NATURA UMANA E DISAGIO PSICOPATOLOGICO


  1. Introduzione

  2. I termini del problema

  3. Hobbes e Rousseau

  4. Darwin

  5. Marx

  6. Conclusioni sommarie

  7. La regressione istituzionale come modello sperimentale

  8. L'uomo originario

  9. I primitivi

  10. Il bambino

  11. Il corredo pulsionale da un punto di vista neuropsicologico

  12. Per non concludere

  Bibliografia


1. Introduzione

Occorre definire, anzitutto, i motivi per cui una riflessione sui fondamenti di una nuova scienza del disagio psichico non possa prescindere da un problema, quello della natura umana e del rapporto natura/cultura, che, indecidibile su un piano speculativo (e quindi solo ideologizzabile), non sembra facile da affrancare dalle sue valenze ideologiche anche se posto sul piano scientifico.

I motivi sono essenzialmente due: il primo è che, nella prassi, noi ci confrontiamo di continuo con quadri mentali che implicano un certo modo di vedere l'uomo, sia come essere naturale che sociale; il secondo è che il disagio psichico è strutturato vuoi da vissuti e comportamenti che sembrano far affiorare, sotto forma di fantasma o di acting-out, una istintualità affrancata da ogni costrizione culturale, vuoi da vissuti e comportamenti che attestano costrizioni morali che giungono a mortificare, talora radicalmente, le libertà istintuali.

Quanto al primo motivo, per apprezzarne l'urgenza, basta far riferimento all'esperienza quotidiana: la domanda di controllo della follia che pervade, oggi più che mai, il corpo sociale - e che, sarà bene tenerlo presente, spesso è fatta proprio dallo stesso soggetto che soffre - non muove dall'interpretazione dei comportamenti devianti come sintomi di un venir meno dell'autocontenimento morale e sociale che assicura la normalità, che lascia l'individuo preda di istinti primitivi e irrazionali?

Quanto al secondo motivo, spesso poco evidente sul piano fenomenologico, vale la pena di esemplificarlo per permettere di capire che la struttura psicopatologica è, sempre, sottesa dall'opposizione non dialettica tra istanze che sembrano naturali e istanze culturali. Ciò che diversifica la forma del disagio e l'intensità di questa opposizione è soprattutto il modo in cui essa si organizza e si esprime a livello vissuto e comportamentale.

Nella nevrosi ossessiva, l'individuo è minacciato di continuo da fantasie che fanno incombere, anche sulle persone più care, una feroce distruttività; in virtù di questa minaccia, che lo mette a contatto diretto con una mostruosa bestialità, egli si assoggetta ad un ipercontrollo che, sul piano sociale si traduce in un rigoroso conformismo e, sul piano delle soddisfazioni pulsionali, in comportamenti piuttosto frustranti, quando non affatto ascetici.

Nella distimia, che si esprime fasicamente, all'onnipotenza maniacale, che sembra affrancare le pulsioni erotiche e aggressive da ogni remora di ordine morale e sociale, fa da contrappeso l’impotenza e il senso di colpa della depressione, che induce l'individuo a inibire in misura talora marcatissima la sua voglia di vivere, fino all'estremo del suicidio.

Il delirio sembra sfuggire ad una esemplificazione sintetica. Ma, specie nelle fasi iniziali dei deliri persecutori, il soggetto che si sente spiato, controllato e giudicato negativamente, è spinto a chiedersi il perché di tanta ostilità nei suoi confronti e, in una certa misura, a correggere alcuni comportamenti che ritiene equivocabili. Solo successivamente reagisce alle derisioni e alle calunnie con una aggressività talora smisurata. Ricordo l'esperienza di un giovane che, sentendosi controllato dai vicini, cominciò a chiedersi che cosa del suo comportamento potesse giustificare una curiosità morbosa. Pochi giorni dopo, giunse alla conclusione che essa era rivolta ad accertare se e quando egli si masturbava. Notò infatti che quando ciò accadeva nel palazzo il silenzio diveniva assoluto. Cessò pertanto di farlo, ma continuò insistentemente a chiedersi cosa potessero pensare i vicini del fatto che un giovane di 23 anni si masturbasse. Pochi giorni dopo capì, cogliendo nello sguardo di una vicina un derisorio giudizio sulla sua omosessualità. A distanza di qualche giorno ancora, non tollerando che essa stesse sempre alla finestra ad osservare ciò che faceva, l'aggredì minacciandola di morte.

Affronteremo ulteriormente i problemi che pone la genesi, la struttura e la dinamica del disagio psichico (il caso cui si è fatto cenno sarà tema di un seminario). Per ora, basta cogliere l'elemento comune, quale che sia la fenomenologia del disagio stesso: la necessità di un ipercontrollo in rapporto alla minaccia di un disordine istintuale che, criminalizzato dal soggetto stesso o dagli altri, fa affiorare il fantasma, talora realizzato da un acting-out, di una natura anarchica e sfrenata. La coscienza sociale, che non è in grado di cogliere la struttura del disagio, ne rileva solo le apparenze, i comportamenti devianti, che infrangono le regole del buon vivere civile. Da ciò, essa trae due conferme: per un verso, la conferma dell'esistenza, in ogni uomo, di un corredo pulsionale pericoloso e, dunque, di una natura umana irriducibile, anche quando appare sottomessa ai vincoli della cultura; per un altro verso, la convinzione che il disagio psichico segnali, più di ogni altro comportamento umano, il venir meno di quei vincoli, e, dunque, ch'esso lasci trasparire la natura allo stato puro originario.

Tra devianza psichica e mentalità corrente esiste pertanto un circuito chiuso che si autoalimenta, e che ci costringe, come operatori, o ad accettarne la dinamica spontanea, votandoci a difesa di un ordine culturale perpetuamente minacciato dal disordine naturale, o a disarticolarla, tollerando il rischio di una inevitabile quota di disordine. Ma - perché non confessarlo? - ogni qual volta ci poniamo come funzionari dell'utopia, siamo preda del dubbio e del senso di colpa: e se quel disordine - ci chiediamo - anziché esprimere istanze di liberazione, segnalasse uno stato di natura contro cui né il soggetto né il gruppo cui appartiene risultano sufficientemente difesi? Se la nostra tolleranza, che mira in buona fede ad un ordine di livello più elevato, producesse solo una sterile sofferenza o, addirittura, un pericolo? Se, infine, la natura umana fosse in sé e per sé, anarchica e sfrenata, e, per resistenze ideologiche non volessimo ammetterlo e preferissimo chiudere gli occhi?

Ogni qual volta ci troviamo a dover decidere tra la tolleranza e la repressione, è con il problema della natura umana che facciamo i conti. Una riflessione critica su questo problema non ci affrancherà dal rischio decisionale, ci renderà solo più consapevoli della posta in gioco, che è, in breve, la possibilità teorica e pratica di una psichiatria alternativa.


2. I termini del problema

Per quanto si possa ritenere il problema della natura umana degno o no di interesse scientifico è fuor di dubbio che esso si pone come problema di fatto: in via generale, si può dire che ogni civiltà postula una concezione di ciò che l'uomo è nella sua essenza, dato che il suo fine ultimo, perseguito dalla organizzazione sociale e dalla cultura, è di reclinare, selettivamente o no, le potenzialità intrinseche della natura umana in virtù di processi educativi e/o correttivi che mirano a produrre l’uomo come essere sociale. Le scienze umane e sociali che, talora, hanno espresso la tentazione di ritenere inesistente il problema si sono esposte al rischio di una confutazione epistemologica severa, secondo la quale "l’idea per cui gli uomini sono privi di una natura umana rappresenta, a ben vedere, una rigidissima, quanto mal verificata, teoria della natura umana".

Qualunque discorso sulla natura umana deve affrontare, e tentare di rispondere a tre problemi fondamentali: l’origine dell'uomo; il corredo intrinseco della natura umana; e i limiti che questo corredo pone ai processi di socializzazione e alla vita sociale. Si tratta di problemi concatenati tra loro, nel senso che la risposta che si dà al primo condiziona, in una certa misura, le possibili risposte che si possono fornire riguardo agli altri due.

Quanto alle origini dell'uomo, non sussistono formalmente che due soluzioni: il creazionismo e l’evoluzionismo naturale. Prescindendo da tentativi poco convincenti di mediazione, il più onesto dei quali e dovuto a Theilard de Chardin, si tratta di soluzioni antitetiche. Il creazionismo, che implica l'intervento di un Dio, pone il problema della somiglianza della creatura al creatore e, data l’evidente imperfezione dell’uomo, lo scarto tra questa e la presunta perfezione divina non può essere colmato che dal mito, comune a tutte le antropogonie, di un decadimento della natura umana da un’originaria condizione di pienezza, dovuto, il più spesso, ad una colpa umana.

L'evoluzionismo naturale, assumendo l’uomo come prodotto di una lunga filogenesi, pone il problema del suo rapporto con l’animale o secondo una relazione d'identità, di similarità o d'apparentamento, o secondo una relazione di differenza, d'opposizione e di dominanza.

Quanto al corredo intrinseco, non si danno che due possibilità: l’una attribuisce alla natura umana una pulsionalità istintuale fissa e immutabile nel tempo, che delimita dunque l'ambito delle possibilità culturali; l’altra le attribuisce una pulsionalità plastica, predisposta cioè a ricevere le impronte culturali e a realizzarsi in virtù di esse, e potenzialmente ancora ricca di possibilità evolutive che sarebbero orientate dalla cultura.

Il problema del rapporto tra natura e cultura viene derivato dai precedenti, e riconosce esso stesso due soluzioni: una presunta tendenza al male o una concezione rigidamente istintualista postulano una socializzazione in termini di perpetuo controllo rispetto ad una minaccia - l’immoralità e l’asocialità - che non può ritenersi mai compiutamente scongiurata; l’evoluzionismo naturale, nella misura in cui sottolinea la diversità qualitativa dell'uomo rispetto all’animale e gli attribuisce una pulsionalità plastica, utilizzabile sia ontogeneticamente che da un ulteriore processo di selezione naturale, si apre ad una dialettica con la cultura come strumento di valorizzazione o di mortificazione della natura umana, di umanizzazione, dunque, o di disumanizzazione.

Posti i termini del problema, si tratta di vedere in dettaglio come essi siano stati elaborati a livello ideologico o scientifico, e cosa, riguardo ad essi, si possa dire alla luce delle scienze biologiche, umane e sociali attuali. Per quanto riguarda il primo aspetto, per limiti di competenza, ma anche tenendo conto dei fini del discorso, limiteremo l’analisi a due precursori - Hobbes e Rousseau - le cui soluzioni antitetiche configurano lo spazio logico all’interno del quale ci si muoverà ulteriormente, e a tre concezioni che ambiscono ricevere le loro da presupposti scientifici: biologici (Darwin), sociologici (Marx) e psicologici (Freud). Ci interesseremo successivamente alla ripresa del problema da parte della scienza del '900, per vedere quali conclusioni se ne possano trarre.


3. Hobbes e Rousseau

Thomas Hobbes non ha una concezione originale della natura umana, né pretende di averla. L'interesse per il problema è in lui strumentale, nel senso che dallo studio della natura umana Hobbes vuole ricavare i fondamenti di una teoria politica che mira a dimostrare la necessità, e la ragionevolezza, dell'assolutismo monarchico. Ma - ciò che importa rilevare - è che la concezione di Hobbes dà corpo ad una forma ideologica facilmente recepibile dalla coscienza sociale, poiché appare molto legata al livello empirico, che sarà ulteriormente ripresa - per alcuni versi alla lettera - da Freud con la pretesa di averla ricavata da osservazioni scientifiche. Nella concezione hobbesiana, materialistica e meccanicistica, componenti essenziali della natura umana sono gli appetiti fondamentali: ricerca del piacere e fuga dal dolore, istinto di conservazione e istinto di previsione. Gli appetiti tendono a realizzarsi in virtù di azioni: se si determina un contrasto fra tendenze opposte, l’azione si interrompe e interviene una fase di deliberazione circa la scelta dell'azione futura. In nessun caso però l'uomo è libero: gli appetiti insorgono per l’influenza meccanica di determinismo interno; la ragione non può opporsi a questo processo: sua unica funzione è di trovare i mezzi per la soddisfazione degli appetiti, mediante un calcolo previsionale. L'uomo è mosso perciò da fini utilitaristici ed egoistici: all’origine, bene e male sono pure valutazioni edonistiche equivalenti a piacere e dolore. Dato l'utilitarismo e l'egoismo degli appetiti, nello stato di natura ogni uomo persegue il suo personale piacere con l’uso della forza: egli dunque conduce una "vita solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve" nel "continuo timore e pericolo di morte violenta". Lo stato di natura si esprime infatti in una perenne guerra di tutti contro tutti (homo homini lupus ) con il rischio dell’estinzione della specie. E’ solo in conseguenza di questa minaccia, e non certo per una pretesa tendenza sociale della natura umana, che gli uomini si arrendono, per assicurarsi l’autoconservazione, ad un patto convenzionale che inibisce agli individui l’uso della forza per tra sferirlo ad un potere sovrano. Da questo momento in poi, "i patti devono venire rispettati": ove ciò non accade, l’uomo ricade nella primitiva barbarie, nello sfrenato egoismo e nella solitudine dello stato naturale.

In Hobbes, dunque, l’opposizione tra natura e cultura è radicale e irriducibile. La natura umana, fissa e immutabile, riconosce, nel suo corredo, solo appetiti naturali che tendono alla soddisfazione immediata, senza alcun freno sociale. La socialità è imposta dalla paura della morte, ma non si fonda su alcuna tendenza naturale.

Ignoro se Freud abbia letto il De homine di Hobbes: se non lo ha letto, la circostanza ha un rilievo particolare, poiché essa attesta, per quanto riguarda la natura umana, l’esistenza di forme ideologiche costruttive, la cui verosimiglianza è meramente empirica.

"Quando si vogliono studiare gli uomini, bisogna guardare vicino a sé; ma per studiare l'uomo, bisogna imparare a guardare lontano; bisogna anzitutto osservare le differenze, per poter poi scoprire le proprietà". Con questa regola di metodo, fondamentale per la scienza dell'uomo, Rousseau, in contrasto con Hobbes, si libera dall'inganno delle apparenze empiriche. Osservati nella vita quoti diana, da vicino, storicamente, gli uomini sono quelli che sono: ma è la loro natura che si esprime in questo loro essere o non una violenza che, in loro, la natura ha subito al punto di uscirne mutilata, umiliata e distorta? Da questo punto muove la riflessione rousseauniana, che è, anzitutto, un’indagine interiore sulla sua personale alienazione ("Eccoli dunque, - dice dei suoi contemporanei - stranieri, ignoti, nulli insomma per me, visto che l’hanno voluto! Ma io, distaccato da loro e da tutto, che cosa sono mai?"), al fondo della quale Rousseau trova risposte le cui validità gli appaiono universali. Ma si tratta di risposte sulle quali una stolta banalizzazione ha gettato discredito, e che vanno dunque recuperate nella loro integrità.

"Non è certo una lieve impresa - egli scrive - distinguere ciò che c’è di originario e ciò che c’è di artificiale nella natura attuale dell’uomo, e individuare in tale modo uno stato che non esiste più, che non è forse mai esistito, che probabilmente non esisterà mai". Il discorso sulla natura umana di Rousseau si pone immediatamente sul piano dell’utopia, ma non è né ingenuo né pateticamente nostalgico. Nonostante gli effetti disumanizzanti della civilizzazione c’è nell'uomo qualcosa che oppone una sorda ma incoercibile resistenza, qualcosa di anteriore al calcolo utilitaristico di cui parla Hobbes. "Meditando sulle prime e più semplici operazioni dell'anima umana, si possono ritrovare in essa due principi anteriori alla ragione: il primo ci spinge a interessarci ardentemente al nostro benessere e alla conservazione di noi stessi, ed il secondo ci ispira una ripugnanza naturale a veder perire o soffrire qualsiasi essere sensibile, e principalmente i nostri simili".

Non si sottolineerà mai abbastanza il carattere rivoluzionario di questo pensiero. Se è vero che la natura umana tende a soddisfare gli appetiti naturali senza riguardo per gli altri, è pur vero che questa condizione, in sé e per sé essenziale, trova il suo limite naturale nell'essere l'uomo sensibile e nel riconoscere negli altri la sua stessa sensibilità, nella pietà dunque, che, postulando l'identificazione con l’altro, lo affranca repentinamente da una cieca criminalità .

"Non siamo obbligati a fare dell’uomo un filosofo, prima di averne fatto un uomo. I suoi doveri verso gli altri non gli sono dettati esclusivamente dalle lezioni tardive della saggezza; e finché egli non si oppone all'impulso interiore della commiserazione, non arrecherà mai del male ad un altro uomo o ad un qualsiasi essere sensibile, salvo nel caso legittimo che, essendo in gioco la sua conservazione, egli si trovi obbligato a dare la preferenza a se stesso". Tra egoismo e identificazione con l'altro c’è dunque una dinamica naturale a partire dalla quale la cultura opera, realizzando effetti di integrazione o di opposizione: essa, dunque, avvalendosi di forze naturali, può umanizzare o disumanizzare l’uomo. La natura buona, che si imputa a Rousseau come espressione di ingenuità, non esiste che a livello di distorsione interpretativa: la natura umana è buona non nel senso che tende al bene, ma nel senso che il suo corredo pulsionale comporta delle potenzialità, che se non vengono distorte dall'educazione, si esprimono nella moralità, nella capacità dell’uomo di assoggettarsi, e non di essere assoggettato, a leggi. L’originario amor di se è un istinto legittimo di conservazione che non ostacola il sorgere delle inclinazioni sociali, il cui fondamento è esso stesso naturale, poiché muove dall’identificazione.

La tesi di Hobbes circa l’egoismo innato negli uomini e il bellum originario capovolgono dunque, secondo Rousseau, l’evoluzione reale della società, imputando alla natura le passioni perverse che sono invece un prodotto della cultura. E’ evidente che come la concezione di Hobbes sulla natura umana è funzionale a una teoria politica che fa dell'assolutismo monarchico una necessita, così la concezione rousseauniana mira ad una radicale denuncia sociale, incentrata sull'impoverimento e sullo snaturamento dell'uomo. "Tutto degenera nelle mani dell'uomo ... egli mette ogni cosa in disordine, sfigura tutto, ama le difformità ed i mostri; egli non vuole nulla così come l’ha fatto la natura, neppure l’uomo stesso; occorre redimerlo ai suoi scopi, come un cavallo da maneggio".

Che cosa accadrebbe se questa violenza, che fa l'uomo schiavo dell'uomo, il figlio del padre, il suddito del sovrano, la natura della cultura, reiterata nel corso della storia, venisse meno? Non si tratta, evidentemente, di propugnare l'abbandono dell'uomo a se stesso, ché "noi nasciamo deboli, ed abbiamo bisogno di assistenza" bensì un’educazione che non miri a combattere la natura a favore della società, o a produrre un cittadino soffocando l'uomo, ma potenzi e realizzi la natura umana. Anziché il disordine e l’anarchia, si scoprirebbe, secondo Rousseau, un bisogno radicale, esso stesso naturale e misconosciuto: il bisogno dell’uomo di vincolarsi ad una legge per realizzarsi nella sua pienezza sociale, il bisogno, dunque, di moralità. Benché pericolosa, infatti, è la libertà la qualità più specifica della natura umana: e se essa può fuorviarla o essere fuorviata, può però realizzarsi, ché l’uomo non tende solo a soddisfare i suoi impulsi primari, ma anche - e irrinunciabilmente - a perfezionarsi, ad esprimere totalmente le sue facoltà.


4. Darwin

La pietà, intesa come solidarietà naturale tra gli uomini, che sarà ricusata dagli studiosi di scienze umane e sociali del tardo Ottocento e del primo Novecento - basti citare Pareto e Freud - viene recepita in L’origine dell’uomo (1871) di Darwin, che trascorse la sua vita di studioso e di uomo sofferente in un completo isolamento, riscattato dalle ricerche e dalle scoperte biologiche.

Al di là della portata rivoluzionaria dell'evoluzionismo, la concezione della natura umana di Darwin non è meno rivoluzionaria. Essa comporta, né più né meno, una conferma dell'intuizione di Rousseau che la moralità abbia un fondamento naturale e non sia, dunque, solo un prodotto della cultura.

In una nota del capitolo 4°, Darwin scrive:

J.S. Mill parla nella sua celebre opera (1864) dei sentimenti sociali come di "un potente sentimento naturale" e come "base naturale del sentimento per la morale utilitaristica". Ed aggiunge: "come le altre proprietà acquisite ... la facoltà morale, se non è parte della nostra natura, è però un suo prodotto naturale ...". Ma in opposizione a tutto ciò egli osserva anche: "Se, come è mia opinione, i sentimenti morali non sono innati, ma acquisiti, non perciò sono meno naturali". Non è senza esitazione che mi cimento con un pensatore così profondo, ma è difficile negare che il senso sociale sia istintivo o innato negli animali: perché dunque non dovrebbe essere altrettanto nell'uomo? Bain e altri ritengono che il senso morale venga acquisito da ogni individuo nel corso della sua vita. Nella teoria generale dell'evoluzione ciò è perlomeno assai improbabile.

Secondo Darwin, dunque, la moralità ha un fondamento naturale: ciò che, a partire da essa viene acquisito, sono i codici morali. Ma su che cosa si fonda questa affermazione? Darwin non nega che del corredo pulsionale umano facciano parte istinti inferiori, conservativi o aggressivi, n0 che questi, che tendono alla soddisfazione senza riguardo per gli altri, non abbiano una particolare intensità. Ma, al tempo stesso, ricavandolo dalla osservazione degli animali, egli ammette l'esistenza di istinti sociali che fanno da contrappeso ai primi e, nell'economia psichica individuale e sociale, giungono ad avere un'importanza maggiore, anche se, indubbiamente, hanno una minore intensità. Nella natura umana stessa ci sarebbe dunque, in potenza, un conflitto tra pulsioni egocentriche e pulsioni sociali: ma le prime, prevalenti per intensità, riconoscono, dopo la soddisfazione, una latenza più o meno lunga, mentre le seconde si configurano come incessanti, nel senso che alla loro soddisfazione l’uomo lega la sua identità, l’appartenenza ad un gruppo e, di conseguenza, una maggiore possibilità di soddisfare le prime.

L'elemento fondamentale degli istinti sociali secondo Darwin è la simpatia, e cioè il sentimento di solidarietà, inteso come tendenza a partecipare e a condividere sia le pene che i piaceri. Trattandosi di un istinto, è possibile tracciare dalla sua genesi un disegno filogenetico. "E’ stato spesso sostenuto che gli animali in primo luogo siano divenuti sociali, e conseguentemente abbiano provato dolore per la separazione e gioia per l'associazione, ma è più probabile che queste sensazioni si siano sviluppate per prime in modo che quegli animali che avrebbero tratto vantaggio dal vivere in società, fossero spinto a vivere insieme ... Il sentimento di piacere, nella società, è probabilmente un’estensione degli affetti per i genitori e i figli, poiché l’istinto sociale sembra che sia sorto per il lungo permanere dei giovani con i genitori, e questa estensione si può attribuire in parte all'abitudine, ma soprattutto alla selezione naturale... Riguardo all'origine dell’affetto filiale e dei genitori, affetto che apparentemente si trova alla base degli istinti sociali, non conosciamo i gradi attraverso i quali è progredito, ma possiamo supporre che sia avvenuto, in gran misura, attraverso la selezione naturale".

Per quan to sia una tendenza naturale, la simpatia è rafforzata dall'esperienza: "in tutti gli animali, la simpatia è diretta solo verso i membri della stessa comunità perciò verso membri conosciuti e più o meno ben visti, ma non a tutti gli individui della stessa specie".

La simpatia, intesa come espressione dell'istinto sociale, è il fondamento naturale della moralità, poiché, spingendo l’uomo a partecipare e condividere le gioie e i dolori della comunità cui appartiene, lo rende sensibile sia all'angoscia sociale - la disapprovazione dei suoi simili - che all'angoscia individuale - il senso di colpa ricavato dalla valutazione dei suoi comportamenti. Il senso morale viene a radicarsi pertanto nella natura umana non meno che nella cultura.

Il conflitto tra pulsioni inferiori - egocentriche -, e superiori - sociali -, inestinguibile ma non tragico come in Freud, è affidato alla storia umana e, ancor più, alla storia naturale: "considerando le generazioni future, non vi è motivo di temere che gli istinti sociali crescano più debolmente, e possiamo aspettarci che le abitudini virtuose cresceranno sempre più, divenendo forse stabili per ereditarietà".


5. MARX

E' noto che Marx sollecita Darwin ad accettare la dedica al 1° Libro del Capitale, e che questi, per non esasperare le polemiche intorno ad un suo presunto ateismo, rifiuta. Basterebbe questo dato storico a salvaguardare il marxismo dalla critica, ricorrente quanto infuriata, di essere una teoria sociologista o, peggio ancora, economicista. La preoccupazione di Marx, piuttosto, è quella di integrare la scienza dell'uomo come essere sociale nella scienza dell'uomo come essere naturale, fermo restando il fatto che esse riconoscono o possono riconoscere leggi diverse di sviluppo. Il problema della natura umana è, dunque, preliminare in Marx, e, per quanto esso sia affrontato da un punto di vista originale, appare tributario, nella sua impostazione, del pensiero di Rousseau non meno che del contributo di Darwin.

Se l'uomo è un prodotto dell'evoluzione, la sua natura non può essere meno ricca di quella degli animali, e se nella socialità si esprime un bisogno naturale, la storia sociale dovrebbe manifestare la ricchezza di quella natura. Ma, nell'evoluzione storica, lo sprigionamento delle forze naturali umane coincide con un progressivo imbestialimento, con l'affiorare di "appetiti disumani e innaturali". E' la natura umana che si esprime in questa involuzione, o una violenza che essa subisce ad opera dell'organizzazione sociale? Marx aderisce a questo secondo punto di vista: nel Capitale egli distingue una "natura umana in generale" e "una natura umana in quanto modificata in ognuna delle epoche storiche". Ciò implica, ovviamente, una concezione plastica della natura umana, e quindi una rilevante, se non assoluta, importanza attribuita alle influenze ambientali. Ma, al tempo stesso, l’ammettere l'esistenza di una natura umana in generale comporta una teoria della storia che miri a realizzare le condizioni che permettano la massima espressione della peculiarità intrinseche alla natura umana. E’ giusto dunque sostenere che, fin dai Manoscritti, "si porrebbe in rilievo che la fonte prima di tutta la concezione del mondo elaborata da Marx è la comprensione dell'essenza e della funzione dell'uomo come tale". Ma quale è, per l'appunto, questa essenza?

Marx scrive: "L'uomo è immediatamente un essere naturale. Come essere naturale, come essere naturale vivente, egli è in parte fornito di forze naturali, di forze vitali, cioè è un essere naturale attivo: e queste forze esistono in lui come disposizioni e facoltà, come impulsi; in parte egli è, in quanto essere naturale, oggettivo, dotato di corpo e di sensi, un essere passivo condizionato e limitato...: vale a dire, gli oggetti dei suoi impulsi esistono fuori di lui, come oggetti da lui indipendenti, ma questi oggetti sono oggetti del suo bisogno, oggetti essenziali, indispensabili ad attuare e comprendere le sue forze essenziali".

Prodotto filogenetico, la natura umana ha dunque un corredo pulsionale che riconosce il mondo come oggetto indipendente da cui ricevere soddisfazione. Quanto all'organizzazione pulsionale, Marx distingue pulsioni costanti o fisse e pulsioni relative: le prime - il sesso e la fame -, che assicurano la conservazione e la riproduzione, "esistono in ogni caso ... e possono essere mutuate dall'organizzazione sociale solo per quanto riguarda la forma e la direzione", le altre "debbono la loro origine unicamente a un certo tipo di organizzazione sociale, e, dunque, "non sono parti integranti della natura umana". E' sorprendente che Marx non includa tra le pulsioni costanti l’aggressività: ciò lascia intendere che egli la considera una pulsione relativa. Questo, che ai nostri occhi appare un lapsus clamoroso, può rimettere in gioco tutto il marxismo o le nostre quiete convinzioni ... Gli impulsi costanti sono, in sé e per sé, comuni a tutte le specie animali, ma, nell'uomo, esse assumono qualità specifiche. "Mangiare, bere e procreare sono, naturalmente, autentiche funzioni umane. Ma, astrattamente considerate, svincolate dalla cerchia delle altre attività umane, e trasformate in fini ultimi e esclusivi, esse sono funzioni animali". Che significa questa affermazione? Che assumendo l'uomo solo come essere biologico che tende alla soddisfazione degli istinti primari, non si coglie affatto la sua essenza, che è eminentemente attiva, dinamica, relazionale, cui non basta cioè usare il mondo per soddisfare se stessa, ché essa ha bisogno di esprimere la propria facoltà nei confronti del mondo: ha bisogno, dunque, di entrare in relazione con l’uomo e con la natura.

In Marx, come in Darwin, è la socialità l’espressione più immediata della natura umana, poiché essa presiede alla soddisfazione di tutti i bisogni umani. Ma la socialità, intesa come tendenza naturale, postula l'organizzazione sociale, ché "si possono distinguere gli uomini dagli animali ... per quel che si vuole. Ma essi cominciano a distinguersi dagli animali in quanto cominciano a produrre i loro mezzi di sussistenza". E’ vero che Marx insiste sul lavoro come espressione fondamentale della natura umana: ma il lavoro in Marx è cultura, e cioè non solo occupazione o attivismo,bensì pratica umana che tende a trasformare la realtà oggettiva per renderla adeguata alla ricchezza dei bisogni umani ("l’uomo ricco è colui che in pari tempo ha bisogno di un complesso di umane manifestazioni di vita, e la cui autorealizzazione è per lui una necessità interna").

La prassi, nella quale si esprime la natura umana, è anzitutto passione, "sostanziale forza umana tendente con energia al suo oggetto". Non si dà, dunque, nell'antropologia marxiana, alcuna contrapposizione tra natura e cultura: la prima si realizza nella seconda, che a sua volta, interagisce e la modifica. E, data la plasticità di quella, può valorizzarla o mortificarla. La filogenesi ha dunque prodotto un corredo pulsionale che si esprime in forme sociali, più o meno adeguate ai bisogni umani, che a livello ontogenetico producono l'uomo storico, determinato nei suoi atteggiamenti pratici e mentali. Evoluzione naturale e evolu zione culturale appartengono dunque ad uno stesso processo, la cui dinamica non è fissa e immutabile, bensì in divenire.


6. Conclusioni sommarie

Se tentiamo una sintesi di quanto finora si è detto, non si stenterà a capire che il problema della natura umana, nonostante gli sforzi della riflessione filosofica e scientifica, è legato a due quadri ideologici fondamentali. Il primo - presente in Hobbes e in Freud - postula una natura fissa e immutabile nei suoi elementi istintuali, la cui filogenesi ne definisce la sostanziale animalità, in cui la cultura si edifica per opposizione e a fini di controllo. Il secondo - presente in Rousseau, in Darwin e in Marx - postula una natura ricca di intrinseche possibilità, orientata naturalmente verso la socialità, e che il processo di socializzazione può umanizzare o disumanizzare. Si tratta ora di verificare l’evoluzione di questi due quadri in rapporto al progresso delle scienze biologiche - dall'evoluzionismo alla neurobiologia - e delle scienze umane e sociali - dall’antropologia alla scienza del disagio psichico, e di vedere se questo progresso, accreditando scientificamente l'uno o l’altro quadro ideologico, può gettare qualche luce sul problema che ci interessa, che è quello di comprendere il significato regressivo e bestiale o viceversa radicalmente umano dei vissuti e dei comportamenti devianti.


7. La regressione istituzionale come modello sperimentale

Vi è un modo drammatico - scrive un etologo - per capire cos’è la natura umana: togliere all'uomo la sua cultura. Tranne casi eccezionali di bambini selvaggi, cresciuti fuori da ogni contatto con esseri umani, questa possibilità sperimentale non può essere realizzata. La natura umana non è dunque, mai, un dato osservabile: essa va sempre ricostruita a partire da qualcos'altro che allude ad essa o che la implica. L’evoluzionismo, l’etologia, l’antropologia, la psicologia infantile e la psicoanalisi, la neuropsicologia rappresentano gli ambiti scientifici che, più o meno direttamente, si interessano al problema. Dei contributi di queste scienze si parlerà. Ma, intanto, non possiamo prescindere da un ambito di realtà che si può assumere come un laboratorio sperimentale: l’istituzione manicomiale. I londinesi del '700 che andavano a vedere i folli tenuti in gabbia, esprimevano l'ingenua convinzione che, nel comportamento di questi, trasparisse uno stato di natura.

La fondazione del manicomio non muove da una diversa convinzione: essa postula solo, in omaggio all'ideologia illuministica, che la natura umana, rimasta primitiva o addirittura danneggiata da condizioni socio-ambientali sfavorevoli, sia, Cionondimeno, educabile, e cioè sensibile ad una cultura che si ponga in maniera illuminata. Nel giro di qualche decennio, questo progetto - come si è detto - viene ad urtare contro un ostacolo insormontabile: la tendenza, che sembra intrinseca ad alcune forme psicopatologiche, di ribellarsi alla rieducazione e di continuare ad agire comportamenti trasgressivi di ogni norma sociale e morale. Anziché l'autocritica, l’ideologia manicomiale imbocca, verso la metà del 1800, la via della repressione sistematica che viene perseguita secondo due direttive - l’isolamento e la mortificazione (1) - che esprimono, sotto forma di furor curandi, un progetto di soluzione totale il cui senso ultimo è di dimostrare l’onnipotenza della cultura nei confronti di una natura apparentemente incoercibile.

Si tratta, dunque, di un progetto ipernormativo che tende a produrre la cronicità tranquilla, e cioè un condizionamento che dia luogo ad un comportamento adeguato nonostante la persistenza della malattia. Laddove la cronicizzazione fallisce, si realizza però una paurosa regressione dell'essere umano, che ripropone uno stato di natura bestiale. Le due figure del folle istituzionalizzato - il cronico tranquillo e l'individuo regredito a fasi arcaiche della vita istintuale - esprimono dunque la logica di un progetto secondo il quale, laddove la cultura fallisce, residua la natura umana con tutti i suoi attributi bestiali. In questo senso, l’istituzione manicomiale si può assumere come un laboratorio sperimentale che pone in luce, contemporaneamente, l’infinita plasticità della na tura umana e la sua irriducibile e rigida istintualità. Questa con tradizione postula un’analisi più approfondita dei comportamenti regressivi.

Tali comportamenti si esprimono nel venir meno delle proprietà quanto al corpo e alle sue funzioni, nella liberazione degli istinti sia libidici che distruttivi e nel rifiuto della comunicazione. Osservati obiettivamente, essi sembrano denunciare la tragica condizione dell'uomo cui sia stata tolta la cultura. La regressione fa sì che l'individuo non manifesti vergogna alcuna per la nudità; perda il controllo degli sfinteri e ogni ripugnanza nei confronti degli escrementi e della sporcizia; si abbandoni ad una voracità che ignora la commestibilità; si dia a pratiche onanistiche interminabili o si comporti né più né meno come una bestia in calore; adotti il mutismo o un linguaggio che, prescindendo da ogni convinzione, diventa incomprensibile; esploda in raptus di furia distruttiva rivolta verso le cose, verso gli altri o verso se stesso, ecc. E' la natura umana in quanto essa ha di mostruoso che sembra trasparire attraverso questi comportamenti.

Ma le cose non sono cosi semplici come appaiono. Intanto, gran parte dei comportamenti regressivi, pur esprimendo una sfrenatezza pulsionale, non sembrano teleologicamente orientati alla soddisfazione di esigenze egoistiche, poiché essi si rivolgono, il più spesso, contro la conservazione dell'individuo. Non è facile, in altri termini, interpretarli alla luce del principio del piacere, se non ammettendo che essi denunciano una pericolosità intrinseca alla natura umana, che, nella misura in cui si svincola da vincoli sociali e morali, lascia incombere sull'individuo il pericolo dell'autodistruzione. Preda dei suoi istinti, libidici e distruttivi, e senza il controllo della cultura, l’uomo diventerebbe, da questo punto di vista, un animale votato alla morte per voracità (o inedia), sozzura e assenza di igiene, autoerotismo e perversione sessuale, autolesionismo o aggressività smodata.

Assumendo un punto di vista psicoanalitico radicale, quello formulato da Freud a partire dal saggio Al di là del principio del piacere e rigorosamente portato alle estreme conseguenze dalla scuola kleiniana, l’espressione drammatica della natura umana, quale essa affiora nei comportamenti di regressione istituzionale, non pone alcun problema. Ma i problemi ricompaiono se quei comportamenti, anziché osservati obiettivamente e ricondotti interpretativamente a fasi arcaiche, e mai osservabili, della vita pulsionale fantasmatica, vengono inseriti nel contesto delle vicende umane che li veicolano. Per ogni comportamento regressivo - e senza eccezione alcuna - si può ricostruire, nella vita del soggetto, una fase nel corso della quale esso è stato assoggettato ad un ipercontrollo interno, atto sì ad estinguere la pericolosità ma, nondimeno, tanto marcata da frustrarne anche un'espressione naturale. Il più spesso, questa opposizione tra liberazione istintuale e ipercontrollo interno segna tutta l'esperienza psicopatologica del soggetto e si realizza, oltre che fasicamente, contemporaneamente.

Farò alcuni esempi, tra i più drammatici che ricordo.

Elsa, una distimica di mezza età, si abbandona ogni tanto a episodi di eccitamento nel corso dei quali divora il cibo, nonostante sia gravemente diabetica, e pratica sfacciatamente l’amore libero. In questa fase, essa si trucca, ha cura del corpo e dell'abbigliamento. Repentinamente, poi, si blocca, si rifugia nel suo letto, rifiuta il cibo, perde il controllo degli sfinteri e si occulta sotto le coperte, ribellandosi ad ogni tentativo di scoprirla.

Marisa, affetta da una psicosi ossessiva, si masturba reiteratamente sino a prodursi gravi lesioni ai genitali. Essa stessa richiede di essere contenuta con fasce sempre più strette alle mani: ma, quanto più le fasce vengono accorciate, tanto più Marisa riesce a trovare degli stratagemmi in virtù dei quali le riesce possibile continuare a masturbarsi a sangue.

Maria Luisa, legata al letto per anni per una disforia aggressiva legata ad un'epilessia di antica data, accetta di circolare per il padiglione solo a patto che le fasce le siano applicate, sotto il camiciotto, alle braccia, in maniera da tenerla stretta al tronco, impedondole di far male.

Maria trascorre gran parte della sua vita ad assolvere estenuanti rituali di purificazione e di espiazione, uno dei quali è di ripetere il rosario infinite volte al giorno. Solo nei casi in cui il clamore della sorveglianza, confondendola, le impedisce di proseguire, essa esplode in crisi di aggressività nei confronti delle altre ricoverate, contro le quali lancia tavoli e panche.

Franca, una psicotica lobotomizzata, si insedia in un bagno e trascorre il suo tempo a urinare, a defecare e a frugare con le mani nel water, e ad abbandonarsi ad infinite abluzioni sotto l’acqua fredda della doccia.

Analizzato in maniera più globale, il comportamento regressivo sembra, dunque, sempre complementare, e reattivo, ad istanze di ipercontrollo iscritte nella struttura intrapsichica e rinforzata dalla logica istituzionale. Questo carattere reattivo dei comportamenti regressivi a costruzioni intrapsichiche e/o ambientali impedisce di assumerli immediatamente come indizi del corredo pulsionale umano. Essi attestano la plasticità della natura umana che, date certe condizioni, può giungere ad esprimere comportamenti la cui drammaticità sfugge, proprio per il venir meno di ogni carattere teleologico, ad ogni interpretazione che li assuma come dati ultimi, e non come espressioni di un conflitto nella cui struttura è il polo culturale atrocemente coercitivo ad attivarli.

Il problema causale rimane: la natura, come si esprime nella regressione istituzionale, potrebbe essere un prodotto della violenza culturale, esercitata nelle fasi di strutturazione della personalità e reiterata dalla logica manicomiale; ma non si può escludere, da un punto di vista teorico, che sia la pericolosità intrinseca alla pulsionalità umana a sollecitare e a postulare la repressione interna e esterna.

Ma deve essere chiaro che si tratta di due ipotesi inconciliabili, e che l’assumere la regressione istituzionale come manifestazione diretta della natura umana implica che questa ha, nel suo corredo, delle valenze involutive e distruttive, mentre assumerla come l'espressione di una ribellione a istanze ipernormative - intrapsichiche e/o ambientali - ne implica la pervertibilità, e cioè la possibilità, esclusivamente umana, di protestare - costi quel che costi - contro la violenza.

La dialettica ideologica inerente la natura umana, incentrata sulla sua irriducibilità o complementarietà rispetto alla cultura, non è, dunque, risolta, bensì esasperata dall'esperienza istituzionale. Le scienze dell'uomo - dalla paleontologia alle neuropsicologia - si trovano ancora alle prese con questo enigma, da cui dipende forse il loro stesso statuto di scienze.


8. L'uomo originario

Basta provarlo, e ciascuno scoprirà di essere tributario dell'immaginario collettivo nell'associare all'uomo originario una quota, più o meno rilevante, di aggressività o di ferocia. Sembra che l'uomo moderno non possa pensare all'homo come rappresentante di una specie se non nei termini metaforici di un Dottor Jekill e di un Mister Hyde, e cioè nei termini di un mascheramento culturale di una bestialità innata e distruttiva. L'interpretazione della metafora tradisce, di certo, le intenzioni dell'autore del racconto, che vedeva nella violenza che la scienza opera sulla natura il pericolo di uno sprigionamento di forze irrazionali: tant’è che preferì abbandonare la nazione più progredita dell'epoca, l’Inghilterra, e rifugiarsi tra gli indigeni samoani. Ma, al di là di questo fraintendimento di un’opera letteraria, ciò che interessa è capire se l'immaginario collettivo esprime un'ideologia criticabile con gli strumenti della scienza o un'intuizione vera, per quanto dolorosa.

Ovviamente, la risposta non può essere fornita in termini di certezza, ché la paleontologia è una scienza in continuo divenire e, comunque, non potendo contare che su resti fossili, non potrà mai pervenire ad illuminare compiutamente il problema dell’ominizzazione. Ma ciò che essa è in grado di affermare come probabile o verosimile non è insignificante.

Uno degli effetti perversi, ideologicamente parlando, dell'evoluzionismo è stato quello di recuperare sì l’uomo come animale culturale, ma di sollecitare, nel contempo l’attribuzione all'uomo originario di caratteristiche psicologiche e culturali scimmiesche. Questo effetto non sarebbe risultato oltremodo negativo se, all'epoca di Darwin, le scimmie non avessero goduto di una pessima fama di creature sudice, maleodoranti e lascive, praticanti la poligamia, totalmente gerarchizzate dal principio del più forte, e dedite alle cure dei piccoli non meno che alla persecuzione degli adolescenti, dei deboli e dei vecchi. A questo mito, di un gruppo dominato da un maschio prepotente e violento, dà credito - e non è poco sorprendente - anche Freud in Totem e Tabù ricavando la nascita della civiltà da una rivolta omicida dei figli, esclusi dal possesso delle donne, contro il padre.

Ora, è probabile che l'evoluzionismo della specie umana sia avvenuta meno gradualmente che per salti, ma è non meno probabile che i salti siano stati favoriti da cambiamenti fisici e psichici avvenuti per mutazione e per selezione.

Tra questi, due sembrano avere un'importanza determinante: la ricettività sessuale delle donne e la modificazione dei bisogni alimentari. L'organizzazione sociale delle scimmie è riferita infatti ai cicli astrali stagionali, nel corso dei quali solo la femmina è ricettiva. La lunghezza del periodo di gravidanza e l'impegno delle cure materne postula, in ordine a ciò, la passività discriminatoria delle femmine, che tende a non accettare un maschio inadatto. I maschi sessualmente aggressivi vengono pertanto favoriti: ma, dato che il numero della progenie sopravvissuta di un maschio è proporzionale al numero delle femmine fecondate, le esigenze della selezione naturale postulano che i maschi più forti dispongano di un harem e consumino gran parte delle loro energie a respingere i competitori. Le abitudini vegetariane, d'altro canto, non imponendo alcuna ricerca del cibo, non richiedono alcuna divisione del lavoro.

La ricettività sessuale continua delle donne rende possibile la famiglia monogama, almeno nel senso che alla brama del maschio può bastare una partner sempre pronta ad essere fecondata. La necessità dell'uomo di affermare aggressivamente i suoi diritti sui competitori si riduce, pertanto, naturalmente, poiché esso non ha più significato selettivo. Nel contempo, i bisogni alimentari, divenendo, da vegetariani, carnivori o onnivori, postulano che gran parte delle energie, prima spese in compiti puramente difensivi, siano impiegate nella caccia e nella raccolta. Ciò implica una divisione del lavoro tra i sessi: l’uomo si specializza nella caccia e nella ricerca di cibo lontano dalla sua abitazione, la donna nella cura della prole e nelle faccende domestiche (conservazione o preparazione dei cibi, tessitura, ecc.). Venendo meno il significato evolutivo dell'aggressività all'interno del gruppo e la necessità dell'uomo di ribadire agli occhi della donna la sua dominanza, si instaura una collaborazione. Il tempo libero, non richiedendo più una costante vigilanza difensiva dell'uomo, può essere impiegato nel gioco e nella coltivazione degli affetti familiari: oltre che riproduttore, l’uomo diventa padre, nel senso che comincia egli stesso a curare la prole. Il passaggio dall'organizzazione sociale della scimmia a quella umana è dunque un passaggio critico, ma dovuto a cambiamenti naturali che postulano un'altra cultura, sostanzialmente meno aggressiva, centrata sulla famiglia monogamo, sulla divisione del lavoro tra i sessi e sulla cura della prole.

Ma questi cambiamenti elementari preludono e forzano altri cambiamenti culturali di enorme portata. La caccia, infatti, quanto più si fa strada l’idea che le grosse prede affrancano dalla fame per molti giorni, rende indispensabile, sotto il profilo dell'utilità, la collaborazione di gruppi di uomini, e, dunque, la formazione di clan e tribù. L’aggressività che, nella società delle scimmie è interindividuale e intragruppale e ha come preda la femmina, diventa intergruppale e riconosce come preda un territorio le cui risorse - scarse in rapporto agli strumenti di cui si dispone per utilizzarle - definiscono l’altro come nemico da distruggere.

Questa situazione di conflitto tra clan e tribù si acutizza, ovviamente, via via che avviene una crescita demografica. Ma essa pone un problema nel momento in cui si sono create le premesse per una soluzione. Se la donna, infatti, non è più una preda, la formazione di una nuova famiglia postula un legame tra due famiglie, un vincolo d'imparentamento, un contratto e uno scambio, matrilineare o patrilineare.

A questo punto, non possiamo procedere che in virtù di ipotesi azzardate. Non c'è alcun motivo, se si fa eccezione per una improbabile saggezza riferita ai danni della consanguineità, di pensare che i più arcaici gruppi umani non praticassero l'incesto. Al tempo stesso, è innegabile che il tabù dell'incesto, presente in tutte le culture umane sinora note, segnali un salto di civiltà la cui importanza è rimasta scolpita nella memoria dell'umanità. La teoria psicoanalitica, che ne attribuisce l’origine all’Edipo, e cioè al senso di colpa legato al desiderio del figlio di impossessarsi della donna di suo padre, sfidandolo, è insostenibile, sia perché essa è ricavata evidentemente dal mito di Totem e Tabù, che appare adeguato ad una organizzazione sociale scimmiesca, sia perché esso non rende conto dell’infinita complessità delle regole inerenti il tabù così come esse risultano dagli studi antropologici. Non c’è alcuna possibilità , logica o simbolica, di ricavare dalla madre il tabù che riguarda figure femminili che con essa non hanno alcun rapporto. Rimane, dunque, la soluzione levi-straussiana, secondo la quale "la proibizione dell'incesto ... proiettando ... le sorelle e le figlie fuori dal gruppo consanguineo, e assegnando loro sposi provenienti a loro volta da altri gruppi, ... stabilisce, per tali gruppi naturali, legami di imparentamento". Il tabù dell'incesto servirebbe dunque ad attenuare l'aggressività intertribale, a fondare vincoli di imparentamento e dunque di collaborazione, ad estendere infine l'identità del noi rigettando loro, i competitori, i nemici, al di là di un orizzonte sempre più lontano e, quindi, sempre meno minaccioso.

Secondo Levi-Strauss, "la proibizione dell'incesto fonda la società umana". E' probabile che ciò sia vero, ma è importante tener conto che tale proibizione postula un certo grado di sviluppo naturale - in termini di capacità mentali - e culturale - in termini di necessità di impiegare energie a fini produttivi piuttosto che difensivi, e che essa, inoltre, favorendo la combinazione di pool genetici, fonda la possibilità di un'ulteriore evoluzione della specie.

Ciò che è certo, e che va sottolineato, è che oggi risulta insostenibile l'immagine dell'uomo originario come di una scimmia nuda costretta dalla paura dell'estinzione e dalle costrizioni sociali a tenere sotto controllo la propria aggressività e ad addomesticarsi malvolentieri, in rapporto alla persistenza di un corredo pulsionale asociale e amorale. E’ l’evoluzione che, per vie ancora molto oscure, crea le condizioni naturali di un salto qualitativo dell'organizzazione sociale dalla scimmia a quella umana: e gli uomini si definiscono tali nel momento in cui sanno profittare di questa possibilità e metterla a frutto, creando nel contempo la famiglia monogama e, in virtù della proibizione dell'incesto, la società. Ciò non è avvenuto perché un'aggressività bestiale è stata assoggettata a vincoli dalla paura, ma perché essa è diminuita naturalmente ed è stata orientata al dominio della natura, piuttosto che al dominio del più forte sui più deboli. In condizioni di scarsità, il dominio delle risorse naturali l’ha attivata di nuovo, ma dando ad essa un significato sociale, ponendola al servizio di noi contro loro.

L'imparentamento dovuto al tabù dell'incesto, e la collaborazione tra gruppi sempre più estesi, ha spostato progressivamente il confine tra noi e loro, connotando sempre più l’aggressività in termini di difesa della sopravvivenza. Quella che noi conosciamo, e che accreditiamo indebitamente alla filogenesi, è un’aggressività di altro genere: è avidità, sete di dominio e di potere, violenza e brutalità.

Come comprenderla, se essa non è riconducibile alla natura, ma esprime solo una possibilità plastica della cultura? Rispondere a questo quesito è di importanza fondamentale per le scienze dell'uomo: ma, se anche ciò non dovesse risultare possibile, dovrebbe rimanere fermo l'arbitrio per cui si attribuisce alla natura umana ciò che essa contiene in potenza, ma che non ne costituisce l'essenza. Se è vero che l'uomo può divenire tremendamente distruttivo, ciò è in virtù del fatto che egli è diventato uomo: e lo è diventato non sotto l'incubo dell'aggressività, ma grazie ad una diminuzione quantica pulsionale dovuta al fatto che essa non aveva più significato sotto un profilo evolutivo.


9. I primitivi

Non diversa, rispetto a quella dell'uomo originario, è stata la sorte dei primitivi , dei selvaggi a livello di immaginario collettivo.

Non si scopre nulla affermando che, nel momento in cui l’uomo occidentale ha scoperto, nel suo spazio, di poter colonizzare il mondo, gli altri, i diversi da lui, ha dovuto giustificare la violenza - fisica e culturale - che è giunto ad esercitare su di loro respingendoli ideologicamente nel ruolo di esseri semibestiali da schiavizzare e da addomesticare. Chi non ha letto i resoconti degli esploratori e dei missionari sui selvaggi, dal '500 all'800, non saprà mai fino a che punto la logica del dominio dell'uomo sull'uomo postula l'attribuzione al subjecto di caratteristiche che, respingendolo fuori dalla specie e facendone una sorta di anello intermedio tra la bestia e l’homo, ne giustificano la civilizzazione.

I primitivi sono stati descritti come esseri semibestiali inclini alla ferocia e alla crudeltà, dediti al cannibalismo, infantilmente creduli e superstiziosi, sostanzialmente immorali e prede degli istinti. Nonostante il saggio di Montaigne, il cannibalismo in particolare ha inciso nell'immaginario collettivo come indice di una ferocia per la quale non si deve altra giustificazione che non fosse quella di una natura umana originariamente selvaggia e sadica. La ricerca antropologica ha fatto giustizia di questo pregiudizio: il cannibalismo è una pratica culturale e rituale che, in società perpetuamente minacciate dalla morte - sia essa dovuta al lutto legato alla perdita di un parente o all'attacco di un nemico - tende a sopperire alla debolezza di cui ciascun membro si sente portatore in virtù dell'incorporazione del potere dell'altro, il defunto o il nemico vinto. Nonché espressione di ferocia distruttiva, dunque, il cannibalismo, sia sotto forma di endo che di esocannibalismo, serve a recuperare ciò che la morte o la sconfitta ha deteriorato, senza estinguerne peraltro una vitalità che non va sprecata. Il colonialismo, prima, e l'imperialismo, poi, che tolgono rispettivamente ai selvaggi e ai popoli sottosviluppati la ricchezza di cui essi non sanno che fare non risponde ad una logica simbolica diversa. Ben a ragione, Levj-Strauss, affermando che "barbaro è colui che crede nella barbarie", definisce l'antropologia come "un'impresa che rinnova ed espia il Rinascimento, per estendere l'umanesimo a guisa dell'umanità". Scienza del rimorso, dunque, deputata a scontare la colpa della civiltà che la promuove, di aver costruito l'immagine del primitivo come mostro semibestiale per giustificare la propria mostruosità nei suoi confronti.

La realtà dei primitivi - come ormai è incontestabile - è un'altra, e non deriva da un diverso corredo naturale rispetto ai popoli civilizzati, bensì da un uso diverso, che si rifà a scelte diverse.

Mi sia consentita una lunga citazione:

"Le società cosiddette primitive sono nella storia: il loro passato è antico quanto il nostro, poiché risale alle origini della specie. Nel corso dei millenni, esse hanno subito ogni sorta di trasformazioni, e attraversato periodi di crisi e di prosperità; hanno conosciuto guerre, migrazioni, alterne vicende. Ma si sono specializzate in vie diverse da quelle che noi abbiamo scelto ... Pur essendo nella storia, queste società sembrano aver elaborato, o mantenuto, una saggezza particolare, che le induce a resistere disperatamente a ogni modificazione della loro struttura che permetta alla storia di fare irruzione in essa ... La maniera in cui sfruttano l'ambiente garantisce, in pari tempo, un modesto livello di vita e la protezione delle risorse naturali. A onta della loro diversità, le regole matrimoniali che esse applicano presentano, secondo i demografi, un carattere comune, che è quello di limitare al massimo e di mantenere costante l'indice di fecondità. Infine, una vita politica fondata sul consenso, e tale da non ammettere decisioni che non siano quelle prese all'unanimità, sembra concepita all'unico scopo di escludere quel motore della vita collettiva che utilizza scarti differenziali fra potere e opposizione, maggioranza e minoranza, sfruttatori e sfruttati".

Civiltà, dunque, fredde, inerti, apparentemente votate solo a perseverare nel loro essere, e che escludono, dunque, quasi per arbitrio, ogni evoluzione termica: ma questa scelta che, da un certo punto di vista - dal nostro punto di vista - sorprende, se si considera che i primitivi hanno una attrezzatura mentale identica alla nostra, ricava il suo significato, appunto, dall'essere messa in opposizione alla nostra. Ché essa, mantenendo gli uomini nella disuguaglianza naturale segnata dal sesso, dalla classe di età, dai ruoli - che vanno conquistati in virtù di capacità riconosciute da tutta la comunità - esclude l'asservimento dell'uomo da parte dell'uomo, questa maledizione millenaria - per usare la terminologia levistraussiana - che assegna agli scarti differenziali tra gli uomini - certuni dominanti, gli altri dominati - la funzione di motore del progresso, e, contemporaneamente, l’asservimento della natura all'uomo. Ovviamente, il discorso dell'antropologia attuale non tende a riproporre il mito del buon selvaggio: i primitivi continuano a vivere in una situazione perennemente minacciata dalla scarsità, dalle malattie e dalla paura. Il loro orizzonte mentale, ristretto nell'ambito della comunità e del territorio cui essa è vincolata, è popolato di mostri e di pericolo. Ma, nel loro equilibrio interno, queste società hanno realizzato un modello di rapporto tra uomo e uomo e uomo e ambiente il cui valore non può essere trascurato, e che anzi, secondo Levj-Strauss, deve essere recuperato dalla civiltà industriale qualora essa, il cui divenire storico è stato realizzato al prezzo di una trasformazione degli uomini in macchine - schiavi, servi della gleba, proletari - giunge all'acme di trasformare le macchine in uomini.

Se nel primitivo, dunque, si vuole insistere a vedere una natura umana più in trasparenza, è difficile ricostruirla in termini di irrazionalità, di disordine e di bestialità: essa, se si accetta l'azzardo dell'ipotesi, risulterebbe una natura che tende a preservare degli equilibri ecologici e sociali, e, in ordine a ciò, rinuncia ad un benessere che postula l'asservimento dell’uomo e il dominio della natura.


10. Il bambino

Non ci si sorprenderà del fatto che le scienze umane e sociali ideologicamente orientate a confermare l’assunto di una natura umana intrinsecamente amorale e assiale, dopo aver pregiudicato l'uomo originario e il primitivo, siano giunte a pregiudicare il bambino. E’ ovvio: non il bambino in quanto tale, bensì come essere eminentemente naturale, che, prima di essere civilizzato dalla cultura, è null'altro che un coacervo di pulsioni anarchiche.

Abbiamo già fatto cenno alla concezione della natura umana di Freud: vale la pena, ora, di sottolineare che, a partire dal saggio Al di là del principio del piacere, tale concezione giunge a riconoscere nel corredo biopsichico dell'infante istinti di vita e istinti di morte in perenne opposizione tra loro, tal che la storia dello sviluppo individuale, non meno che, come risulta ne Il disagio della civiltà, la storia umana sarebbe caratterizzata da una perpetua lotta di Eros contro Thanatos.

Nonostante le implicazioni filosofiche e ideologiche di tale concezione siano tanto complesse da aver dato luogo, nel seno stesso del movimento psicoanalitico ortodosso, ad un netto ri fiuto, quando non addirittura ad una rimozione, ha ragione Fornari di rilevare che "l’accettazione o la non accettazione delle dottrine degli istinti di vita e di morte non è un problema privo di rilevanza". Nella coerenza interna della teoria freudiana, l’ammissione di una distruttività primaria ha la funzione di motivare quello che a Freud sembra, da un punto di vista psicodinamico, il fattore essenziale di ogni disagio psichico: il sadismo distruttivo del Super-io.

Il sentimento di colpa inconscio, che sottende ogni esperienza psicopatologica, può essere restituito come istinto di morte in culture pure. Nonché evidente, questo è dunque da Freud postulato per spiegare la cattiveria del Super-Io. Tra la natura veicolata dall'Es e la cultura, introiettata dal Super-Io, Freud, insomma, preferisce pregiudicare la natura.

La concezione dualistica degli istinti di vita e di morte presiede, in misura più o meno rilevante, tutti i successivi approfondimenti psicoanalitici inerenti il corredo pulsionale umano. Non possiamo entrare nel merito della dialettica del movimento psicoanalitico. Ci limiteremo, pertanto, a tener conto solo della dottrina e della scuola di M. Klein, che, in virtù soprattutto dell'analisi dei bambini, ha portato la teoria freudiana dell'istinto di morte alle estreme conseguenze. Ammettendo che la vita psichica inizi sin dalla nascita sotto forma fantasmatica, nel senso che i fantasmi inconsci sarebbero l'animazione psichica del dato biologico costituito dagli istinti di vita e di morte, la Klein elabora una teoria dello sviluppo dei primi rapporti del bambino con il mondo secondo la quale gli impulsi distruttivi, sotto forma di sadismo, hanno un'importanza preponderante.

Si tratta di un corredo naturale, variabile peraltro da soggetto a soggetto, che incide, nelle prime fasi dello sviluppo, dando ai vissuti fantasmatici un rilievo assoluto rispetto alle circostanze reali. Gli impulsi distruttivi, che possono infatti essere legati ad un ambiente buono e soddisfacente, non lo sono però necessariamente: se essi infatti risultano particolarmente intensi, è il sadismo stesso a creare la frustrazione, in quanto porta a non poter godere di situazioni favorevoli. Questa capacità dei fantasmi di distorcere il reale non si esaurisce ovviamente con l'infanzia, ma segue tutta la vita dell'individuo - normale e patologico - e, di conseguenza, le relazioni interpersonali e sociali.

Nell'ambito delle scienze dell'uomo, il sistema kleiniano rappresenta, dunque, la concezione più rigorosa, se non della cattiveria, della pericolosità intrinseca al corredo della natura umana, e la riproposizione di una teoria istintualista. La filosofia del sistema, la cui precarietà epistemologica è pari alla sua drammaticità, è svolta con coerenza dagli allievi della Klein, e in particolare da Money-Kirle, il quale nell'intento di accordare l'esistenza dell'istinto di morte con l'evoluzionismo, forse senza saperlo, ripropone, a distanza di tre secoli, la dottrina hobbesiana della socialità come costrizione e vincolo determinati dalla paura dell'estinzione. Ma si tratta di una filosofia ancora più radicale di quella hobbesiana, poiché il suo fondamento non è sull’esperienza che gli uomini fanno dell'aggressività propria e altrui, bensì sulla percezione terrificante che si inscrive in ogni soggetto in fasi precocissime dello sviluppo di un pericolo interno, biologico, che incombe sulla sua conservazione prima ancora che sul mondo.

Alla luce di questa filosofia, la genesi di un Super-Io sadico che tenta di stornare questo pericolo vitale non è più un problema. Giungendo a radicare nel bios il senso di colpa inconscio, che sottende ogni esperienza psicopatologica, la psicoanalisi kleiniana radicalizza il pensiero freudiano, ma avallando un'ideologia che solo in virtù di essa perviene ad una formulazione precisa, e secondo la quale il reale è sempre più razionale di quanto sembri.


11. Il corredo pulsionale da un punto di vista neuropsicologico

Sinora abbiamo considerato approcci al problema della natura umana che cercano di rilevarla dall'organizzazione sociale e culturale - per quanto riguarda l'uomo originario e i primitivi - o dall’analisi della vita interiore intrapsichica - per quanto riguarda il bambino o i vissuti infantili dell'adulto sottoposto all'analisi. E’ ovvio che si debba giungere ad accentrare l'attenzione sullo strumento della vita mentale, il cervello: prodotto naturale evolutivo nel quale è depositato il mistero della natura umana. Le difficoltà di studio, da questo punto di vista, non sono irrilevanti: il cervello non esiste che come parte di un tutto - l’organismo inteso come elemento di un sistema ecologico le cui polarità sono l’uomo e l’ambiente.

Lo studio del cervello non può pertanto che adottare o una direttiva strutturale - studio della struttura cerebrale, da cui si estrapolano ipotesi sul funzionamento - o una direttiva comportamentale - studio del comportamento, da cui si risale a leggi strutturali e funzionali. Questa seconda direttiva può realizzarsi in virtù di metodiche che integrano la psicologia sperimentale o, in maniera più rigorosa, rivolgersi allo studio del comportamento animale, dal quale si presume di poter ricavare dei dati riferibili all'uomo. Seguiremo queste due direttive.

Per quanto riguarda la struttura del cervello, il dato più rilevante in assoluto si può ritenere il superamento della concezione meccanicistica secondo la quale il motore della vita psichica è rappresentato da tensioni istintuali che tendono a scaricarsi per assicurare, o restaurare, l’omeostasi.

Oltre ai bisogni omeostatici si riconosce nel sistema nervoso la presenza di bisogni che emanano dalla sua stessa complessità strutturale ad attività interneuronica. L'importanza dei bisogni omeostatici (fame, sete, sessualità) è fuor di dubbio. Ma il concetto di attività intrinseche al sistema neurale è rivoluzionario: esso si basa sull'osservazione che nella scala dell'evoluzione l'aumento di complessità delle strutture neurali si associa con lo sviluppo di un tipo di attività (esplorativa, costruttiva, creativa), tipica dei primati e soprattutto dell’uomo, che non si può spiegare come un'elaborazione degli istinti basilari. Questa attività non trae origine da particolari centri, come l’attività istintiva omeostatica, ma dal gradiente di strutturazione neurale e si traduce, in ogni campo, nei fenomeni dell'apprendimento. Il catalogo degli istinti sinora noti viene ampliato: occorre ammettere infatti, negli animali superiori, un istinto di esplorazione, di attività di ricerca, una tendenza cioè a porsi e a risolvere problemi senz'altra gratificazione se non quella inerente al compimento stesso dell'operazione. Nell'uomo, la quantificazione di questo istinto è impossibile, ma la sua indubbia esistenza, e importanza, porta a pensare che il corredo pulsionale umano sia caratterizzato da due tendenze complementari, l’una omeostatica, che tende ad esercitare e a tener desta la struttura nervosa.

Come gli istinti basilari, il bisogno di esplorazione è un bisogno innato: ma, in quanto l'esplorazione è apprendimento, essa si distingue dagli istinti basilari per l’altissima componente esperienziale. Non è azzardato individuare in questo bisogno il fondamento naturale della cultura, poiché esso si orienta letteralmente verso il mondo per conoscerlo e vedere cosa farne: in virtù di esso il sistema psichico si apre verso una possibilità infinita di ricombinazioni non previste, ma che anzi trasformano la natura stessa. Troviamo in questo una conferma della premessa basilare dell'antropologia marxiana, che vede nella praxis, nell’attività l'espressione propria della natura umana.

Se la neuropsicologia apporta qualcosa di nuovo a questa concezione, è perché essa non esaurisce il bisogno di esplorazione, di ricerca e di attività nel raggiungimento di un utile immediato: ciò è un aspetto dell'espressione di questo bisogno, ma che non deve indurre ad ignorare il suo carattere fondamentale, che mira anzitutto ad impegnare la mente umana nella soluzione di problemi, non sempre, apparentemente, di vitale importanza.

E ancora: si tratta, secondo la neuropsicologia, di un bisogno che, per realizzarsi, richiede come prerequisito fondamentale una certa sicurezza e un certo grado di familiarità con l'ambiente. La coercizione, la paura, l’ansia possono, dunque, vanificarlo, inattivandolo.

E' evidente che questa concezione della natura pulsionale umana, orientata contemporaneamente all'omeostasi e alla realizzazione di una certa tensione, inficia la tesi, freudiana e kleiniana, di una distruttività primaria. Nella versione freudiana essa si fonda sull'assunto che "l’odio, in rapporto agli oggetti, ... deriva dal primordiale ripudio del mondo esterno, con i suoi stimoli perversivi"; ma se il cervello ha bisogno di un grado moderato di attivazione corticale per svilupparsi e mantenersi, il mondo, l’ambiente esterno, nonché squilibrare l’omeostasi, gli offrono infinite possibilità di attivazione. Nella versione kleiniana è l'istinto di morte a svolgere questa funzione di attivare le ansie persecutorie e di sollecitare pertanto una relazione rassicurante con il mondo: ma nessuna logica evolutiva soccorre tale ipotesi, se si pensa che la complessità della struttura neurale postula una relazione sempre più ricca con il mondo.

Ambedue queste concezioni si possono ritenere, attualmente, mitologiche. Ma, come è vero che non esiste un mito senza fondamento, altrettanto si può dire della concezione dell'istinto di morte. E' certo infatti che la dicotomia dolore-piacere riconosce un fondamento neurofisiologico ben preciso, nel senso che essa fa capo a due sistemi relativamente autonomi. Il significato funzionale di questi due sistemi è ovvio da un punto di vista conservativo. Ma l'esistenza di un sistema negativo, dotato della capacità di produrre, in certe circostanze, dolore e ansia, con intensità non finalizzata alla difesa, consente di asserire che esso rappresenta un sistema non solo psicologicamente, ma anche biologicamente pericoloso. La sua attività, non intrinseca, bensì legata ad un processo di informazioni ambientali, può consentire di comprendere i fenomeni umani di disagio nel cui svolgimento il primato del principio del piacere sembra invertirsi.

Nella natura umana non esiste dunque una distruttività primaria, ma esistono le condizioni neurofisiologiche per cui, in rapporto all'esperienza, la distruttività può attivarsi, rivertendosi sul soggetto o estroflettendosi all'esterno. Tenuto conto, dunque, della dualità degli istinti - omeostatici e non omoeostatici - e della dicotomia dolore-piacere che presiede alla loro soddisfazione - nel duplice senso della conservazione e dell'integrazione o dello sviluppo - ciò che sembra più specifico della struttura cerebrale umana, è ciò che ne costituisce la qualità evolutiva, e la capacità di produrre ansia.

Ma l'ansia, intesa come previsione di un pericolo, postula la percezione del futuro e, dunque, una certa interpretazione dell'io. Alla luce di questo, sembra lecito sostenere che la natura umana, piuttosto che degli istinti fissi e immutabili, è un insieme di potenzialità pulsionali miranti a realizzarsi a fini omeostatici, a restaurare equilibri e contemporaneamente a metterli in gioco, la cui espressione e però vincolata ad un adeguato livello di sicurezza.

Ma come si pone, dal punto di vista neuropsicologico, il problema dell’aggressività? Che l’aggressività faccia parte del corredo biologico umano è fuor di dubbio, ma è altrettanto indubbio che essa non può essere definita un istinto. Essa infatti integra un comportamento che, sia esso di attacco, di fuga o di lotta, risulta legato e subordinato alla conservazione di sé.

Da un punto di vista biologico, l’aggressività è uno degli strumenti predisposti dalla natura per opporsi o debellare pericoli ansiogeni. Questa sembra particolarmente vero per l'uomo nel quale, contrariamente a quanto si pensa, la neocorteccia esplica un comportamento prevalentemente eccitatorio sul comportamento aggressivo. Ciò significa che è la complessità stessa della struttura neurale, che, producendo bisogni di esplorazione, di ricerca e di attività, e cioè il bisogno del nuovo, esprime una configurazione dell'aggressività legata alla difesa dai pericoli ai quali quei bisogni possono esporre. Questo permissivismo evolutivo, che, nell’uomo, libera l’aggressività da inibizioni automatiche, che non sarebbero funzionali ad apprendere situazioni esperienziali nuove e, in un certo qual senso, geneticamente imprevedibili, e ovviamente esposto al rischio di un uso distruttivo.

Ma non è lecito attribuire alla natura, nel senso deterministico, l’uso di possibilità funzionali che culminano nell'evoluzione dell’uomo, e che lo pongono in grado di amministrare una ricchezza che non è immune da pericoli. Alla natura si può attribuire piuttosto un altro bisogno, che fonda la socialità e la moralità, e la cui intuizione si deve a Rousseau, così come la definizione a Darwin: l’identificazione con gli altri. Comportamento, questo, presente solo nell'animale altamente organizzato, che si può ritenere diretto ad un fine motivato intrinsecamente, nel senso che esso non dipende da un rinforzo primario o secondario. L'identificazione con gli altri si traduce in un comportamento di aiuto, di soccorso o, comunque, di par tecipazione alle paure altrui. Presente e individuabile già nell’animale, è lecito pensare che esso sia a maggior ragione presente e più attivo nell’uomo. Questo perché il bisogno di essere altruista non può essere visto alla stregua di bisogni fisiologici elementari, come la fame e la sete, perché questi compaiono alla base stessa della vita, mentre quello emerge chiaramente ad un altro livello dell'evoluzione, sia filo - che ontogenetico. Non rimane quindi da postulare che esso non è la risultante funzionale di una particolare struttura cerebrale, ma piuttosto il segno di un'altra strutturazione neurale, un risultato della complessità stessa della struttura.

L'identificazione dunque, questa potente base del vivere civile, è una funzione psicobiologica nuova, che emerge in corrispondenza di un certo grado di strutturazione del sistema nervoso.

 


12. Per non concludere

Ci limiteremo a poche considerazioni critiche, orientate a formulare dei criteri metodologici di interpretazione dei vissuti e dei comportamenti umani devianti, con particolare riferimento a quelli che sembrano far affiorare una pretesa bestialità.

Che esiste una natura umana, un corredo biopsicologico geneticamente determinato, è fuor di dubbio, come pure che questo corredo non è uguale in tutti gli individui. Il pool genetico di una popolazione si può ritenere un capitale che viene utilizzato per infinite combinazioni, il cui significato ultimo è di creare la diversità per permettere, poi, la selezione. La diversità genetica degli individui - sia per quanto riguarda il livello pulsionale che il potenziale intellettivo - è un dato acquisito e indiscutibile. Questa diversità genotipica individuale è, comunque, un dato teorico: la realtà umana è fenotipica, e cioè si realizza in virtù dell’interpretazione del corredo genotipico con l’ambiente.

Da questo punto di vista, l’ambiente si può considerare come un insieme di possibilità - mai infinite - che offre al genotipo alcune possibilità di espressione, e non altre. La relativa costruzione genetica si può pertanto ritenere correlata, e interagente, con la costruzione ambientale. L'importanza di questo assunto non può essere sottovalutata nell'ambito della scienza del disagio psichico. Che le psicosi riconoscano una componente ereditaria, in termini di predisposizione, è un dato acquisito, almeno statisticamente. Ma, assumendo il punto di vista interdipendente, rimane problematico asserire se è la predisposizione genetica a forzare i limiti strutturali di un qualunque ambiente o non piuttosto l'ambiente a costringere quella predisposizione nei vicoli ciechi dell’espressione psicopatologica.

Quanto al corredo biopsicologico, in sé e per sé, indipendentemente dalla diversità individuale, si può asserire che una concezione pulsionale fissa e immutabile non ha fondamento scientifico. D'altro canto, neppure una concezione stratificata delle strutture neurali, che postula la relativa autonomia degli strati, e vede nella corticalizzazione un processo il cui fine ultimo è il controllo e l'inibizione degli strati inferiori (il cosiddetto cervello viscerale di Mac Lean), risulta compatibile con l’evoluzionismo e la neuropsicologia. L'evoluzionismo non tende, infatti, a stratificare, ma a integrare le strutture che produce a partire da livelli di crescente complessità, che riverberano su tutta la struttura.

Anziché di stratificazione, occorre dunque parlare di gradiente strutturale. E, come si è detto, a certi livelli evolutivi, affiorano bisogni nuovi: il bisogno di esplorazione, il bisogno di identificazione con l’altro e il bisogno previsionale - il bisogno, cioè, di confrontarsi con il futuro e di predisporre adeguate difese da pericoli reali o immaginari. Tali bisogni, che definiscono la plasticità del cervello umano, non possono realizzarsi in virtù di automatismi istintivi: naturali in sé e per sé, essi comportano, in misura più o meno rilevante, il concorso dell'esperienza. Essi rappresentano, in ultima analisi, il fondamento biologico della socializzazione e della trasformazione dell'ambiente. La cultura - intesa sia come organizzazione sociale che come praxis - da questo punto di vista, si pone come un’espressione di istanze biologiche che riverberano sulla natura, tal che evoluzione naturale e evoluzione culturale diventano meccanismi selettivi integrati.

Se ciò è vero, i comportamenti devianti, si realizzino essi fuori o dentro l'istituzione, proprio per il loro carattere innaturale e contro-natura, non possono essere interpretati che come comportamenti culturali, nel senso che essi segnalano gli effetti della cultura sulla natura. Il bisogno di esplorazione, per es., può essere frustrato fino al punto che l'individuo si blocca a casa, nel suo letto; il bisogno di identificazione con l'altro può pervertirsi al punto che l'altro può essere assunto sistematicamente come oggetto su cui scaricare la propria rabbia e la propria sofferenza; il bisogno aggressivo può giungere a configurarsi in termini tali che l'unica difesa possibile risulta l'attacco. In tutti questi casi, troviamo che un bisogno naturale si piega a certi investimenti simbolici del mondo che giungono a fuorviarlo.

Non sussistono che tre possibilità interpretative: la prima, organicistica, individua nella disfunzione intrinseca alla struttura neurale l'origine degli effetti comportamentali; la seconda, psicogenetista, sottolinea il ruolo dei fantasmi nell'esperienza del mondo; la terza, psicosociologica, si fa carico dell'intera vicenda umana del soggetto per giungere a comprendere i comportamenti come effetti negativi del processo di socializzazione della natura. Il primo punto di vista postula il concetto di malattia in senso stretto; il secondo muove dalla concezione dell'essere naturale - biopsicologico - dell'uomo come condizione originariamente malata cui solo la cultura pone rimedio, potendo, in alcuni casi, per impedimenti interni o situazioni sfavorevoli esterne, fallire, lasciando l'individuo preda delle sue pulsioni originarie; il terzo postula una natura umana predisposta a realizzarsi culturalmente, e dunque riconduce i comportamenti devianti alla distorsione che la cultura opera sulla natura.

Non si può dire di più: ma è quanto basta per costringere ciascuno di noi ad operare una scelta che è, necessariamente, un azzardo.

 

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