiva, denuncerà la sua personale sofferenza in quel periodo e l’odio che egli ha nutrito nei confronti di quelli implacabili tiranni e dei genitori che avevano delegato ad essi il potere educativo.

Quello che di fatto è accaduto tanto chiaro che non merita quasi commento. La dittatura superegoica cui Angela assoggetta se stessa e il sistema familiare, con l’intenzione inconsapevole di fare giustizia, facendo sperimentare ai suoi ciò che essa ha sperimentato, e al tempo stesso punendosi, procrastina un regime la cui ossessione ordinatrice non può produrre che disordine.

In altri casi, l’intervento dialettico, anziché sul sistema familiare, può essere centrato sul soggetto disagiato. Ciò appare opportuno quando la famiglia manifesta un evidente indisponibilità nei confronti di una messa in questione della sua storia, quando essa appare minacciata da sensi di colpa tanto intensi da far temere, come unica risposta all’intervento dialettico, una regressione del membro disagiato, o infine quando il soggetto stesso effetto dal disagio esprime la volontà di percorrere un itinerario individuale, protestando con ciò un bisogno di individuazione razionalizzato sotto forma di vergogna di denunciare le sue difficoltà agli occhi dei parenti, di necessità di metterli a riparo da eventuali attacchi o, semplicemente, di escluderli.

In tutti questi casi, occorre affrontare il problema delle resistenze soggettive, che sono molteplici e complesse. Di questo problema, tre aspetti interessano per la loro importanza pratica.

Il primo concerne gli ideali dell’io che, particolarmente quando fanno parte di una visione del mondo cosciente organizzata e coerente, tendono ad essere soggettivamente difesi ad oltranza come modelli il venir meno dei quali realizzerebbe un effetto catastrofico. Costantemente, si tratta nota di ideali superegoici, che funzionano come irraggiungibili, e quindi frustranti, ma, per il grado di alienazione dei bisogni che postula la loro impossibile realizzazione, sono investiti inconsapevolmente da un opposizionismo irriducibile. È evidente che, riguardo a questo problema, l’arte dialettica consiste nel mettere in luce, allo stesso tempo, la dimensione illusionale degli ideali superegoici e il rifiuto viscerale del soggetto di prestarsi ad un gioco che egli intuisce, inconsapevolmente, come frustrante e privo di senso.

Un secondo aspetto delle resistenze soggettive all’intervento dialettico è da ricondurre alla convinzione soggettiva di dover comunque espiare, e cioè all’intensità del bisogno di punizione e al modo in cui esso è significato. Questa convinzione talora, in rapporto spesso ad un’ideologia religiosa integralista, è cosciente ed esplicitata; talaltra affiora sorprendentemente nel corso dell’intervento dialettico, anche a partire da livelli di coscienza che sembrano impregnati di edonismo. Ovviamente, dando per scontato che tale convinzione esprime sempre un grado rilevante di assoggettamento dell’io al super-io, o comunque una confusione tra bisogni autentici e bisogni alienati, è giusto impegnarsi per promuovere una scissione terapeutica.. Occorre però essere disposti ad accettare che questa resistenza si configuri, talora, come insormontabile. Ciò è comprovato dal fatto che, nel corso dell’intervento, la domanda originaria di affrancamento dalla sofferenza si trasforma, esplicitamente o di fatto, nella domanda di soffrire meno, che lascia pensare che il soggetto, in una certa misura, ritenga di dover soffrire.

Il problema che pone tale resistenza è il configurarsi del rapporto terapeutico come volano dei momenti critici, dal che discende la sua interminabilità. La psicoterapia dialettica non si fa carico di questa nuova domanda, se non analizzando il suo significato e sottolineando la relativa rassegnazione del soggetto in rapporto ad un bisogno alienato di punizione che egli, in una certa misura, convalida. Per i principi ai quali si ispira, in situazioni del genere, che si configurano nel corso dell’intervento, la terapia dialettica ricusa sia il "patetismo” psicoanalitico, che comporta l’identificazione dei soggetti di come "bambini" che non si decidono mai a crescere, sia lo stigma sistemico, che li assume come "macchine" comunicative incapaci di riprogrammarsi nel nome di un misterioso calcolo che si identifica con la normalità. In conseguenza di ciò, essa accetta di trasformarsi, in alcuni casi, in un intervento di sostegno, adattandosi a rispondere ad un bisogno di stabilità strutturale alienato, senza peraltro mai rinunciare al suo potere critico.

La resistenza più comune è però di ordine non psicologico ma culturale. Quali che siano le scissione che la sottendono ed le contraddizioni dell’ambiente micro e macrosistemico con cui interagisce, è un bisogno proprio della coscienza umana organizzare una visione del mondo - interno ed esterno - che abbia un qualche grado di coerenza. Tale bisogno è stato recepito dalla nostra civiltà, che ha risposto ad esso con l’ideologia liberale, in nome della quale ogni individuo, raggiunta la maggiore età, godendo degli stessi diritti di tutti gli altri, può e deve sentirsi un io, un’unità integrata libera di perseguire i propri scopi. Questa ideologia, che fa riferimento ad una libertà meramente formale, non ignora la scissione costitutiva della personalità umana, ma tende ad usarla in maniera mistificante. È sommamente importante che ogni soggetto, quali che siano i condizionamenti economici, sociali e culturali che determinano la sua esperienza, si senta libero e agente responsabile della propria esistenza.

Nei deliri strutturati, il potere di questa mistificazione culturale appare con un’evidenza drammatica. L’esperienza di Paola, riferita e analizzata ne La politica del super-io, appare cristallizzata intorno alla confusione per cui bisogni superegoici di espiazione vengono vissuti come bisogni egoistici. Paola infatti ritiene che gli attacchi che le provengono dal mondo siano ingiustificati poiché si fondano sull’incomprensione delle sue difficoltà a piegarsi per riparare la colpa commessa, ma non giunge mai a dubitare di essere colpevole oggettivamente e di dover pagare.

Tutto l’ambito psicopatologico, per l’ovvio fatto di appartenere ad un mondo storico e culturale, pone in luce questa mistificazione. Ed è chiaro in che senso essa possa dar luogo ad una resistenza all’intervento dialettico. Raramente il soggetto ha difficoltà ad afferrare - a livello razionale - la chiave strutturale della propria esperienza, la sua genesi, le dinamiche che la sottendono e i sistemi di valore che la governano. Quasi sempre però ha difficoltà a crederci, intendendo ovviamente per credere non hanno un atto di fede acritico bensì una presa di coscienza che lo induce a vedere il potere determinante sulla sua vita dei bisogni alienati e del sistema di significati superegoici. In conseguenza di ciò egli continua a vivere illudendosi di essere libero, nonostante i suoi comportamenti attestino il contrario.

Per fortuna, questo scarto tra determinismo superegoico e coscienza personale non è incolmabile. Va tenuta però presente perché con essa, nel corso di un intervento dialettico, bisogna fare i conti.

In ultima analisi, accettare la scissione dell’esperienza soggettiva, accettare il potere prevalente delle super-io, che persegue fini antitetici rispetto a quelli personali, accettare infine di dover lottare per integrare la propria esperienza partendo da una condizione di minorità dell’io, è indubbiamente doloroso. Ma, essendo produttiva, la sofferenza indotta dall’intervento dialettico è nulla in confronto alla sterile e interminabile sofferenza imposta dalla struttura psicopatologia

(continua)