Mistificazione e Demistificazione


Si ingurgita a gran sorsi la menzogna che ci lusinga,
mentre si beve goccia a goccia una verità per noi amara.
(Diderot, Il nipote di Rameau)


Premessa

Come molti sanno, ho avviato un ciclo di letture su autori che ho definito come i Grandi Demistificatori: Darwin, Marx, Nietzsche e Freud. Non penso che sia riduttivo identificare come comune denominatore delle loro opere, peraltro profondamente diverse, la demistificazione, vale a dire l’intento di liberare la coscienza umana dai miti, dalle illusioni e dagli inganni in cui essa è avvolta e si avvolge.

Darwin libera l’uomo dall’antropocentrismo, vale a dire dalla presunzione che egli ha di essere al centro dell’Universo e di avere un’importanza del tutto particolare, che si perpetua in ogni soggetto sotto forma di narcisismo.

Marx lo riconduce alla consapevolezza che lo stato di cose esistente nel mondo, che egli vive come naturale in conseguenza del suo aderire all’ideologia del tempo, è in realtà un prodotto della storia, dell’attività degli esseri umani che lo hanno preceduto, quindi modificabile.

Nietzsche sottolinea che l’appartenenza sociale rende l’uomo inesorabilmente un animale gregario, che tende ad omologarsi al senso comune, ad uniformare i suoi comportamenti ai codici normativi del gruppo, e a rinunciare a perseguire l’obiettivo dell’individuazione.

Freud, infine, scopre che ogni soggetto utilizza senza rendersene conto una serie di meccanismi difensivi che mettono la coscienza al riparo da verità inquietanti, spiacevoli o socialmente disdicevoli, ma il cui prezzo è la falsificazione dell’immagine di sé.

L’antropocentrismo, la naturalizzazione della realtà storica, l’omologazione indotta dall’appartenenza sociale, l’adozione costante da parte dell’Io di meccanismi difensivi sono aspetti diversi ma concorrenti di un processo di mistificazione per cui l’uomo vive normalmente sul registro di un ingenuo realismo che lo mette al riparo dal chiedersi perché il mondo è fatto in un certo modo e non in un altro (possibile e migliore), dal prendere posizione in rapporto al senso comune e ai codici normativi e dall’interrogarsi, infine, sulla sua reale e contraddittoria realtà interiore.

I Grandi Demistificatori ci tolgono certezze, ma ci abituano a convivere e a coltivare il dubbio. Possono aiutarci dunque a mantenere una tensione critica che è un antidoto contro la tendenza della coscienza umana alla mistificazione.

Mi auguro che tutti i soci della LIDI vogliano approfondire queste tematiche consultando le letture darwiniane, marxiane, nietzsciane e freudiane via via che saranno pubblicate su Nilalienum (Archivio/Conferenze).

Esse fanno capo ad una riflessione personale sui processi soggettivi e culturali di mistificazione che va avanti ormai da più di trent’anni, intrecciandosi indissolubilmente con la mia esperienza umana e intellettuale.

L’Abbecedario di scienze umane e sociali, nuova edizione di Abracadabra, è una sintesi di tale riflessione. Nella premessa si legge:

“Capire e cambiare, anche solo di una virgola, qualcosa della propria personalità richiede un duro lavoro. Bisogna, infatti, fare i conti con le trappole intrinseche al singolare congegno impiantato nella scatola cranica, con quelle, ancora più insidiose, che la cultura ha prodotto e produce per ridurre l’impegno personale di capire qualcosa della giostra della vita, e, infine, con la cronica tendenza dell’Io cosciente alla mistificazione, vale a dire a fare carte false pur di non vedere come stanno le cose (fuori e dentro di sé). Fare questi conti implica, però, sapere che queste trappole esistono e, almeno approssimativamente, come funzionano.”

Le “trappole” sono, dunque, tre: la struttura stessa del cervello - macchina complessa prodotta dall’evoluzione, che la natura ci ha concesso in uso senza il libretto di istruzioni -; la determinazione storica della coscienza individuale, sulla quale grava il peso dell’uso fatto da tutte le generazioni che l’hanno preceduta; e le esigenze dell’Io di un’immagine unitaria, coesa e socialmente “normale”, che lo portano spesso inconsapevolmente a “rimuovere” o a “razionalizzare” le contraddizioni che vive ed esprime quotidianamente .

Questa conferenza segue le tracce del saggio, che in assoluto è il libro a me più caro, cercando di integrarle in un discorso - mi auguro - comprensibile e stimolante.

Dall’analisi dovrebbe riuscire chiaro, per un verso, che uno stato di coscienza del tutto affrancato dalla mistificazione è un’illusione, e, per un altro, che ciascuno di noi, nel suo piccolo, sforzandosi, può raggiungere un maggior grado di consapevolezza oggettiva (sullo stato di cose nel mondo) e soggettiva (su se stesso).

 

Etimologie

Sul piano lessicale, mistificare significa alterare la verità a proprio vantaggio. Se operata a danno di una persona, la mistificazione equivale a inganno, raggiro, imbroglio, abbindolamento, turlupinatura, impostura, frode, ecc; se applicata alla realtà o ai fatti significa falsificazione, travisamento, distorsione, adulterazione, alterazione, manipolazione.

Demistificare, ovviamente, significa scoprire e denunciare le mistificazioni che alterano la realtà di un fatto, di un evento o di una persona e restaurare la “verità”.

Entrambi i termini derivano dal francese mystifier, composto di myst radicale di mysterium (segreto, mistero) e ficàre per facere (fare). Essi implicano, dunque, per un verso, la capacità umana di falsificare la realtà, alterando e mascherando la verità fino al punto di trasformarla in un “mistero”, e, per un altro, quella di identificare la falsificazione e di restaurare la verità.

Contrapponendo mistificazione e verità, i vocabolari implicano che l’uomo può fare a riguardo il bello e il cattivo tempo. Il termine mistificare, di fatto, è strettamente imparentato con mentire e ingannare.

L’etimologia di mentire deriva dal latino tardo mentire, derivato di mens mentis dapprima col significato di “immaginazione”, poi “fingere”, quindi alterare o falsificare la verità.

La rete delle etimologie ci pone, sorprendentemente, di fronte all’intuizione che la mente, in quanto dotata della capacità di “fingere”, può costruire castelli in aria.

Nel dizionario non c’è alcun riferimento all’accezione del termine che più ci interessa: la mistificazione intesa come inganno inconsapevole, che può riguardare un soggetto o più soggetti.

Nel 1950 fu presentato al Festival di Venezia un film di Akiro Kurosava - Rashomon - che vinse il Leone d’oro. In esso un boscaiolo, un monaco e un passante, che sono stato testimoni in tribunale, si fermano a parlare di un caso di omicidio avvenuto qualche tempo prima: la vittima è un samurai, ucciso da un brigante che avrebbe anche abusato della moglie di lui. I tre uomini danno tre versioni diverse dell'accaduto, facendo apparire responsabile di volta in volta il samurai, la donna o il brigante. Alla fine, nessuno è in grado di dire cosa è veramente accaduto.

All’epoca, fu chiaro a tutti che il film recepiva gli echi della cultura occidentale. Meno chiaro fu che esso era saldamente ancorato all’interpretazione buddista della vita come illusione, e ancora meno che i personaggi del dramma - il samurai, la donna, il brigante - sono tutti e tre affetti da un mostruoso egocentrismo, per cui ciascuno falsifica la realtà a vantaggio del proprio onore, gettando fango sugli altri. Essi, però, non sembrano consapevoli della falsificazione: tentano di ingannare, ma al tempo stesso ingannano se stessi, sembrano assolutamente convinti di quello che testimoniano.

Per quanto riguarda Rashomon si può avere qualche dubbio sulla buona fede dei protagonisti. esistono, però, infinite circostanze storiche che pongono di fronte a processi di mistificazione collettiva.

In un libro straordinario - I re taumaturghi - Marc Bloch ricostruisce un rito che, dal Medioevo, si è mantenuto in Francia sino ai primi decenni dell’800. Esso consisteva nell’imposizione delle mani del re sulle “scrofole”, che, come oggi sappiamo, erano suppurazioni di ghiandole tubercolotiche. Al “tocco” del re, secondo le testimonianze dell’epoca, seguiva spesso una guarigione, in nome della convinzione dell’investitura divina, del monarca, che possedeva, dunque, poteri sovrannaturali.

Il protrarsi di questo rito nei secoli, fino all’incirca al 1830, ci pone di fronte al fatto che sia il re che il popolo condividevano una comune credenza, che oggi appare del tutto infondata.

Essi, insomma, mistificavano inconsapevolmente.

La definizione lessicale non tiene conto, della capacità che l’uomo ha di ingannare se stesso o di più soggetti di ingannarsi a vicenda senza averne alcuna consapevolezza, e tanto meno del fatto che tutti i soggetti, in quanto appartenenti ad un determinato gruppo culturale, aderiscono a idee, opinioni, modi di vedere e di pensare, da cui discendono i loro comportamenti, che ritengono veri senza mai avere riflettuto su di essi e parecchi dei quali sono semplicemente pre-giudizi, vale a dire false convinzioni.

Un’analisi esauriente dei processi di mistificazione richiederebbe un ciclo di letture (che eventualmente potremo programmare). Per limitarmi all’essenziale, cercherò di illustrare i seguenti punti:

1) l’uomo di fatto è intuitivamente e cognitivamente consapevole del mistero da cui è avvolto, che riguarda il modo in cui funziona la sua mente, la realtà esterna - naturale e culturale -, e il suo stesso esserci in quanto soggetto ;

2) l’apparato mentale, nella misura in cui è in grado di cogliere la complessità del reale, è organizzato anche, se non soprattutto, per semplificarla, dunque per sovrapporre il semplice al complesso, il distinto all’indistinto;

3) il rapporto di ogni soggetto con la realtà non è, per molti aspetti, fondato sull’esperienza diretta, bensì sulla mediazione della cultura del gruppo cui appartiene, quindi sui pre-giudizi, sul modo in cui altri prima di lui hanno interpretato e codificato la realtà;

4) ogni individuo cade nell’inganno realistico della coscienza che lo porta a confondere il suo punto di vista soggettivo con lo stato di cose esistente nel mondo;

5) ogni soggetto ha bisogno di mantenere un’immagine unitaria, coesa e continua nel tempo del suo Io, che lo spinge a non vedere, a rimuovere e a reprimere tutti gli aspetti del suo essere e del suo comportamento incompatibile con quell’immagine.

Prima di avviare l’analisi delle mistificazioni soggettive e culturali, concediamoci una breve digressione.

 

Le illusioni ottiche

Il mondo interiore è oscuro e sottratto al nostro sguardo. Il mondo esterno è sotto i nostri sensi. Siamo letteralmente affacciati su di esso, lo viviamo - per così dire - in presa diretta come una realtà oggettiva, stabile e distinta.

Possiamo fidarci almeno dei sensi? Senza scomodare i filosofi (occidentali e orientali), si può avanzare qualche dubbio a riguardo.

Intanto noi percepiamo il mondo entro i limiti funzionali degli organi sensoriali, vale a dire siamo consapevoli solo di stimoli che possono essere percepiti in rapporto alla loro struttura. Non possiamo vedere i raggi ultravioletti; non possiamo udire gli ultrasuoni; non possiamo vedere né gli atomi né gli ; ecc.

Sappiamo, inoltre, dalla psicologia sperimentale che, degli stimoli che arrivano dal mondo esterno agli organi sensoriali, non meno del 90% vengono estinti, vale a dire non arrivano alla corteccia e quindi non possono essere percepiti.

Infine, è ormai certo che l’attività percettiva categorizza o dà forma ad un mondo caotico senza etichette. Questo significa che essa estrapola figure da uno sfondo indistinto, mette ordine nel caos e, talora, per fare questo, ci inganna.

L’universo delle illusioni ottico-geometriche è indefinito. Ne riporto alcune:

 


Il disco arancione è di grandezza identica, ma noi riusciamo a rendercene conto solo se eliminiamo i dischi grigi


Vediamo un triangolo che non esiste.


Le rette sono assolutamente parallele, ma sembrano divergere o convergere.


Le rette sono parallele, ma alla vista sembrano sghembe, come si può vedere isolando una “striscia” dal contesto.


La spirale è fatta in realtà di cerchi concentrici.

Ancora più interessanti delle illusioni ottico-geometriche, sono le immagini ambigue, che contengono varie figure che non possono essere viste contemporaneamente:


Vediamo alternativamente una giovane donna ottocentesca o una vecchia megera.


Vediamo alternativamente il viso di una graziosa ragazza o tre uccelli che stanno portando da mangiare ai piccoli.


Guardiamo, infine, questa immagine:

Sembra inequivocabilmente la Gioconda. Rovesciandola è una donna rabbuiata:

 

Le illusioni ottiche attestano che perfino a livello percettivo la realtà oggettiva viene adattata alla struttura del cervello, e cioè viene in qualche misura alterata. L’ultimo esempio pone di fronte al fatto che la mente tende a “vedere” ciò che è abituata a vedere, vale a dire “proietta”. Di fronte a stimoli indistinti, la proiezione diventa interpretazione.

Su questo principio, come noto, si fonda il “Reattivo di Rorschach”, costruito da uno psichiatra svizzero per indagare le risposte soggettive di fronte a stimoli nuovi ed ambigui.

Il reattivo di Rorschach è costituito da dieci tavole, su ciascuna delle quali è riportata una macchia d’inchiostro simmetrica: 5 monocromatiche, 2 bicolori e 3 colorate. Il soggetto sottoposto al reattivo è invitato a riferire tutto ciò che “vede”, globalmente o in dettaglio, nelle tavole stesse. Dall’insieme delle risposte, si ricava un profilo dinamico della personalità. L’analisi delle risposte si basa sul principio per cui, di fronte a stimoli nuovi e ambigui, ogni soggetto dà o ricava da essi un significato che fa capo al suo modo profondo di rapportarsi alla realtà

Riporto una tavola.

Si tratta semplicemente di una tavola inchiostrata. Se la fissiamo con attenzione globalmente, l’impressione è di qualcosa di indistinto. Se continuiamo a fissarla, l’effetto emozionale è sgradevole perché la figura assume un significato vagamente minaccioso di un mostro che avanza o incombe su di noi. Chi ha paura del mostro, ci legge tante altre cose fermandosi sui dettagli.

Si tratta di “giochi” psicologici densi di significato.

La realtà, anche solo a livello percettivo, è ambigua, può essere vista e interpretata in modi molteplici. La nostra mente non tollera l’ambiguità: essa è programmata per dare una forma univoca al mondo e agli oggetti.

A livello percettivo ci sembra di essere in un rapporto immediato con le cose, ma non è così. Il rapporto con la realtà esterna è mediato dalle esigenze del cervello di semplificare, ordinare, ricondurre l’ignoto al noto.

Jean Piaget, lavorando sul rapporto cognitivo dell’uomo con l’ambiente, ha identificato due modalità di fondo: l’assimilazione e l’accomodamento. Si ha assimilazione allorché il soggetto tenta di manipolare in qualunque modo la realtà per farla rientrare in schemi già acquisiti. Si ha accomodamento allorché egli, prendendo atto che la realtà contiene qualcosa che non rientra in quegli schemi, tenta di produrne dei nuovi che possano permettere di padroneggiarla.

Non ci vuole molto a capire che, nell’esperienza di ciascuno di noi, come nella storia dell’umanità, l’assimilazione è il meccanismo di gran lunga dominante. Riconducendo l’ignoto al noto, la nostra mente ci permette di inquadrare e categorizzare immediatamente la realtà esterna. Il prezzo di questo automatismo, sicuramente utile sotto il profilo dell’economia psicologica, può essere però elevato. Esso può, infatti, facilmente indurre una mistificazione nella misura toglie ad un determinato stimolo un carattere di novità che comporterebbe l’accomodamento degli schemi acquisiti e il loro cambiamento piuttosto che l’assimilazione.

L’esigenza di disambiguare, di dare una forma e un significato alla realtà non riguarda solo la percezione, ma qualunque rapporto noi intratteniamo con il mondo interno e con quello esterno.

 

Suggestionabilità e mistificazione

Mettiamo da parte le illusioni ottiche, e torniamo ai I re taumaturghi di Bloch che ci costringono ad interrogarci sulla suggestionabilità umana.

La capacità di ingannare rileva già di per sé un tratto importante della psicologia umana. Intanto un soggetto può ingannare in quanto sa che un altro soggetto può essere ingannato, vale a dire scambiare per vero qualcosa che non lo è. Insomma, la mente umana può manipolare altre menti ed essere manipolata da altre menti.

Anni fa, nel lontano 1957, fece scalpore un libro di Vance Packard, il cui titolo era I persuasori occulti. L’autore, un docente di giornalismo, dimostrava che la pubblicità subliminale influenzava subdolamente il modo di pensare e le scelte comportamentali delle persone.

Il libro si inaugurava nel seguente modo:

Attacco all’inconscio

Questo libro prende in esame un aspetto nuovissimo, ancora misterioso e si potrebbe dire esotico della vita americana Molti di noi - di questo si tratta - vengono oggi influenzati assai più di quanto non sospettino, e la nostra esistenza quotidiana è sottoposta a continue manipolazioni di cui non ci rendiamo conto. Sono all'opera su vasta scala forze che si propongono, e spesso con successi sbalorditivi, di convogliare le nostre abitudini inconsce, le nostre preferenze di consumatori, i nostri meccanismi mentali, ricorrendo a metodi presi a prestito dalla psichiatria e dalle scienze sociali. E significativo che tali forze cerchino di agire su di noi a nostra insaputa, si che i fili che ci fanno muovere sono spesso, in un certo senso, «occulti».

Tra le molte pressioni che si tenta di esercitare su di noi, alcune muovono semplicemente al riso; altre, invece, non possono non destare inquietudine, specie se le consideriamo come l'avanguardia di ciò che domani potrebbe rovesciarsi su tutti noi con ben maggiore intensità ed efficacia. Alcuni uomini di scienza, alleandosi con la pubblicità, le hanno fornito potentissimi e paurosi strumenti.

L'impiego della psicanalisi di massa nelle grandi offensive di «persuasione» sta ormai alla base di una industria multimiliardaria. E i «persuasori» di professione non hanno esitato a servirsene, avidi come sono di tutto ciò che possa aiutarli a propagandare con maggiore efficacia le loro merci - siano esse manufatti, idee, ideali, atteggiamenti, candidati, o stati d'animo.

Analizzando le strategie pubblicitarie, come rivolte ad incidere sull’inconscio delle persone, Packard ha tenuto conto di molte scoperte già fatte sulla “suggestionabilità” degli esseri umani.

Nell’800 l’ipnosi aveva dimostrato questo tratto della personalità umana, tale per cui un soggetto, istruito in stato ipnotico, da “sveglio” esegue come un automa le istruzioni impartite. Da allora in poi per suggestione si intende, in psicologia, un processo psichico che induce l’individuo ad agire secondo suggerimenti esterni, provenienti da personalità autorevoli o dalla pressione del gruppo, senza avere subito alcuna costrizione manifesta.

Approfondendo le esperienze ipnotiche, Freud ha avuto l’intuizione che l’inconscio non solo esiste, ma partecipa attivamente all’esperienza del soggetto e alla sua interazione con il mondo, spingendolo ad agire sotto la spinta di motivazioni che in gran parte gli sono ignote. Di queste motivazioni, alcune sono di ordine soggettivo, altre derivano dall’influenza ambientale e dall’interazione con l’ambiente culturale.

Tutti gli uomini sono suggestionabili, sia pure in misura diversa. In un contesto razionalista come il nostro, il termine suggestionabilità ha una valenza negativa in quanto fa riferimento all’influenzabilità, intesa come un tratto immaturo di personalità.

Di fatto è un tratto del tutto evidente nei bambini, che però residua inesorabilmente negli adulti. Esso, peraltro, non ha un significato univocamente negativo.

La suggestionabilità del bambino, associata alla tendenza ad idealizzare i grandi, è lo stratagemma in virtù del quale la cultura si replica di generazione in generazione quasi senza trovare resistenze. Se i bambini non fossero suggestionabili, se non dessero un credito smisurato agli adulti, essi non sarebbero educabili.

Anche negli adulti la suggestionabilità persiste in quanto funzionale ad assicurare, attraverso l’influenza della maggioranza, la convergenza dei comportamenti verso la media o la “norma”.

La scoperta dei neuroni specchio, vale a dire di neuroni che rispecchiano l’esperienza dell’altro promuovendo l’imitazione, ha dato un fondamento scientifico all’influenzabilità umana.

E’ noto, peraltro da tempo in medicina un fenomeno che comprova in maniera indubbia la suggestionabilità umana: l’effetto placebo. Fino a qualche tempo fa, i medici miravano a minimizzarlo riconducendolo sostanzialmente a personalità iperemotive o “disturbate”. In realtà, oggi sappiamo che gran parte (secondo alcuni addirittura il 70%) degli effetti dei farmaci sono placebo e che, se si somministra sperimentalmente “acqua fresca” (una sostanza inerte) ad un qualunque campione della popolazione comunicando ai soggetti che si tratta di un farmaco, non meno del 30% manifestano effetti positivi o collaterali.

Una ricerca recente è addirittura inquietante. Un certo numero di pazienti cardiologici viene operato al cuore: il 70% ne ricavano vantaggio. La stessa operazione viene simulata su soggetti con la stessa patologia facendo loro, in sala chirurgica, una cicatrice all’altezza del cuore. Il 100% di questi ultimi pazienti va incontro ad un miglioramento che persiste nel tempo!

Si consideri l’effetto placebo nei suoi due versanti: per quanto riguarda il curante, che lo somministra, è una menzogna a fin di bene (o a fini sperimentali); per quanto riguarda il paziente si tratta di una mistificazione in senso proprio. Egli, fidando sul fatto di essere curato, è in grado di utilizzare potenzialità terapeutiche sue proprie che. altrimenti, rimangono disattivate.

Attraverso l’effetto placebo, intravediamo il nesso che si dà tra suggestionabilità e mistificazione. Pensare al tocco taumaturgico del re ci fa sorridere. L’effetto placebo, però, è una realtà inconfutabile, come pure reale è il fatto che numerose pratiche che fanno capo alla cosiddetta medicina alternativa (omeopatia, pranoterapia, reflessologia, iridoterapia, ecc.) conseguono effetti omologabili al placebo che la scienza non è in grado di interpretare se non facendo riferimento alla suggestionabilità.

Perché l’uomo ha un bisogno così profondo di ingannare se stesso?

Se teniamo conto dell’effetto placebo, verrebbe da rispondere che egli ha bisogno di credere che ci sia un potere che rimedia al “male” e al “negativo” che incombe su di lui. Il problema della mistificazione si può affrontare tenendo conto che il “male” e il “negativo” in questione sconfinano ampiamente dal piano della malattia.

 

L’animale naturalmente ansioso

Occorre partire da un presupposto semplice: la complessità della realtà esterna e interna è ansiogena per la mente umana che è in grado di intuirla senza la capacità immediata di dare ad essa senso.

L'intuizione (come abbiamo visto nella Conferenza su Cervello, Mente e Infinito) è dovuta al fatto che la crescita del cervello ha creato una sorta di corto-circuito tra strutture emozionali e strutture cognitive, il cui effetto è stata una dilatazione all'infinito dell'orizzonte soggettivo. In virtù di questa dilatazione l'uomo sente e vive la complessità che trascende il suo essere e che alberga nel suo intimo.

Gli altri animali dotati di emozionalità possono sperimentare l'allarme, la paura o il terrore in rapporto a situazioni di pericolo. L'ansia, invece, intesa come capacità previsionale che può estendersi a tutto il tempo che l'uomo ha davanti a sé è esclusivamente umana. Essa comporta non solo la percezione netta della vulnerabilità, precarietà e finitezza attuali, ma anche delle indefinite possibilità di sviluppo futuro che esse comportano. L'uomo non soffre solo di mali reali, ma anche di tutti i mali che la sua mente è in grado di prevedere o di immaginare.

Un carico ansiogeno del genere riuscirebbe intollerabile se non fosse in qualche misura compensato. Nel momento stesso in cui ha creato il cervello umano, la natura è stata clemente ponendo in atto meccanismi naturali di protezione per cui i contenuti esistenziali ansiogeni sono solitamente tenuti al margine o al di fuori della coscienza.

Definiamo, dunque, questo punto di partenza: l'uomo è costretto in una certa misura a mistificare, a celare a se stesso la sua realtà esistenziale, semplicemente perché altrimenti non riuscirebbe a tollerare il carico di ansia che essa implica.

Quando i meccanismi naturali di protezione non bastano, al “male” e al “negativo” che incombe su di lui l’uomo può opporre, aiutato dalla cultura, dagli altri o in proprio, la mistificazione: può avvolgersi o rimanere avvolto in una cortina di false convinzioni che lo rassicurano, anche se non sono sempre vantaggiose.

Può, per esempio, al fine di sopperire alla contingenza e casualità del suo essere nato qui piuttosto che là, ora piuttosto che allora, sviluppare un’identificazione con il gruppo di appartenenza tale da sentire che il suo fragile Io di fatto è un Noi potente, che si distingue da Loro in virtù di una cultura superiore (etnocentrismo).

La mistificazione è, dunque, un inesorabile prezzo che l’umanità paga alla difficoltà di prendere coscienza del suo reale statuto, ed essa può realizzarsi sul piano individuale e su quello collettivo. Inesorabile però non significa insormontabile del tutto.

Se, infatti, è vero che l’essere umano indulge alla mistificazione per non confrontarsi con verità che egli ritiene sgradevoli o troppo impegnative, è altrettanto vero che la sua mente, che egli può utilizzare per mistificare, è caratterizzata anche da una “pulsione” verso la verità - che oggi i neurobiologi riconducono al cosiddetto sistema di ricerca - che lo sollecita nella direzione della demistificazione.

Sia a livello soggettivo che collettivo, insomma, l’umanità oscilla tra mistificazione e demistificazione. Ciascuno di noi deve fare i conti con queste opposte motivazioni.

L’ambito soggettivo in cui questo conflitto è più semplice da esplorare è quello psicopatologico, laddove, adottando una logica psicodinamica, esso risulta trasparente.

Un’esperienza clinica può permetterci di cominciare a capire di cosa si tratta.

 

L’impossibile fuga di Serena

Anni fa, fui chiamato a consulto da una famiglia alto-borghese, la cui figlia (che denomino Serena) al risveglio si era ritrovata con le gambe del tutto paralizzate. I genitori erano sconvolti, mentre la ragazza appariva del tutto indifferente alla situazione che viveva: era visibilmente irritata e infastidita piuttosto che preoccupata o angosciata. Dal suo atteggiamento, benché all’epoca mi fossi specializzato da poco tempo, capii subito che si trattava di una paralisi psicogena. La visita neurologica confermò la diagnosi.

Mi misi a parlare con la ragazza e la verità affiorò subito. Da anni Serena era in conflitto con i suoi, soprattutto con la madre, per via di un atteggiamento iperprotettivo e invadente che limitava la sua libertà. Tre mesi prima della paralisi psicogena, aveva avuto un attacco di panico che l’aveva costretta per alcuni giorni a stare in casa letteralmente aggrappata alla madre. Nel giro di una settimana il panico era regredito, Serena aveva riacquistato totalmente la libertà e la vitalità, e nel suo intimo si era fatto strada un progetto da lungo covato: fuggire da casa nottetempo, scomparire dalla vista dei suoi e rifarsi una vita altrove.

Il progetto non era oggettivamente impossibile da realizzare: avendo raggiunto la maggiore età, la ragazza disponeva di sue proprietà e di un rilevante conto in banca.

Preparò, dunque, accuratamente la fuga, con l’obiettivo di recarsi nel Sud d’Italia, certa che i suoi l’avrebbero cercata al Nord dove aveva dei parenti.

La fuga sarebbe dovuta avvenire la mattina stessa in cui si verificò la paralisi. Aveva già sistemato in macchina, la sera prima, i bagagli. Sarebbe uscita con la tuta per andare a correre e non dare nell’occhio.

Scoperta l’incapacità di muoversi, la prima reazione di Serena è stata di rabbia: ha capito, infatti, immediatamente che per qualche tempo si sarebbe ritrovata affidata alle cure della madre. E’ subentrata poi una sorprendente indifferenza.

L’indifferenza, singolare se messa a confronto con l’angoscia catastrofica dei suoi, risultò giustificata. Il ricovero in Ospedale confermò che si trattava di una paralisi psicogena, quindi di un’inibizione funzionale della motilità.

Nonostante fossi ancora poco titolato, e la famiglia si fosse data da fare per affidare la figlia all’analista più famoso sulla piazza, Serena scelse di farsi seguire da me. Nonostante fosse emotivamente corazzata, lentamente essa si rese conto che le sue gambe (cioè l’inconscio) avevano ragione, ammettendo che, più ancora della solitudine, che aveva messo in conto, non ce l’avrebbe fatta a sopportare il senso di colpa riferito alla disperazione dei suoi.

E’ superfluo aggiungere che Serena è stata una bambina d’oro ed è andata incontro, a 16 anni, ad un radicale cambiamento di carattere, che io riconduco all’adolescenza maligna, protrattosi sino alla paralisi.

Il sintomo era l’espressione di tale cambiamento che aveva indotto Serena ad anestetizzarsi nei confronti dei suoi, e a sentire solo un odio al di sotto del quale c’era un persistente legame affettivo e una viva sensibilità empatica.

La malattia l’ha costretta a tornare letteralmente sui suoi passi e a rimediare allo “strappo” prematuro con un tragitto di maturazione.

Non è necessario qui fornire ulteriori dettagli sulla storia interiore di Serena. E’ importante invece porsi un interrogativo: è possibile che l’inconscio di Serena abbia tenuto conto più dei diritti dei suoi che della sua volontà? Se questo è vero, poi, si tratta di una circostanza particolare o di una dinamica estensibile ad altre persone?

 

La doppia natura dell’uomo

Le esperienze psicopatologiche evidenziano, talora in forma drammatica, un aspetto che si può ritenere costitutivo di ogni personalità in quanto fondato sulla natura umana, vale a dire sul modo in cui è programmato il Cervello.

L’uomo ha una doppia natura.

Per un verso, è un animale radicalmente sociale, che raggiunge consapevolezza di sé e uno statuto identitario solo in conseguenza di una lunga interazione con altri mondi di esperienza soggettivi che sono depositari di un patrimonio culturale. La lunga interazione sociale fa sì che l’Altro (generalizzato), che rappresenta il mondo sociale, si insedia nella struttura della soggettività e funziona in permanenza.

L’Io non ha consapevolezza di questa cattura sociale, che residua nell’inconscio sotto forma di costante richiamo ad essere quello che gli altri vogliono che egli sia.

E’ attraverso l’insediamento dell’Altro nella soggettività che la società esercita una costante pressione normativa.

Per un altro verso, l’uomo è dotato della consapevolezza di essere individuo, distinto e diverso da tutti gli altri. Tale consapevolezza è imprescindibile da diritti naturali (pari dignità, libertà, giustizia) che egli rivendica e che comportano la possibilità di operare scelte di vita espressive della volontà sua propria anche in opposizione alla volontà altrui e alla cultura del gruppo.

La doppia natura è riconducibile a due bisogni che sono geneticamente programmati e governano l’evoluzione e la strutturazione, conscia e inconscia, della personalità: il bisogno di appartenenza/integrazione sociale e il bisogno di opposizione/individuazione. Questi due bisogni sono in tensione tra loro, anche se non necessariamente in conflitto. Essi, infatti, si esprimono sotto forma di due logiche perennemente attive a livello inconscio: l’essere per gli altri (doveri sociali) e l’essere per sé (diritti individuali).

La logica sociocentrica fa riferimento all’individuo come membro o funzione di un insieme sociale; la logica ego-centrica fa, viceversa, riferimento all’individuo libero come ente distinto da tutti gli altri.

La relazione tra Io e Altro (generalizzato) è costitutiva dell’esperienza di ciascuno di noi.

Essa comporta una scissione costitutiva del nostro essere, che, con il termine Spaltung, è stata posta in luce originariamente da Freud che ammette l'esistenza in seno ad uno stesso soggetto di “...due atteggiamenti psichici diversi, contrari e indipendenti l'uno dall'altro”. Freud interpreta la scissione in termini che nulla hanno a che vedere con la teoria dei bisogni, attribuendola alla tensione tra adesione alla realtà e distacco o negazione di essa.

Riconducendo la scissione alla teoria dei bisogni, tutto diventa più chiaro.

E’ la doppia natura dell’uomo il fondamento di questa scissione, che però è incompatibile con le esigenze di unità, di coesione e di padronanza dell’Io, che promuovono la mistificazione in virtù della quale quelle esigenze si realizzano apparentemente.

L’uomo, insomma, è fatto di parti diverse, è schiavo contemporaneamente del Sociale, che è rappresentato dentro di lui, e di un insopprimibile bisogno di individuazione.

Nella misura in cui è intollerabile la scissione costitutiva della personalità umana viene rimossa, in nome di una “coazione” alla sintesi, che si dissolve laddove si danno conflitti psicodinamici in conseguenza dei quali affiora la verità: l’opposizione divenuta irriducibile tra istanze sociali e istanze soggettive.

 

Meccanismi di difesa

La teoria della rimozione - scrive Freud - è la pietra angolare su cui poggia tutto l'edificio della psicanalisi. In quanto processo psichico universale la rimozione sarebbe all’origine della costituzione dell’inconscio come campo separato dalla coscienza.

A Freud va il merito indubbio di avere scoperto, oltre alla rimozione, un certo numero di meccanismi che mantengono l’Io al riparo da alcuni aspetti di sé che egli non tollera, non vuole riconoscere, di cui ha paura o ritiene poco o punto compatibili con l’immagine cosciente che ha di sé. La storia della psicoanalisi ne ha aggiunto degli altri. Attualmente i trattati di psicoanalisi riportano come meccanismi difensivi i seguenti (in ordine alfabetico):

Annullamento retroattivo, Conversione, Conversione nell’opposto, Diniego (della realtà), Formazione reattiva, Idealizzazione, Identificazione, Identificazione con l’aggressore, Identificazione proiettiva, Introiezione, Isolamento, Negazione, Preclusione, Proiezione, Razionalizzazione, Regressione, Repressione, Riflessione sulla propria persona, Riparazione, Scissione dell’Io, Scissione dell’oggetto, Spostamento.

Non è opportuno inoltraci in un’analisi tecnica di questi meccanismi. Basterà dire che i più importanti, in quanto facilmente reperibili in ogni esperienza soggettiva, sono la rimozione, la proiezione, la conversione, la negazione e la razionalizzazione. La rimozione mantiene i contenuti psichici “sgradevoli” nel “cestino” dell’inconscio, la proiezione li sposta nell’ambiente esterno, la conversione li esprime attraverso il corpo. Quando ciò non basta, il soggetto, se si trova di fronte ad un contenuto psichico o ad un comportamento incompatibile con l’immagine che ha di sé, può semplicemente negare che gli appartenga o razionalizzarlo, giustificandolo in qualche modo.

I meccanismi difensivi permettono di spiegare della soggettività umana ciò che altrimenti sarebbe incomprensibile.

Riconduciamoci all’esperienza di Serena. Essa, infatti, ha negato la dipendenza affettiva affiorata con l’attacco di panico, ha tentato di risolvere il conflitto mettendo in atto il comportamento di fuga e, infine, ha convertito il conflitto stesso, che non intendeva riconoscere in quanto sotteso da paure e sensi di colpa, in un sintomo somatico, la paralisi. La conversione dell’angoscia ha consentito a Serena di rimanere identificata con il suo modello ideale di persona del tutto indipendente dai suoi e di fatto ostile e anestetizzata nei loro confronti.

L’evoluzione della personalità di Serena è riconducibile essa stessa a meccanismi di difesa: il suo tragitto lineare di figlia d’oro è riconducibile all’idealizzazione dei genitori, all’identificazione con essi, all’introiezione dei valori culturali da essi trasmessi. Con l’adolescenza, poi, è sopravvenuta la scissione dell’Io, che implica l’identificazione con un modello di autosufficienza e la negazione del legame affettivo con i genitori, la conversione dell’amore nei loro confronti in odio, la rimozione dei sensi di colpa legati al progetto di fuga, ecc.

E’ la stessa esperienza di Serena, però, che sembra rientrare pienamente nel quadro dell’isteria freudiana, ad indurre qualche dubbio non già sull’esistenza dei meccanismi di difesa, bensì sul loro significato.

Per Freud tale significato è univoco. L’Io deve adottare difese per stare al riparo dalle “pulsioni”, vale a dire da spinte motivazionali psicobiologiche - di natura sessuale e di natura aggressiva - che, in sé e per sé, tenderebbero a scaricarsi all’esterno senza alcun rispetto degli altri e delle regole minimali che consentono la vita sociale.

La rimozione, di conseguenza, celerebbe alla coscienza lo statuto sostanzialmente asociale e antisociale della natura umana.

L’uomo sarebbe costretto alla rimozione per non prendere coscienza di essere, in ultima analisi, una “bestia selvaggia”, e per non sentirsi esposto al rischio dell’emarginazione sociale. Il pessimismo di Freud sulla natura umana è radicale.

Esso, peraltro, riguardando la natura umana, concerne tutti i soggetti: ogni individuo adotta meccanismi di difesa dal suo fondo pulsionale. E’ su questa base che il confine tra normalità e anormalità è stato sfumato e compromesso dalla psicoanalisi. Ciò nondimeno, Freud non ha mai cessato di pensare che i meccanismi difensivi fossero più intensi nei soggetti affetti da un disagio psichico, che riteneva dotati di un corredo pulsionale costituzionale particolarmente intenso.

Egli, insomma, considerava i soggetti disagiati vittime della natura prima ancora che dell’ambiente e di se stessi.

La storia di Serena sembra confermare questo assunto. Figlia unica, privilegiata e protetta, la sua rabbia e l’odio nei confronti dei genitori sembra del tutto ingiustificato. La pericolosità del progetto di fuga, però, non può essere ricondotto alla paura di trovarsi sola nel mondo. Serena, a 21 anni, ha già fatto due lunghi soggiorni all’estero senza avere alcuna difficoltà. Rimane solo da pensare che il sintomo abbia un significato autopunitivo. Tale significato, però, implica che Serena inconsciamente si sente in colpa perché sa che i suoi, iperprotettivi e dunque ansiosi, cadranno nella disperazione in seguito alla sua scomparsa.

Se questo è vero (e l’analisi ha confermato che essa presagiva che non avrebbe sopportato il pensiero che i suoi soffrissero), però, il sintomo più che l’io di Serena, ha difeso soprattutto i genitori dal dolore traumatico della separazione “selvaggia”. Certo, esso, attraverso la conversione somatica, difende anche Serena dal prendere atto di una persistente sensibilità empatica che è giunta ad odiare e da cui intende liberarsi.

Entrambi i significati, però, fuoriescono del tutto dal concetto di difesa di Freud, che fa riferimento alla necessità dell’Io di stare al riparo dalle pulsioni “animalesche” dell’Es. Essi sembrano porre in gioco, piuttosto che le pulsioni, emozioni radicalmente umane.

Quest’ultimo aspetto fa capire che il problema dei meccanismi difensivi presenta aspetti complessi e per alcuni aspetti misteriosi. In apparenza è sempre l’Io che si difende da qualche “verità” che lo disturba. Nel caso di Serena, però, questa “verità” sembra ricondursi al fatto che essa, per quanto lo desideri, non può fare male ai suoi. La rimozione della sua sensibilità, che visceralmente rifiuta, è una difesa freudiana, ma ha un significato del tutto alieno al pensiero e alla teoria di Freud.

Posto, dunque, che i meccanismi difensivi esistono indubbiamente, c’è ancora oggi da chiedersi da cosa l’uomo ha bisogno di difendersi.

 

Difese ego-sintoniche

Una prima risposta di ordine generale, del tutto estranea al pensiero freudiano, è che l’uomo si difende dall’inquietudine dovuta alla complessità del suo essere e del mondo, dall’intuizione di convivere con un flusso ridondante di pensieri ed emozioni, dai dubbi perpetui su un’identità sottesa da parti diverse e contraddittorie tra loro; in altri termini, si difende dalla percezione di una caoticità che non ha nulla a che vedere con le pulsioni, essendo riconducibile alla struttura stessa del cervello e della mente.

L’Io cosciente ha un bisogno radicale di unità, di coesione e di continuità nel tempo, che è stato definito giustamente “coazione alla sintesi”. In nome di questo bisogno unitario, che concorre a dare un senso di stabilità all’identità personale, ogni soggetto è letteralmente costretto a sovrapporre alla sua realtà interiore, che comporta parti diverse e in qualche misura scisse, un’immagine almeno minimamente coerente, che lo tranquillizza e soprattutto lo fa sentire “normale”.

In questa ottica, la mistificazione sarebbe anzitutto l’espressione universale del bisogno di un soggetto di assimilare la propria immagine ad un modello normativo socialmente convalidato.

In questa ottica, riesce chiaro che un certo grado di mistificazione è fisiologico nel corso dell’evoluzione della personalità allorché il soggetto deve rispondere alle aspettative sociali dei genitori e degli educatori.

Nella tarda adolescenza e al di là della fase evolutiva dovrebbe avviarsi un processo lento e graduale di demistificazione o autenticazione. Per motivi sociali, culturali e soggettivi, tale processo, però, che richiede determinati strumenti cognitivi e una grande fatica, raramente si realizza.

Ciò significa che, in linea generale, lo scarto tra l’immagine che l’Io ha di sé e la sua personalità profonda è sempre piuttosto rilevante, e compensato dall’immagine sociale che si attesta sul registro della normalità apparente.

Se le cose stanno così, è difficile non arrivare immediatamente alla conclusione che i meccanismi di difesa sono più attivi laddove, a livello cosciente, la complessità non affiora, le contraddizioni sono represse, proiettate, negate, annullate, ecc. e i dubbi esistenziali sembrano non avere alcun peso: nei cosiddetti “normali”, insomma.

Saldamente attestato sulla difesa della normalità, nonostante abbia fornito egli stesso criteri tali da vanificare il rigido confine tra normalità e “anormalità”, Freud non è mai giunto ad una conclusione del genere, che, dopo Fromm e l’antipsichiatria, invece sembra imporsi.

L’antologia della normalità “folle”, in quanto fondata prevalentemente su meccanismi di mistificazione, potrebbe effettivamente occupare un’intera enciclopedia.

La scissione tra buono e cattivo, apprezzabile e spregevole, normale e anormale (o deviante), noi e loro, associata alla proiezione, è la matrice dell’etnocentrismo, del razzismo, della xenofobia, del pregiudizio verso i malati di mente e i piccoli criminali, che comporta la proiezione su tutti gli estranei e i diversi di tutte le parti negative di sé.

La messa in atto sottende la vita di molte persone la cui frenetica iperattività, portata avanti per il bene della famiglia, serve ad impedire al soggetto di stare un minuto solo con se stesso.

La rimozione fa sì che le persone si sentono in media buone e sensibili, perché rimuovono e negano le conseguenze dei loro comportamenti a carico degli altri. Confondono, in media, la sensibilità con la suscettibilità narcisistica, che li porta a reagire emotivamente con violenza a comportamenti subiti che essi agiscono tranquillamente a carico degli altri.

La negazione induce numerosi soggetti a sostenere di non avere detto e fatto ciò che hanno detto e hanno fatto, a protestare di essere stato fraintesi o a giustificare con le più varie motivazioni (spesso prive di fondamento) i loro comportamenti.

La formazione reattiva trasforma in individui ipercontrollati, compiti e socialmente inappuntabili, soggetti che nell’ambito della privacy domestica sono impulsivi, irascibili, aggressici e talora sadici.

La “normale follia” oscilla, insomma, tra inganno e mistificazione.

I “normali” utilizzano i meccanismi di difesa per mantenere, ai loro occhi e a quelli degli altri, un’immagine di sé, che spesso è scollata dai loro comportamenti. Lo fanno solitamente in buona fede, sollecitati da esigenze soggettive ma anche dalla pressione normativa del gruppo, realizzando, in genere, quel modello di personalità che Fromm ha definito strutturalmente deficitaria: integrata nella società, in qualche misura efficiente nell’adempimento dei ruoli, ma anche rattrappita dal non uso di potenzialità evolutive.

I meccanismi di difesa che essi adottano sono tutti ego-sintonici, vale a dire soddisfano l’esigenza dell’Io di pensare di essere quello che desidera essere e che, molto spesso, corrisponde ai codici normativi vigenti nella società. Le difese concorrono a mantenere un livello spesso elevato di autostima, di sicurezza, di spigliatezza, di convinzione nel proprio valore che, di fatto, è poco giustificato.

 

Difese ego-distoniche

I meccanismi di difesa negli introversi sono, invece, ego-distonici. Più che difendere l’identità mistificata dei soggetti, sembrano rivolti ad ingabbiarli in codici normativi che essi inconsciamente rifiutano. Non funzionano, insomma, in nome delle esigenze dell’Io, bensì della società e della cultura.

Questo aspetto spesso è mascherato dal fatto che il soggetto stesso tenta di aderire a quei codici, e cerca di rimuovere la sua vera natura. Non solo, però, non ne trae l’apparente giovamento e benessere che sembra caratterizzare i “normali”, ma si espone al rischio di sviluppare un più o meno rilevante malessere.

Un esempio può bastare a capire cosa si intende per difesa ego-distonica.

Tra i meccanismi difensivi si può fare rientrare anche l’evitamento, la strategia conseguente alla fobia sociale (paura di esporsi o di parlare in pubblico) che, in misura diversa, riguarda molti introversi e si associa quasi sempre ad un orientamento perfezionistico della personalità. La difesa riconosce solitamente come sua matrice un atteggiamento critico o ipercritico che il soggetto ha nei confronti della normalità corrente, che esprime la pressione del bisogno di realizzare un modo di essere differenziato, non mediocre. Nella misura in cui tale atteggiamento viene inconsciamente colpevolizzato, perché esso comporta una mancanza di “rispetto” verso gli altri, esso viene proiettato all’esterno. In conseguenza di questo, il soggetto dà per scontato che, non appena apre bocca, tutti capiranno quanto egli è stupido e mediocre. Qual è l’unica soluzione del problema? Raggiungere la perfezione come dimensione di inattaccabilità. Dato che questo obiettivo è irraggiungibile, il soggetto deve vivere e sperimentare in circostanze pubbliche la sua “mediocrità” e prendere atto che i “normali” valgono più di lui.

Evitando di esporsi, il soggetto pensa di salvaguardare se stesso. In realtà, egli ripara il suo debito nei confronti degli altri giudicati genericamente come stupidi, rozzi, superficiali, ecc..

In una certa misura, una conclusione del genere è implicita nel pensiero di Freud. Come noto, una delle sue scoperte più sorprendenti è che il mondo sociale è rappresentato nella soggettività inconscia di ogni soggetto sotto forma di una funzione - il Super-Io - che giudica e sanziona il soggetto sulla base dei valori normativi propri del gruppo cui egli appartiene, che vengono interiorizzati nel corso della fase evolutiva della personalità. In quanto funzione omologatrice, che tenta di far valere le ragioni dei molti sull’individuo, il Super-Io soddisfa le esigenze di unità, coesione e continuità nel tempo di ogni cultura, favorendo la sua replicazione di generazione in generazione, e, nella misura in cui esse sono riconosciute implicitamente o esplicitamente dal soggetto, concedendo ad esso la rassicurante percezione della normalità.

Nel corso della sua esperienza, Freud più volte ha preso atto della eccessiva rigidità del Super-Io. Ha insomma intuito il peso che la società, rappresentata interiormente, esercita sulla soggettività, ma riconducendola alla necessità primaria di frustrare quanto nella natura umana si dà di anarchico e di avverso ad ogni ordinamento culturale.

Se si prescinde da questo presupposto pulsionale, il discorso si pone in termini di conflitto, intrinseco all’apparato mentale umano, tra appartenenza/omologazione e individuazione/differenziazione e il ruolo dei meccanismi difensivi appare del tutto diverso nei normali e nei diversi.

Negli uni, infatti, essi concorrono a convalidare la corrispondenza dell’immagine soggettiva al modello di normalità corrente, rimuovendo, reprimendo, negando, proiettando ecc. tutti gli aspetti contraddittori e scissi della personalità che potrebbero sollecitare il soggetto a mettere in dubbio la sua normalità. Funzionano insomma per alimentare il narcisismo dell’Io.

Negli altri, viceversa, i meccanismi difensivi servono a frustrare le spinte verso l’individuazione e la differenziazione o restituendole al soggetto come spinte pulsionali, che inesorabilmente lo espongono ad una rappresaglia sociale, o orientandolo verso un modello normativo che egli confonde come ideale dell’Io. Funzionano, insomma, per mantenere a livello inconscio il primato del sociale interiorizzato sull’Io, che viene schiacciato sotto il peso della sua inadeguatezza e/o cattiveria.

Mi rendo conto che questa conclusione è un po’ sorprendente. Lo è anche in un’ottica psicoanalitica perché, se si sormonta l’ottica pulsionale, ci si trova a dovere riformulare la teoria dei meccanismi difensivi, che entrerebbero in azione per proteggere il soggetto dalla percezione della complessità del suo mondo interiore, ma soprattutto per mantenere l’Io conforme al modello di normalità vigente nella società in cui vive, e cioè per frustrare il bisogno di individuazione. Nei casi in cui questa frustrazione viene rimossa, l’Io assume uno statuto normale; nei casi in cui essa determina una ribellione soggettiva all’omologazione, si definisce una condizione di diversità o al limite di disagio psichico.

Ciò significa che laddove in un individuo adulto persiste un malessere soggettivo, di qualunque grado, non è certo detto che i meccanismi di difesa non funzionano. Il malessere, però, attesta che essi non riescono a produrre, come accade in tanti altri, un effetto di normalizzazione, perché vengono ad urtare contro un bisogno di individuazione o di autenticazione che è più potente delle esigenze sociali.

I meccanismi di difesa, dunque, non esprimono tanto o solo le esigenze narcisistiche dell’Io, ma anche il suo bisogno di omologarsi ai codici normativi vigenti nel suo gruppo o nella sua società. Laddove, come negli introversi, si dà un a spinta potente verso l’individuazione, essi possono giungere a funzionare paradossalmente, schiacciando il soggetto sotto il peso della sua anormalità, inadeguatezza o cattiveria.

Più che di ritoccare la propria immagine, molti soggetti introversi hanno bisogno di renderla autentica, vale a dire di farla venire fuori dalla gabbia normativa e di coltivarla progredendo verso uno sviluppo più integrato del proprio essere.

Ma cosa significa, in ultima analisi, autenticarsi (nei limiti di ciò che è umanamente possibile)?

Il discorso a questo punto è complesso perché occorre fare i conti con il radicamento soggettivo dei codici normativi che, sotoo forma di quadri mentalei, si confondono con l’aria che respiriamo.

 

Mistificazione e ideologia

Al di là del livello più profondo, che riguarda l’ansia esistenziale, i meccanismi di difesa sembrano in realtà rivolti a proteggere più che l’Io il modello normativo vigente in una determinata società o inducendo il soggetto a “liberarsi” di tutti gli aspetti di sé che contrastano con esso, rimuovendoli, o, se egli non riesce a calarsi in una normalità fittizia, a schiacciarlo sotto il peso del suo disvalore e della sua anormalità.

Il modello normativo sono strettamente intrecciati con la visione del mondo propria di una determinata società.

Giustamente, come accennato, il filosofo H. Gadamer ha rilevato che l’uomo non potrebbe vivere senza pre-giudizi, vale a dire senza l’apporto dei giudizi, delle opinioni, delle idee prodotte dalle generazioni precedenti. I pre-giudizi (sia in senso positivo che negativo) vengono interiorizzati nel corso delle fasi evolutive della personalità, nel corso delle quali il potere critico del bambino è notoriamente ridotto. Successivamente, nulla sulla carta vieta al soggetto di “ruminarli”, vale a dire di riportarli a galla dalle viscere della mente e di elaborarli. Sulla carta, però.

In realtà, come ha insegnato Marx, l’uomo ha un modo del tutto particolare di rapportarsi al mondo storico da lui stesso prodotto, vale a dire al mondo della cultura materiale e spirituale. Tale modo è mistificato non solo perché costantemente preda delle apparenze, che non danno ragione delle cause per cui il mondo è divenuto quello che è e persiste ad essere tale, ma soprattutto perché esso, per effetto delle ideologie, tende a naturalizzare l’esistente, ignorando per l’appunto che si tratta del prodotto dell’attività di altri esseri umani.

Via che evolve, dandosi una struttura istituzionale, il mondo storico produce ideologie o quadri mentali che danno ad esso senso, ne mascherano le contraddizioni, lo assolutizzano e lo restituiscono alla coscienza delle persone come se esso fosse sempre stato così e destinato a rimanere tale.

L’intuizione di Marx è stata sviluppata ulteriormente sia nell’ambito del marxismo che al di fuori di esso. Nell’ambito del marxismo, l’elaborazione teorica più profonda del concetto di ideologia si deve a Ferruccio Rossi-Landi (Ideologia, ISEDI, Milano 1978), secondo il quale essa è da ricondurre ad uno spettro che va dall’estremo della mistificazione intesa in senso stretto come menzogna all’estremo opposto di una visione totalizzante del mondo che si pone come verità assoluta.

Per quest’ultimo aspetto, lo sviluppo più interessante è avvenuto nell’ambito della corrente di storici francesi legati alla scuola de Les Annales. Essi, sicuramente ispirandosi a Marx, hanno identificato l’ideologia (che definiscono mentalità) come un aspetto strutturale proprio di ogni società in interazione reciproca con l’organizzazione economica e sociale. Nella loro ottica, ogni società ha bisogno, non meno che di un assetto produttivo che consenta di soddisfare il bisogno di beni materiali e di un assetto sociale che definisca diritti e doveri dei singoli membri, di una visione del mondo coerente e coesa. Tale visione del mondo funziona, in ogni epoca, come un recinto mentale collettivo, che costringe in qualche misura i soggetti a sentire, a pensare e ad agire in determinati modi che essi vivono come espressivi della loro libertà, ma di fatto sono influenzati dalla mentalità.

Nella sezione Storia della Bibliografia ho recensito un articolo di G. Duby (Storia sociale e Ideologie della società) che si può ritenere a riguardo un autentico capolavoro. Egli scrive:

“Per comprendere l'organizzazione delle società umane e per riconoscere le forze che le fanno evolvere occorre prestare ugualmente attenzione ai fenomeni mentali, il cui intervento indiscutibilmente non è meno determinante di quello dei fenomeni economici e demografici. Gli uomini infatti regolano il loro comportamento in funzione non della loro reale condizione, ma dell'immagine che se ne fanno e che non ne è mai il rispecchiamento fedele. Si sforzano di conformarla a modelli di comportamento che sono il prodotto di una cultura, e che, nel corso della storia, possono adattarsi più o meno bene alle diverse realtà materiali.”

Riconducendosi poi alla definizione di ideologia di Louis Althusser - «un sistema (che possiede una propria logica e un proprio rigore) di rappresentazioni (immagini, miti, idee o concetti a seconda dei casi) dotato di un'esistenza e di un ruolo storico in seno a una data società» - egli tratteggia le caratteristiche fondamentali delle ideologie le quali sono totalizzanti, deformanti, concorrenti, stabilizzatrici.

Il carattere deformante delle ideologie significa che esse forniscono all’uomo una visione del mondo - inerente il suo stesso essere, il suo comportamento e il suo coesistere con gli altri - che è mistificata e ciò nondimeno viene facilmente accettata dalla maggioranza.

Duby rileva anche che le ideologie agiscono a livello di inconscio sociale, si replicano di generazione in generazione a livello di inconscio individuale e, fondandosi sulle tradizioni, hanno un carattere inerziale.

Ciò non significa solo che una mentalità sopravvive anche quando le coscienze pensano di essersene liberate. Il problema è che, per liberarsene, occorrono strumenti atti ad oggettivarla e a demistificarla che nessuna società, nel suo apparato pedagogico e culturale, fornisce.

Lo statuto mistificato della coscienza in rapporto al mondo storico è, dunque, un dato di fatto inoppugnabile. Tanto più tale statuto è rilevante via via che l’evoluzione storica, rendendo il mondo sempre più complesso e il passato sempre più stratificato, sollecita le coscienze a vivere in una dimensione presentificata, all’interno della quale un flusso imponente di informazioni mediatiche dà l’illusione di sapere.

Non è superfluo rilevare che le contestazioni di alcuni studiosi (cognitivisti, ideologi liberali, ecc.) alla teoria della coscienza storica mistificata, secondo i quali tale teoria ignorerebbe l’attività selettiva e interpretativa della coscienza in rapporto alla realtà per cui, sullo sfondo di una comune visione del mondo, ciascuno costruisce una sua visione del mondo, sono inconsistenti e contraddittorie.

Il riferimento alla mentalità non implica che le coscienze individuali siano ipnotizzate. In quanto recinto ideologico, la mentalità non esclude che le singole coscienze possano percorrere al suo interno i tragitti più vari. Essa esclude che, senza strumenti adeguati e uno sforzo critico, esse possano rendersi conto del recinto entro cui pensano, sentono e agiscono, oggettivarlo e fuoriuscire in qualche misura da esso.

Entro il recinto, qualche verità c’è per forza, ma c’è anche molta “spazzatura”.

Il cognitivismo stesso, peraltro, ha fornito, con la scoperta dell’attenzione selettiva, una prova inconfutabile a favore del concetto di ideologia di matrice marxista.

L’attenzione selettiva è un meccanismo che agisce in parte a livello cosciente e in parte a livello inconscio. Esso fa sì che, investito dal flusso delle informazioni, un soggetto, dotato di una sua visione del mondo, seleziona e acquisisce quelle che la confermano, mentre trascura o rimuove quelle che la contraddicono.

In virtù dell’attenzione selettiva, ogni individuo giunge a credere che la sua visione del mondo è corroborata da troppe prove tratte dall’esperienza reale per poter essere messa in discussione. In realtà essa può essere anche del tutto mistificata.

L’esistenza della mentalità come visione totalizzante del mondo, e dunque normativa, a livello di inconscio sociale è fuori di dubbio, come pure che essa, proprio perché inconscia, influenza tutti i soggetti senza che essi se ne rendano pienamente conto.

C’è da chiedersi, però, come possa essere utile questo concetto se si prende atto, dal lavoro degli storici, che la mentalità propria di un’epoca si riesce a cogliere distintamente solo nella prospettiva del tempo lungo, vale a dire quando essa è stata sormontata.

Molti di voi sanno che ho affrontato questo problema molti anni fa, cercando di delineare i codici culturali normativi che sottendono la struttura della nostra società e l’esperienza dei soggetti che ad essa partecipano.

I codici identificati trent’anni fa (che possono essere letti ne La politica del Super-io, pubblicata su Nilalienum, che risale al 1986) erano quattro: il codice adultomorfo o della forza, il codice claustrofobico o della libertà individualistica, il codice rupofobico o dell’immagine sociale, il codice anestetico o dell’insensibilità empatica.

A distanza di anni, mi sembra che l’analisi sia ancora valida.

La pertinenza di questi codici in rapporto al tema della mistificazione è facile da confermare. I “normali” che li adottano ne traggono il giovamento di sentirsi integrati nella società e sembrano del tutto inconsapevoli del danno che ne ricavano in termini di sviluppo personale. gli introversi che li adottano, viceversa, finiscono quasi inesorabilmente per stare male.

Tutti gli uomini, come dicevo all’inizio, hanno bisogno di mistificare. Alcuni sembrano averne più bisogno di altri. Si può ammettere che tra questi ultimi, largamente rappresentati nel mondo introverso, un numero rilevante abbia un bisogno altrettanto potente di autenticità.

Che fare?

Detto questo, è inevitabile porsi la domanda se c’è un rimedio alla mistificazione.

C’è ed è tanto semplice che si può ricondurre ad una formula essenziale: l’amore per la verità, che ha il suo fondamento nel sistema di ricerca che promuove la demistificazione. Il rimedio è, però, semplice sulla carta. Qualunque mistificazione, infatti, è caratterizzata dal fatto che il soggetto non la vive come tale.

Il problema, dunque, è come avviare e portare avanti un processo di demistificazione. A riguardo è difficile fornire una ricetta universalmente valida. Un criterio orientativo, invece, è possibile fornirlo.

Per quanto la nostra coscienza sia dotata di un potere illimitato di mistificare o di cadere in trappole predisposte dal senso comune o dalla cultura, laddove si dà mistificazione la “verità” affiora sempre sotto forma di contraddizione.

Che cos’è una contraddizione? E’ l’emergenza nell’esperienza interiore e nel comportamento quotidiano di modi di vedere, di sentire, di pensare e di agire antitetici, i quali sono l’indizio che la nostra personalità a livello profondo per qualche aspetto non è integrata e sottesa da una scissione.

La nostra tendenza spontanea è di reprimere, rimuovere, negare, giustificare, razionalizzare le contraddizioni del nostro essere. Se si riesce a sormontare questa tendenza spontanea, le contraddizioni diventano un fattore potente di evoluzione della personalità. Occorre, però, avere un po’ di coraggio.

Gli introversi, come noto, hanno una particolare capacità di cogliere intuitivamente le contraddizioni degli altri e del mondo. Cogliendole, mediamente, al di là della sorpresa, si indignano, si esaperano, si arrabbiano, giungono anche ad odiare. Il Forum è pieno di messaggi che definiscono questo stato d’animo.

Ho scritto vari articoli a riguardo (da La sindrome di Robespierre a Il mondo fa schifo?), ma penso che non siano sufficienti a promuovere un passaggio dall’intolleranza rabbiosa alla comprensione critica. Con quest’ultimo termine non intendo un orientamento di cristiana e rassegnata accettazione dell’esistente. La comprensione critica, nella mia accezione, non esclude un giudizio negativo sui comportamenti umani in rapporto al peso oggettivo che essi hanno, come neppure un’interazione conflittuale, laddove essa è necessaria a tutela della propria dignità o dei propri valori morali. Essa implica però un atteggiamento benevolo verso l’umano.

Su quale fondamento si può basare tale atteggiamento? Penso sul superamento del coscienzialismo, vale a dire dell’attribuzione ad ogni soggetto della consapevolezza di ciò che fa, dei motivi per cui lo fa e delle conseguenze a carico degli altri dei suoi comportamenti.

Questa attribuzione è in linea di massima errata. Tutti i meccanismi di difesa che ho citato sono attivi in gran parte dei soggetti, ma il più incisivo in assoluto è la razionalizzazione. Con questo termine, E. Jones ha indicato le procedure con cui un soggetto cerca di dare una spiegazione che risulti coerente sul piano logico e accettabile sul piano morale di un sentimento, di un’azione, di una condotta di cui non vuole scorgere le motivazioni profonde. La razionalizzazione è dipendente dalle ideologie di riferimento, e realizza, con esse, una miscela tossica di mistificazione.

Sulla base del coscienzialismo, gli introversi applicano questa stessa procedura ai normali. Interpretano, insomma, i loro comportamenti sulla base dell’attribuzione ad essi di un livello di consapevolezza che non si dà se non eccezionalmente, e, in conseguenza di questo, diventano intolleranti.

Se mi chiedo cos’è che impedisce agli introversi di dare spazio alla loro sensibilità intuitiva, l’unica risposta che mi sembra possibile fa riferimento all’angoscia di aprire gli occhi e di scoprire la realtà di un universo umano quasi del tutto immerso in una dimensione di inconsapevole “follia”.

E’ superfluo aggiungere che la scoperta riguarda anche ciascuno di noi.


Mistificazione e Demistificazione: presentazione in ppt