SEMINARI 1988-1989 - APPROFONDIMENTI


Sulla funzione superegoica




1. L'ipotesi della doppia identità

L'ipotesi di una doppia identità costitutiva della struttura esperienziale umana rappresenta il nucleo 'forte' intorno a cui abbiamo edificato la teoria struttural-dialettica. In termini sintetici, l'ipotesi afferma che l'esperienza soggettiva si costruisce a partire da una programmazione emotiva cognitiva culturale, dovuta all'interazione con l'ambiente, che forma una parte della mente, analiticamente definita Super-io. Funzionando tale programmazione come modello di riferimento, l'identità egoica, che coincide con la soggettività cosciente, si definisce in virtù di un rapporto più o meno dialettico con quella programmazione secondo una gamma indefinita di possibilità combinatorie, le cui espressioni estreme - in una certa misura meramente teoriche - sono l'assimilazione superegoica dell'io e la produzione egoica di una coscienza morale critica.

La prima espressione coincide con un modo di essere - di sentire, di pensare e di agire - totalmente conforme ai sistemi di valore ereditati culturalmente e/o dominanti; la seconda, con un modo di essere caratterizzato da un atteggiamento selettivo ~ di consenso per alcuni aspetti, di rifiuto per altri - nei confronti di quei sistemi di valore, che possono pertanto essere integrati e/o significati entro una diversa cornice di riferimento. Le esperienze reali si organizzano tra questi due estremi, e riconoscono, di necessità, sia pure in misura diversa, un certo grado di contraddizione tra identità superegoica e identità egoica. Nei casi in cui questo scarto si configura nei termini di un conflitto irriducibile, si genera un disagio psicopatologico.

Per quanto l'ipotesi di una doppia identità appaia dotata, in rapporto ai fenomeni psicopatologici, di una capacità euristica sorprendente, non si può ignorare che essa si configura, sotto il profilo teorico, come molto problematica.

Che l'io si definisca in virtù di un'eredità culturale, mediata da relazioni interpersonali di significato affettivo, è fuor di dubbio. Che quell'eredità, e le interazioni che ne consentono l'introiezione, possano configurarsi, all'interno della personalità, come un'identità impersonale, incorre, invece, nell'obiezione antropomorfica. Che l'identità superegoica, infine, possa rivolgersi contro l'io, come appare fenomenologicamente nelle esperienze psicopatologiche, risulta del tutto misterioso.

Cercheremo di approfondire questi nodi teorici, al fine di corroborare, e in parte revisionare, le considerazioni svolte ne 'La politica del Super-io'.


2. L'antropomorfismo superegoico

Il problema discende, come noto, dalla scoperta stessa della funzione superegoica, per caratterizzare la quale Freud ha utilizzato termini come Giudice, Censore che, per quanto metaforici, sembrano alludere ad un homunculus istallato nella mente umana. La critica di antropomorfismo rivolta alla teoria freudiana del Super-io appare, di fatto, infondata ad un'attenta lettura dei testi.

Elaborando la scoperta del Super-io sotto il profilo strutturale e definendola come una istanza della personalità, vale a dire come una parte della personalità da cui l’io dipende per quanto concerne la sua stessa definizione e l’immagine che ha di sé,

Freud ne ha sottolineato a píú riprese il carattere eminentemente sociale, transpersonale o impersonale. In un passo egli scrive:

"Il super-io del bambino non si forma a immagine dei genitori ma del loro Super-io: esso si empie dello stesso contenuto, diventa il rappresentante della tradizione, di tutti i giudizi di valore, che cosí persistono attraverso le generazioni".

E’ chiaro che Freud concepisce il Super-io come una parte della personalità distinguibile e distinta dalla identità personale cosciente, la cui funzione è di trasmettere sistemi di valore propri del gruppo di appartenenza, di replicarli con meccanismi - l'identificazione, l’imitazione, la paura del conflitto - che ne assicurino la riproduzione la più fedele possibile e ne mantengano l’invarianza. In un certo qual modo, le modalità di trasmissione e di replicazione del Super-io attraverso le generazioni, mirando ad assicurare l’invarianza dei sistemi di valore propri del gruppo di appartenenza, sembrano omologabili, almeno formalmente, alle leggi dell’eredità biologica. Il Super-io svolgerebbe, pertanto, a livello culturale, una funzione omologabile a quella del patrimonio genetico a livello biologico. Ciò non sorprende se si tiene conto del fatto che la cultura è lo strumento con cui l'evoluzione della specie umana, arrestatasi sul piano biologico alla fine dell’ominazione, è proseguita. Il problema consiste nel capire come si realizza, a livello psicologico, la funzione superegoica, e cioè, in pratica, cosa si intende nel definire il Super io come ‘rappresentante’ mentale della società, delle sue tradizioni e dei suoi sistemi di valore.

Rappresentare, etimologicamente significa 'essere presente' e 'stare al posto di', 'essere l’altro di un altro'. Presente nella struttura della personalità, il Super-io sta al posto della società, e cioè realizza una funzione di controllo culturale e morale. Ma come si effettua tale controllo?

Le risposte a riguardo sono scarse e insoddisfacenti. La psicoanalisi si è scissa, su questo, in due correnti.

L'una, di derivazione kleiniana, che, in nome di una presunta strutturazione precocissima del Super-io, lo assume come una sorta di barriera difensiva psicobiologica contro la pressione pulsionale; l'altra, di derivazione hartmaniana, lo riduce a mera funzione cognitiva, espressione massima dell'autonomia dell'io.

Al di fuori dell'ambito psicoanalitico, il problema del Super io come parte della personalità è negato; le funzioni di autocontrollo sono ricondotte o ad un condizionamento o ad una retroazione sistemica.

Tutte queste spiegazioni sono insoddisfacenti poiché trascurano il dato problematico più inquietante, restituito in maniera evidente dalle esperienze psicopatologiche più gravi - per esempio, dai deliri strutturati - ma ricavabile da tutte le esperienze di disagio psichico: il Super-io ha le caratteristiche proprie di un'identità psicologica. Esso, attraverso la coscienza, parla, esprime giudizi, critica, ammonisce e minaccia; produce emozioni, i sensi di colpa, che affiorano sotto forma di rimorsi, angosce, malesseri; determina infine comportamenti autopunitivi, autoinvalidanti, autodistruttivi o interagisce potentemente sui comportamenti egoici. Questi dati, almeno a livello psicopatologico, sono di evidenza immediata, La difficoltà sta nell'accordare gli attributi propri di un'identità con un carattere impersonale. Questa difficoltà può essere avviata a soluzione se si analizzano esperienze nel corso delle quali il Super-io parla per bocca delle persone, per esempio caratteristicamente nelle gravi depressioni. Una persona depressa si giudica coscientemente inadeguata, indegna, immeritevole e priva di valore, un nodo di fallimenti e di colpe. Essa è convinta di fornire una valutazione realistica della propria persona, e, di conseguenza, ritiene che il suo punto di vista sia oggettivo e inconfutabile. Se le si fa rilevare che essere inadeguati, immeritevoli, indegni e colpevoli sono giudizi di valore che implicano un metro di misura, un modello di riferimento e un canone di normalità, essa di solito si sorprende. Costretta a definire i criteri da cui muove il giudizio su di sé, fa riferimento costante ad un modello astratto o irrealizzabile in assoluto o realizzabile solo in circostanze che non coincidono con quelle nelle quali il soggetto ha vissuto o vive.

Yana, una madre che ha ormai i figli grandi,vive una tormentosa depressione incentrata su un vissuto di grave e imperdonabile inadeguatezza che ha sempre sotteso l'esercizio del ruolo materno. Un genitore adeguato é per lei una persona capace di rappresentare per i figli un punto di riferimento, di sostegno e di sicurezza costante, capace, cioè, di offrire di sé un'immagine di forza, di equilibrio, di carattere. Non deve avere, in rapporto al suo ruolo e alla vita, né dubbi né incertezze, e ~ elemento d'estrema importanza - non deve mai apparire triste o depresso.

Yana, invece, ha sempre alternato nel rapporto con i figli atteggiamenti rigidamente direttivi e atteggiamenti deboli e permissivi. Questi ultimi sono intervenuti nel corso delle crisi depressive di cui ha sofferto periodicamente, e che, nonostante una rigida autodisciplina, non è mai stata in grado di dominare e di nascondere. Perciò essa ritiene di avere, anziché aiutato, danneggiato i figli. Si sente indegna di loro, che manifestano tutti nei suoi confronti un affetto immeritato, e dei suoi genitori che, invece, sono stati perfetti: severi e intransigenti con sé e con i figli, repressivi sino alla crudeltà in nome di principi morali e religiosi elevatissimi, capaci di incutere sino alla fine timore in virtù di una forza di carattere straordinaria.

Gabriella, una ragazza di 22 anni, si sente in colpa nei confronti dei genitori che hanno duramente lavorato per assicurarle un avvenire, e che lei vuol ripagare separandosi da essi. Oltre che indegna, Gabriella - figlia unica - si vive addirittura come insensibile e malvagia, poiché, prevedendo il loro invecchiamento, presagisce che non sarà disponibile ad assisterli. Credente e praticante,Gabriella non può significare questi vissuti che in termini di colpa grave e irreparabile. Talora, dentro di sé, Gabriella, oppressa dalla depressione, tenta timidamente di darsi delle attenuanti. Per assicurarle I'avvenire, i genitori si sono inurbati quando aveva pochi mesi, e l'hanno affidata, per sei anni, a parenti che l'hanno ma1trattata in ogni modo. La madre le ha confessato che la lunga separazione si era resa necessaria non solo per motivi di lavoro, bensì anche perché essa, stando sola con la figIia piccola, era terrorizzata dall'idea si poterle far del male. Entrambi i genitori, poi, nonostante abbiano accumulato un discreto patrimonio, continuano a lavorare come bestie da soma, senza concedersi respiro; perennemente esauriti, affetti da disturbi psicosomatici di ogni genere, irascibili, non mancano occasione di aggredire quotidianamente Gabriella, assumendola come responsabile della loro infelicità.

Vanamente la ragazza si difende facendo presente che li ha ripagati con una eccellente carriera scolastica e con una dedizione sacrificale ai doveri domestici. Essa, nel suo intimo,sa di essere venuta meno e di venire meno al comandamento che l'impone di onorare i genitori quali che siano i loro comportamenti-. Anziché una buona figlia, è un'ingrata e una malvagia.

Non si tratta di esperienze straordinarie, ma, proprio per ciò, esse possono risultare probanti. In ambedue i casi, la coscienza funziona veicolando contenuti cognitivi - i giudizi negativi su di sé - ed emozioni - i sensi di colpa, di indegnità, di malvagità - che appaiono determinati da presupposti espliciti

Yana definisce, lucidamente. il modello della madre perfetta, Gabriella quello della buona figlia. Ma ricondurre i vissuti depressivi allo scarto tra io reale e ideale dell'io è estremamente meccanicistico. Nonostante la connivenza cosciente, in entrambi i casi i modelli di riferimento funzionano in virtù di una minacciosa costrizione interiore, che si potrebbe esplicitare come segue: guai a te se non sei così come si deve essere.

La connivenza cosciente, piuttosto che un consenso, sembra attestare una difesa mirante a scongiurare la rappresaglia dei sensi di colpa. Tant'e vero che essa urta contro una resistenza viscerale irriducibile: la rabbia, che Yana ricorda d'aver nutrito per anni nei confronti dell'implacabile severità dei genitori, e che Gabriella nutre quotidianamente. In entrambi i casi, il Super-lo si è strutturato criminalizzando questa rabbia, e imponendo o di pagarla con i vissuti di colpa o di ripararla invalidandola, riconoscendo solo le virtù dei genitori: e cioè imitandoli nel caso di Yana, o sottomettendosi a essi nel caso di Gabriella. Sembra impossibile interpretare queste esperienze senza far riferimento ad una parte della mente che funziona secondo una propria 'logica'.

Definire il Super-io come un'identità sembra reso lecito dal fatto che esso funziona in maniera organizzata, coerente e, invariante nel tempo. Il carattere impersonale lo si ricava dal fatto che i sistemi di valore cui fa riferimento si configurano come postulati, e cioè come principi assoluti e indiscutibili. Ciascuno di essi può essere ricondotto ad una qualche tradizione culturale, e, dunque, ha una sua storia e una sua ragione d'essere. Ma, a livello psicologico, il Super-io rappresenta la tradizione solo nei termini di prescrizioni (si deve), proscrizioni (è proibito), e autorizzazioni (si può). Per denominare l'identità superegoica occorrerebbe far ricorso al pronome indefinito francese on. Ciò che accade nelle esperienze psicopatologiche, particolarmente nelle più drammatiche, che, giusta l'intuizione di Freud, funzionano riguardo alla struttura di personalità come un prisma, è che quella identità assume una configurazione personale, nei termini minacciosi di un lo o di un Noi che si rivolgono al soggetto espropriandolo del suo potere e riducendolo al rango di un tu. Per spiegare questo fenomeno, non occorre però far ricorso ad un homunculus o a un genio (benefico o malvagio): basta pensare che una parte della mente funzioni in maniera tale che, ogniqualvolta si instauri un conflitto tra l'individuo e la società la società, sia pure essa rappresentata da un solo membro investito istituzionalmente di un ruolo autoritario, essa tenda automaticamente ad attribuire all'individuo la colpa del conflitto.

Nonché di antropomorfismo o di animismo, dunque, in riferimento all'identità superegoica, occorrerebbe parlare di una mente sociale deputata a mantenere un rigido ordinamento gerarchico tra il tutto ~ la società - e la parte - l'individuo. Se, per questa via, il problema dell'antropomorfismo può ritenersi risolto, altri e più inquietanti problemi sembrano delinearsi. Anzitutto, occorre interrogarsi sull'automatismo superegoico, e cioè sul carattere inesorabilmente pregiudiziale nei confronti dell'io dell'identità superegoica. Se si rifiuta l'ipotesi freudiana, secondo la quale la severità del Super-io è una prova inconfutabile della asocialità della natura umana, quale altra ipotesi si può formulare?


3. Genesi della funzione superegoica

L'ipotesi diametralmente opposta. L'angoscia sociale che è tipica della funzione superegoica, e si traduce in un minaccia di esclusione radicale, attesta che l'appartenenza ad un gruppo è, nonché una costrizione, un bisogno proprio della natura umana. Ciò non sorprende se si tiene conto che l'antropogenesi, durata migliaia e migliaia di anni, è avvenuta a livello di piccoli gruppi comunitari di poche decine di membri che, vivendo di caccia e di raccolta, praticarono la cooperazione e la spartizione come regole elementari ed essenziali di sopravvivenza. La cooperazione, necessaria a soddisfare i bisogni primari - la nutrizione, la tessitura degli abiti, la costruzione e l'arredamento della dimora ~ comportava un sapere tecnico elementare ma prezioso, e in continua evoluzione, per es. per quanto concerneva la costruzione di nuovi utensili.In questo sterminato periodo di tempo, caratterizzato dalla diffusione planetaria della specie umana e, quindi, dalla necessitò di adattarsi ad ambienti ecologici i più diversi, l'umanità sondò tutte le possibili tecniche di sopravvivenza in accordo con gli equilibri naturali. Il regime economico di scarsità e di mera sussistenza, come impedì la stratificazione sociale all'interno dei gruppi cosí rese, se non in sporadiche occasioni di contese per il territorio, peraltro smisurato in rapporto alla densità di popolazione, inconcepibile la guerra. Pur in assenza di stratificazioni sociali, ogni gruppo riconobbe una sua gerarchia fondata sulla competenza. I piccoli, ovviamente, dipendevano dai grandi che trasmettevano ad essi le tradizioni tecniche e culturali accumulate dalle generazioni precedenti. Tra gli adulti, un membro, di solito, veniva investito del ruolo di capo per le sue qualità unanimemente riconosciute. Il culto dei morti non attestava tanto uno sgomento di fronte alla morte (questa interpretazione, abbastanza frequente, proietta nel passato le angosce del presente), quanto il rispetto devozionale nei confronti di membri del gruppo che, in qualche oscuro modo, sopravvivono. Non per caso, nelle tombe si provvedeva a porre gli alimenti, i vestiari e glí oggetti di cui si riteneva che i morti continuassero ad avere bisogno. Il carattere non stratificato delle comunità preistoriche è attestato inequivocabilmente dalle tombe, che sono press'a poco tutte uguali.

Nonostante la solidarietà, la cooperazione e il sostanziale egualitarismo dell'epoca preneolitica, non è lecito pensare ad una mitica età dell'oro. La rigidità delle tradizioni, per altro unanimemente condivise, e l'angoscia di una perpetua precarietà, dovuta ad un'economia di sussistenza incapace di assoggettare la natura ai bisogni umani, determinarono una sostanziale inerzia delle potenzialità individuali. Il gruppo, con le sue tradizioni, i suoi bisogni, le sue superstizioni, è tutto, e l'individuo nulla se non in quanto parte del tutto. Un individuo isolato, di fatto, è un individuo morto. E' probabile, dunque, che, in questo lungo periodo, la funzione superegoica si sia strutturata sotto forma di coscienza sociale deputata a richiamare di continuo l'individuo al rispetto della tradizione e degli obblighi sociali inerenti il suo ruolo.Ma - non è inopportuno sottolinearlo - in questo periodo il sacrificio dell'individualità, intesa come tendenza alla differenziazione, appare funzionale alla sopravvivenza di una comunità, da cui l'esistenza individuale dipende inesorabilmente. E' in breve, un sacrificio che torna a vantaggio e non a danno dell'individuo.

La nascita dell'agricoltura, avvenuta in età neolitica, segna una radicale inversione di tendenza e introduce, con i suoi enormi vantaggi, squilibri sociostrutturali di enorme portata.Di questi, quattro assumono un rilievo particolare: la tendenza delle comunità a fondersi, per motivi organizzativi, in unità sempre più vaste e anonime; la scoperta di potenzialità della natura enormi, la cui utilizzazione produttiva richiede una quantità di lavoro umano crescente, e, di conseguenza, l'affiorare della duplice tendenza a sfruttare la natura sfruttando gli uomini; il definirsi del surplus, e cioè, di un prodotto eccedente i bisogni di consumo della popolazione e atto pertanto ad essere accumulato e conservato sotto forma patrimoniale di ricchezza; la liberazione dal lavoro agricolo, infinitamente più redditizio rispetto alla caccia e alla raccolta, di una quota di popolazione che si inurba dedicandosi all'artigianato, al commercio, alla cultura e all'amministrazione. E' in conseguenza di tali circostanze che lo Stato sorge dalla società, erigendosi il di sopra di essa e separandosene. Non è giusto pensare che questa separazione che stratifica la società in classi, sia avvenuta con la violenza. Probabilmente, i primi uomini che si affrancarono dai lavori manuali, erano dotati di particolari capacità socialmente riconosciute, e, indubbiamente, la loro attività di programmazione, organizzazione e amministrazione delle risorse collettive fu importante nell'avviare lo sviluppo della civiltà storica.Senza il modellamento psicobiologico delle età precedenti, incentrato sulla esaltazione del tutto - della comunità nel suo complesso e del bene comune - sulle parti - i singoli individui - questo salto, forse, non sarebbe avvenuto

Ma la pericolosità potenziale di quel modellamento, atto a promuovere la sottomissione a chi rappresenta il bene comune, si è definita successivamente, allorché le classi dirigenti, utilizzando il privilegio della scrittura, hanno cominciato a produrre una cultura ideologica mirante ad accreditare il loro potere e le loro facoltà come espressioni di un'investitura divina, a sacralizzare, insomma, il loro ruolo, erigendosi sul sociale e ratificando la propria inattaccabilità. La funzione superegoica, modellata da sempre sul primato del sociale, è giunta così ad arricchirsi di un nuovo contenuto: il rispetto sacro del potere rappresentato dai re, dai sacerdoti, dai funzionari e dai guerrieri. Questo nuovo contenuto ha finito con il terrorizzare le masse, infantilizzandole e inducendole a credere dì essere protette da coloro che, proteggendole, ne approfittavano. La funzione superegoica, in precedenza attiva nel legare i membri in un corpo sociale, e quindi in un'entità simbolica non meno che reale, si è strutturata religiosamente: re-legando gran parte dei membri in un rapporto di dipendenza e di assoggettamento rispetto non già a persone ma a ruoli investiti di un significato sacro. Per ciò, appare lecito affermare che essa e' divenuta, con la nascita della storia, funzionaria del mito gerarchico. All' angoscia di esclusione radicale dal gruppo di appartenenza, si è sommato il terrore del conflitto con persone investite di autorità sacra. E' possibile, anche se non dimostrabile ~ nonostante i dati della psicopatologia siano espliciti a riguardo - che tale programmazione culturale si sia, nel corso del tempo automatizzata.Il Super-io funzionerebbe, pertanto, come un computer che, in caso di conflitto tra l'individuo e il sociale, rappresentato da figure investite di autorità sacra, emette inesorabilmente un verdetto di colpevolezza e di condanna a carico dell'individuo, del tutto indipendentemente dalle sue ragioni e dalle circostanze oggettive e relazionali che hanno indotto il conflitto.

Rimane, ovviamente, il dubbio che l'interpretazione che abbiamo fornito della genesi della funzione superegoica possa essere sostenuta e confermata da un punto di vista neurobiologico. Mentre l'angoscia sociale dell'esclusione dal gruppo può ritenersi espressione propria della natura umana, e del bisogno di integrazione sociale in particolare, l'angoscia del conflitto con l'autorità sacra si deve ritenere un prodotto culturale sotteso da un sistema di significazione rigido, univocamente orientato a criminalizzare l'individuo che entra in conflitto. E' lecito pensare che tale sistema di significazione abbia in qualche modo modellato la struttura biologica?

Per ora non è possibile fornire risposta alcuna. E' più importante, forse, tener conto del fatto che la funzione superegoica, con la sua capacità di produrre angoscia sociale e morale, può essere utilizzata dalla cultura, e dal potere, per impedire la nascita della coscienza morale critica in modi molteplici. Se è vero, infatti, che la funzione superegoica tende a imporre il rispetto di valori sacri, nel senso che da essi si fa discendere il bene comune, non é detto che tali valori debbano coincidere necessariamente con Dio, lo Stato, l'Autorità o il Padre. Essi possono coincidere, infatti, con una qualunque Causa che, ideologicamente, si faccia passare come funzionale all'equilibrio del Sistema. Di conseguenza, come è già avvenuto in passato e come sta accadendo nuovamente a partire dalla metà degli anni '70, anche l'individualismo competitivo che, in sé e per sé, comporterebbe una minaccia all'armonia sociale, può diventare una sistema di significazione superegoico, nel momento in cui ideologicamente esso viene assunto come strumento di una stratificazione sociale meritocratica, e quindi giusta.

Dacché il principio di autorità è stato posto in crisi - per quanto esso sopravviva negli strati profondi della mentalità e in numerosi sottosistemi sociali (compresi quelli familiari) - è il consenso maggioritario a rappresentare l'arma vincente del mito gerarchico. Ma il consenso maggioritario non è, in sé e per sé, l'espressione di una coscienza morale critica. 0, per essere più precisi, esso lo diventa solo in virtù del significato che assegna e del rapporto che intrattiene con il dissenso e l'opposizione.


4. La funzione superegoica nello sviluppo della personalità

Ancora oggi, in ambito psicanalitico, il Super-io viene assunto come una parte della personalità che può funzionare in modo normale - veicolando e facendo vigere i valori, le norme e le regole della società - o in modo patologico. La patologia superegoica consisterebbe in un eccesso di difesa dalle pulsioni libidiche e aggressive, che ritorcerebbe contro l'individuo la violenza di quelle pulsioni. Tale eccesso sarebbe dovuto alla confusione, propria di falde infantili della mente, tra fantasie, desideri, intenzioni e azioni.

Ne 'La politica del Super-io' si e' definito il Super-io stesso una perversione della coscienza morale. Appare opportuno, dato il carattere radicale di questa affermazione, argomentarla in maniera più dettagliata. E' fuor di dubbio che l'introiezione e l'assimilazione di valori, norme e regole di comportamento sia un momento fondamentale dello sviluppo della personalità. Ciò che rende possibile l'acquisizione di un'identità culturale è una predisposizione naturale: la sensibilità sociale, che si esprime precocemente sotto forma di identificazione con i grandi, di imitazione, di tendenza a conformarsi alle loro aspettative e al loro volere, e di paura di entrare in conflitto con loro. Se si tiene conto di queste caratteristiche, occorre riconoscere che lo sviluppo della personalità si realizza a partire da una condizione che giustamente, da Laing, è stata definita ipnotica, essendo caratterizzata da una influenzabilità totale e da un sentimento di cieca fiducia nei grandi. Da ciò discende che lo strutturarsi della funzione superegoica, intesa come rappresentante mentale dei valori, norme e regole proprie del gruppo di appartenenza, si può ritenere come una fase normale dello sviluppo della personalità. Se, a questo livello, si vuole parlare - ed e' lecito - di coscienza morale, occorre tener conto che essa funziona come una programmazione direttiva dell'io, non ancora ben integrata con esso, e, soprattutto, acritica. Ciò dipende in parte dalla debolezza dell'io, il cui bisogno di opposizione, non disponendo di un'adeguata attrezzatura culturale, non può esprimersi che in forme viscerali, inadeguate; in parte dall'ambiente che circonda il bambino e dalle relazioni interpersonali che egli intrattiene; in parte, infine, dal carattere replicativo e tendenzialmente inerte delle tradizioni culturali e dei sistemi di valore che strutturano la personalità adulta a livello superegoico. Quest'ultimo fattore, giustamente rilevato da Freud, ha un'importanza che non e' stata apprezzata a sufficienza.

Cosa significa, in termini concreti, la presenza e la persistenza del Super-io nelle persone adulte? Che esse vivono, in quanto persone reali, entro forme sociali e mentali prescrittive, proscrittive e propositive ereditate e conservate, con un grado maggiore o minore di consapevolezza, come se queste, nonché prodotti culturali, siano valori sacri. In quanto espressione di una presunta volontà comune che li rinforza, e coincide con la società in toto, quelle forme sono assunte come canali entro cui necessariamente, deve fluire l'esperienza soggettiva per non esporsi alla sanzione dei giudizio sociale o alle rappresaglie dell'autorità. Il carattere sacro, o, comunque, imprescindibile dell'identità superegoica, ne rivela, nonché le origini, le finalità che, apparentemente, coincidono con il mantenere coesa la società, imponendo all'individuo di riconoscersi erede di una tradizione, parte di un tutto, ma, di fatto, promuovono il conformismo, assoggettano l'individuo a valori che, in quanto sacri o dominanti, e non già prodotti da altri uomini, non possono essere attaccati, criticati, elaborati o, se necessario, cambiati.

Se la coscienza morale ha la funzione di ereditare valori prodotti dalla storia e di vagliarli criticamente per giudicarne il grado di congruenza con i bisogni umani, è chiaro che il Super-io, opponendosi alla nascita della coscienza morale critica, non solo non può identificarsi con essa, ma funziona cercando di pervertirla, e cioè di ingannarla illudendola di una libertà?smentita dalla necessità di eseguire una programmazione determinata. L’inganno si traduce nel consenso sociale in virtù del quale i membri della società, conformandosi alle proscrizioni, prescrizioni e proposizioni superegoíche, vivono la propria normalità, rinforzata dal giudizio sociale, come una libera scelta e, per di più, una scelta comune. E’ una sorta di gioco speculare e reciproco, che impedisce alla coscienza di oggettivare la programmazione delle forme sociali e mentali entro cui sono costrette a vivere, e di coglierne le matrici storiche, vale a dire gli agenti di quella programmazione che, dalle origini della civiltà storica, sono le classi dominanti.

Se la funzione superegoica si può ritenere, dunque, una fase necessaria dello sviluppo della personalità, in quanto rappresentante mentale del mito gerarchico, e dunque dell’alienazione dei grandi, non è lecito identificarla con la coscienza morale, che si può costruire solo in virtù di un atteggiamento critico dialettico nei confronti della programmazione superegoica.

Ma la funzione superegoica, in nome del feticcio di una società ordinata, integrata e coesa, mira ad impedire la nascita della coscienza morale critica o, per dirla in termini gramsciani, l’evoluzione dell’individuo in una persona.

Normale in un certo periodo dell'evoluzione della personalità, la funzione superegoica si può ritenere dunque patologica in riferimento al bisogno d'individuazione, se e nella misura in cui essa persista al di là della fase evolutiva. Ciò non significa che essa debba sempre dar luogo ad una fenomenologia psicopatologica. In ogni società, una quota rilevante della popolazione appare sufficientemente confermata nella sua normalità dall'avere la coscienza tranquilla, dal vivere, anche dignitosamente, cosi come 'si deve' vivere e come vivono i più. Ma la persistenza della funzione superegoica, se si configura comunque come un fattore di rischio psicopatologico a livello sociale, rappresenta una valenza deterministica in coloro la cui sensibilità mira a mantenere l'integrazione sociale nell'ottica della tradizione superegoica e il cui bisogno di opposizione/individuazione appare incompatibile con il rispetto di forme sociali e mentali alienate.


5 Funzione superegoica, sistemi di significazione e coscienza morale critica

All'epoca della scoperta del Super-io, Freud si augurò che della coscienza morale, argomento da sempre al centro della riflessione filosofica, si potesse finalmente parlare in termini scientifici, cioè in termini psicanalitici. Egli cadde, però, clamorosamente, in contraddizione con se stesso. Affermando, infatti,che il Super-io individuale si struttura introiettando il Super-io parentale e viene rinforzato dalle interazioni sociali, egli giunse ad ammettere che esso 'si empie' dei contenuti della tradizione culturale e dei valori veicolati dal gruppo di appartenenza e dall'opinione pubblica. La funzione superegoica non può, dunque, essere valutata sotto il profilo psicologico, poiché essa può essere oggettivata, e dunque assunta come oggetto di scienza, solo in rapporto ai 'contenuti', e cioè ai sistemi di significazione storicamente determinati che veicola e ai quali fa riferimento. E' noto come Freud tentò di risolvere questo problema della coscienza morale come forma psicologica determinata storicamente. Muovendo dal presupposto che la natura umana sia in se' e per se' radicalmente asociale e gravata da un 'istinto' mirante ciecamente a scindere tutti i vincoli e i legami sociali, egli pose l'Edipo, e cioè il rispetto del primato deI Padre, come il principio di frustrazione che subordina la natura umana alla cultura e la rende sottomessa alla socialità. Da questo punto di vista la storia passerebbe tutta, di generazione in generazione, attraverso il collo di bottiglia di un meccanismo psicologico, selezionerebbe gli essere socializzati da quelli asociali. Si tratta di un punto di vista arbitrario, che non si accorda con i dati dell'antropologia ne' con quelli della storia.

Non esiste alcuna prova della asocialità della natura umana, se si fa eccezione per la scissione noi/loro che, in nome dell'identificazione con un gruppo, un'etnia, una cultura, un sistema di valori, impedisce l'identificazione con l'altro, l'estraneo, come socius o simile. Ma tale scissione, che ancora incombe sulla storia umana, e' un'espressione di socialità alienata non dì asocialità. Un tifoso romanista che, il giorno del derby, si colloca nella curva laziale, è un estraneo, un nemico, un altro da espellere: ma se egli si trasferisce in quella curva per conversione, cambiando fede ed esibendo i consueti segni di riconoscimento di gruppo, egli diventa d'emblée un socius, un alleato, la parte di un tutto. Il problema, dunque, è che, nel corso della storia, la socialità di gruppo sembra, almeno a partire da una certa epoca, aver ottuso la coscienza di specie. Analogo ragionamento si può e si deve fare per le differenziazioni che sono intervenute all'interno del corpo sociale, e che hanno reso, secondo la metafora di Menenio Agrippa, che va rovesciata, ricorrentemente insensibile la testa - i ceti dominanti e dirigenti - ai bisogni delle membra e delle viscere - i ceti subalterni.

La contestazione alla teoria della natura umana e della storia freudiana può essere radicalizzata.Chi oserebbe identificare Socrate con un nevrotico afflitto dal complesso di Edipo, nonostante egli, di fronte ai giudici che lo accusano di offendere la tradizione dei padri e di gettare fango su di essa, pur riconoscendo le loro ragioni, protesta di non potersi piegare ad esse, rivendicando il diritto dí serbar fede al suo daimon privato, e cioè di doversi sottomettere alle ragioni del suo cuore e della sua ragione?

E’ chiara dunque la confusione in cui è caduto Freud, e in cui cadono, anche oggi, coloro che, assumendo la funzione superegoica come espressione di partecipazione e di condivisione dei valori culturali e sociali, possono tutt’al più pensare che essa funzioni in maniera rigida e eccessiva ma non in maniera perversa.Tale confusione induce a non distinguere la predisposizione alla socialità della natura umana, che comporta l’acquisizione e la condivisione dei sistemi di valore propri del gruppo di appartenenza, e i valori stessi che, se sono sempre e necessariamente culturali, non sono di conseguenza morali, cioè socializzanti e umanizzanti.

In altri termini occorre distinguere la coscienza morale, intesa come funzione deputata a mediare dialetticamente il bisogno di integrazione sociale e il bisogno di individuazione, dal modo concreto con cui essa si realizza e funziona all’interno delle singole esperienze che, essendo dovuto ai sistemi di valere storicamente determinati che le informano e alla possibilità concessa al soggetto di assumere, riguardo ad essi, un atteggiamento critico, può configurarsi come superegoico, e cioè replicativo, costrittivo e acritico. Per spiegare questa perversione della predisposizione alla socialità e alla moralità, non occorre far riferimento ad un sistema sociale manifestamente oppressivo, mortificante e persecutorio, per quanto un sistema del genere spieghi immediatamente lo strutturarsi di una funzione superegoica estremamente rigida.

La predisposizione sociale e morale della natura umana, in quanto espressione della sensibilità, e della identificazione con l’altro, ripropone, in ogni membro della specie, nostalgicamente per un verso, utopisticamente per un altro, il tema di un’armonia sociale che, in virtù della cooperazione e della condivisione, dia luogo alla produzione e alla distribuzione equa di una ricchezza sociale (intesa in senso lato). Ma la funzione superegoica, in nome di un rispetto sacro dello status quo, sia esso espressione di una tradizione o di un’ideologia attuale dominante, impone, a tutti i livelli della struttura sociale [e, dunque, anche al livello di un qualunque microsistema familiare), di condividere tutto: i valori e i disvalori, la ricchezza e la miseria, la coerenza, le contraddizioni, la ragionevolezza e l’irrazionalità; e fa incombere, su ogni moto di ribellione viscerale nei confronti di questo ricatto, la minaccia dell’imputazione di asocialità, insensibilità, malvagità.

Si può parlare, dunque, di una coscienza morale potenziale e in atto: la prima, come si e’ detto, coincide con la predisposizione della natura umana all’integrazione sociale, e quindi alla condivisione di valori collettivi; la seconda si realizza in forma critica allorché l’individuo opera in rapporto a quei valori, delle scelte libere, che possono esprimersi sotto forma di consenso partecipe o di dissenso. Il passaggiodella coscienza morale dalla potenza all’atto è interferito dai sistemi di significazione superegoici storicamente determinati, i quali tendono a pervertire quella predisposizione, forzandola, in nome dell’integrazione sociale e del bene comune al gruppo di appartenenza, nella direzione dei consenso passivo e cieco (e, quindi, al limite, anche entusiastico].

La potenza dei sistemi di significazione superegoici, oltre che dalle modalità di trasmissione, che avvengono all’interno di relazioni interpersonali ad alto significato affettivo, e’ dovuta al fatto che essi propongono dei valori la cui realizzazione e’ sempre, ideologicamente, riferita al bene comune, ad un tutto che va dai sistemi familiari allo stato.

Alla luce di quanto detto, il discorso elaborato sinteticamente ne la prima parte de 'La politica del Super-io' può risultare più chiaro. Anzitutto, non ha senso parlare di un homo psicologicus in astratto o considerato solo come parte di un microsistema comunicativo. Dacché l'umanità ha prodotto la cultura, ogni uomo vive in una condizione di determinazione storica, poiché egli non può definire la propria identità se non per mezzo dei sistemi di significazione culturale da cui viene investito. Tale determinazione non è assoluta, poiché, per effetto del bisogno di opposizione, essa può essere trascesa: ogni uomo ha la capacita potenziale di dotarsi di una coscienza morale critica. Ma ciò non e' mai un processo indolore, poiché postula l'entrare in conflitto dell'individuo con l'eredità culturale, il gruppo di appartenenza che l'ha veicolata, i legami affettivi e di gratitudine che lo vincolano a questo gruppo

La cultura, sinora, non solo non ha favorito questo processo, ma ha tentato sistematicamente di invalidarlo. Il mito gerarchico, che sottende la storia umana, si fonda infatti su una drammatica scissione dei patrimonio di sensibilità proprio della natura e della specie umana. Tale scissione postula l'attenuazione, sino alla estinzione, della sensibilità in coloro che appartengono ai ceti dominanti, necessaria al fine di convalidare i propri privilegi in rapporto alla società nel suo complesso; e, viceversa, l'esaltazione della sensibilità, fino al limite estremo del sacrificio di sé, in coloro che appartengono ai ceti subordinati, che sono costantemente ricondotti a privilegiare sui propri gli interessi degli altri assunti come bene comune.

Non ha senso, di conseguenza, demonizzare il mito gerarchico e la funzione superegoica in virtù della quale esso si è trasmesso ed è' persistito lungo le catene generazionali. Basta pensare che esso, una volta prodottosi, abbia coinvolto, sia pure a prezzi infinitamente diversi, dominanti e subjecti nello psicodramma della disuguaglianza naturale. Si può sostenere, a ragione, che la tendenza a sacralizzare, idealizzare e attribuire onnipotenza ai 'grandi' e la tendenza a colpevolizzarsi entrando in conflitto con loro sia un'espressione propria della psicologia infantile. Se ciò è vero, la funzione superegoica, e la cultura che la alimenta, ha come obiettivo di mantenere l'umanità in una condizione di infantilizzazione permanente.

Anche da questo punto di vista, non si vede alcuna possibilità di identificare la funzione superegoica con la coscienza morale critica. Parafrasando Freud, diremo dunque che l'obiettivo della prassi terapeutica dialettica è di mettere la coscienza morale critica laddove era il Super-io.


6. Funzione superegoica e psicopatologia

Alla luce di quanto si è detto, è, forse, più facile capire in che senso si può parlare di universo e di strutture psicopatologiche. In nome del bisogno di integrazione sociale, che si esprime originariamente sotto forma di identificazione (fusionale) con l'altro, la funzione superegoica, che si struttura a partire da tale identificazione, svolge essenzialmente un ruolo di assimilazione, cognitiva e culturale dell'io. L'assimilazione non e', propriamente parlando, una robotizzazione: essa si configura come una programmazione culturale, definita da un insieme di prescrizioni, proscrizioni e proposizioni, all'interno della quale l'io deve integrarsi, differenziandosi secondo una gamma di possibilità finite. Tale programmazione esprime l'eredità culturale dei gruppo di appartenenza, e cioè di una società storicamente determinata, mediata dai sottosistemi - famiglia, scuola, ecc. - con cui un individuo interagisce. La funzione superegoica, in quanto rappresentante mentale della società, mira a promuovere l'introiezione, l'assimilazione e il rispetto sacro dell'eredità culturale, nel nome della sacralità di coloro che la trasmettono e del tutto che essi rappresentano. Essa stessa, come si è detto, è riconducibile ad una predisposizione psicobiologica maturata nel corso della filogenesi e modellata dalla cultura nelle fasi preistoriche e storiche; rappresenta, in breve, una forma ereditata che in nome del primato del tutto - la società - sulla parte -l'individuo -, e della identificazione con l'altro - espressione primaria e fondamentale della vocazione sociale della natura umana - produce automaticamente angoscia sociale - la paura dell'esclusione - e angoscia morale - i sensi di colpa - in tutti i casi in cui si anima un conflitto tra individuo e gruppo di appartenenza. Nel suo aspetto formale, la funzione superegoica sembra recepire un bisogno - nostalgico o utopistico - radicalmente umano: il bisogno di armonia sociale, e cioè dì un'organizzazione sociale a basso tasso di conflittualità, caratterizzata dalla cooperazione, dalla condivisione e da un'equa distribuzione della ricchezza sociale, necessariamente limitata e dunque tale da comportare anche la condivisione e la distribuzione della 'miseria'.Ma, nel concreto della esperienza storica e di ogni singola esperienza soggettiva, tale forma, come ha intuito Freud, si empie di contenuti macro- e microstorici, della tradizione e dei sistemi di valore propri del gruppo di appartenenza, e cioè di una società storicamente determinata e dei sottosistemi di cui l'individuo viene a far parte o con cui interagisce.

Se si tiene conto della complessa articolazione, sostanzialmente stratificata, cui e' andata incontro la società dal periodo in cui si e' inaugurata la storia e dell'articolazione sempre più complessa - economicamente, socialmente e culturalmente - che si e' definita nel corso della storia, non si stenta a capire i danni potenziali (e reali) della funzione superegoica che e' rimasta psicobiologicamente ancorata ad un mito - quello dell'armonia - perennemente, sia pure in forme diverse, alimentato e rinforzato dal potere e dalla cultura dominante. Data la complessità della struttura sociale, fondata, dalla nascita della storia in poi, sul mito gerarchico, e cioè sulla ineguaglianza incommensurabile (e dunque ínnaturale) tra gli esseri umani che giustifica la stratificazione sociale, ciò che scorre nelle falde profonde di quella struttura, sotto forma di quadri mentali, e si rifrange, animandosi,negli infiniti microcontesti interpersonali che ad essa partecipano, è indubbiamente una tradizione -non importa se remota o di recente produzione - e cioè un sistema di valori emozionali, cognitivi e culturali. Ma, se ci si concede la metafora, la tradizione scorre attraverso le generazioni come un fiume inquinato, nel quale valori autentici e valori alienati, valori che permettono all'individuo di integrarsi socialmente in virtù della piena realizzazione delle sue potenzialità e valori che glielo impediscono, confluiscono e si mescolano in un flusso nel quale ogni individuo deve immergersi per acquisire la propria identità.

La funzione superegoica, promuovendo l'introiezione e l'assimilazione acritica di quei valori, in nome del primato della società e di coloro che, a livello interpersonale, la rappresentano, tende ad inattivare il bisogno di opposizione e a criminalizzarlo, ritorcendo1o contro l'individuo come, se esso, nonché un bisogno autentico, sia espressione solo di una predisposizione asociale e amorale. La tendenza, connaturata alla predisposizione psicologica della natura umana, a produrre angoscia sociale e morale in caso di conflitto tra individuo e gruppo di appartenenza, è resa più drammatica e in un certo senso univoca dal fatto che la trasmissione dei sistemi di valore - autentici e alienati - avviene utilizzando come canali legami interpersonali di significato affettivo, che, data l'attrezzatura mentale propria della personalità in fase evolutiva, rendono praticamente impossibile discriminare criticamente le valenze egoiche da quelle superegoiche degli adulti.Non è per caso che i microcontesti familiari ed educativi che si possono definire a rischio sono caratterizzati da una fusione di quelle valenze, che porta gli adulti ad occultare e subordinare le loro qualità personali all'adempimento dei doveri propri dei loro ruoli istituzionali,e quindi a funzionare come rigidi custodi di valori superegoici, o, viceversa, una perpetua alternanza, nella singola personalità adulta o nel sistema educativo, di quelle valenze, che comporta la trasmissione di valori antitetici e inconciliabili.

Parlare di microsistemi familiari patologici è, però, criticabile, anche quando uno di essi produce più esperienze di disagio psichico.Il definirsi di una struttura psicopatologica è, infatti, sempre un fenomeno congiunturale, le cui cause prime sono ambientali ma la cui causa ultima è un corredo costituzionale ricco di bisogni, che, in rapporto alle contraddizioni ambientali, si scinde determinando per un verso una fedeltà sacrificale al gruppo di appartenenza e ai valori superegoici da esso trasmessi e per un altro un'irrinunciabile spinta verso l'individuazione, l'attacco ai legami alienanti e la ricerca di modi di essere - di sentire, di pensare e di agire - visceralmente intuiti come più adeguati alla 'vocazione' personale. Criminalizzando questa spinta, e ritorcendola contro il soggetto come espressione della sua 'ingratitudine', negativita' e distruttività la funzione superegoica determina lo strutturarsi di un'esperienza psicopatologica, la cui dinamica è sempre e solo punitiva, mirando essa ad assoggettare l'io al gruppo di appartenenza e/o alla programmazione culturale che gli e' stata impartita.

Nulla si capirà mai del complesso universo psicopatologico se non si tiene conto che esso e' un universo di dissenso chiuso dentro i labirinti di un bisogno alienato e pietrificato, il bisogno di integrazione sociale, e destinato, per effetto della funzione superegoica, ad un'inesorabile disfatta. Le persone che circolano in questo labirinto senza sbocco spontaneo pagano, per quanto ciò sia lungi dall'essere riconosciuto, il prezzo di una vocazione alla socialità il cui limite, costitutivo del loro corredo naturale, è di non potersi arrendere all'uso alienato che il mondo, o una parte comunque rappresentativa di esso, ne fa.