Inchiesta su di un O. P.


Introduzione alla lettura

Pubblicato nel 1970 sulla rivista Archivio di Psicologia, Neurologia e Psichiatria (Anno XXXI, fascicolo IV), questo articolo richiede qualche parola di presentazione.

Nella seconda metà degli anni ’60, allorché presi la laurea in medicina, il movimento antistituzionale era già in movimento e l’antipsichiatria, attraverso le opere di Basaglia, Foucault, Laing, Cooper, ecc. – cominciava ad esercitare un notevole fascino su un certo numero di operatori psichiatrici e di intellettuali.

Avendo aderito al movimento, e risiedendo a Roma, ove la situazione psichiatrica era stagnante, ebbi l’idea di fare una ricerca sui manicomi meridionali, puntando l’attenzione sull’Ospedale Psichiatrico di Potenza.

Coinvolsi nell’esperienza il mio amico Pietro Bria, e partimmo alla ventura con un block notes, un registratore, la lettera di presentazione del Prof. Paolo Pinelli e l’autorizzazione del Ministero della Sanità per avere accesso, in qualità di ricercatori, all’Ospedale.

E’ difficile descrivere l’impatto emotivo e culturale di una full immersion in un’istituzione totale dell’epoca, per quanto i ricordi siano ancora vivi e l’articolo, con i suoi limiti, lo testimoni.

L’aspetto più rilevante dell’esperienza fu la presa d’atto della straordinaria umanità dei malati di mente, radicalmente contrastante con la burocratica asetticità, l’ignoranza e il sadismo degli psichiatri, che affidavano la gestione del manicomio praticamente alle suore e agli infermieri. Nonostante questi ultimi fossero nella stragrande maggioranza ex-contadini inseriti in manicomio per vie clientelari, praticamente senza alcuna preparazione, erano essi (almeno nella maggioranza) ad esprimere un barlume di umanità nei confronti dei ricoverati.

Essendo, io e Pietro, entrambi giovani, di aspetto pulito e apparentemente ingenuo, ci fu lasciato campo libero dal Direttore e dai medici. Potemmo parlare e registrare su nastro senza alcun controllo con i malati, gli infermieri e i parenti.

La pubblicazione dell’articolo fu utilizzata da compagni residenti a Potenza per avanzare una denuncia alla Magistratura, in seguito alla quale il Direttore fu costretto a dimettersi e, con alcuni medici, subì un processo per abuso di potere e sottrazione di fondi pubblici che si concluse con più di una condanna.

Così si avviò la mia carriera di antipsichiatra, della quale ancora oggi vado fiero.


ANALISI ANTROPOFENOMENOLOGICA DI UN'ESPERIENZA IN UN'ISTITUZIONE MANICOMIALE DEL MERIDIONE

(Ospedale Neuropsichiatrico Don Uva di Potenza)

 

PREMESSE

Scopo della nostra indagine, condotta in un'istituzione manicomiale del Meridione, era quello di analizzare, da un punto di vista antropofenomenologico, la condizione dei malati di mente ospedalizzati e di ricostruire i fattori che sottendono e le modalità secondo cui si strutturano le relazioni alienato-famiglia e alienato-società

Nell'ambito sociopsichiatrico, la formulazione di un'ipotesi di lavoro risente inevitabilmente di coloriture ideologiche talora, e oggi più che mai, passionali. A questo limite metodologico che turba, dacché esistono, il valore delle scienze dell'uomo si può ovviare in due modi: o apertamente confessando la propria ideologia e assumendo pertanto su di sé l'onore e l'onere di una scelta pregiudiziale oppure imbrigliando i contenuti ideologici nelle maglie di una metodologia operativa rigorosa che, se restringe di necessità l'ottica- delle indagini, ne accresce la fedeltà ed il rigore sperimentale.

Confessiamo apertamente che l'esserci risolti a questa seconda impostazione, se ha agevolato il rilievo dei dati, condotto con metodologia sociologica, non ne ha reso meno difficoltosa l'elaborazione. L'osservazione diretta e le interviste ci hanno infatti fruttato un materiale tanto denso e drammatico che, pur lasciato sedimentare ed imbrigliato nelle fila di un discorso sociopsichiatrico, non perde la sua primitiva ed irriducibile qualità umana.

Ci rendiamo perfettamente conto che accenti, sottolineature ed insistenze lasciano trapelare, qua e là, il nostro corredo ideologico.

  D'altra parte, se avessimo operato diversamente, mirando al sogno irrealizzabile di una scienza dell'uomo ateoretica, avremmo tradito l'esperienza, ora mutamente sofferta ora drammaticamente restituita, degli alienati tra i quali e con i quali abbiamo lavorato, inducendo spesso con la nostra presenza, senza volere, speranze di una redenzione che, siamo certi, non verrà.

Se questo è un difetto, riconoscendolo ne siamo onorati.

E opportuno premettere che la categoria dei malati di mente è qui intesa in senso strettamente sociologico. “ In questa prospettiva la valutazione psichiatrica di una persona assume significato solo nel momento in cui essa ne alteri il destino sociale, alterazione che diventa fondamentale nella nostra società quando, e soltanto quando, la persona viene immessa nel processo di ospedalizzazione” (E Goffman, Asylums, Einaudi, Torino 1968, p. 154).

Questo approccio sociologico comporta una necessaria “messa tra parentesi” della malattia mentale. Da questo punto di vista, non è la condizione psicopatologica abnorme che definisce il malato di mente bensì l'internamento, vale a dire l'esclusione dal corpo sociale e la reclusione in ambiente manicomiale.

L'alienazione suppone; a nostro avviso, una struttura, un contesto, una matrice alienante, non fosse altro per il fatto che il concetto di normalità psichica, metro di misura della necessità dell'internamento, riconosce una fondazione sociologica. Sotto questo profilo, l'ambiente socioantropologico nel quale si è svolta la nostra indagine offre caratteristiche di particolare interesse: basti pensare al basso livello culturale con persistenza di elementi superstiziosi, al substrato economico cronicamente depresso nonostante alcune recenti trasformazioni sociali, all'organizzazione della famiglia prevalentemente di tipo “allargato”(caratterizzata da una apparente compattezza cui fa riscontro una mancanza accentuata di intimità di rapporti), alla condizione caratteristicamente subordinata della donna, ancora priva di una sua reale autonomia, ecc.

Nonostante la naturale suggestione che questo sfondo di fattori antropologici così complesso esercita su una ricerca di indirizzo sociopsichiatrico, noi ci riferiremo ad essi solo nella misura in cui hanno intersecato o intersecano l'esperienza degli alienati e vengono da questi riferiti.

 

LA CONDIZIONE MANICOMIALE

La natura esclusoria e reclusoria dell'istituzione manicomiale viene esperita e vissuta dagli alienati come un dato di fatto primitivo. La coscienza di essere esclusi e quella di essere reclusi ovviamente si giustappongono; nella prima tuttavia, anche dopo anni di internamento, persiste vivo il riferimento al nucleo familiare ed al gruppo sociale dai quali si è stati emarginati. L'internamento, nella massima parte dei casi forzato, assume fin dall'inizio, grazie anche al quasi costante concorso della forza pubblica, un carattere punitivo e coercitivo. Senza aver commesso alcun delitto, l'alienato, prima ancora che varchi la soglia dell'ospedale, è già in preda ad un profondo senso di colpa. Abbia o meno coscienza della malattia, l'internamento stesso induce in lui la tendenza a discolparsi, a ricostruire la propria vicenda in maniera tale che si ricomponga la rispettabilità di un'esistenza violata.

E qui, a nostro avviso, l'origine delle storie tristi di cui parla Goffman. In effetti quasi tutti gli alienati, compresi gli etilisti e gli epilettici, riferiscono le loro vicissitudini in termini tali che il ricovero risulti chiaramente frutto di un'ingiustizia:

“ non so perché mi trovo qui... Io andai a protestate al Comune dal Sindaco che è mio amico e del mio stesso Partito perché ho moglie, sette figli e non lavoro. Il collocatore mi fece una lettera per un'impresa, poi all'uscita due guardie mi afferrarono e mi portarono qui a forza”;

“ io facevo il contadino... vicino il campo correva un torrente... io volevo fare un ponte perché i bambini devono andare a scuola e c'è il più grande che è stato rimandato già tre anni perché d'inverno non può attraversarlo. Io per questo fatto ho litigato con l'amministratore comunale; allora una mattina mi hanno messo le manette a sangue freddo e mi hanno portato qua”;

di un errore:

“io soffro di cuore e di fegato... sto qui per uno sbaglio del dottore”;

o di un raggiro:

“io stavo al paese con mia sorella, ma quella mi maltrattava e mi faceva morire di fame; allora io cominciai ad andare per il paese a chiedere del pane. Un bel giorno, siccome io volevo lavorare, con la scusa di trovarmi un posto, mi portarono qui, mi misero la tuta e io dissi: “E questo il lavoro che mi avete trovato”? E sono rimasta qui”;

“la prima volta sono stato ricoverato perché ho detto delle parole un po' dure a mia moglie; la seconda volta, dopo otto giorni che stavo fuori senza aver fatto nulla, perché mio figlio mi ha ingannato”.

La malattia, se riconosciuta, è posta in rapporto a circostanze e cause affatto accidentali o comunque indipendenti dalla volontà dell'individuo: l'“esaurimento nervoso” è attribuito il più spesso alle malattie, al lavoro eccessivo, alle misere condizioni di vita, a disgrazie familiari, ecc.:

“è stata la febbre di malaria che mi ha portato i disturbi nervosi”;

“dimesso, mentre lavoravo come elettricista, mi capitò una disgrazia e sono ricaduto”;

 “la malattia è cominciata con la morte dei genitori: mi hanno tolto tutta la roba con un sequestro”;

“sono ammalato da tre anni perché ho fatto vari mestieri e non me ne è riuscito bene neppure uno”;

 “ho avuto qualche attacco nervoso vedendo tante cose storte... interessi di famiglia”;

“ mi sono ammalato per il troppo lavoro e perché studiavo anche”;

“mi sono ammalato in Germania dove lavoravo come una bestia, in un ambiente pessimo... il lavoro,  l'umidità, il freddo... e poi io ho molto sofferto da bambino... La miseria c'entra molto a determinare queste  malattie“;

l'epilessia è riferita ad un trauma, ad uno spavento o anche alla miseria:

“gli attacchi mi sono venuti per una caduta provocata da mio fratello che mi dette una spinta, mi fece ruzzolare  giù per le scale e mi fece urtare con la memoria su di un tufo. Poi, dato che ero orfano, ho sofferto la  fame... questo ha provocato la malattia: la fame e il poco accudimento”;

“durante il servizio militare presi una paura perché un soldato mi s'impiccò davanti: questa è stata la paura e mi è scoppiata l'epilessia”;

l'assunzione di vino è giustificata dal lavoro particolarmente gravoso:

“bevo per lavorare, perché a scaricare i pesi come si fa bevendo acqua?. Occorrono le forze”

Alle “storie tristi”, che traducono in termini ingenuamente difensivi, e pertanto spesso scarsamente credibili, il significato punitivo che assume l'esperienza manicomiale per gli alienati, si contrappongono le storie che non abbisognano di alcun velo elaborativo, comportando fatalmente, per il venir meno dei normali legami che connettono l'individuo al tessuto sociale, l'esclusione:

“sto qui da dieci anni per motivi familiari, perché mia sorella non ha voluto tenermi con lei, e allora devo aspettare che mio figlio abbia ventun anni per uscire”;

 “sono un'epilettica, sto qui da sette anni perché non ho nessuno. Ho mia madre, ma siamo vissute sempre lontane, siamo due estranee... lei lo ha detto chiaramente che non mi vuole... lo sto qui perché non ho dove andare”;

 “sto qui da cinque anni perché ho gli attacchi... Ho solo mio fratello, ma con lui non posso vivere. Sto qui perché non ho le possibilità di vivere fuori”;

 “io ho avuto il tifo in testa da bambina... Sono venuta qui dopo che è morta mia madre, perché ero rimasta sola”.

In questi casi l'internamento, estremo rimedio a gravi insufficienze nel campo dell'assistenza sociale, non fa che ratificare la iniquità della sorte, perpetuandola.

All'interno dell'istituzione manicomiale, l'alienato esperisce una condizione di disagio fisico e psichico.

Il disagio fisico muove in primo luogo dalla assoluta inadeguatezza degli spazi ambientali:

“l’ospedale è un ambiente mal combinato... sia la palestra che il soggiorno sono stretti. . . non c'è modo di sedersi: trenta, cinquanta persone si siedono ed altre trenta restano in piedi”;

“stiamo stretti come i sardelli.. . Quando c'è la pioggia e il freddo e dobbiamo star dentro, stiamo vicinissimi, fiato a fiato”;

 “qui stiamo come in un nido di formiche, ammassati l'uno sull'altro... D'inverno, in una stanza di cinque metri quadrati siamo in cinquanta-sessanta... stiamo proprio come le formiche”.

Lo “star stretti” non rappresenta peraltro che l'aspetto estrinseco di una condizione reclusoria che, se non mira alla vessazione e alla degradazione dell'individuo, comunque la consegue; le espressioni usate dagli alienati a questo riguardo risultano d'una eloquenza che non consente dubbio:

“è peggio che un campo di concentramento”;

“è una masseria, siamo chiusi come in una masseria... si sta tutti ammassati”;

“ siamo recintati come le bestie”;

 “siamo ingabbiati come le bestie... ma neppure allo zoo le bestie stanno così”;

“è una specie di galera, anzi è peggio”.

In queste espressioni si riflette la coscienza di essere sottoposti ad un regime di segregazione che mortifica ed immiserisce, come avviene - giustamente intuiscono gli alienati - in tutte le strutture istituzionali: prigioni, campi di concentramento, ecc. “ nella cui area l'internato trascorre tutta la vita, vivendo passo passo la sua giornata irreggimentata, a stretto contatto con gli altri compagni della medesima condizione” (op. cit. p. 173)

Qual è l'origine di tale coscienza, quali esperienze la giustificano in un ospedale psichiatrico di recente costruzione, fornito di servizi generali funzionali, di attrezzature adeguate e di personale sanitario sufficiente?

Il disagio psichico riconosce quali cause principali la perdita della libertà, l'inerzia, l'impossibilità di progettare il proprio destino, la paura.

L'internato esperisce anzitutto una condizione di reclusione rigorosa; è, letteralmente parlando, murato vivo:

“stiamo sempre sequestrati... chiusi, senz'aria, senza niente”;

“ci hanno seppelliti al cimitero dei vivi una volta per tutte”.

L'enorme edificio a monoblocco si apre all'interno su un vasto cortile grigio, scabro, senza riparo, occupato di solito, quando fa bel tempo, da centinaia di alienati seduti sui muriccioli, sdraiati per terra o addirittura ammassati al sole quasi l'uno sull'altro. Il lembo di cielo intagliato fra le alte pareti di cemento è quanto rimane della natura a questa umanità di estrazione prevalentemente rurale che, sradicata dal suo humus naturale ed inurbata, continua a nutrire il culto della vita all'aperto, l'amore della campagna e del verde:

“io sono abituata ad andare in campagna, a cogliere i fichi, all'aperto... qui soffro, soffro.. . chiusa non posso stare!”;

“sto sempre a piangere... noi siamo di campagna, qui ci vediamo perduti... amiamo la terra, amiamo gli animali, la libertà”;

“io faccio il contadino, sono abituato all'aria aperta. . a star chiuso uno si può esasperare”;

“io sono di campagna... quest'ospedale qui, come è stato fatto, non è adatto perché danneggia gli abitanti: noi di qua non siamo abituati alla vita chiusa di città, di ospedale, di carcere. Noi siamo abituati alla vita libera di campagna; siamo felici nello splendore della natura, non nelle mura. Tolta che ci hanno questa possibilità, allora diventiamo infelici, l'esistenza è sconvolta: è una vita diversa che non sopportiamo... viene fuori una nostalgia mordente”.

La perdita della libertà non si configura solo come limitazione ma anche come invasione dell'io. Nell'ambiente manicomiale l'altro non è un tu col quale rapportarsi in una dimensione interpersonale: è, letteralmente, non-io. L'inferno societario sartriano trova qui solo, nell'ambito di una istituzione totale, una verifica inconfutabile. Lo “star stretti” è star male a causa degli altri, con gli altri: il disagio fisico sottende l'inquietante esperienza della violazione dello spazio personale, reciproca e necessitata. L'altro in tanto esiste in quanto contende con la sua corporeità un angolo della panca o una lama di sole e oppone una presenza insignificante ma continua e inesorabile:

“qui stai sempre in mezzo agli altri: una parola uno, una parola l'altro”;

“troppo chiasso, troppi malati, troppi incontinenti”;

“io amo la solitudine, ma come fai a star solo qui?”;

“io vorrei estendermi un po' non stare qui ammassata, così stretta, obbligata dagli altri”;

“c'è chiasso, rompono i timpani: chi grida qua, chi grida là”.

L'alienato esperisce pertanto una condizione esistenziale “contaminata” dagli altri, dal corpo, dagli sguardi, dalle voci degli altri: “ (i) territori appartenenti al sé sono violati, la frontiera che l'individuo edifica tra ciò che è e ciò che lo circonda è invasa » (op. cit. p. 53) . A tale violenza, l'alienato non può opporre alcuna difesa, ogni tentativo di recuperare il sé nella sua dimensione personalistica venendo frustrato. Così la lettura stessa, che non si riduca allo sfogliare meccanicamente le riviste di sempre, risulta impossibile:

“io amavo molto le letture, qui non faccio nulla”;

“non si può leggere perché c'è rumore”;

“uno non può mettersi un attimo da parte a leggere”;

“qui non c'è una biblioteca interna, ma poi come si potrebbe studiare?”.

Nell'ambito dell'istituzione l'alienato, oltre che costretto a rinunciare alla dimensione personalistica, è pure sollecitato a degradarsi, ad immiserire.

Tra i fattori più mortificanti dell'esperienza manicomiale è da annoverare l'inerzia assoluta. Le uniche attività degli alienati sono costituite dal fare la fila davanti ai cessi, dal lavorare di gomiti a mensa, dal pulire per terra; per il resto della giornata non è che un vano aggirarsi per gli stanzoni e nel cortile, uno star sdraiati da qualche parte, su una panca o - più spesso - per terra:

“io sono abituato che volevo lo sfogo, volevo camminare, lavorare.., qui dentro il fisico mio si appesantisce, si impoltronisce: non si fa niente, non si studia, non si lavora col cervello, non si lavora con le braccia; dobbiamo star dalla mattina alla sera senza far niente, proprio niente”;

“si sta in ozio tutto il giorno: e che modo di vivere è questo? Io mi sento annoiato dalla mattina alla sera”;

“ti alzi alle quattro di mattina e vai a letto alle nove di sera: e che cosa hai concluso?”;

“qui non si può far nulla, qui l'unico svago è scopare per terra e pulire ed è cosa molto misera”.

Non sorprende pertanto che gli alienati non colgano, nella loro esperienza, altro significato che non sia punitivo e coercitivo. L'assistenza non manca ma è di tipo custodialistico. Riguardo al trattamento terapeutico quasi tutti gli alienati esprimono, per diversi motivi, una profonda sfiducia. Alcuni coinvolgono nel giudizio, e duramente, i sanitari:

“qui non ci curano... ci danno solo una compressa al giorno... i dottori non si avvicinano neppure”;

“la colpa è dei dottori.., perché uno entra qui, viene messo nella bolgia: è naturale che si agita, si ribella... sono gli infermieri che ti presentano come malato al dottore; il dottore ti guarda la prima volta e poi non ti guarda più”.

Altri, e sono i più, chiamano in causa l'ambiente manicomiale che frustra, a loro avviso, ogni sforzo terapeutico: 

“non si guarisce solo con le iniezioni, le compresse, ma anche con lo svago, col divertimento, col passare il tempo”;

“ciò che dà la forza ai centri psichici è l'ambiente esterno: se a me manca la forza è perché l'ambiente esterno deprime... a vedere questi poveretti malati di mente si soffre maggiormente”.

L'esistenza, svuotata di significati, si riduce ad una interminabile attesa. L'alienato si illude, costruisce progetti per l'avvenire, ma speranze, illusioni e progetti non hanno direzione, né intenzionlità, non si temporalizzano, ricadono su se stessi. “ Il ricoverato è escluso (... ) dalla possibilità di conoscere le decisioni prese nei riguardi del suo destino » (ibid., p. 38) . L'esperienza di un giorno può durare un anno, una vita. Mortificato nel presente, nell'essere, l'alienato deve rinunciare pure al proprio destino, al poter essere, che viene gestito e manipolato da altri, non sa da chi né con quali criteri:

“qui m'hanno seppellito al cimitero dei vivi una volta per tutte... se c'è una legge che mi riconosce sano posso uscire, se no non c'è niente da fare.. . ma ho il dubbio che sarò seppellito per sempre“;

“è una situazione assurda perché, se uno ha commesso una colpa, allora gli si dà una condanna, lo si mette in carcere; ma mi hanno messo qui dentro, son tre anni e non c'è fine! non c'è fine! e che delitto ho fatto io?”;

“è un carcere, peggio perché in carcere sai quando entri e quando esci; qui non sai nulla”.

Oltre che mortificata nel presente ed amputata nell'intenzionalità, nel progettarsi, l'esistenza è pure, paradossalmente, esposta al pericolo continuo di venire attentata. L'inerzia alla quale si è condannati è un'inerzia agitata:

“stiamo in ozio tutto il giorno, però bisogna stare molto attenti perché c'è gente pericolosa”;

“occorre stare continuamente con gli occhi aperti”.

Il pericolo da cui guardarsi è rappresentato dai “ pazzi” - agitati e dementi - la cui definizione, nell'ambito istituzionale, è, se non pregiudiziale, impietosa. Può esservi del resto comprensione per questa umanità degradata laddove l'individuo è costretto a raccogliere tutte le sue energie per non perdere le sue connotazioni identificanti?

Indotti dall'atteggiamento rinunciatario dello staff, in qualche modo protetti dal corpo infermieristico che oppone violenza a violenza, gli internati che si giudicano “sani di mente” isolano i “pazzi”, li rigettano nel ghetto (“i pazzi con i pazzi”), li esasperano, sommuovono l'estremo patrimonio che rimane a questa umanità sconvolta, l'aggressività. E la violenza esplode; con la violenza la paura:

“qui vi sono quelli non pazzi e vi sono i pazzi pericolosi effettivamente che alle minime cose possono produrre danni, lesioni”;

“c'è il pericolo di venire uccisi da un momento all'altro per qualche scarpata, pugni, calci”;

“ quelli sono malati pericolosi perché vogliono sfregiare la gente, vogliono cecare gli occhi come hanno cecato gli occhi ad uno... A me non importa di morire, che mi ammazzino, però se ti accecano, allora è finita veramente”;

“ l’altro giorno uno mi ha dato una scarpata nella gamba”;

“ l’altra sera uno mi ha tirato un pugno in un occhio”;

“c'è pericolo, c'è pericolo.., io mi metto paura, non dormo neppure la notte”;

“ c'è pericolo... ti guastano la faccia, ti rompono la testa, ti spezzano un braccio”;

“fanno tutto quello che gli passa per la testa, si buttano addosso come lupi. possono anche ucciderti”.

La paura è l'unico confine interno di questo mondo ove tutto comunica con tutto; la geografia dell'esclusione psicologica, del pregiudizio all'interno dell'istituzione manicomiale riconosce due aree: ai margini i “sani di mente” (psicopatici, epilettici, etilisti, sociopatici) che cercano di girare al largo, di evitare i contatti, di tenere gli occhi aperti, di fare gruppo e di accattivarsi gli infermieri (che in qualche modo danno la prestazione che sempre ha dato la violenza alla ignoranza e alla paura incolpevole); al centro i “pazzi “, nel ghetto, nella “ bolgia” del cortile che risuona dalla mattina alla sera di un alto vociare, di strepiti, di suoni disarticolati e, di tanto in tanto, di urla disumanate.

A questa situazione “assurda” ma irrimediabile, gli alienati si adattano secondo modalità e meccanismi molteplici, esaurientemente documentati in ambiente istituzionale da Goffman (ritiro dalla situazione, intransigenza, colonizzazione, conversione, ecc.). A taluno si è già fatto implicitamente cenno: tutti gli alienati vanno incontro ad un processo di regressione psicologica più o meno profonda che, specie nei lungodegenti, può giungere sino alla demenza “ istituzionale” che rappresenta l'estremo “ ritiro dalla situazione”; la reiterata violenza dei “pazzi” sembra esprimere paradossalmente, più che la malattia, un rifiuto radicale della situazione e cioè una brutale “ intransigenza”.

L'analisi di tali meccanismi oggettiva però un'esperienza che noi vorremmo restituire nella sua genuinità. Limitiamo pertanto la nostra attenzione alle reazioni emotive degli alienati, rilevando quattro diversi stati d'animo.

Agli estremi opposti, la sterile ebetudine dei cronici si contrappone alla noncuranza calcolata, furbesca e conciliante - il “ prendersela calma” di Goffman - degli etilisti e degli altri sociopatici che hanno la fondata speranza di uscire a breve scadenza e la certezza di rientrare prima o poi. Sono, secondo la loro stessa definizione, le “vecchie volpi* che soffrono poco perché in manicomio trovano vitto e alloggio sicuri e, per lunga esperienza sanno sfruttare al massimo il “sistema dei privilegi » istituzionali, procacciandosi un'esistenza non del tutto disagevole.

Ma i più vivono l'incertezza del destino che li attende o l'amara consapevolezza che la vita si svolgerà tutta in manicomio. Questo gruppo reagisce in modi affatto opposti. Da una parte risuonano voci di dolore, di rabbia e di protesta:

“qui non è cosa di poter vivere sempre così!”;

“non ce la faccio più a star qua”;

“stiamo qua? dobbiamo morire qua? e moriamo in manicomio!... ma a che scopo?... qualcuno si dovrebbe interessare di noi, qualcuno dovrebbe darci la possibilità di vivere”;

“è una vita senza significato, senza senso: si è inutili, disutili e a carico della società”;

“ ... un soccorso, Cristo di Dio!... dobbiamo morire così?”;

che talora giungono ad esprimere un'accorata disperazione:

“invece che vivere così, meglio impiccarsi!”;

“ meglio in un campo di concentramento bruciarci vivi, che star qui!”;

“ ci vuole una bomba atomica che ci ammazza tutti quanti, questo ci vuole!”;

“ quand'uno entra qui, è finita! è finita! è finita!”;

dall'altra, prevale un'amara rassegnazione:

“in verità mi sono rassegnata... da una parte si deve vivere, adesso sto qui e tiro avanti così. Dio mi ha creata malata, qui mi devo rassegnare”;

“talvolta dico a me stessa: “ Gesù Cristo mio, tu mi hai dato 'sta croce, Gesù Cristo mio, dammi la forza di sopportarla”;

 “io mi sono rassegnata a stare qui tutta la vita... necessità fa virtù: è ingiusto, ma bisogna rassegnarsi”;

oppure una speranza senza fondamento, che vive nel gioco dei rimandi:

“aspetto mio fratello... non è mai venuto - sono anni - ma mi ha scritto che verrà a prendermi. Lo aspetto da una Domenica all'altra, da un Giovedì all'altro”;

 “come faccio a star calmo? Mi alzo, scambio una parola con uno, con l'altro e penso che domani le cose cambieranno.. . oggi, domani... oggi, domani”;

Nella rassegnazione confluiscono componenti diverse, non univoche; talora, caratteristicamente nelle donne, essa, più che una reazione, rappresenta il modo di atteggiarsi nei confronti del mondo preesistente al ricovero: “ ... talvolta il mondo familiare dell'internato è stato, di fatto, tale da immunizzarlo contro il desolato mondo istituzionale: a queste persone non occorrono particolari schemi di adattamento “ (ibid, p. 93); talaltra, essa esprime l'accettazione passiva di un destino senza scampo, di una fatalità voluta dal Cielo (“è Iddio che ci ha fatto ammalare”); talaltra ancora attesta il venir meno di ogni energia e volontà di lotta. Se si eccettua la rassegnazione, in tutti gli stati d'animo degli alienati sopravvive sotto la rabbia, la protesta, la speranza, un desiderio di libertà profondo ed insopprimibile. Per taluni questa aspirazione non si definisce altrimenti che come fine della reclusione e dell'inerzia:

“come non desidero uscire? La vita è fuori: si può parlare, si può guardare”;

“voglio la libertà: io sono abituata ad andare in campagna all'aperto”;

“io voglio uscire: ho bisogno di sfogo, di camminare, di lavorare”.

Per altri essa esprime, sia pure inconsciamente, il desiderio di recuperare uno spazio personale:

“vorrei un po' di autorità, vorrei espandermi un pò, non stare qui così stretta, obbligata da tutti”;

Per i più la libertà si configura come l'essenza della dignità e della natura umana, bene, pertanto, irrinunciabile;

“vorrei uscire perché amo la libertà”;

 “la libertà è quello che vale, anche se uno mangia pane e cipolle; qui dentro, anche se uno mangia l'oro, sempre chiuso sta”;

“la libertà anche gli uccelli in gabbia non vogliono perderla... la libertà è la più bella cosa del mondo”.

 

LA DINAMICA DEI RAPPORTI ALIENATO-FAMIGLIA

Questa generale aspirazione alla libertà, sottesa da una vera e propria ansia di liberazione, proietta l'alienato verso il gruppo sociale da cui è stato estraniato e innanzitutto verso il nucleo familiare.

Due meccanismi fondamentali sembrano regolare, in base alla nostra indagine, la dinamica dei rapporti alienato-famiglia; useremo per definirli, i termini di incorporazione ed espulsione, termini non codificati dal punto di vista sociologico, che però, a nostro avviso, esprimono compiutamente il carattere primitivo di quei meccanismi.

La tendenza all'incorporazione muove dalla negazione della malattia o da un giudizio superficiale di guarigione; essa mira alla fine dell'internamento e pertanto ad una reintegrazione del nucleo familiare. Questa tendenza è ben viva in quasi tutti gli alienati, eccezion fatta ovviamente per i senzafamiglia e per i cronici istituzionalizzati. Il significato intenzionale che l'incorporazione assume per gli alienati è chiaro: la reintegrazione del proprio ruolo è al tempo stesso ricostituzione, riidentiflcazione del sé - e quindi anche riconquista dello spazio personale - e fondazione di possibilità relazionali più ricche, articolate e significanti. L'attrazione centripeta esercitata tradizionalmente dalla famiglia viene potentemente rafforzata dalle sollecitazioni centrifughe che l'ambiente manicomiale esercita sugli alienati non del tutto istituzionalizzati. Questa convergenza di fattori rende comprensibile il fatto che talora, all'urgenza libertaria dell'alienato, corrispondano prospettive di reinserimento vaghe, poco o punto realizzabili, la famiglia riducendosi a pochi membri rispetto ai quali il legame parentale è lontano o povero affettivamente:

“io voglio tornare a casa dai miei genitori. Se loro non possono tenermi, vado a casa da mio fratello”;

“se mia moglie finisce di sistemare i figli in Canada, tra due-tre anni può tornare in Italia. Io allora potrei andare a vivere con lei”;

“i miei fratelli vivono tutti a Milano e non si interessano.., se ho la possibilità di vivere, posso andare con loro”;

 “Sto qui da diciotto anni... io posso uscire se mi prende mio figlio, ma prima deve terminare gli studi e avere un posto”;

“c'è una mia sorella che deve venire a prendermi, aspetto da tre-quattro anni;. spero che venga”;

“ l’unico che potrebbe aiutarmi è mio fratello; non è mai venuto, ma io lo aspetto”;

“se mi ristabilisco, vado via dal mio paese; andrò in Piemonte coi miei fratelli”;

“ tornerei in famiglia certo, dopo tanti anni, la famiglia si è un po' allontanata”.

Alla tendenza incorporativa degli alienati solo alcune famiglie rispondono in maniera consonante. I fattori che sottendono questo atteggiamento sono individuabili solitamente:

1) in un sentimento di cieca pietà materna, che assolve l'alienato da ogni colpa e lo reintegra nella dimensione del “bambino malato »:

“povera creatura, starà con me: io sono la madre”;

“il direttore non vuole darmi il figlio mio che sta tanto bene... non è pazzo! il dottore lo ha messo sotto i raggi e non è pazzo, è debolezza... lui viene a casa e sta buono buono”.

2) nel ruolo che l'alienato svolge nell'ambito della famiglia; il capofamiglia, la mamma di bambini piccoli, nonostante la malattia, hanno maggiori possibilità di essere recuperati per il fatto che il “vuoto” da essi lasciato può essere difficilmente colmato. Analoga funzione incorporativa assolve il bisogno di compagnia, per cui spesso il marito rimasto solo non vuole rinunciare, specie se in età avanzata, alla compagna e spera ad oltranza nella sua guarigione:

“mia moglie è stata ricoverata sette volte; io vorrei tenerla a casa perché mi sono sposato per avere compagnia... io la riprendo sempre con la speranza che la malattia finisca”;

talora si rileva, con sorpresa, che il bisogno di compagnia ha agito anche prima del ricovero, ostacolandolo:

“io non volevo portarla, e le dicevo: “Sta qui a casa, ti curi qui” per non restare solo... se spero che possa guarire? Altro che spero!”;

3) in interessi economici dipendenti dalla presenza dell'alienato in famiglia:

“mia madre sta bene, ha molte proprietà e una bella pensione; non voglio che stia in manicomio. Io sto prendendo una malattia, mia madre vuole venire con me perché ha visto il tradimento dei figli.. . è una vergogna che stia in manicomio con tanti beni”;

4) in una concezione profondamente radicata della dignità e dell'onore della famiglia in rapporto alla quale l'internamento di uno dei membri viene giudicato come lesivo ed offensivo per tutti gli altri:

“il direttore non vuol darmi mio figlio. Mio figlio è venuto a finire qui senza aver fatto nulla, mi dispiace che stia qui perché è il manicomio... in un altro ospedale? Ma come! ma come! si capisce che lo lascerei! qui no, perché non è pazzo, non è pazzo... è debolezza”;

“è una cosa brutta che mia madre sta qui, è una cosa che non doveva succedere... è una vergogna per tutta la famiglia”.

La tendenza all'espulsione, che ovviamente si esercita da parte dei familiari e dagli alienati viene solo tollerata o sofferta, mira all'isolamento, rispetto al contesto familiare, del membro malato ritenuto indegno in quanto “degenerato” (una paziente parla, con efficacia unica, di “derazzamento”) e configura l'internamento come unico e radicale rimedio, ratifica inesorabile dell'esclusione giustificata e dalla scienza e dalla legge.

Gli alienati recepiscono in maniera ora più ora meno drammatica l'abbandono familiare che denunciano attribuendolo a disinteresse affettivo, paura, ingratitudine o malvagità:

“io potrei uscire, ma i miei familiari sono trascurati: mio padre è vecchio, i miei fratelli sono sposati”;

“ho moglie e un figlio, ma mia moglie non ne vuol sapere perché sono malato di mente”;

“i miei figli dimostrano che ci tengono a farmi star qui, si comportano male perché io ho dato tutto per loro”;

“i miei figli sono venuti a trovarmi una sola volta; io gli voglio bene ma loro a me non molto: mi hanno abbandonato”;

“ sto qui per colpa della famiglia perché mia moglie prende la pensione e si consiglia col prete che, siccome sono comunista, dice: Lascialo là”.

Talora l'abbandono non è che la conseguenza del “derazzamento”, dell'espulsione cioè sancita come punizione di atti commessi dall'alienato lesivi dell'onore familiare:

“io volevo sposarmi, ma mia madre non ha voluto perché diceva che (lui) non era pari alle nostre condizioni e mi sono ammalata per questa fissazione... M'hanno abbandonata, dicono che ho dato disonore alla famiglia.., m'hanno derazzata dalla casa, non ne vogliono sapere più”;

“qui mi accompagnarono mio padre e mio fratello perché avevo avuto un bambino fuori dal matrimonio”.

Alle denunce degli alienati, i familiari oppongono motivazioni circostanziate, quali:

a) l'impossibilità di assistenza, determinata spesso da impegni di lavoro che coinvolgono tutti i membri della famiglia:

“a noi non è possibile custodirla, noi siamo impegnati con la campagna e non abbiamo la possibilità di starle vicino; ognuno di noi, fratelli e sorelle, abbiamo- da fare... Lei vuole uscire, ma non c'è nessuno che possa dedicarsi a lei minuto per minuto; a me farebbe piacere che uscisse, però in pratica non ne vedo la possibilità”;

b) il ruolo che l'alienato svolge nell'ambito familiare: tale fattore che, come abbiamo analizzato, può agire in senso incorporativo, può altresì rafforzare una tendenza espulsiva nei confronti degli individui praticamente a carico della famiglia, non bene inseriti o comunque facilmente emarginabili (donne nubili, vecchi, inabili o disoccupati, ecc.);

c) il disinteresse affettivo: strettamente connesso al precedente, tale fattore può assumere peraltro, sia pure di rado, un rilievo particolare, come risulta dalla seguente lettera:

“Firenze, 6 dicembre 1968.

Caro papà, ho ricevuto la tua lettera e ti rispondo informandoti che è inutile che ti rivolgi a me per uscire dall'ospedale dove ti trovi perché come ti ho detto tante volte io non posso fare nulla (... ) Perciò non ricominciare a scrivermi come facevi anni fa perchè non mi piace affatto sentire parole senza senso da te (. ..) Per questa volta siccome si avvicina Natale lascio correre che tu mi scriva così. La prossima volta, senza nessuna pietà, perché non meriti, incomincio a non mandarti i soldi ed è inutile che minacci di denunciarmi ai carabinieri perché ricordati le fesserie che hai fatto e devi pagarle tutte perché sei venuto lí spontaneamente e soltanto i carri armati ti potranno togliere. Cordiali saluti. Tuo figlio”;

d) la paura, che ha profonde radici nel pregiudizio:

“se torna a casa, uno non può stare sicuro perché è stato sempre sette o otto anni in manicomio: ragiona, ma non si può fare nessun affidamento.., uno ha sempre quella paura, quel timore.. . qui se si agita ci sono gli infermieri, a casa ci sono solo io”;

e) la dignità, il prestigio e l'onore della famiglia che agiscono in senso espulsivo soprattutto quando l'alienato ha un atteggiamento o un comportamento tale da dare scandalo:

“mio marito sta bene, dice di volere uscire ma io non posso prenderlo a casa perché sono sola con mia figlia... non ho paura, ma mia figlia è insegnante e non vuole fare brutta figura”.

In questo caso, dunque, la famiglia appare veramente, come dice un alienato, “vittima del pregiudizio degli altri”.

Talora la difesa della dignità familiare viene perseguita attraverso un atteggiamento incorporativo fino a che il malato è nell'ambito familiare che si tramuta in espulsivo quando esso è internato. La famiglia, cioè, per difendere il suo buon nome, tende ad occultare il malato fino a che è possibile; quando, nonostante tutte le cautele, esso disturba o dà scandalo o richiede delle cure, se ne accetta o se ne determina il definitivo internamento:

“quando stavo in casa i miei non mi volevano fare uscire: dicevano che stavo male, che la gente poteva parlare. Sono stato io a volere venire qui perché stavo male, non dormivo ma i miei non volevano.., non mi vengono a trovare più”.

Altre volte il prestigio della famiglia viene salvaguardato attraverso una continua minaccia di ospedalizzazione rivolta contro l'ex-degente che dovrebbe avere, nell'intenzione di chi la muove, un valore profilattico, contentivo ma che poi di fatto viene a tradursi in atto alla prima occasione:

“quando esco e torno in famiglia, solo perché dico mezza parola, mia moglie va dai carabinieri, il medico fa un po' di certificati ed io vengo qui senza essere pazzo... è possibile vivere così?”.

Se i meccanismi incorporativi ed espulsivi sinora considerati, per la loro stessa natura primitiva, sembrano strutturarsi in maniera piuttosto rigida, è ovvio che lo schematismo analitico che, per esigenze di chiarezza, ci ha indotti ad opporre gli uni agli altri, non esaurisce la complessa dinamica dei rapporti alienato-famiglia nel determinare la quale quei meccanismi spesso concorrono in misura diversa. Non è raro ad esempio che una tendenza incorporativa venga contrastata ed infine vanificata da fattori di ordine economico.

Lo spazio vitale socio-economico di cui l'individuo può fruire in una regione cronicamente depressa è ridottissimo. Questo comporta due conseguenze di interesse: in primo luogo, una riduzione sia pure modica della produttività dell'individuo non può trovare compenso che nel sacrificio degli altri membri della famiglia; peraltro, una qualunque diminuzione della produttività, in un regime così fortemente competitivo, determina quasi costantemente l'emarginazione lavorativa dell'individuo. In tali condizioni il reinserimento del malato di mente nel nucleo familiare è legato ad un “aiuto”, ad un “soccorso” spesso individuato in una “ pensione” che non viene né verrà concessa:

“la pratica è ferma... se gli dessero la pensione forse potrei tenerlo a casa, avrei un altro punto di appoggio, uno lo potrebbe curare differentemente: c'è un'entrata, c'è qualche cosa. Stando qua, volere o volare, mangia e viene curato ma a casa, anche facendo sacrifici, quando manca il necessario”;

“io vado a casa e non posso lavorare e questo è il mio guaio... vogliamo che la gente ci aiuti... per uscire devo avere la possibilità di poter vivere perché se no esco per dar fastidio agli altri e allora è meglio che si muoia disperati e non se ne parla più. I miei genitori si interessano, ma sa, è gente che lavora la campagna, nella povertà, manca la possibilità di sostenere i miei diritti, non sanno la strada per aiutarmi”.

 

LA DINAMICA DEI RAPPORTI ALIENATO-SOCIETÀ

Lo studio della dinamica dei rapporti alienato-società, che integra e fa da sfondo alla più intima ed articolata dinamica relazionale alienato-famiglia, viene qui affrontata, in rapporto all'impostazione antropofenomenologica del nostro lavoro, dal solo punto di vista degli alienati e mira pertanto a ricostruire e ad analizzare i termini in cui essi recepiscono, vivono e restituiscono l'atteggiamento della società nei loro confronti e le conseguenze che ne derivano.

Da pochi alienati, in massima parte di sesso femminile e di estrazione rurale, tale atteggiamento viene valutato come neutrale o addirittura particolarmente benevolo:

“fuori non accadrà nulla”;

“e cosa possono dire? Io sto sempre in casa”;

“quando sono tornata a casa, mi volevano bene tutti ed io mi facevo voler bene da tutti”;

“tutti quanti sanno che sto qui e tutti si dispiacciono”;

“quando esco ritrovo gli amici, mi baciano”;

“la gente mi vuole bene”.

E probabile che tali testimonianze rappresentino la gratificazione fantastica di inconsci desideri di preservazione del sé. Non si può escludere, d'altro canto, che esse muovono da esperienze relazionali piuttosto particolari, in rapporto e alla struttura fondamentalmente compatta della famiglia che adempie, nei confronti di coloro che rimangono confinati nell'ambito domestico, una funzione diaframmatica, isolante, e all'organizzazione prevalentamente agricola della società, che comporta una certa rarefazione delle relazioni interfamiliari ed interpersonali. Nonostante questo humus sociologico la massima parte degli alienati mostra consapevolezza dell’esistenza di atteggiamento pregiudiziale da parte della società, nei cui confronti ostenta una certa indifferenza o un velato un disprezzo:

“ci sarà sempre qualcuno che dice: “Quello è stato al manicomio”, ma io non mi preoccupo proprio; io dico: “La malattia, pazienza, è un guaio!”;

“la gente parla, dice: “La pazza, la pazza!”, ma io non me ne curo”;

“sono cose che possono capitare a chiunque; certo la gente ha sempre un certo distacco da noi, ma io non ci faccio caso”;

“(il pregiudizio) esiste ma io non mi pongo più il problema: a forza di venire in manicomio, mi è passata la paura del pregiudizio. Gli altri so come la pensano, ma non m'interessa”;

“dicessero quello che vogliono se credono che siamo pazzi; ormai noi qui dentro da pazzi ci comportiamo... Se fuori ci sono pazzi più pazzi di noi che non vogliono confortarci a noi sofferenti e non vogliono crederci, facciano come vogliono”.

Non di rado la coscienza del pregiudizio sociale, spesso più che presupposto duramente sperimentato, è integrata da una lucida definizione delle sue cause, individuate nella ignoranza e nella paura:

“il pregiudizio c'è: il paese è molto arretrato, molto ignorante”;

“quand'uno esce dal manicomio, viene castigato perché c'è molta ignoranza”;

“ la gente la pensa in maniera molto egoistica, è guardinga”;

“ hanno paura”;

e da una realistica illustrazione delle sue conseguenze di ordine e psicologico e pratico.

Dal punto di vista psicologico, il pregiudizio, comportando una definizione categoriale che non tiene conto della personalità del singolo, determina negli alienati uno stato d'animo ora di umiliazione e di disagio ora di sdegno e di esasperazione:

“loro sospettano di noi, hanno una mentalità sbagliata, non hanno più fiducia in noi... ci sentiamo offesi, non calcolati, siamo trattati come pezze da piedi... la società ci guasta”;

“noi abbiamo la patente di pazzi”;

“se sanno che sei ammalata del sistema nervoso, non ti vogliono più guardare in faccia. Io sto male al paese anche per questo, perché so che se ho una crisi per strada la gente non ti guarda più”;

“quello che più ci fa male è dato dal fatto che la società ci giudica male, uomini anormali, poco intelligenti”;

“(quando uno esce dal manicomio) viene preso come se avesse commesso qualche delitto”;

“ dopo che uno è stato una volta qui, non prende più pace; uscendo di qui ci sentiamo compromessi: è una situazione che può mandare in delirio una persona”.

Dal punto di vista pratico, gli alienati che hanno esperito il rapporto con la società dopo un periodo di internamento riferiscono su di una continua, logorante esposizione al rischio di un nuovo ricovero:

“se io esco, solo perché dico mezza parola torno qua senza essere pazzo: questo è sequestro di persona”;

“siamo soggetti che alla prima occasione torniamo qui... se uno ti vuole male, ti fa tornare qui per una sciocchezza”;

“per noi è così: quando usciamo, una minima cosa che facciamo viene la polizia e ci riporta qui”.

Da tutto ciò discende una grave difficoltà di reinserimento lavorativo: l'ex-degente, in un contesto sociale fortemente competitivo, è quasi fatalmente emarginato; se lavoro gli viene offerto, deve accettare condizioni dure di sfruttamento:

“quando ho lavorato, le volte che sono uscito, mi hanno pagato sempre poco. Se ne approfittano della nostra condizione sociale, che possiamo facilmente, anche per sciocchezze, tornare qui... I datori di lavoro o non ti prendono o ti sfruttano, non ti riconoscono i diritti e tu non puoi difenderti”.

Per molti alienati, pertanto, la progettazione della libertà non si configura come ritorno al proprio gruppo sociale, bensì come fuga da esso; divenir liberi significa, più che essere dimessi dall'istituzione manicomiale, sottrarsi ad una condanna pregiudiziale ed irreversibile, lasciare tutto e tutti, giocare l'ultima carta alla ricerca di un destino finalmente diverso:

“quando uscirò, tutti diranno: “Ecco, arriva Togliatti - mi chiamano così perché sono comunista - che è uscito dal manicomio!” ed io, per evitare preoccupazioni e liti, cercherò di emigrare, andrò via dal paese”;

“al paese non troverei pace; tutti sanno dove sono stato, non mi darebbero pace... Andrò da qualche parte, in Svizzera, se tutto va bene”;

“se mi ristabilisco, vado via dal paese. E se no che faccio? Vado verso il Nord”.

Nonostante la grave carenza di comunicazione e di informazioni, alcuni alienati manifestano una vivace coscienza politica che si esprime attraverso denunce violente e critiche graffianti. La causa della permanenza indeterminata e del disagio della condizione manicomiale viene individuata nello sfruttamento delle degenze:

“io solo costo un milione all'anno alla Provincia e consumo si e no ventimila; evidentemente ci tengono qui anche per guadagnare”;

“siamo qui perché la Provincia paga. Su tanta gente che c'è qui, c'è il guadagno: la Provincia paga tremila lire a malato, e chi le mangia tremila lire?”;

 “anche a Natale e a Pasqua per noi non esistono feste; non perché mancano soldi: sul giornale c'era scritto che la Provincia dà al manicomio due miliardi e mezzo. Che fine fanno questi soldi? Non c'è risposta”.

Un alienato identifica nel clientelismo e nel parassitismo i grandi beneficiari di tale sfruttamento:

“qui ciascuno della Provincia piazza i suoi: la suora piazza il frate, l'infermiera la nipote e tutti sfruttano. Occorrerebbe un controllo ogni otto giorni”.

Altri rileva la vanità dei controlli “dall'alto” che servono a nulla e inducono a mistificazioni proditorie:

“il Governo paga tremila lire ma il mangiare non vale trecento lire. Qui si sta bene quando vengono le commissioni, quando vengono i ministri: allora fiori, profumi, la migliore frutta, le migliori qualità di pane”.

Tale stato di cose viene riferito a carenze legislative, ma più ancora a difetto di umanità, di civiltà e di giustizia:

“le leggi son fatte comode per chi vuole governare da despota nella società umana, perché se i principi umani, cristiani dovessero trionfare, queste leggi coercitive sui manicomi dovrebbero essere cambiate”.

Questo richiamo ad una giustizia a venire, che risuona ora più ora meno fiducioso nelle voci degli alienati, è l'espressione di una umanità che né si arrende alla violenza della sorte né rinuncia alla sua dignità.

 

LA “ CARRIERA” DEGLI ALIENATI

Sembra opportuno, giunti a questo punto, fornire un abbozzo della carriera dei malati di mente in Lucania. Il materiale da noi utilizzato a tal fine, costituito quasi esclusivamente dalle testimonianze degli alienati ospedalizzati, comporta alcune insufficienze, in particolare per quanto riguarda la ricostruzione dei momenti della predegenza e della postdegenza. Tali insufficienze - crediamo - potranno essere colmate solo attraverso accurate indagini volte a ricostruire la dinamica dei rapporti alienato-società nel suo concreto attuarsi, dal momento in cui essa si istituisce per il manifestarsi nell'individuo di una particolare condizione psicopatologica al momento in cui, a causa dell'internamento, si definisce e si irrigidisce per l'intervento dei fattori pregiudiziali. La ricostruzione della carriera degli alienati che qui forniamo, pertanto, non accampa pretese di obbiettività sociologica: allo psichiatra, d'altro canto, non compete la verifica della corrispondenza alla realtà di un vissuto, bensì la comprensione di tutte le dinamiche che lo sottendono e lo strutturano. Da questo punto di vista, le testimonianze degli alienati offrono un contributo di interesse: i frammenti di verità che - siamo certi - riflettono, muovono, paradossalmente, da un universo di “ anime morte”.

 La carriera sociologica degli alienati inizia con l'internamento. Questo di rado avviene spontaneamente, per impossibilità di sopravvivenza all'esterno o per coscienza di malattia; il più spesso è deciso dai familiari o dalle autorità e posto in atto con l'inganno o la forza. In tal caso, l'ospedalizzazione, più che sotto il profilo terapeutico, viene vissuta come un'esclusione dal nucleo socio-familiare o, per l'intervento della forza pubblica, tradizionalmente temuta e avversata, come un'ingiusta punizione, un sopruso.

 In uno stato d'animo confuso e colpevole, l'alienato, immesso nella compatta atmosfera istituzionale e costretto a subire la violenza della spoliazione e dell'irreggimentazione, assume rapidamente coscienza del significato reclusorio e coercitivo dell'internamento. La perdita della libertà non rappresenta peraltro che l'aspetto estrinseco di una condizione di disagio caratterizzata, su un versante più intimo, dalla violazione dello spazio personale, dall'inerzia e dall'esposizione continua ed inquietante al pericolo di aggressioni, e sottesa dalla consapevolezza di aver perduto ogni potere decisionale sul proprio destino. Alla violenza del presente si sovrappone l'incertezza di un domani che potrebbe rimanere inesorabilmente chiuso ad ogni speranza.

 L'esperienza della libertà, quando è sortita, è il più spesso amara. La “patente di pazzi », triste retaggio dell'internamento, ostacola e frustra ogni tentativo di reinserimento in un contesto sociale che, culturalmente ed economicamente depresso, oppone la duplice resistenza del pregiudizio e della miseria. Avvolto da un clima di timore e di sospetto, l'alienato viene a sentirsi irrimediabilmente isolato ed esposto al rischio di un nuovo ricovero. In queste condizioni, basta spesso un nonnulla a compromettere il suo fragile equilibrio psicologico e a far scattare l'inesorabile meccanismo dell'esclusione.

 Il reinserimento, quasi sempre forzato, rappresenta la conclusione, la più frequente, della triste esperienza di libertà. Da questo momento in poi, l'esistenza dell'alienato è presa, con rare eccezioni, in un circolo vizioso, in un gioco di rimandi manicomio-società che non concede speranza.

 Le tendenze espulsive della società si fanno via via più manifeste ed intense, al progressivo incremento del pregiudizio corrispondendo la crescente indifferenza od ostilità del nucleo familiare. Le capacità incorporative dell'istituzione, d'altro canto, aumentano proporzionalmente, in rapporto al definirsi di un lento processo di adattamento dell'alienato alla condizione manicomiale. Tale processo, intenzionato nella direzione della preservazione del sé e sotteso da un'irriducibile speranza di liberazione, comporta però un'inesorabile regressione verso livelli di comportamento sempre più inadeguati alla vita extraistituzionale.

Prima o poi, l'alienato si rende conto che il suo destino non ha più orizzonti, che la sua esistenza procede per “una via senza uscita”; la disperazione che ne segue spegne ogni volontà di resistenza e di lotta, e sommuove primordiali ed incontrollabili impulsi aggressivi.

La demenza istituzionale, che definisce l'anonimato grigio e vociferante del cortile, è un coacervo di rassegnazione, di resa e di violenza fine a se stessa.