OUVERTURE


"Si pensa a partire dal bisogno...

Il motore del bisogno è quello dello sforzarsi, che implica il pensare come fare...

Il bisogno nel pensare esige che si pensi".

Adorno, Dialettica negativa


1. Ouverture : avvio di un'opera; definizione di uno stile e di una forma; spesso, esposizione tematica.

L'ouverture d'una ricerca può prescindere da problemi di stile e di forma, non dall'esposizione dei temi e dal suggerire uno sviluppo programmaticamente sempre aperto, tale che le acquisizioni diano luogo ad un corpus teorico la cui crescita sia misurata non dalle rassicuranti certezze ch'esso provvede, ma dall'ombra problematica che proietta. Considereremo, quest'incontro, una prova d'orchestra, o - per essere più precisi - come il momento che precede la prova: cos'altro potremo fare, infatti, se non tentare di accordare i nostri strumenti intellettuali?

2.

E' ingenuo pensare che il confluire qui oggi, sollecitato da alcune pagine scritte con malcelata indignazione, sancisca, d'emblée, un accordo ideologico o ideale. Esso denota un desiderio comune di riconoscersi come tecnici alternativi nel campo della salute mentale e la volontà di riflettere su ciò che oggi può significare questo desiderio. Basta ciò ad accordarci? Direi di no, se è vero che l'impresa in cui si è venuta a trovare la psichiatria alternativa è da ricondurre ad una connivenza ideologica che ha preteso, dagli adepti, la cecità come prova di lealtà e, in rapporto ad un codice d'onore, ispirato ad una ingenua filosofia della prassi, ha emesso verdetti di cooptazione e di esclusione.

Definiremo, dunque, immediatamente, un codice d'onore alternativo, che riabiliti lo spirito critico non solo in funzione di critica ideologica, bensì d'una nuova scienza del disagio psichico: nuova in quanto affrancata dalla tentazione e dall'inganno della neutralità, dalla certezza e dalla razionalità pura, ma, nondimeno scienza, e cioè non solo critica del sapere precedente, bensì definizione di strumenti intellettuali la cui funzione è di proporre ipotesi e di postulare una verifica reale che accetti, preliminarmente, il rischio della confutazione.

3.

Perché non confessarlo? Se l'ideologia, più che una rete d'inganni ben mascherati è un insieme di credenze; se essa mira più a persuadere e a convincere che a confondere, noi siamo tutti ideologi prima di essere tecnici. Siamo ideologi in quanto, semplicemente uomini del nostro tempo, impregnati di tradizione e anelanti ad una liberazione; tal che ciascuno di noi, non potendo sfuggire alla cattura della tradizione e al suggestivo richiamo del cambiamento, deve compromettersi.

Siamo ideologi perché, nel nostro tempo dai ritmi molteplici - gli uni stagnanti, gli altri repentini - ciascuno di noi è più conservatore di quanto desideri e più rivoluzionario di quanto creda.

Siamo ideologi perché il nostro modo di essere, e il sapere in cui si riflette, e ancora le tecniche che questo produce, oscillano perennemente tra il mantenimento dell' ordine e il fascino del disordine, tra il ricatto della ragione e la cattura dell'irrazionale, tra l'immersione in un mondo reale, che ricusiamo senza misconoscerne i vantaggi che ci offre, e l'utopia di un mondo possibile, di cui nulla sappiamo se non che esso alimenta le nostre speranze.

Come tecnici, infine, siamo ideologi perché inevitabilmente costretti a riconoscerci funzionari del reale e dell'utopia: troppo ribelli per piegarci alla burocratizzazione della nostra e altrui esperienza, troppo prudenti per votarci all'esclusione e al sacrificio. Siamo, insomma, bastardi e il ruolo di tecnici ci imbastardisce ancora di più: riconoscere ciò, nonché umiliarci, ci pone immediatamente al di sopra del Falso problema della psichiatria come scienza pura, indifferente all'utopia, o come pratica rivoluzionaria indifferente al peso della tradizione.

Una scienza - è scontato - non può che essere impura, il suo sforzo consistendo nel tracciare di continuo il confine, sempre ambiguo e precario, tra sapere e ideologia, sapere e potere, sapere e senso comune.

Ma come può una pratica, sia pure essa rivoluzionaria, pretendere di non essere impura, quale che sia il metallo prezioso della leva che essa adotta, il punto di applicazione non è forse sempre fornito dalla lega di un reale duro come il granito e molle come un impasto, ricoperto di un ottuso asfalto e voraginoso come le sabbie mobili?

4.

La nostra umanità, il nostro sapere, le nostre tecniche rivelano - se ne accettiamo le contraddizioni costitutive - la nostra natura di uomini liberi, assillati per noi e per coloro che curiamo, dalla paura dell'esclusione e dal pericolo dell'integrazione. E se questa condizione, questa sfida che non sarà mai risolta e che spinge taluno al tecnicismo e talaltro al praticismo volontaristico, fosse assunta come struttura intrinseca della nostra e dell'altrui esperienza, come struttura drammaticamente irrisolta nel disagio psichico e ideologicamente risolta dalla scienza che lo assume come oggetto sia essa tradizionale o alternativa?

5.

A ben vedere, tutta la psichiatria si articola intorno al problema dell'equilibrio/squilibrio e, dunque, della conservazione e del cambiamento. Chi interpreta la malattia come venir meno d'una normalità raggiunta, non può proporsi che di restaurarla; chi, viceversa, vede nella malattia l'espressione di una pseudonormalità smascherata, non può prefiggersi che il raggiungimento d'un nuovo equilibrio, e dunque un cambiamento.

All'interno di questi due quadri ideologici, le teorie e le prassi più diverse non rappresentano che variazioni sul tema. Il manicomio si faceva carico della malattia come squilibrio individuale: se l'individuo giungeva a riconoscerlo e a criticarlo, egli, reintegrato nella normalità precedente, veniva dimesso; se lo squilibrio risultava irreversibile, l'individuo veniva internato, poiché ciò tutelava l'equilibrio sociale.

Sul territorio, l'ideologia manicomiale non può trasformarsi che in ideologia di controllo, mirante ad assicurare - il più spesso farmacologicamente - una camicia di forza che potrà essere allentata via via che l'individuo recupera la sua normalità, o tenuta per sempre. La regressione che si induce, in questo secondo caso, è funzionale al mantenimento di una condotta almeno apparentemente normale.

L'ideologia del controllo medico non rifiuta le tecniche psicoterapeutiche e gli interventi assistenziali: li piega però ad un obiettivo meramente adattivo. Le teorie e le tecniche del cambiamento contestano la normalità premorbosa.

Tra kleinismo, freudismo, comportamentismo, teoria relazionale e socio-psichiatria la differenza concerne la causa del disagio non la natura, che viene ricondotta ad una normalità mai raggiunta. Non c'è dunque un equilibrio da reintegrare, bensì esso va promosso e reso possibile, a seconda dei diversi individui, a livello intrapsichico, intersoggettivo, comportamentale, familiare, sociale.

Le teorie e le tecniche conservatrici hanno come obiettivo una normalità perduta, il cui modello è statistico; le teorie e le tecniche del cambiamento una normalità possibile, il cui modello è sempre, in una certa misura, ideale.

So bene che le esemplificazioni eccessive possono risultare sterili. Ma il fatto che lo stesso o oggetto - il disagio psichico - dia luogo costantemente, da due secoli a questa parte, ad interpretazioni - importa poco se meramente comprensive o esplicative - riconducibili a due forme ideologiche è da ritenersi una semplificazione o una via di accesso pri vilegiato alla struttura dell'oggetto in questione?

Equilibrio/squilibrio, conservazione/cambiamento, tradizione/innovazione (un cui epifenomeno, ovviamente, è la rivoluzione): non si tratta forse di categorie dialettiche, o adialettiche, che investono, ideologicamente e/o scientificamente, la struttura del reale e, in particolare, del reale storico?

Che esse si ritrovino, scisse e in opposizione, in tutte tecniche che concernono il disagio psichico - evento sempre individuale e minuscolo nel contesto della storia - è da ritenersi un caso, un'analogia o l'intuizione, ricorrente e inesorabile, anche per chi vuole negarla, di un suo significato sintomatico?

6.

Freud muove da un caso d'isterismo e approda, nella maturazione estrema, ad una diagnosi della civiltà, che vede in grave ritardo, e dunque a disagio, nel confrontarsi col problema della distruttività umana che l'evoluzione avrebbe ad essa posto, al tempo stesso esasperandola ed affrancandola dai meccanismi di controllo inbitori attivi nelle specie animali. La diagnosi non prescinde da una possibile soluzione del disagio: ma è poco più di una speranza.

"Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra questo: se, e fino a che punto, l'evoluzione civile riuscirà a padroneggiare i turbamenti della vita collettiva provocati dalle pulsioni aggressive e autodistruttive degli uomini... (Questi) adesso hanno totalmente il proprio potere sulle forze naturali che, giovandosi di esso, sarebbe facile sterminarsi a vicenda... Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E ora c'e da aspet tarsi che... l'Eros eterno farà uno sforzo per affermarsi nella lotta contro il suo avversario parimenti eterno? Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l'esito?".

Basaglia muove dalla comprensibilità fenomenologica del modo di essere schizofrenico e approda, in particolare nella voce Follia/delirio (Enciclopedia Einaudi), vera summa del suo pensiero, ad una diagnosi del male oscuro della civiltà occidentale, identificandolo nella necessità di mascherare sotto l'alibi della razionalità, una violenza e un'oppressione crescente esercitata dal potere sui bisogni umani.

"Da questo panorama indistinto di bisogni (la miseria concreta delle classi subalterne e l'immiserimento dell'individuo nelle classi tutelate) qualche voce può alzarsi a gridare l'angoscia, la scissione, la frattura, o a piangere la propria impotenza. E' allora che le si darà la parola, per imbavagliarla con la definizione di malattia".

E' identico il tragitto formale delle due imprese: muovendo dal piano degli eventi - il disagio psichico - esse pervengono ad una teoria della civiltà, che mira a porre in luce coi che la minaccia.

In Freud, questa minaccia è nel corredo stesso della natura umana, e il disagio psichico la esprime in tutta la sua drammaticità. E' un difetto di civiltà, non ancora pervenuta all'imbrigliamento del potenziale distruttivo, a farla incombere sul destino della specie umana. Scongiurarla postula un più elevato, ma non diverso qualitativamente, livello di civiltà, la cui repressione peraltro sia spostata dalla sessualità alla pulsione di morte. Da questo punto di vista, il disagio psichico non esprime che il primitivismo persistente in alcuni strati profondi della mente, lo scacco di un accesso alla civilizzazione che avviene in virtù dell’acquisizione del principio di realtà. L' ordine reale non solo va conservato, ma incrementato e reso atto a culturalizzare una natura che appare ancora indomita.

In Basaglia, viceversa, la minaccia non viene dalla natura umana, il cui potenziale di bisogni è ben lontano dall'essere stato adeguatamente valorizzato, bensì dall'assetto di una società la cui civiltà è inversamente proporzionale alla mortificazione e alla repressione di quei bisogni, e funzionale non già al progresso bensì al mantenimento - sociale, economico, intellettuale - d'un potere che impone ai più di pagare il tributo della miseria e della sofferenza. Da questo punto di vista, il disagio psichico è un'espressione, individuale, disarticolata e incomprensibile di una protesta sociale, che postula un radicale cambiamento.

Freud e Basaglia credono entrambi che la sofferenza psichica è sintomatica di un qualche problema che, irrisolto, investe tutta la civiltà: per Freud è il terrore di una distruttività, triste retaggio filogenetico, che la civiltà non è valsa ancora ad umanizzare, e che dunque incombe - come minaccia di castrazione - sulla specie umana, e si esprime nei fantasmi psicopatologici; per Basaglia, viceversa, è la disumanità distruttiva di un'organizzazione sociale, ideologizzata dall'illuminismo e realizzata dal capitalismo che violenta la natura umana, nei suoi bisogni elementari e in quelli più evoluti, e la incattivisce, rendendola furibonda e impotente e che tenta, poi, di imbrigliarla e di tenerla sotto controllo con i fantasmi della psichiatria.

Per Freud, c'è una natura umana da affrancare dai suoi residui animaleschi, e ciò non può avvenire che in virtù di un progresso civile che si conservi fedele alle istanze della ragione da cui si è originato; per Basaglia, c'è un progetto di civiltà e un assetto sociale, fondato sulla repressione e sull'oppressione dei bisogni umani, che va smascherato e radicalmente cambiato, per salvaguardare e liberare una natura che rischia, al di là di una protesta sofferta che ne segnala ancora la vitalità, di disumanizzarsi, appiattendosi nella figura mostruosa dell'uomo a una dimensione, totalmente integrato, totalmente alienato.

7.

Questa tendenza, esplicita in due grossi pensatori come Freud e Basaglia, ma implicita in tutta la storia della psichiatria, a svincolarsi dall'événémentiel - il disagio psichico - e ad inserirlo in un più vasto quadro ideologico, che lo connota come difetto adattivo o come testimonianza di ribellione ad un adattamento disumanizzante; questa vocazione della psichiatria ad assumere un ruolo imperialistico nel contesto delle scienze umane e sociali e a ritenersi in grado di diagnosticare, al di là degli eventi con cui ci si confronta a livello di prassi quotidiana, un certo stato di cose nel mondo; questa necessità, mai tenuta sufficientemente a freno dallo spirito critico, di assumere come suo oggetto privilegiato il rapporto natura/cultura con tutte le sue implicazioni epistemologiche, filosofiche e politiche, che fanno di quel rapporto, e di come lo si interpreta, il paradigma di fondo di una teoria della storia umana; questa tracotanza, infine, che affascina e offende, ma che, in ultima analisi, obbliga il più umile degli addetti ai lavori ad operare una scelta di campo ideologico, non può interpretarsi che in due modi.

Essa, infatti, è l'espressione di un'ambizione smisurata che investe e confonde i personaggi più grandi, mortificando peraltro autentiche vocazioni filosofiche e politiche nell'incontro e nel confronto con l'événémentiel del disagio psichico; o è la conseguenza inesorabile d'una riflessione - la più matura, la più partecipe, la più appassionata - che, votandosi all'événémentiel, è sollecitata dalla struttura stessa dell'oggetto, a trascenderlo, e, a partire dai problemi che esso pone a chi sia in grado di riconoscerli, a dover procedere, per amore o per forza, sino alle cause ultime, sino ad una spiegazione totale e totalizzante, e, dunque, ideologica.

Personalmente preferisco pensare a Freud e a Basaglia come a due pensatori assolutamente coerenti nell'assumersi il rischio di portare alle estreme conseguenze la sfida intrinseca alla struttura del disagio psichico, piuttosto che mortificarli come mostri di un’ambizione mal definita.

8.

Lo si assuma come struttura di esperienza che è dentro noi tutti; fenomeno che riguarda l'altro; oggetto inquietante d'una ricerca dagli incerti confini o fatto sociale che postula una prassi volta a rinnovare tutte le incrostazioni istituzionali che celano la sua natura, il disagio psichico è ambiguo: non parla in sé e per sé; costringe a parlarne; significa ciò che si vuole significhi; obbliga, preliminarmente - lo si voglia o no - a prese di posizione ideologiche che non lo riguardano mai immediatamente, se non come parte di un tutto: ma è il tutto perennemente in questione. Ci si può affrancare dall'angoscia ideologica solo mettendo tra parentesi la parte o il tutto o il rapporto che intercorre tra di essi. Ciò facendo, l'angoscia è sedata, non risolta: la prassi - sia essa medica, psicoterapeutica, assistenziale o politica - è una leva il cui punto di applicazione non è mai fornito dal reale - événémentiel o strutturale - in quanto tale, bensì dall'analisi che se ne fa. La prassi postula un'epistemologia o un'ideologia e, il più spesso, è una sintesi dell'una e dell’altra. La psichiatria non scopre la malattia di mente ma, in rapporto al modello medico, la inferisce; la psicoanalisi ricava l'inconscio dall'ipotesi che ogni fenomeno umano debba significare qualcosa; il comportamentismo, data per scontata l'inaccessibilità del mondo soggettivo, non può che descrivere azioni e reazioni; l’analisi transazione applica la teoria della comunicazione ai rapporti umani, e, di conseguenza, deve definire in termini di sistema l'ambito di indagine; l'antipsichiatria, ispirata dalla fenomenologia, deve porre tra parentesi ogni schema esplicativo per pervenire alla fondazione d'un rapporto che permetta di comprendere i vissuti, ricostruendoli intuitivamente; la psichiatria alternativa, confrontandosi con la malattia come fatto istituzionale, non può valutarla che nella sua faccia sociale.

Ogni teoria si ricava da postulati impliciti, ogni prassi si giustifica all'insegna della teoria e, dunque, dai suoi postulati. Ma - a ben vedere - tutti i postulati sono ricavati meno dall'evento psicopatologico che da una certa visione del mondo o, meglio, dal rapporto dell' uomo con il mondo.

9.

Status quo, tradizione, reale, normalità, salute; e status ad, cambiamento possibile, malattia configurano, dunque, due quadri ideologici, due veri e propri recinti mentali all'interno dei quali si svolge il dibattito psichiatrico ed antipsichiatrico.

Non occorre essere intellettuali per capire che questo dibattito, nonostante l'oggetto specialistico - lo specifico - ha una portata immensa, perché, quale che sia lo sforzo per rimanere con i piedi per terra, c'e qualcosa in quell'oggetto che costringe il discorso - e la prassi - a culturalizzarsi o a naturalizzarsi: ad accettare, come in un gioco di scatole cinesi, l'azzardo di un rimando dal livello intrapsichico a quello intersoggettivo, al sistema familiare, ai microsistemi sociali (scuola, ambiente di lavoro, ecc.), al sistema sociale totale, con le sue infrastrutture e sovrastrutture, e, infine, alla storia; o, viceversa, a rifiutarlo, con un procedimento inverso che finisce sempre per esitare nella spirale vertiginosa delle predisposizioni o determinanti biologiche. Metacontestualizzazione e decontestualizzazione, compresi i tentativi di mediazione, giungono sempre al mistero delle cause ultime, che, sul piano della cultura, sembra porsi ad una distanza infinita dall'evento, e pone il problema dell'incommensurabilità; sul piano della natura, slitta al di là di ciò che si sa e forse che si potrà sapere, e pone il problema dell'inconoscibilità.

L'entità del problema permette di comprendere sia i riflussi intellettualistici che i rigetti antintellettualistici; il dedicarsi, degli uni, ad una ricerca di cui è difficile definire la verificabilità (la falsificabilità); degli altri, al che fare quotidiano sorretto o dalla fede o dall'individuazione degli obiettivi di lotta o dal rimando del gioco ad una dialettica sociale che, sola, si ritiene produttrice di cultura. In ogni caso, si ricade nell'uno o nell'altro dei corni ideologici: o si sta dalla parte della cultura contro la natura, o dalla parte della natura - o dei bisogni - contro la cultura.

10.

Il problema non è, dunque, se fare teoria o pratica; ma, se sia possibile, in ambito psichiatrico, fare teoria e pratica all'interno di quadri ideologici ai quali non ci si può sottrarre, e la cui cattura va considerata come preliminare. Io penso che sia possibile a patto che:

l) si considerino le teorie e le pratiche, psichiatriche e antipsichiatriche, ideologie non dialettiche;

2) si consideri questa adialetticità non come la conseguenza di presupposti intrinseci alle teorie e alle pratiche - che, pure, esistono - bensì come il riflesso ideologico della struttura stessa del disagio psichico;

3) si consideri infine possibile applicare ad un oggetto adialettico il metodo dialettico.

Non posso esimermi dall'illustrare discorsivamente assiomi che possono apparire un po’ ostici. E' l'uovo di Colombo assumere il disagio psichico come una realtà la cui struttura contiene irrisolte le contraddizioni da cui muovono le ideologie che si edificano su di essa, riflettendo l'una e misconoscendo l'altra, per rimanere fedeli alla natura non dialettica del disagio stesso. Assumendo questo carattere adialettico come la specificità del disagio psichico all'interno dei fenomeni umani, senza misconoscerne peraltro le contraddizioni, cosa ne segue? Che occorre esplorarne i due livelli strutturali, l'uno votato al mantenimento della tradizione, l'altro anelante al cambiamento, e capire perché, pur appartenendo entrambi, al fluire del movimento della storia - personale e sociale - essi, anziché integrarsi, tendono a rimanere in posizione irriducibile, lacerando l'esperienza del soggetto o cristallizzandola in uno status non evolutivo. E, infine, capire se e come sia possibile introdurre la dialettica in un sistema che ne difetta pur necessitandone: intendendo per sistema sia l'evento psicopatologico che la scienza - teoria e pratica - che lo assume come oggetto.

11.

Penso d'aver detto poco, troppo, poco di troppo e troppo di poco. L'intento, comunque, non era di creare una suspence, bensì un'atmosfera che deluda alcune comprensibili aspettative, quali: la fame di sapere, che ha sempre come oggetto cibi pronti, e la fame di tecniche, che è alla ricerca di un punto su cui applicare una leva impotente; e ne esalti delle altre, e cioè: il saper di aver fame di sapere e di tecniche in una condizione perennemente minacciata dai rischi dell'intellettualismo e del praticismo.

Ma una ricerca, che non pretenda di porsi come pura, in un campo la cui impurità ideologica va accettata preliminarmente, non può prescindere da un'ipotesi.

L'ipotesi è che il disagio psichico, qualunque forma esso assuma, e quali che siano le determinanti biologiche e sociali, appartiene sempre ad un ambito culturale; ch'esso sia determinato, strutturato e reso non dialettico dal conflitto tra istanze tradizionali e istanze di liberazione; ch'esso sia un dramma soggettivo, intrapsichico, intersoggettivo, i cui livelli strutturali siano riconducibili, sempre, ad agenti storici la cui ideologia qualifica la natura e la cultura in questione, e, di conseguenza, la tradizione e il cambiamento.

E' ancora poco: ma è dal mondo del pressappoco che deve muovere una nuova scienza, accettando, quando il suo oggetto è il disagio psichico, di poter pervenire, nella migliore delle ipotesi, ad un grado di precisione minimo: poiché, se la struttura del disagio psichico cristallizza il fluire del movimento reale, il reale, non di meno, fluisce, andando verso nuovi equilibri e nuovi squilibri, nuove tradizioni e nuovi bisogni di libertà, nuove forme ideologiche e nuove esigenze di sapere.

Una nuova scienza del disagio psichico, che si ponga come scienza microstorica, contestuale e dialettica, non ambisce alla cattura di un oggetto, che considera parte di un tutto in divenire, con le sue inerzie e le sue rotture, bensì alla definizione di una struttura, che esisterà finché esisteranno scarti nei livelli del reale in divenire, e, ancor più, di un metodo.

La conciliazione di teoria e di prassi è, infatti, questione di metodo.

Consigli bibliografici:

F. BASAGLIA, Follia/Delirio in Enciclopedia Einaudi, vol. IV (riportata integralmente in "SCRITTI", vol. II, Einaudi).

S. FREUD, "Il disagio della civiltà", in Opere complete, vol. 9, Boringhieri

E. LEACH, Natura/Cultura, in Enciclopedia Einaudi, vol. XIV

G. DUBY, "Ideologia e storia sociale' in "Fare storia", a cura di J. Le Goff, Einaudi.

F. BRAUDEL, 'Una grammatica della civiltà' in "Il mondo attuale", Einaudi

G. MINGUZZI, Intervista in "Il giardino dei gelsi", a cura di E., Venturini, Einaudi

G. JERVIS "Il buon rieducatore", Feltrinelli

 

Categorie da approfondire

Conservazione/ cambiamento; Tradizione/mutazione, ecc.

Ideologia (sovrastruttura, mentalità,)

Scienza (verificabilità, falsificabilità, rotture epistemologiche)

Teoria/pratica

Normalità/anormalità

Evento / Congiuntura / Struttura

Comprensione/spiegazione

Desiderio/bisogno

Dialettica

Psicologismo / Sociologismo

Sistema