Verso una formalizzazione della psicopatologia


Introduzione alla lettura

Nel 1990, la ricerca condotta per otto anni era approdata a risultati rilevanti, per quanto, senza che allora me ne rendessi conto, destinati ad ulteriori sviluppi teorici, e il corso di formazione degli operatori si poteva ritenere completato.

La lunga consuetudine degli incontri aveva però creato una certa dipendenza nel gruppo. Per ciò qualcuno propose di continuarli sia pure in modo informale. Non ero molto convinto che la cosa potesse risultare utile, perché, in quegli anni, mi stavo dedicando ad approfondire la teoria delle catastrofi con l'intento di giungere ad una formalizzazione, anche solo analogica, del modello psicopatologico struttural-dialettico. Potevo dunque solo rendere il gruppo partecipe di questo approfondimento.

Le mie previsioni erano fondate. Avviati nell'inverno del '91, gli incontri furono solo tre e si esaurirono nel febbraio del 1992 con un qualche sconcerto dei partecipanti per il nuovo modo di affrontare la fenomenologia psicopatologica.

I tre articoli che seguono sono stati scritti per quegli incontri.

Rileggendoli oggi, non posso evitare di considerare quanto in essi c'è di suggestivo e di approssimativo.

L'intuizione che la teoria delle catastrofi offra alla psicopatologia dinamica un modello di straordinario interesse, soprattutto in riferimento al conflitto tra bisogni intrinseci e funzioni psichiche (Io, Super-Io, Io antitetico), penso che sia fondata. Essa, tra l'altro, fornisce la chiave esplicativa dell'invarianza della sintomatologia psicopatologica nonostante essa si attivi nei più vari soggetti, che hanno alle spalle le più diverse esperienze di vita. La dinamica catastrofica consente di capire perché l'intensificazione di un conflitto strutturale, giunto ad un limite critico, non può non esitare nella riorganizzazione dell'esperienza soggettiva in forme che sono più o meno costanti e del tutto avulse dalle variabili che definiscono l'esperienza stessa come unica e irripetibile.

La teoria delle catastrofi, adottata nell'ottica del modello struttural-dialettico, offre anche la chiave esplicativa del carattere più specifico dell'universo psicopatologico: il suo essere un continuum.

Rimane il fatto che uno psichiatra non può varcare confini che richiedono conoscenze matematiche specialistiche, che nessun matematico, a mia conoscenza, tenta di applicare gli strunmenti di cui dispone alla psicopatologia, sfuggendo forse l'interesse di questo terreno di ricerca, e che la psichiatria nel suo complesso, scissa tra l'orientamento nomotetico della nosografia e quello idiografico, che mira ad interpretare i fenomeni psicopatologici sulla base dell'esperienza del singolo soggetto, non manifesta alcun interesse per il problema della formalizzazione.

Non è un caso che i Seminari si sono conclusi riecheggiando il problema enunciato nell'Ouverture, concernente l'invarianza delle "forme" psicopatologiche che si definiscono a partire dalla varietà delle esperienze soggettive. Rimane questo il nodo ultimo della psicopatologia teorica: un nodo che, senza presunzione, la teoria struttural-dialettica può affermare, almeno nell'essenziale, di avere risolto.


1. La formalizzazione della psicopatologia strutturale nell'ottica della teoria delle catastrofi

Come si è accennato nell'Introduzione, la psicopatologia teorica, che ricava dalla pratica psichiatrica i suoi oggetti, non può non ambire allo statuto di disciplina autonoma nell'insieme delle scienze neurobiologiche, umane e sociali. Sarebbe assurdo negare le sue intersezioni con queste scienze, ma il suo carattere interdisciplinare non comporta necessariamente né l'eclettismo né la subordinazione ad esse.

Gran parte delle difficoltà epistemologiche che hanno reso incerto lo statuto scientifico della psicopatologia sono da ricondursi ai vari tentativi, alcuni dei quali analizzati criticamente nel secondo capitolo, di costruire modelli psicopatologici nell'ottica della psicologia ad orientamento dinamico, della teoria dei sistemi, del modello medico. Superare questa impasse comporta la definizione dei caratteri specifici, irriducibili, degli oggetti psicopatologici e il tentativo di formalizzarli, e cioè di ricondurli entro schemi matematici. Gli oggetti psicopatologici, nella nostra accezione, sono le strutture, e cioè forme di esperienze soggettive che, a partire da un conflitto irriducibile e adialettico tra i bisogni, mirano comunque a mantenere o a restaurare un equilibrio che consenta al soggetto di preservare un legame sociale, reale e/o simbolico, e nel contempo di sentire la sua identità personale, sia sul piano attuale che evolutivo, non compromessa dal legame stesso e dal debito di appartenenza che da esso discende.

Il punto di equilibrio, per la genesi del conflitto psicopatologico, dipende, come noto, dalla funzione superegoica, e più precisamente dall'insieme delle prescrizioni, proscrizioni, autorizzazioni che discendono dal quadro di valori sociali cui essa fa riferimento.

Dato un conflitto psicopatologico, l'Io non dispone di altre possibilità che non siano riconducibili ad un qualche grado di adattamento a quell'insieme, il discostarsi dal quale genera l'angoscia sociale e morale. E' ovvio che, parlando di un punto di equilibrio, si sacrifica il complesso alla semplicità della metafora.

Un qualunque sistema soggettivo strutturato psicopatologicamente, e dunque assunto come relativamente isolato dall'ambiente in virtù della struttura, cionondimeno è un sistema dinamico, che oscilla dunque intorno a posizioni di equilibrio. Il carattere non evolutivo della struttura psicopatologica è definito dal riconoscere essa, sia sul versante soggettivo che comportamentale, un ciclo limite.

Con una certa approssimazione, rappresentando il sistema soggettivo come uno spazio vettoriale, una struttura psicopatologica astratta può ricondursi ad una configurazione del genere:

Per quanto approssimativa, questa rappresentazione può risultare di una qualche utilità ai nostri fini. Essa visualizza il fatto che la posizione di equilibrio mantenuta da una struttura psicopatologica è sempre e comunque devoluta a soddisfare il bisogno di legame sociale secondo il sistema di valori veicolato dalla funzione superegoica. Benché la frustrazione del bisogno di opposizione/individuazione sia sempre più rilevante, è evidente che anche il bisogno di appartenenza/integrazione è rigidamente limitato nelle sue possibilità di dispiegarsi socialmente.

Il ciclo limite definisce le oscillazioni del sistema compatibili con la funzione superegoica, e quindi con la stabilità del sistema stesso. Le possibilità del soggetto di pensare, sentire, agire fuori del ciclo limite, e dunque di utilizzare potenzialità e gradi di libertà propri del suo spazio mentale, sono limitate dall'angoscia e dal pericolo di una catastrofe strutturale, di una perdita irreversibile di stabilità.

Lo schema proposto può consentire anche di caratterizzare le due configurazioni dinamiche che animano l'universo psicopatologico: la configurazione rigida e quella fluttuante.

La configurazione rigida, esemplarmente espressa dalla struttura ossessiva, è caratterizzata da una tendenza a ridurre le oscillazioni anche all'interno del ciclo limite; a mirare, insomma, verso l'equilibrio massimo identificato con il centro del ciclo. La configurazione fluttuante, esemplarmente espressa dalla struttura isterica, è caratterizzata invece da una tendenza ad ampliare le oscillazioni all' interno del ciclo limite, simulando una libertà il cui confine coincide, però, inesorabilmente con il ciclo stesso.

Il discorso diventa più complesso se consideriamo che i bisogni, rappresentati nello schema come vettori sono mediati, nella struttura psicopatologica, da sistemi di significati più o meno consapevoli. Ora, pur assumendo la funzione superegoica e la funzione egoica come espressione di due diversi sistemi di significati, è chiaro che una loro rappresentazione diventa estremamente complessa.

Un sistema soggettivo è riconducibile a due coppie di variabili: i bisogni con le loro matrici psicobiologiche e i sistemi di significati acquisiti dal soggetto e/o elaborati cognitivamente. Ma, ciò detto, è chiaro che i rapporti di dipendenza non sono facili da definire. Sia all'interno di ogni coppia che tra gli elementi delle due coppie, ogni variabile può risultare dipendente o indipendente: in breve, causa o effetto del valore assunto da un'altra.

A livello psicopatologico, ciò non è meno vero che a livello di normalizzazione, come è attestato dal fatto che una struttura rigida può repentinamente fluttuare, che una struttura fluttuante può stabilizzarsi su di un registro rigido, che le sollecitazioni dei bisogni possono indurre repentine ristrutturazioni dei sistemi di significati e che questi, a loro volta, possono attivare brusche perturbazioni psicobiologiche.

Nonostante la fenomenologia, insomma, il concetto di struttura implica, sia a livello di bisogni che di sistemi di significati, un qualche grado di turbolenza;. Ora, laddove un sistema dinamico riconosce turbolenze, sembra difficile formalizzarlo in termini di leggi. Ma occorre considerare che questa difficoltà è reale solo laddove si danno parametri molteplici.

In ambito psicopatologico, almeno tenendo conto della teoria formulata, i parametri sono coppie di variabili che concernono piani diversi dell'esperienza: il piano psicobiologico per quanto riguarda i bisogni, il piano dei significati per quanto riguarda la traduzione dei bisogni in termini soggettivi. Questo fonda, a nostro avviso, la possibilità di una formalizzazione della teoria psicopatologica nell'ottica della teoria delle catastrofi.

Dei molteplici modelli offerti da questa teoria, il più pertinente ai nostri fini è la cuspide, che si origina allorché un substrato è animato dalla tensione tra due variabili di stato. La dinamica del rapporto tra le due variabili dà luogo, sulla superficie di equilibrio ad una plica che definisce, nell'una e nell'altra direzione, una repentina trasformazione degli effetti. Assumendo, in prima istanza, i bisogni, in quanto attrattori psicobiologici, come variabili di stato, e la coscienza fenomenologica; come superficie di equilibrio, la struttura di personalità si può rappresentare nel seguente modo :

Si tratta di uno schema astratto, che non ha alcuna corrispondenza reale. Nonostante i bisogni, in quanto forme affettive innate, veicolino la coscienza viscerale di sé e dell'altro, è il processo evolutivo della personalità, attraverso le interazioni interpersonali e le elaborazioni cognitive, a definire in concreto la differenziazione di sé e dell'altro, l'attribuzione a sé e all'altro di connotazioni specifiche e il tipo di legame che si stabilisce. La programmazione genetica dei bisogni, caratterizzata da fasi ricorrenti di intensificazione dell'uno o dell'altro, determina, laddove il processo non sia interferito da circostanze ambientali totalmente sfavorevoli, una evoluzione per crisi: si danno, in breve, nel corso dell'evoluzione della personalità, catastrofi di opposizione/individuazione, caratterizzate da un certo grado di conflittualità con l'ambiente, e catastrofi di appartenenza/integrazione, caratterizzate dal ristabilirsi dell'armonia.

Il grafico rappresentato in precedenza va, dunque, arricchito anzitutto dai momenti evolutivi di dispiegamento dei bisogni:

Ogni fase evolutiva, a seconda della prevalenza della spinta dell'uno o dell'altro bisogno, determina una catastrofe fenomenologica a livello di soggettività, che può esprimersi o meno a livello comportamentale.

Ma è ovvio che questo schema è ancora astratto: il piano psicobiologico e il piano fenomenologico della coscienza soggettiva non sono in relazione diretta e immediata. La coscienza non si dà se non in virtù di categorizzazioni dell'esperienza, e dunque di significati. Tra i due piani, occorre, dunque, inserire un terzo: il piano dei significati, che è una rete che si integra lentamente mirando a mediare la tensione dialettica tra i bisogni, e di conseguenza, la tensione dialettica tra sé e l'altro, sia sul piano della interiorizzazione e della memoria che sul piano dell'interazione attuale.

Tenendo conto di questo piano, la struttura della personalità si può rappresentare nel modo seguente:

E' evidente che il dispiegamento dei bisogni, l'integrazione della rete dei significati e la fenomenologia della coscienza soggettiva e comportamentale sono processi correlati, che mirano ad un punto di equilibrio ideale. Nella realtà, ogni personalità oscilla entro un ciclo limite che assicura la dialettica dei vari piani dell'esperienza.

L'utilizzazione psicopatologica di questo schema permette di formalizzare alcune circostanze importanti. Anzitutto, riesce chiaro che esistono due livelli etiologici: il primo da ricondurre ad un mancato dispiegamento dei bisogni dovuto a circostanze ambientali e interattive particolarmente sfavorevoli; il secondo dovuto al dispiegamento dei bisogni in una rete di significati alienati, acquisiti nell'interazione con l'ambiente ed elaborati soggettivamente, che li pongono in opposizione e li scindono, comportando il sacrificio dell'uno a favore della realizzazione dell'altro. Le psicosi infantili, nelle due varianti individuate dalla Mahler, dell'autismo e della simbiosi, sono immediatamente riconducibili al primo livello: all'atrofia - si sarebbe portati a dire - di uno dei due bisogni.

Il secondo livello concerne tutte le condizioni psicopatologiche che si definiscono a partire da un certo grado di strutturazione emozionale e cognitiva della personalità, e quindi dalla prima adolescenza in poi.

Per il primo livello, si potrebbe parlare di una psicopatologia malformativa, per il secondo, con proprietà di linguaggio, di una psicopatologia strutturale. Naturalmente, non si può ignorare che i due livelli possono essere entrambi coinvolti nella genesi dei fenomeni psicopatologici; è evidente che una distorsione interattiva dei bisogni può promuovere con facilità, qualora essa non dia luogo ad un arresto dello sviluppo della personalità, una integrazione di significati alienati, come pure che il persistere di circostanze ambientali sfavorevoli può dar luogo ad interazioni interpersonali che determinano un'integrazione di significati sempre più scissi ed alienati.

L'ambiente interno rappresentato nel grafico, pur comportando a livello di sistemi di significati, l'interiorizzazione dell'ambiente esterno, non può mai essere considerato isolato dalle interazioni sociali. Si dà però la possibilità di definire, all'interno del continuum psicopatologico, una soluzione di continuità: al di qua, per quanto strutturate, le esperienze psicopatologiche sono influenzabili, positivamente e negativamente, dall'ambiente; al di là, le esperienze sono determinate intrinsecamente.

Si dà dunque la possibilità di distinguere ulteriormente una psicopatologia reattiva e una psicopatologia strutturale in senso proprio. Che quest'ultima sia determinata intrinsecamente, non significa che le strutture psicopatologiche ;siano in assoluto ininfluenzabili. Lo sono (come è verificabile sul piano terapeutico), ma solo in virtù del fatto che il soggetto utilizza le interazioni per cambiare, dall'interno, i sistemi di significati che sottendono la struttura.

Il grafico rappresentato consente di spiegare la genesi delle strutture psicopatologiche, riconducendole ad una mancata catastrofe evolutiva (in una qualunque fase critica dello sviluppo della personalità) dovuta a sistemi di significati che la impediscono leggendo in essa una minaccia per l'identità personale e/o sociale. La spinta di un bisogno, anziché dispiegarsi a livello di significati, di coscienza soggettiva e di comportamento, viene utilizzata per rafforzare l'equilibrio strutturale preesistente, e cioè per conservare e perpetuare un equilibrio precario. Attraverso questo smistamento, si definisce un ciclo limite psicopatologico, destinato a frustrare e ad inattivare il bisogno, significato e vissuto come minaccioso. L' equilibrio che cosi viene raggiunto è comunque instabile, quale che sia il livello ove esso si situa. Ma il destino di tale equilibrio dipende dalle interazioni ambientali, dalla quota dei bisogni frustrati e dalla rete dei significati acquisiti ed elaborati.

La somma di queste variabili dà luogo a configurazioni strutturali rigide e fluttuanti. Sia le une che le altre possono mantenersi indefinitamente, come pure, per la spinta del bisogno frustrato, andare incontro a repentine destrutturazioni, come accade nel corso degli episodi psicotici. Gli episodi psicotici possono poi ricomporsi, per interventi terapeutici e/o spontaneamente, e risolversi nel recupero dell'equilibrio strutturale preesistente, o persistere in un nuovo equilibrio più precario rispetto a questo.

Non occorre molto per capire che lo schema esposto consente di risolvere con facilità il problema della malattia mentale. Nell'accezione epistemologica moderna, malattia, nonché un processo morboso, va inteso come un tentativo dell'organismo psicofisico di adattare i suoi equilibri omeostatici a condizioni perturbanti. Ora, da questo punto di vista, tutta la psicopatologia rientrerebbe nell'ambito della malattia.

Ma, a nostro avviso, per non incorrere in equivoci, è giusto limitare il concetto di malattia mentale a due circostanze: gli episodi psicotici acuti e le cronicizzazioni psicotiche. I primi sono caratterizzati da bruschi squilibri a livello psicobiologico che, pur motivati dalla necessità di dispiegamento dei bisogni, non trovano, nella rete dei significati e nella situazione reale di vita del soggetto, possibilità di integrazione dialettica. Di conseguenza, essi tendono ad autonomizzarsi rispetto al piano dei significati e alla struttura della coscienza e, autoalimentandosi, a indurre un trascinamento della stessa. Nelle condizioni di cronicizzazione, viceversa, è la rete di significati alienati, irrigidita sia dal tempo sia dalle circostanze interattive che da eventuali cure psicofarmacologiche continuative, ad indurre una sorta di spegnimento o di atrofizzazione del bisogno frustrato.

La formalizzazione esposta offre anche preziose indicazioni sull'obiettivo dell'intervento terapeutico dialettico, che non può consistere che nell’indurre una catastrofe evolutiva, atta ad integrare la quota di bisogni frustrati nella rete dei significati e nella pratica della vita.

In un certo qual modo, paradossale, l'obiettivo terapeutico dialettico consiste nell’indurre il soggetto a realizzare la minaccia che la struttura psicopatologica mira a scongiurare, dando ad essa un significato esperienziale e vitale. Se, e come ciò sia possibile, sarà discusso in un saggio successivo. E' ovvio che la formalizzazione proposta non è che un modello ipotetico, la cui validazione scientifica comporta la quantificazione della variabile in gioco.

Come quantificare i bisogni e i sistemi di significati nessuno lo sa. La pratica terapeutica offre numerose verifiche sperimentali dal fatto che, quando una quota di bisogni frustrati, vissuta come minacciosa per l'identità personale e sociale, si dispiega e, attraverso una significazione adeguata, induce una pratica della vita più soddisfacente, le tensioni strutturali si allentano. Ciò allude a leggi di equilibrio tra bisogni, reti di significati, superficie fenomenologica e comportamentale della coscienza e ambiente esterno che hanno un carattere oggettivo.

Su questa via, la ricerca può proseguire, e, forse, offrire alle scienze ausiliarie - dalla neurobiologia alla sociologia - preziose indicazioni epistemologiche.

2. Appunti sulla formalizzazione in psicopatologia

Fin da quando, nel corso della ricerca, si è cominciato a parlare di strutture psicopatologiche, si è configurata la possibilità di un modello psicopatologico formalizzato. Ancora più tale possibilità si è resa evidente, allorché l’analisi fenomenologica delle strutture cliniche - riconducibili a cinque forme elementari - ha portato alla conclusione che esse rappresentino varianti di un'unica struttura conflittuale profonda, caratterizzata dalla scissione dei bisogni e dall'opposizione irriducibile tra sistemi di significati costruiti sui bisogni scissi.

Si tratta, ora, di vedere, se questa matrice univoca sia di fatto formalizzabile, e in rapporto a quale modello offerto dalle scienze matematiche. A tal fine, posta l'equivalenza tra tutti i fenomeni psicopatologici, considereremo un singolo fenomeno, isolato da un contesto di esperienze soggettive, ed esemplare: un rituale ossessivo.

A livello fenomenico, il rituale si presenta come un'azione x da eseguire per realizzare un effetto y. In questa forma, esso è null'altro che un comportamento motivato da un qualche bisogno. Che cosa è dunque che lo specifica come comportamento psicopatologico? Quale è la singolarità che, nel campo di coscienza del soggetto che lo agisce o dal punto di vista di un osservatore, ne definisce il carattere qualitativamente diverso rispetto ad infiniti altri comportamenti omeostatici?

Tale singolarità è riconducibile a tre aspetti: il carattere obbligatorio con cui l'azione x affiora nel campo di coscienza; l'azione da compiere che, spesso anche se non sempre, si configura come poco comprensibile logicamente o affatto assurda, sia soggettivamente che oggettivamente; l'effetto la cui realizzazione viene associato all'azione x il cui nesso con la stessa, spesso se non sempre, è vissuto soggettivamente ma poco comprensibile o affatto assurdo oggettivamente.

Un esempio può permettere di apprezzare queste caratteristiche singolari. Un soggetto avverte di avere sete, si dirige in cucina e versa l'acqua in un bicchiere. Non può bere, però, se non esegue preliminarmente un rituale, che consiste nel contare mentalmente i numeri dispari sino ad una cifra costante senza commettere errori e che non va superata. Dato un bisogno fenomenico omeostatico - la sete - la realizzazione del comportamento adeguato a soddisfarlo è vincolata e subordinata all'esecuzione di un altro comportamento apparentemente insignificante dal punto di vista omeostatico.

Questo secondo comportamento si può definire parassitario perché le regole di esecuzione, rigidamente programmate, nonché prodotte dalla coscienza, si impongono ad essa. In virtù di cosa, dato che il loro valore logico è indefinibile? In virtù di un valore emozionale, che il soggetto è sempre in grado di comunicare. L'esecuzione del rituale, a livello vissuto, è funzionale ad impedire un'attivazione dei livelli di ansia. In questo senso, anche il comportamento rituale è omeostatico.

Per quanto concerne il nesso tra questo e i livelli di ansia, esso è costantemente riconducibile al fatto che la mancata o difettosa esecuzione del rituale evoca, nel soggetto, la paura che possa accadere qualche cosa di male a se o a qualcun'altro (il più spesso, ma non sempre, a figure familiari). Nesso emozionale non logico, che va, pertanto, indipendentemente dai suoi significati soggettivi, logicizzato.

Ciò è possibile in virtù del fatto che il comportamento in questione - il bere -, laddove si dà un rituale, può essere liberamente agito solo e solo se il soggetto subordina e fa precedere l'azione libera, corrispondente al suo bisogno e alla sua volontà personale, da un'azione obbligata, tale che la sua libertà si riduce ad eseguirla secondo regole date e assolutamente non modificabili. Considerando che l'obbligo implica il riferimento ad una legge e ad un'autorità che ne impone il rispetto, un comportamento rituale è interpretabile nei termini di una necessità di manifestare preliminarmente ossequio ad una legge (e ad un'entità) per essere autorizzati ad agire liberamente. Ma questa definizione non basta a spiegare il rituale.

La legge in questione, non meno dell'autorità che ne impone il rispetto, non è chiara: anzi, il più spesso appare arbitraria e illogica. Ma è proprio questo aspetto a consentire un’interpretazione più profonda. Ciò che di fatto il rituale impone è di sottomettere la volontà personale ad una legge anche se essa appare assurda; in nome di che cosa? In nome degli effetti della sottomissione. L’esecuzione del rituale pone, infatti, il soggetto o qualcun'altro al riparo da una catastrofe. Ciò indurrebbe a pensare un rapporto causale tra la mancata esecuzione e la catastrofe. Tale rapporto, di fatto, a livello vissuto, si pone. Il più spesso, anche se non sempre, è un rapporto indiretto, riconducibile ad una volontà superiore (divina ma anche indefinibile) che, preso atto dell'inadempienza, provvederebbe ad indurre il male del soggetto o di qualcun altro. In ogni caso, la colpa di ciò sarebbe del soggetto: colpa temibile in quanto irrimediabile.

Il rituale, in ultima analisi, obbliga il soggetto ad eseguire un comportamento x apparentemente assurdo per soddisfare i comandi, indecifrabili, di una volontà superiore, e scongiurare un male, per sé o per qualcun'altro, di cui egli sarebbe responsabile nel caso si sottraesse all'obbligo.

Il livello fenomenologico, adottato rigorosamente, non comporta se non intuitivamente, il riferimento ad un conflitto. Questo risulta evidente solo se si tiene conto di altre circostanze, spesso evidenti anche in relazione ad un rituale semplice quale quello adottato come esempio. Tali circostanze concernono non tanto le resistenze che il soggetto oppone all'esecuzione, spesso inesistente a livello di vissuto, quanto le difficoltà incomprensibili, gli errori frequentemente commessi che obbligano la ripetizione del rituale. Con ciò non solo si comprova l'esistenza di un conflitto dinamico, ma se ne apprezza la natura strutturale, che oppone vanamente la volontà personale ad una volontà superiore, alla fine, deve essere riconosciuta ed ossequiata.

Il livello fenomenico del rituale, esplorato con attenzione, contiene dunque un evidente riferimento ad un altro livello, strutturale e dinamico, laddove occorre ammettere un conflitto tra enti di un qualche tipo.

La spiegazione del rituale postula dunque la definizione dei livelli esperienziali, delle strutture di questi livelli, degli enti in conflitto e, infine, della traduzione fenomenica del conflitto stesso. Ci si può chiedere se tale spiegazione sia possibile ponendo tra parentesi sia l'ontogenesi dell'esperienza soggettiva in questione sia i contesti sociali di appartenenza e di interazione con cui essa si correla. Sul piano formale, non v'è dubbio.

Occorre ammettere che l'esperienza soggettiva, nella sua totalità (livelli consci e inconsci) riconosce bacini o campi semantici ciascuno dei quali è strutturato da valori variabili, o, più precisamente, da coppie di valori variabili. Tali coppie sono: libertà personale/obbligo, innocenza/nocività, responsabilità/non responsabilità, immunità/punizione.

Ogni campo semantico è organizzato da una relazione che associa ad un valore indipendente un valore dipendente. In linguaggio matematico, ogni campo semantico è una funzione. I sistemi di significati attivi a livello di esperienza soggettiva sono riconducibili a funzioni di funzioni. E' evidente che il comportamento rituale corrisponde ad un sistema di significati che associa all'esercizio della libertà personale una nocività di cui il soggetto è responsabile e che comporta, dunque, una punizione, e postula pertanto la sospensione di quell'esercizio nella forma di sottomissione ad un obbligo che scongiura il danno e la punizione. Le resistenze, inconsce, che il soggetto oppone a tale sistema di significati sono agevolmente riconducibili ad una rivendicazione di libertà che, però, non può essere agita in conseguenza delle angosce di colpa e delle aspettative di punizione che ad esse si associano.

Come giustificare la costante prevalenza del primo sistema di significati sul secondo? Occorre ammettere che i campi semantici, nonché da valori cognitivi, siano strutturati da potenziali emozionali, e che le differenze di potenziale determinino il comportamento nella misura in cui esse sono atte a minimizzare i livelli di ansia. Il potenziale ansiolitico dei sistemi di significati (superegoici) che determinano il rituale e il potenziale ansiogeno dei sistemi di significati (antitetici) associati all'esercizio della libertà personale non possono essere, ovviamente, spiegati a livello formale. Essi comportano il riferimento al livello ontogenetico: ai modi in cui i dati esperienziali si sono integrati nella forma affettiva innata, giungendo a privilegiare in senso assoluto il mantenimento del legame sociale rispetto alla libertà personale. In senso formale, si può solo ricavare dal rituale il fatto che il bisogno di opposizione/individuazione, in una fase evolutiva di attivazione, è andato incontro ad un processo di significazione negativa: che esso, cioè, si è dispiegato in campi semantici che associano all'esercizio della libertà personale un potenziale emozionale catastrofico (in senso comune).

Ci si può chiedere a cosa serve un esercizio esplicativo del genere. Su di un piano teorico, esso consente, a partire da un sintomo, una visualizzazione (oseremmo dire tridimensionale) della struttura profonda della personalità con i campi semantici, le funzioni che li correlano e i potenziali emozionali che li sottendono. Visualizzazione che, tra l'altro, allude anche al piano psicobiologico (i campi semantici sono mappe cognitive, i potenziali emozionali sono espressioni di equilibri neurotrasmettitoriali...).

Ma è ancora più importante la conseguenza pratica della formalizzazione.

Al di là della presa di coscienza e della necessaria ricostruzione microstorica della genesi del conflitto strutturale, il cambiamento postula una nuova significazione della funzione che associa libertà personale, nocività e punizione, e, in conseguenza di ciò, una sperimentazione della libertà personale che ne dimostri l'innocuità. Ma ciò non può avvenire che in rapporto ad un'intensificarsi dei livelli di ansia, la cui risoluzione consiste nel dispiegamento - significativo e comportamentale - del bisogno frustrato.

E' solo il dispiegamento, infatti, a porre il soggetto di fronte al fatto che la realizzazione di un bisogno riconosce come suo limite l'integrazione del bisogno complementare. In altri termini, per tornare all'esempio, che la libertà, per assumere un senso umano, non può porsi come infinita - e cioè come totalmente immune da vincoli -, non può prescindere dalla valutazione delle conseguenze del suo esercizio per il soggetto agente e per gli altri. Che essa, infine, postula un sistema di valori da cui dipende.

Ciò che importa è che tale sistema di valori sia assimilato: vissuto dal soggetto come espressione della volontà personale, e di conseguenza rispettabile e/o mutabile. Tutti i concetti che abbiamo adottato nel tentativo di formalizzare un fenomeno psicopatologico singolo - un rituale - sono propri del modello matematico che va sotto il nome di teoria delle catastrofi.; E' evidente che si tratta ancora di una formalizzazione sui generis, approssimata: né i potenziali emozionali ne i valori cognitivi che strutturano i campi semantici sono, ovviamente, quantificabili. Postulando due forme affettive innate, orientate ad integrare dialetticamente valenze emozionali e valenze cognitive, e quindi a funzionare come attrattori dello sviluppo e della strutturazione della personalità, la teoria dei bisogni si pone, però, nel campo dei modelli psicopatologici, come la teoria se non più prossima più aperta alla formalizzazione.

Se questo approccio teorico interessa, lo si potrà approfondire. Ma è importante tenere conto che esso non è decisivo da un punto di vista pratico. Per realizzare un intervento terapeutico dialettico, essenziale risulta solo la nozione di dispiegamento, che coglie, in ogni esperienza psicopatologica, la necessità che una quota di emozioni, significata negativamente e dunque frustrata, giunga ad essere significata positivamente - nel suo senso umano - e quindi agita.

Ciascuno può decidere liberamente a quale livello - dall'astrazione teorica alla formula pratica - soddisfare il proprio bisogno epistemologico. L'astrazione teorica - sia detto en passant - non aumenta necessariamente di fatto il potere tecnico: essa è efficace soprattutto per spiegare le enormi difficoltà del cambiamento terapeutico - che implicano ristrutturazioni complesse dei potenziali emozionali e dei campi semantici - e, talora, gli insuccessi terapeutici.

Roma, gennaio 1992

 

3. Ancora sulla matrice conflittuale

Esaminiamo la tavola psicopatologica. Per quanto di certo incompleta e perfezionabile, essa sintetizza pressoché tutti i nodi teorici più importanti del modello psicopatologico struttural-dialettico, ricavato dalla teoria dei bisogni. La matrice strutturale conflittuale che abbiamo assunto come morfogenetica dell'universo psicopatologico risulta al centro. Essa comporta un'opposizione irriducibile tra libertà e costrizione: opposizione che, ovviamente, si pone tra volontà propria personale e volontà altrui, sociale.

Replicata superegoicamente in virtù di interazioni interpersonali, quest'ultima veicola valori culturali e riproduce, dunque, all'interno della personalità, una potenza sociale, trascendente . In rapporto al grado di coercizione che questa esercita, la volontà personale si configura orientata verso un esercizio di libertà che non è mai autentico bensì inesorabilmente conflittuale: dall'estremo della subordinazione passiva (che cova l'opposizionismo o può essere di fatto opposizionistica) all'estremo opposto della sfida mirante all'assoggettamento dell'altro (in un contesto interpersonale) o alla trasgressione anarchica. Identificato il conflitto di base psicopatologico nell'interazione tra volontà propria e volontà altrui, l'ordinamento dell'universo psicopatologico si configura naturalmente come binario a seconda che, nell'organizzazione dell'esperienza soggettiva (dal livello dei vissuti a quello dei comportamenti), prevalgano i valori che fanno capo alla volontà altrui o quelli che fanno capo alla volontà propria (inevitabilmente antitetici).

E' superfluo sottolineare che l'organizzazione binaria è solo fenomenica: dal punto di vista dinamico, i valori superegoici sono sempre e comunque prevalenti, poiché i valori antitetici, posti in essere, o sono colpevolizzati o promuovono una repressione esterna o realizzano direttamente una punizione (come, per esempio, nelle esperienze anoressiche).

Se osserviamo la tavola, riesce evidente che la matrice strutturale conflittuale ha una potenzialità di dispiegamento elevata. Le strutture psicopatologiche, che abbiamo individuato, sono le forme elementari del dispiegamento: come si è detto più volte, si tratta di oggetti teorici, che non hanno una corrispondenza immediata a livello clinico-fenomenico.

L'organizzazione dell'universo psicopatologico, come risulta dalla tavola, non è sindromica: essa fa capo, di fatto, a insiemi di vissuti, sintomi, comportamenti che si differenziano in campi organizzati da valori cognitivi ed emozionali: campi semantici connotati emotivamente.

Per esempio, l'ipocondria fa capo ad un sistema di significati che vincola la sopravvivenza al mantenimento di un rapporto di dipendenza rispetto ad un altro - persona fisica o ruolo istituzionale - al cui potere, rassicurante, il soggetto deve subordinarsi. Il potenziale emozionale associato al campo, potenziale di angoscia che incombe sulle pretese di autonomia, determina i vissuti ipocondriaci, il grado e le forme della dipendenza.

Per fare un altro esempio, l'eccitamento maniacale fa capo ad un sistema di significati che identifica la libertà personale nell'espressione di una volontà totalmente indifferente alla volontà sociale e capace di sfidarla. Il potenziale emozionale associato al campo inibisce, per un certo periodo, la paura e la sensibilità morale.

I valori emozionali e cognitivi prevalenti nei campi psicopatologici sono, all'interno delle singole esperienze soggettive, organizzati in forme complesse in rapporto alle variabili - biologiche, soggettive, sociali, culturali - proprie delle personalità individuali.

Lo scarto tra l'ordinamento - chiaro e distinto, si direbbe - della tavola e la complessità, talora notevolissima, delle esperienze soggettive non può essere in alcun modo azzerato in sede teorica. Ma ciò non significa che l'unicità e l'irripetibilità delle esperienze soggettive vadano mitizzate (con il duplice rischio di reificare per un verso la malattia come unica dimensione oggettivabile, e, per un altro, l'ineffabilità dei vissuti).

Concediamoci un paragone. Se, di fronte ad un platano spoglio, mi riprometto di segnare con precisione la foglia che spunterà su di un ramo, non c'è alcuna possibilità che la foglia disegnata corrisponda a quella che spunterà in ogni dettaglio. Ma, se conosco la struttura della foglia del platano e ho una qualche abilità nel disegno, rappresenterò un modello al quale la foglia che spunterà non potrà non somigliare. La logica strutturale semplifica il reale, ma coglie in esso l'essenziale.

Torniamo ora al problema dello scarto tra i campi psicopatologici assunti come dispiegamento della matrice strutturale conflittuale e la singola esperienza soggettiva. Quello scarto pone in luce, per dir così, la creatività della coscienza e dell'inconscio capaci di produrre, nella loro interazione, infinite variazioni su un tema costante. Ma, se si conosce il tema, le variazioni, benché non prevedibili, non possono, una volta prodotte, non offrire criteri di comprensibilità. Questo assunto potrebbe essere esemplificato in modi molteplici. Il più probante è l'attività onirica.

Si tratta, come noto, di un universo prodotto di continuo, un universo mentale complesso spesso frammentario, e non facilmente decifrabile. Ma è esso che offre le prove meno confutabili dell'esistenza dei bisogni e dei conflitti strutturali. Si tratta di un universo allucinatorio, nel quale vengono rappresentati aspetti - persone, oggetti, situazioni, paesaggi, ecc. - tratti dall'esperienza cosciente, e che sappiamo essere però un universo simbolico.

Ma c'è, nel simbolismo onirico, un dato assolutamente sorprendente: tutto ciò che esso rappresenta ha significato umano. Il simbolismo onirico è radicalmente ed esclusivamente antropomorfico. A livello inconscio, in altri termini, non esiste altra realtà che quella che concerne direttamente e immediatamente l'uomo. Questo per quanto concerne il linguaggio. Se, poi, al di la del linguaggio, si ricostruiscono i contenuti - concettuali ed emozionali - dell'attività onirica, si trova inconfutabilmente che essi sono strutturati in maniera tale che si riesce sempre ad organizzarli in termini di rapporto tra io e altro o, meglio, volontà propria e volontà altrui: e si tratta, sempre e comunque, di termini che pongono in luce il conflitto tra le due dimensioni. Naturalmente, ciò è più chiaro in alcuni sogni che in altri: nei sogni che propriamente possono definirsi strutturali. Due esempi aiuteranno a confermare quanto detto. Banali, per quanto significativi.

Il primo sogno è di un giovane di 23 anni, bloccatosi negli studi universitari e regredito in una condizione diagnosticata come ebefrenica, pervaso, peraltro, anche a livello cosciente, da angosce di colpa di ogni genere per il tradimento delle aspettative dei suoi molto elevate (alle quali egli ha corrisposto puntualmente fino alla maturità).

Nel sogno, il soggetto è inseguito in uno spazio aperto notturno da una presenza minacciosa che non può identificare. Egli sa però che l'inseguitore, benché malvagio, non lo è per sua volontà. La relazione che intercorre tra io inseguito e altro inseguitore è quella tra preda e predatore. Lo spazio onirico, in quanto aperto e infinitamente percorribile, rappresenta la libertà del soggetto: libertà infinita, per quanto utilizzabile solo sul registro della fuga.

La distanza finita, l'intervallo tra inseguito e inseguitore, esprime con evidenza il conflitto tra due volontà: l'una protesa a mantenere, aumentare o rendere incolmabile la distanza - orientata dunque verso l'affrancamento dal ruolo di preda -, l'altra ad azzerarla e a realizzare la cattura. L'inseguitore è un altro indefinito, che rappresenta dunque una classe la cui proprietà comune è l'intenzione di catturare, assoggettare, dominare, far cadere il soggetto in sua balia. E' malvagio, pertanto, ma non per sua volontà. L'ambiente notturno rappresenta l'intuizione oscura, in quanto mai afferrata coscientemente, del soggetto di essere stato letteralmente perseguitato negli studi dai suoi, che sono peraltro genitori teneri e impagabili.

Il secondo sogno è di una dottoressa di 36 anni, che, superata una grave condizione nevrotica giovanile, si è separata con uno strappo dalla famiglia per andare a convivere con un medico che ha poi sposato e che, nel corso degli anni, ha realizzato su di lei un controllo totale e oppressivo, che ha attivato una seria depressione pervasa da fantasie di separazione.

Nel sogno, la donna è in macchina su di una strada che non conosce e che, comunque, porta lontano dalla città di residenza. Proprio in prossimità di una curva, essa spinge con energia l'acceleratore. La macchina sbanda e va ad urtare violentemente contro il guard-rail laterale, che si accartoccia. Tremante di paura, la donna scende dalla macchina e vede che al di là del guard-rail c'e un precipizio.

La strada è un tragitto verso un modo di vivere nuovo, autonomo che il soggetto ha imboccato, di fatto, a 18 anni, allorché, presa la patente, ha cominciato ad esplorare un mondo sino allora pressoché precluso per via della dedizione allo studio e della frequentazione di un istituto di suore. Tragitto interrotto dalla nevrosi, che l'ha ricondotta in una penosa dipendenza, e imboccato di nuovo dopo anni, allorché essa decide di andare ad abitare da sola. Tragitto interrotto ancora dalla decisione repentina di convivere con l'uomo che sposerà, e che, in seguito all'esperienza oppressiva di coppia, si ripropone ancora. Ma la meta è preclusa, poiché l'assunzione di un ruolo indipendente - vincolato metaforicamente alla patente di guida - si associa alla percezione di un gusto per il rischio (l'accelerazione, che rende esaltante ma poco governabile la macchina) il cui esito - la sbandata e il precipitare nel vuoto - sono per fortuna scongiurati da un provvidenziale guard-rail. Quanto a questo, è evidente che rappresenta un bisogno di protezione, di contenimento e di repressione della libertà personale interiorizzato, ma che, per funzionare, postula una rappresentazione esterna, una volontà altrui sufficientemente forte da assorbire l'urto delle spinte soggettive maniacali, anarchiche.

Il conflitto violento tra libertà personale e volontà altrui, che fa prevalere quest'ultima, esita dunque nella constatazione della pericolosità della prima. Il tragitto verso l'autonomia si interrompe, e al soggetto non resta altro che constatare i danni prodotti dalle sue spinte anarchiche a sé e agli altri.

Si tratta, come è evidente, di due strutture oniriche semplici e trasparenti (all'osservatore non al sognatore). Esse confermano il radicale antropomorfismo dell'attività di pensiero inconscia che integra i dati esperienziali soggettivi in un sistema di significati la cui complessità è sempre riconducibile ad una matrice semplice che, posta la distinzione tra io e altro o parte e tutto - in termini di logica sistemica e opposizionale - si dispiega sotto forma di rappresentazione simbolica il cui significato ultimo è la subordinazione della parte all'ordine sistemico.

Ma non si può non rilevare che l'antropomorfismo radicale dell'attività di pensiero inconscia, per la quale esistono solo significati umani, apre uno spiraglio epistemologico di infinito interesse nella genesi dell'attività cognitiva e, forse, della stessa cultura. Ancora una volta la ricerca, i cui esiti sono immediatamente fruibili sul piano pratico, si apre su di un orizzonte teorico sconfinato. Arduo da indagare, ma, nondimeno, visibile .

Abbandoniamo, per ora, la suggestione di poter esplorare quest'orizzonte e approfondiamo gli esempi addotti. Ci interessano tre aspetti: la pertinenza strutturale, in rapporto alla tavola e al modello cui essa fa riferimento, dei fenomeni psicopatologici (includendo, tra questi, i sogni); il linguaggio onirico (inconscio); la logica che organizza la strutturazione dei campi semantici e la loro dinamica (dovuta a potenziali emozionali).

I sogni riferiti sono stati definiti sogni strutturali. In entrambi, di fatto, c'è l'espressione del conflitto tra volontà propria e volontà altrui. Nel primo sogno, però, il conflitto identifica il soggetto come essere vulnerabile e attaccabile; nel secondo, il soggetto come onnipotente e rivendicativo.

Nel primo, il soggetto tenta di sottrarsi al dominio della volontà altrui, si ritira; nel secondo, il soggetto, per affrancarsi dal dominio della volontà altrui, la sfida. Se si esamina la tavola, si capirà perché il primo dispiegamento del conflitto strutturale, data la scissione tra bisogni e sistemi di significati che lo sottendono, è e non può essere che un vissuto delirante: vissuto persecutorio, se incentrato su una percezione soggettiva di vulnerabilità; vissuto maniacale, se incentrato su una percezione soggettiva di onnipotenza.

Di fatto, la condizione clinica del primo soggetto attesta un ritiro passivo da una situazione di dipendenza che egli non sente di poter mettere in gioco; la condizione del secondo attesta una tendenza ad attaccare attivamente il legame di dipendenza, un orientamento verso la risoluzione del rapporto.

Ciò rende sufficientemente chiaro il fatto che, se la matrice strutturale conflittuale, in quanto riconosce una quota di bisogni frustrati e distorti, può essere definita formalmente ossessiva, essa genera, in rapporto al modo in cui il soggetto vive il legame sociale di dipendenza, due strutture elementari: quella ossessiva, che ritualizza e irrigidisce il legame stesso, in virtù di un ritiro emozionale; quella isterica, che lo vitalizza e lo pone in tensione, in virtù di intense fluttuazioni emozionali. In ambedue i casi, è evidente che il legame sociale, che implica l'interazione tra volontà propria e volontà altrui, si pone in termini tali da riconoscere solo due possibili configurazioni: l'assoggettamento della volontà propria a quella altrui, o una conflittualità che identifica l'affermazione della volontà propria con il misconoscimento della volontà altrui (rappresentata non tanto da persone fisiche bensì da qualsivoglia norma, regola, valore di significato sociale).

Ciò determina la possibilità di trasformazioni tra le due strutture elementari: quella ossessiva, scongelandosi, può trasformarsi in isterica (e cioè istallarsi sul registro del conflitto interpersonale); quella isterica, interiorizzandosi, può trasformarsi in ossessiva (e cioè istallarsi sul registro dell'ipercontrollo ritualizzato).

Le due strutture elementari e le possibili trasformazioni tra di esse ricoprono tutto l'universo psicopatologico, riperpetuandolo, per l'appunto, nelle due bande rappresentate dalla tavola. Quanto al linguaggio onirico, il discorso è più complesso. Definirlo un linguaggio simbolico è tautologico, non esistendo un linguaggio che non lo sia. In questione, evidentemente, è la tipologia dei simboli usati a livello inconscio. Si tratta di simboli figurativi che trasformano in immagini contenuti di pensiero. Nel contesto di un sogno vengono utilizzati, ovviamente, anche simboli non figurativi: sonori, tattili, olfattivi, gustativi, cinestetici. Ma il contesto del sogno è sempre e comunque vincolato ad una scena, e quindi ad una rappresentazione visiva. Ciò significa, sostanzialmente, che il sogno specializza i contenuti di pensiero e le emozioni, o, in altri termini, che esso traduce l'astratto in concreto. Ora il problema è che l'astratto in questione da raffigurare, da tradurre in immagini visive, è di un ordine tale che, in sé e per sé, sembrerebbe intraducibile: si tratta, infatti, di enti psicologici, vissuti, sentimenti, pensieri inerenti sé, l'altro e la relazione tra sé e altro. Questa difficoltà riesce chiara se, per esempio, tentiamo coscientemente di tradurre figurativamente enti quali il desiderio, la paura, l'ansia, la libertà, la volontà, il dovere, ecc.

Eppure è un fatto che l'attività onirica opera questa traduzione, specializza e raffigura visivamente tutto ciò che fa parte dell' esperienza soggettiva e intersoggettiva. Come, è evidente. Dando significati antropomorfici allo spazio, a tutti gli oggetti che esso contiene e a tutte le relazioni tra gli oggetti. Ma come vengono costruiti questi significati?

L’attività dell'inconscio può essere analizzata sotto il profilo logico e sotto quello dinamico. Da un punto di visto logico, è indubbio che l'inconscio utilizza una logica infinitamente più economica di quella categoriale propria della coscienza: una logica insiemistica, che consente, data una proprietà caratteristica, di raccogliere tutti gli oggetti che la condividono. Oggetti che, benché eterogenei, giungono ad essere simbolicamente equivalenti. Per esempio, data la proprietà esser fragile , l'insieme può contenere come elementi: un uomo iperemotivo, oggetti di vetro, di ceramica, di terracotta, un computer imballato, un diamante, una tregua destinata ad essere interrotta, ecc. Ciascuno di questi oggetti può essere utilizzato nel sogno per rappresentare la fragilità. Ma l'analisi dei sogni rende evidente che le proprietà caratteristiche hanno sempre un riferimento antropologico. Esse, inoltre, si strutturano lungo due assi determinati dalla forma affettiva. Tale che, per esempio, il riferimento all'essere fragile implica sempre il riferimento all'essere solido.

Le proprietà caratteristiche definiscono dunque dei campi semantici. E' probabile che le proprietà caratteristiche che strutturano ogni esperienza soggettiva siano in numero finito.

Le coppie presentate nella tavola - libertà/costrizione, influenzabilità/ininfluenzabilità, dipendenza/indipendenza, innocenza/colpa, altruismo/egoismo, legalità/moralità, piacere/dovere, razionalità/ emotività, ecc. - non sono, forse, esaurienti, ma non si va lontano dal vero a sostenere che siano fondamentali.

I campi semantici sono strutturati da valori cognitivi. Ma la dinamica dei significati è assicurata da questi valori non meno che dai potenziali emozionali ad essi associati. I potenziali emozionali definiscono l'ordinamento gerarchico dei campi semantici, e tale ordinamento funziona come gradiente motivazionale atto ad attivare o ad inibire comportamenti. I potenziali emozionali sono essi stessi organizzati a coppia: dolore/piacere, allarme/ quiete, paura/rabbia. Ma questo aspetto, che implica corrispondenze neurobiologiche, va approfondito ulteriormente.

febbraio 1992