L'IDEOLOGIA BASAGLIANA


Introduzione alla lettura (2003)



La partecipazione al movimento antistituzionale, che mi ha duramente impegnato per sei anni (dal 1975 al 1981) nel lavoro presso il manicomio di Roma, non ha mai inattivato il bisogno di riflettere su quello che stava accadendo sul piano della teoria e della prassi psichiatrica. Lo smantellamento critico e pratico dell'ideologia manicomiale, che poneva in gioco i presupposti organicistici da cui aveva preso le mosse la "scienza" psichiatrica, mi è sempre sembrato un passaggio obbligato ai fini di un rinnovamento della psicopatologia e del sapere sull'uomo. Analizzata nei suoi effetti più drammatici - quelli, appunto, istituzionali - di quell'ideologia non c'era alcunché da salvare, se si esclude l'originario intento di Pinel di curare anziché punire i malati di mente, completamente rimosso, peraltro, dalla pratica manicomiale a partire dalla metà dell'800 in poi.

Avevo avuto occasione nel 1967, ancora studente, di frequentare per un tirocinio l'ospedale psichiatrico, ricavandone un indicibile orrore, che si era tradotto in smarrimento allorché presi atto che, tranne alcune eccezioni, né gli psichiatri né gli infermieri erano dei "mostri". La convinzione che ci fosse, nella logica istituzionale, qualcosa di profondamente disumano che s'imponeva agli operatori stessi, e che quindi andava radicalmente criticata e cambiata, era già radicata in me allorché esplose mediaticamente il "fenomeno" Basaglia.

Sono stato definito un basagliano nel corso di tutti gli anni in cui ho lavorato in manicomio. Io stesso mi consideravo orgogliosamente tale, finché alcuni miei amici e colleghi di laurea, andati a lavorare a Trieste, non mi fecero presente che la pratica basagliana, cui aderivano, escludeva qualunque preoccupazione teorica sui fenomeni psicopatologici, e implicava un rifiuto radicale dell'orientamento psicodinamico. Capivo il senso di quella preclusione, considerando il ruolo svolto dall'Accademia nel mantenere in vita e nel corroborare l'ideologia psichiatrica tradizionale; molto meno il rifiuto. Che la prassi psicoanalitica corrente, incentrata sul transfert, fosse insignificante, mi era chiaro. Mi chiedevo però come fosse possibile ricusare d'emblée il potenziale rivoluzionario intrinseco al sapere analitico, e misconoscere la necessità d'integrare tale sapere con le scienze umane e sociali, pervenendo a chiarire i nessi reciproci e interattivi tra soggettività e storia sociale, che rappresentavano l'oggetto costante della mia riflessione.

Quando Basaglia venne a Roma, nel 1980, dovetti prendere atto che il suo orientamento anti-intellettualistico e anti-teorico si era piuttosto radicalizzato che non ammorbidito. L'ammirazione nei confronti della persona e della lotta ch'egli aveva avviato, con estremo coraggio e pagando non pochi prezzi, non venne meno per questo. Compresi però che la psichiatria alternativa, in conseguenza dell'opzione basagliana, sarebbe rimasta ferma alla fase destruens e non sarebbe mai riuscita, attraverso la pratica sociale, a produrre un nuovo sapere e un nuovo paradigma sui fenomeni psicopatologici. Gli scritti di Basaglia, pubblicati dopo la sua morte prematura, confermavano la rigidità di quell'opzione. Per questo mi sentiti autorizzato ad analizzarli criticamente e a parlare di "ideologia" basagliana.

Ero anche consapevole che, venuta meno la figura carismatica di Basaglia, la psichiatria alternativa, ispirata al suo insegnamento, avrebbe corso il rischio di burocratizzarsi e di tradurre le suggestioni del pensiero basagliano in una serie di sterili slogan. Il rischio si è realizzato. Dopo venticinque anni, come risulta dagli articoli pubblicati nella sezione Psichiatria/Legge 180, il bilancio dell'opzione anti-teorica basagliana risulta pesante al punto di avere indotto una messa in discussione della legge stessa.

L’ideologia basagliana

1.

La pubblicazione degli scritti di Basaglia presso Einaudi, a cura della moglie che ne ha condiviso e, forse, corroborato l’itinerario intellettuale, offre una prima possibilità di approccio critico ad un’impresa che è anche di pensiero (senza peraltro esaurirsi a questo livello). Nell’ultima intervista concessa ai redattori di ‘Dove va la psichiatria?’, che conclude l’opera, Basaglia non manca di rivendicare il primato della pratica sociale sulla cultura, dell’agire rivolto al cambiamento del reale sul sapere che tende a conservarlo, dell’azione rivoluzionaria sul pensiero: l’anti-intelletualismo, divenuto un assillo di fronte agli immani problemi pratici da affrontare per porre in essere una legge nella quale, nonostante la consapevolezza dei limiti, identifica il frutto più maturo della sua impresa, è espresso con un radicalismo comprensibile, ma un po’ troppo esasperato. L’impotenza della psichiatria, alimentata dalle contraddizioni fatte affiorare dalla legge, non si supera, secondo Basaglia, che accettando la sfida reale delle contraddizioni stesse: scrivere libri sarebbe dunque un esercizio che maschera l’impotenza stessa. C’è un eco della lezione marxiana: comprendere il mondo è sempre possibile, ma è solo in virtù della pratica politica che esso può cambiare.

Si tratta di una polemica rivolta contro l’accademia, non contro la scienza. Ma è una polemica che, per giungere al segno, deve alzare il tiro: mirare alla scienza, al sapere - tout-court - per cogliere, al di là dei nuclei di verità che produce, gli intrecci inesorabili e compromettenti che intrattiene con il potere.

In tutta l’impresa umana, politica e intellettuale di Basaglia c’è una confusione voluta, coltivata, celebrata tra strategia e tattica: tra un radicalismo ideologico quasi senza limiti e una capacità di tener conto delle forze reali in campo sorprendente. E’ ciò che egli stesso ha riconosciuto ironicamente come cinismo e che, più propriamente, merita di essere definita astuzia della ragione dialettica. Ora che l’impresa è consegnata alla storia, è la strategia ad assumere interesse, il pensiero basagliano a meritare una valutazione critica.

Non avrebbe senso, altrimenti, la pubblicazione, quasi frettolosa, degli Scritti e la cura posta, nell’Introduzione generale, dalla moglie ad orientare una lettura che faccia giustizia di polemiche ed equivoci appuntante dall’establishement psichiatrico sul carattere scientificamente velleitario e politicamente provocatorio dell’impresa basagliana. Come summa di quest’impresa, è un corpo di scritti che ci viene offerto: un sapere, dunque. Il fatto che esso, nel suo stesso porsi, si rinneghi come sapere, e pretenda di essere null’altro che il riflesso di contraddizioni aperte dalla pratica sociale, e dunque né chiuso né sistematizzabile né esauribile, va assunto con il rispetto che si deve alle intenzioni dell’autore: ma, già a caldo, appare come un’ennesima versione del mito della negazione della ragione che non può realizzarsi se non in virtù dell'uso di ciò che si tende a negare.

Posto ciò, il problema metodologico non è risolto: come affrontare un corpus teorico che rinnega di essere tale, e si richiama, per validarsi, ad una pratica sociale, la cui contemporaneità, mobilità e complessità, sfugge a qualunque tentativo di cattura del pensiero? A mio avviso, non c’è che un modo: mettere tra parentesi la pratica sociale, assumere quel corpus teorico come oggetto di critica epistemologica e/o ideologica, e dare per scontato che la sua evoluzione nel tempo possa offrire le chiavi atte a decriptarlo. Ciò significa: primo, rifiutare la chiave di lettura che viene offerta nell’introduzione, evidentemente troppo tesa a valutare positivamente gli esiti estremi del pensiero basagliano - l’apertura, in virtù della legge, di contraddizioni insanabili e non recuperabili dal sistema politico e dal sapere ufficiale - e ad enfatizzare, dunque, il progresso nell’analisi e nella comprensione della realtà; secondo, assumere il corpus degli scritti come avente una sua continuità profonda, tale che ogni rottura epistemologica non fa che rinnovare, a contatto di una realtà diversa, alcuni presupposti di fondo.

 

2.

Fin dall’inizio della sua riflessione, Basaglia manifesta una radicale insofferenza nei confronti di qualunque tentativo di coartare l’esperienza umana - normale o anormale - entro schemi esplicativi. La vita, nella infinita complessità dei suoi modi di essere, ciascuno significativo, non può essere oggetto di scienza, ma solo di comprensione e cioè di ricostruzione vissuta da parte di un soggetto dei nessi intrapsichici che significano la vita di un altro. C’è in questo modo di porre il problema psicopatologico, come diversa ma mai incomprensibile maniera di progettarsi il mondo, un corredo culturale fenomenologico di cui non si terrà mai abbastanza conto. Di questo corredo, alcuni elementi sono esplicitati (il rifiuto della spiegazione a favore della comprensione, che postula la necessità di un coinvolgimento vissuto nella situazione di rapporto; la concezione della vita come progetto inesauribile; il privilegio accordato alla forma dell’esistenza rispetto ai suoi contenuti o alle determinanti biologiche e psicodinamiche), altri impliciti, ma non meno significativi: il rifiuto della scienza come un sapere esatto ma chiuso e inerte in rapporto al mondo della vita; il rifiuto dello storicismo inteso come correlazione tra piano dell’esperienza e piano logico, ecc.

Questa adesione incondizionata all’antropologia fenomenologia struttura tutta l’impresa basagliana, e ne definisce, d’embleè, il valore e il limite: il valore, poiché postula la possibilità di liberare la vita dalla cattura del pensiero oggettivante, si configuri esso come sapere inerte e/o come ideologia; il limite, poiché il rifiuto di ogni spiegazione della vita - normale e anormale -, sia naturalistica, che psicologistica o storicistica, ne preserva la comprensibilità fenomenologica, ma sottrae gli infiniti modi di essere nei quali essa si esprime ad ogni valutazione qualitativa e - cosa ancora più importante - ad ogni possibilità di interazione che induca un cambiamento.

Ci sono già, fin dall’origine del pensiero basagliano, tutte le premesse per comprendere gli esiti cui perverrà, via via, l’impresa: la messa tra parentesi della malattia mentale, che potrà essere rimossa solo quando essa sia stata sottratta ad ogni possibile oggettivazione e colta solo sul piano dell’incontro; il rifiuto di ogni struttura, reale, ideologica o scientifica, che miri a contenere il modo di essere nella malattia per impedire di comprenderlo e, ciò facendo, lo mortifichi, lo falsifichi e lo valuti a partire da una normalità, che non è altro che un modo di essere dominante; l’assunzione della malattia mentale come esperienza di oppressione e di misconoscimento della progettualità umana, del tendere di ogni modo d’essere verso un mondo possibile e vivibile; la connotazione di ogni intervento terapeutico come ‘cura dell’individuo nella sua totalità, soprattutto nel tentativo di riportarlo alle sue integre possibilità esistenziali’, e, dunque, la limitazione della terapia ad un intervento che lasci l’individuo nel mondo, in maniera tale ch’egli possa vivere e progettarsi in esso con o nonostante la malattia.

L’incomprensibilità della malattia mentale esprime null’altro che l‘incomprensione di un mondo, il mondo della scienza o il mondo sociale, che oggettiva modi di essere umani: è il mondo, pertanto, che deve cambiare, comprendendo i modi di essere anormali sia nel senso di non emarginare coloro che li esprimono, né fisicamente né psicologicamente, sia nel senso di stabilire con essi un rapporto che, permettendo loro di socializzarlo, dia un senso alla progettualità intrinseca nella loro Erlebnis.

 

3.

Dati questi presupposti, non si offrono a Basaglia che due possibilità: o utilizzare gli strumenti di comprensibilità fenomenologia che ha acquisito per entrare in rapporto con i modi di essere anormali, diventare cioè un terapeuta che vive il suo ruolo come promotore d’un diverso rapporto tra normalità e anormalità; o porsi il problema di liberare quei modi di essere da tutte le costrizioni - scientifiche, istituzionali, sociali - che li alienano.

L’impresa, di fatto, riconosce tutti e due questi momenti. Basaglia è prima, per alcuni anni, un assistente universitario e uno psicoterapeuta antropofenomenologico. Solo quando le vicende della vita lo portano ad agire dentro l’istituzione manicomiale, comprende che l’incontro fenomenologico, che pone in rapporto due mondi di esperienza soggettiva, non ha ne può avere alcun significato. Esso deve divenire l’incontro tra il sociale, irrigidito dagli schemi della normalità, e la follia, che, in virtù di quegli schemi, è emarginata e resa insignificante. Ma, a tal fine, l’analisi antropofenomenologica diventa insufficiente. Di essa rimane viva, in Basaglia, l’istanza di sottrarre la vita e i suoi modi di essere da ogni cattura del reale; viva, insomma, l’istanza di liberazione; rimane valido il rifiuto della scienza e dell’ideologia. Il rifiuto della storia come processo che determina la coscienza sociale e quella individuale, intrinseco alla fenomenologia, si pone come un limite da superare

Occorre, dunque, inserire le premesse fenomenologiche di liberazione della vita, che fonda la possibilità di un incontro sociale significativo, non escludente, in un nuovo quadro concettuale. Purtroppo, è in questo trasferimento di premesse fenomenologiche in un quadro di critica ideologica e sociopolitico, che affiora il valore e il limite dell’impresa basagliana.

Il valore, anzitutto. Per realizzare un incontro tra normalità e follia che sia dialettico, e non escludente, occorre rimuovere tutte le incrostazioni istituzionali che hanno trasformato questo rapporto possibile in un rapporto di potere e di oggettivazione della follia da parte della normalità. Occorre, dunque, liberare la normalità da questa camicia di forza delle paure e delle diffidenze e la follia dalla camicia di forza della passività e della deresponsabilizzazione.

Ciò postula la lotta al manicomio, come luogo deputato a scindere il sano dal malato fino a renderli reciprocamente estranei e irriconoscibili, e la lotta al potere dominante che si vale di questa scissione per alimentare il sogno di un progresso che non può rinunciare ad eliminare tutto ciò che lo intralcia. La lotta all’esclusione e alla repressione della follia, come altra faccia della medaglia del progresso, diventa l'obbiettivo preliminare per affrontare il problema della follia in sé e per sé.

Ma questa scissione - tra follia come fatto sociale e follia come sofferenza - assunta come discriminante di una prassi che metta tra parentesi la malattia per non cadere nella contraddizione di oggettivarla e di reificarla come fatto psicologico, mentre essa è ancora fatto sociale, con il rischio di edificare teorie esplicative che ideologizzano una realtà - la malattia in sé e per sé - di cui nulla sappiamo perché essa è, per l’appunto, oggettivata, tenuta a distanza, e socialmente pregiudicata, porta il pensiero e l’impresa basagliana in un vicolo cieco.

La malattia diventa infatti l’inconoscibile, che tale deve rimanere finché non sia stata sottratta a tutte le influenze istituzionali che, oggettivandola, la escludono, e assegnano alla scienza il compito di curare l’esclusione. Perché il discorso abbia una coerenza storica, non si può assumere l’istituzione manicomiale come anomalia sociale: essa è, al tempo stesso, funzionale e sintomatica di una struttura totale che postula, per conservarsi, l’oppressione dell’uomo, e di tutti i fenomeni — prostituzione, delinquenza, follia - che, esprimendola, intralciano il progresso inteso come razionalizzazione, affermazione definitiva del potere e del sapere dominante. Il manicomio non è, dunque, che una delle istituzioni - la più mortificante e disumana - che violentano l’espressione e la realizzazione dei bisogni umani, incompatibili con le esigenze del sistema, il quale non può perpetuarsi che mortificandoli.

Famiglia, scuola, collegi, caserme, fabbriche, ambienti di lavoro, chiese, carceri: tutta la struttura sociale è istituzionalizzata sul modello manicomiale, per operare cioè una scissione tra ciò che si lascia integrare e ciò che, opponendosi, va escluso.

Entro il sistema sociale, inteso come insieme di istituzioni totali, l’esperienza umana non può che o regredire verso una forma alienata di normalità o alienarsi in sterili ribellioni che sanciscono la devianza, e dunque l’esclusione. L’incontro autentico con la malattia mentale, e dunque anche la definizione di cosa essa sia, non può darsi che in virtù di un progetto politico di cambiamento totale. Finchè questo non sia attuato, si può lavorare solo sulla faccia sociale della malattia mentale. Quella ‘specifica’, psicopatologica, deve essere messa tra parentesi, pena di rischio di edificare teorie che, presumendo di coglierne la natura, non fanno altro che ideologizzare le incrostazioni istituzionali, e cioè piegarla ad essere ciò che deve essere per il sistema.

 

4.

Nonostante la qualità politica del discorso basagliano, diventato nel corso degli anni sempre più radicale, è fuor di dubbio che esso rimane iincentrato su istanze fenomenologiche. Esso mira, infatti, proponendo una critica radicale delle istituzioni oppressive ed escludenti ad un cambiamento delle strutture reali, a liberare l’uomo con i suoi bisogni in una dimensione di integrità originaria. Solo in virtù di questo sarà possibile instaurare un rapporto autentico con la sofferenza psichica in ciò che essa ha di specifico e affrancarla come modo di essere altro rispetto alla normalità, comprensibile e rapportabile. Non è il sogno di un rapporto precategoriale, eidetico che viene a riproporsi? non è l’istanza di un sapere intuitivo che possa permettere a ciascuno e a tutti, e quindi alla società, di ricostruire dentro di sé il vissuto psicopatologico, e, in virtù di ciò, a riconoscerlo come parte di sé?

Se questo sogno si realizzasse, non avrebbe senso più alcuna tecnica: perché, se il sociale riconosce nel modo di essere persecutorio una minaccia che incombe nell’orizzonte vissuto di ogni esperienza umana, esso potrebbe anche condividerlo e parteciparlo: soffrire con e, dunque, per la capacità terapeutica della solidarietà, dissolvere la sofferenza la cui matrice ultima sarebbe la solitudine, il sentimento di diversità, l’esclusione.

Perché definire sogno siffatto progetto che restituisce alla trasparenza intersoggettiva e alla dialettica sociale un significato liberatorio e terapeutico? È presto detto, anche se il riconoscimento costa fatica a chiunque quel sogno abbia condiviso, e ne apprezza ancor oggi l’autenticità sul piano dell’utopia. Il limite del progetto, ricavabile ancora una volta dalle matrici fenomenologiche che lo informano, è di essere radicalmente antistorico: di muovere da un discorso sulle istituzioni solo sovrastrutturale, di valutarle cioè solo nella loro funzione ideologica rispetto ad una struttura reale che si fonda sull’oppressione e sull’esclusione, di coglierle come forme vuote di altro significato che non sia la conservazione dello status quo. Questa concezione meccanicistica delle istituzioni, che molti hanno ritenuto di stretta osservanza marxiana, in realtà, nel pensiero basagliano, postula il trascendere la realtà, intesa soprattutto nei suoi connotati ideologici, per cogliere, con un atto vissuto, la vera realtà nella sua forma comprensibile e mai estranea. Ma sul piano filosofico, quest'mpostazione, soprattutto nel ridimensionamento che essa opera della scienza, può essere discutibile. La realtà storica, oggi, non può essere considerata, nei suoi aspetti istituzionali e sovrastrutturali, solo come un prodotto delle strutture materiali. Non si può pertanto programmare un cambiamento di queste strutture, e attendersi, in conseguenza di questo, che maturi una nuova cultura, autentica nella misura in cui le nuove strutture risultino adeguate ai bisogni umani. Non si dà una pratica sociale che promuova una cultura nuova. Strutture materiali e sovrastrutture — e cioè strutture mentali veicolate da istituzioni - interagiscono e si mantengono a vicenda. Cambiare la struttura del reale, intendendo questa nella sua complessità, significa operare per cambiare le strutture materiali e quelle ideologiche.

Pensare che le ideologie, il sapere, la scienza possono solo essere svalutate e negate, come schemi che mortificano la realtà, e che dalla loro disintegrazione, frutto della pratica sociale, possa affiorare una nuova cultura, significa votarsi, sul piano pratico, ad un duro ed estenuante lavoro. Ma il rischio è che questo duro lavoro, quali che siano gli effetti di cambiamento reale che produce, sia riassorbito in una nuova ideologia. La dialettica sociale e, con essa, una fenomenologia sociale dell’incontro e della partecipazione, postula che la malattia mentale non sia proposta all'opinione pubblica solo come fatto sociale, ma anche in ciò che essa ha di specifico: il suo esprimere, di certo, l’oppressione dell’uomo, ma in forme che attestano anche, e radicalmente, la sua soggezione al sociale, e il suo far corpo con le ideologie e i valori normativi, che essa nega nel mentre le afferma, e conserva nel mentre intende liberarsene.

 

5.

Giungiamo, dunque, al cuore del pensiero e delle contraddizioni dell’impresa basagliana: il porsi della malattia mentale in sé e per sé come noumeno, come in conoscibile tout-court, e, forse, inesistente se non come fatto sociale. A più riprese, Basaglia insiste sulla distinzione tra malattia come fatto reale e malattia come fatto sociale. Ma l’aspetto sociale sembra l’unico con cui ci si possa rapportare. Al di là di questo, il fatto reale diventa addirittura dubitabile.

Bastano due citazioni a comprovare quest'epistemologia radicale:

"( quanto alla malattia come dato), dove riconoscerla, dove individuarla se non in un altrove che non ci è ancora possibile toccare? Possiamo ignorare la distanza che ci separa dal malato, imputandone le cause solo alla malattia? O non vogliamo prima togliere, ad una ad una, le scorze dell’oggettivazione, per vedere che cosa resta?".

"per affrontare veramente la malattia, dovremmo poter incontrare fuori dalle istituzioni, intendendo con ciò non soltanto fuori dall’istituzione psichiatrica…ma fuori di ogni altra situazione la cui funzione è quella di etichettare, codificare e fissare in ruoli congelati coloro che vi appartengono. Ma esiste veramente un fuori nel quale e del quale si possa agire prima che le istituzioni ci distruggano? Non si può arguire che la faccia che noi conosciamo della ‘malattia’ è sempre, comunque, la faccia istituzionale?".

A me sembra evidente che questi interrogativi esprimono ancora un’istanza fenomenologia, intesa come istanza di liberazione di una realtà umana da qualunque sovrastruttura che impedisce un rapporto di comprensibilità vissuta, la quale, confrontandosi con un’esperienza storica, qual è quella del disagio psichico, vive l’impossibilità di realizzarsi in rapporto ad essa se non a patto di negarne la sua appartenenza alla storia, progettando un altrove, depurato di ogni incrostazione istituzionale e di ogni schema ideologici. Di conseguenza, questo ‘altrove’ non può configurarsi che ipotizzando un al di qua e un al di là: sotto forma, in altri termini, di nostalgia e di utopia. Nostalgia di un’integrità originaria dell’uomo al suo ingresso nel mondo, devastata e mortificata dalle istituzioni; utopia di un mondo possibile ove, non esistendo più l’esclusione, i molteplici modi d'essere che definiscono il porsi dell’uomo nel mondo nella sua accidentalità possano essere riconosciuti, compresi e partecipati. Nostalgia, infine, di una sanità originaria, e utopia di un mondo la cui corrispondenza a i bisogni umani va assicurata dal venir meno di ogni bisogno di malattia, di emarginazione e di esclusione.

Nessuno, che si sia chiesto almeno una volta nella vita quale fosse il suo io originario (inteso come insieme finito di possibili modi di essere) e quale, date diverse circostanze storiche, egli sarebbe potuto divenire, può rimanere insensibile ad un pensiero così radicalmente incentrato sulla dignità e sulla libertà originaria e potenziale dell’uomo da contrapporre ad esso il mondo come istituzione mortificante e mutilante. Ma, nel momento in cui questo pensiero tocca la storia e vuole incidere su di essa per realizzare l’utopia, nel momento in cui intende introdurre una dialettica evolutiva in una realtà che si configura come adialettica, esso rivela i suoi limiti e la sua astrattezza. Analizzando, infatti, un mondo sociale totalmente rivolto contro l’uomo, esso ignora che, mentre le strutture materiali evolvono e cambiano, sono proprio le sovrastrutture, le ideologie a rivelare le loro inerzie, la loro tenace tendenza a conservarsi, mascherandosi e occultandosi, nonostante i cambiamenti reali che ne imporrebbero un adeguamento.

Sono le premesse del discorso basagliano ad essere messe in questione: anziché meccanicamente prodotte dalle strutture materiali, le ideologie sembrano godere di una sia pur relativa autonomia, e di una vitalità loro propria. Anziché rette dal Potere, esse sembrano reggersi, e confermarsi, in virtù di un consenso sociale, anziché esprimere inoltre una violenza perpetrata dal sapere delle classi dominanti ai danni della coscienza delle classi subalterne, esse sembrano configurare modi di essere mentali in cui tutti si riconoscono, anziché configurarsi, infine, solo come inganni, esse sembrano piuttosto fondarsi sul bisogno di credere. E’ l’inerzia delle ideologie, questo nodo delle scienze storiche e delle scienze dell’uomo, piuttosto che l’inerzia delle strutture reali, che pure esiste, ad opporsi ai cambiamenti o, addirittura, a renderli fittizi, apparenti più che reali.

Perché escludere che la realtà della malattia mentale sia tributaria di quest'inerzia? ch'essa esprima il dramma di una soggettività che vuole liberarsi dall’oppressione e non riesce a farlo in virtù di costrizioni mentali che rappresentano l’introiezione di valori culturali, che confinano la libertà nell’ambito della colpa? che la realtà della malattia mentale, nei suoi assetti profondi, infine, sia ancora più inquietante, e difficile da districare, dal suo aspetto sociale?

L'esperienza analitica, portata avanti con spirito critico, pone sempre in luce un conflitto tra il soggetto e la società, che denuncia l'inadeguatezza delle istituzioni rispetto ai bisogni umani. Ma è pur vero che tale conflitto, prima ancora che intervenga la repressione psichiatrica, assume, a livello inconscio, una struttura che comporta sempre la colpa del soggetto. Ed è questa, infine, ad assumere un valore determinante nell'ulteriore carriera di vita del soggetto. Considerare tale aspetto, assolutamente reale, secondario rispetto alla faccia sociale della malattia mentale comporta il rischi di non riuscire a capire i nessi profondi che si danno tra soggettività e storia sociale.

Si tratta di ipotesi che vanno approfondite e documentate. Esse, però, rispetto all’utopia basagliana, che è da considerare peraltro irrinunciabile, ripropongono il problema della malattia mentale in termini storici, postulano non una scissione, bensì una più intima comprensione dei nessi che legano la sua faccia sociale alla sua faccia reale. L’assegnano, insomma, al campo della storia e, in particolare, della storia dei nessi tra esperienza soggettiva e ‘mentalità’, presumendo che, solo chiarendo tali nessi, essa possa essere riconosciuta, piuttosto che come testimonianza d’una liberazione ostacolata violentata, come testimonianza di un dramma che, nel tessuto stesso della soggettività, ma non certo senza responsabilità delle istituzioni sociali, contrappone adialetticamente istanze di liberazione e istanze di normalizzazione.

In quest'ottica, la malattia mentale sarebbe espressione di un conflitto strutturale intrinseco ad ogni esperienza soggettiva, il cui significato ultimo sarebbe da ricondurre al problema della moralità, intesa non come astratta o passiva partecipazione ai valori e alle norme sociali, ma come condizione in virtù della quale l’uomo può affrancarsi dalla paura dell’esclusione, della solitudine e dell’abbandono. Che, per quanto riguarda la malattia mentale, l’oggetto della moralizzazione coincide, talora, con i pericoli ch’essa mirava a scongiurare, rende il problema inquietante, ma non ne stravolge, a mio avviso, il significato.