NOTA DI LETTURA


Questo lungo articolo ha anticipato gli sviluppi della teoria struttural-dialettica inerenti il ruolo dei fattori mentali collettivi (mentalità o inconscio sociale) che sono giunti a maturazione solo alcuni anni dopo. Il capitolo "dell'esser donna" riferisce la storia di una ragazza, Pina, che viene di nuovo ripresa e approfondita nell'appendice. Per quanto il rapporto terapeutico con Pina sia stato breve (appena due - tre mesi) e sterile data la sua convinzione di dover pagare la "colpa", la trasparenza di un delirio cristallizzato dalla perfetta equivalenza dei poli conflittuali mi è sempre sembrata assolutamente probante sotto il profilo epistemologico. Non è un caso che questa stessa storia sia stata ripresa e ulteriormente approfondita ne La politica del Super-io. Nell'esperienza di ogni terapeuta critico, si danno esperienze esmplari e illuminanti. Il debito che ho nei confronti della sventurata ragazza è inestinguibile.


IL DISAGIO PSICHICO COME VICOLO CIECO IDEOLOGICO


La ‘mente’ come prodotto ideologico

Analisi di una struttura onirica

Quadri mentali collettivi e esperienze deliranti

1) dell’esser donna

2) dell’esser uomo

Appendice. La struttura delirante


1. Introduzione

Le conclusioni cui siamo giunti, sinora, definiscono il debito che una nuova scienza del disagio psichico deve riconoscere nei confronti della psicoanalisi e, al tempo stesso, la necessità di una riorganizzazione radicale del sapere sulla genesi, sulla struttura e sulla dinamica dell’esperienza soggettiva da essa promossa. Al debito sarà giusto riservare una riflessione più approfondita. Ciò che importa, ora, è definire i presupposti a partire dai quali quel sapere può essere riorganizzato. Questi presupposti possono essere tratti dalle conclusioni del precedente seminario, e venire enunciati in forma assiomatica. Si tratta infatti di riconoscere:

a) la natura ideologica della teoria del desiderio come motore primo dello sviluppo, e di sostituirla con una teoria dei bisogni che tenga conto della relativa autonomia dei livelli di organizzazione della personalità -affettivo, cognitivo e sociale - e assuma come obiettivi dello sviluppo l’individuazione e l’integrazione sociale;

b) la criticabilità del determinismo genetico, e cioè del concetto di fissazione, che assegna ad esperienze intrapsichiche infantili un valore etiopatogenetico casuale, tale che l’intervallo di tempo che intercorre tra quelle esperienze e il loro affiorare sotto forma di strutture di carattere o di sintomo è null’altro che una fase di latenza, e cioè, praticamente, insignificante. A questa concezione, rigidamente determinista, occorre, per rispettare la storicità dell’esperienza soggettiva, sostituire una concezione possibilista, che, senza negare l’importanza dei vissuti infantili, li assuma - quali che essi siano - come un insieme di possibilità di modi di essere, una delle quali -il disagio- si realizza in virtù di circostanze successive e da ricostruire puntigliosamente.

c) la non riducibilità delle istanze superegoiche - che, nel loro complesso, configurano sempre un codice morale, e dunque una struttura - ad un livello psicologico, oggettivo o intersoggettivo, e cioè all’introiezione di istanze parentali, per due motivi. Il primo è che nessun gruppo familiare produce il codice che trasmette, poiché questo appartiene al livello delle ‘mentalità’; il secondo è che l’introiezione, in quanto processo passivo, alimentato solo dalla fiducia nelle figure parentali, non è in grado di spiegare l’attività del codice nella struttura della personalità, specie quando questa riconosce livelli di coscienza affrancati culturalmente dal codice stesso.

In quale misura questi presupposti, che pure sono ricavati dal laboratorio psicoanalitico, possono concorrere a riorganizzare il campo del sapere sulla genesi, sulla struttura e sulla dinamica della personalità normale e disagiata? E’ presto detto. Assumendo i bisogni - di individuazione e di integrazione sociale -, e non i desideri, come motivazioni dello sviluppo, e le circostanze ambientali come opportunità che definiscono, a partire da un insieme, alcune possibilità di sviluppo, mortificandone inesorabilmente delle altre, la genesi della personalità diventa un processo costruttivo all’interno del quale il soggetto ha sempre un ruolo attivo, nel senso che, in rapporto alla consapevolezza dei propri bisogni e alle opportunità che gli vengono offerte, egli tende a strutturare una visione del mondo adeguata ad affrontare i problemi che gli si pongono, e dalla cui risoluzione dipende la soddisfazione dei suoi bisogni. Non si insisterà mai abbastanza su questa ipotesi costruttivistica della personalità, il cui postulato fondamentale, che sfugge totalmente alla psicoanalisi e, ovviamente, a ogni altra scienza puramente psicologica, è che l’uomo è, fondamentalmente, un animale ideologico, vale a dire che, per vivere e per agire, egli abbisogna anzitutto di una visione del mondo.

La genesi della personalità tende, ed esita necessariamente, in una struttura, e questa struttura è una visione del mondo, poiché solo in virtù di questa il soggetto può progettarsi, porsi dei fini e cercare di raggiungerli. Ma, posta la natura ideologica di ogni visione del mondo, c’è un gradiente strutturale, che va da strutture relativamente aperte, e dunque evolutive, a strutture chiuse, adialettiche, non evolutive. Non è azzardato ipotizzare che le strutture chiuse, se non si esprimono necessariamente in forme psicopatologiche, sono esposte maggiormente a rischi rispetto a quelle aperte, poiché esse dispongono di soluzioni predisposte, e sono dunque poco adattive rispetto a nuovi problemi. Per quanto riguarda la genesi del disagio psichico, occorre però porsi due domande: primo, quali sono i problemi con cui esso si confronta; secondo, quale è il fattore che rende la struttura di personalità non adattiva -o non creativa- rispetto a quei problemi. La risposta psicoanalitica è francamente insufficiente, facendo riferimento ad una presunta fissazione ad uno stadio arcaico dello sviluppo che rende la personalità inadeguata ad affrontare i problemi che ad essa si pongono successivamente. Ciò che la psicoanalisi trascura, nonostante la pratica le offra continuamente indicazioni in questo senso, è che non è l’entità dei problemi in sé e per sé a causare il disagio, bensì il modo in cui l’individuo li interpreta e le soluzioni impossibili in virtù delle quali tenta di risolverli. Ciò che è in gioco, dunque, nella genesi del disagio, è l’attrezzatura mentale di cui l’individuo dispone, e che è l’espressione di tutto lo sviluppo genetico della personalità. In breve, è in gioco la visione del mondo. Ciò significa, in pratica, che non esistono problemi come dati immediati dell’esperienza vissuta, ma solo come interpretazione di quei dati: e se l’interpretazione induce a porsi problemi in termini insolubili, la mente non può produrre che pseudo soluzioni, sintomi o strutture psicopatologiche. Dato che questo discorso può risultare ermetico, proverò a fare un esempio, peraltro di capitale interesse. Se la qualità più specifica della natura umana è l’educabilità, è chiaro che l’incontrollabilità, inteso come dato ontologico, non può essere che ideologico, vale adire che l’incontrollabilità è solo l’incontrollato, ciò che si è sottratto ad un processo educativo o autoeducativo. L’incontrollato è un problema, ma non diventa mai un oggetto di paura finché persiste nell’individuo la convinzione di poter giungere a controllarlo. Poniamo che questa fiducia venga meno, e che, in virtù di un processo ideologico, l’incontrollato si proponga come incontrollabile. La mente può confrontarsi con questo dato, e cioè con questo problema grave, solo con tre possibili soluzioni: la prima è assoggettarvisi e pagare le conseguenze della perdita di controllo; la seconda è di instaurare un rigido ipercontrollo interno, una sorta di dittatura interiore tale che l’incontrollabile, pur continuando a premere, non può trovare alcuno sbocco reale; la terza è di indurre, proiettivamente, un controllo dall’esterno spietato e universale, sicché l’incontrollabile sia tenuto a freno dal mondo esterno. Altre soluzioni non si danno, ma è chiaro che quelle che abbiamo elencato configurano tre situazioni di disagio, caratterizzate, rispettivamente, dagli acting-out, dal vissuto ossessivo e dal vissuto persecutorio. Se noi ignoriamo che il nucleo di queste esperienze è ideologico, possiamo verificare, sia analizzando i comportamenti che i fantasmi, e dunque da un punto di vista descrittivo e psicoanalitico, l’esistenza dell’incontrollabile. Se, altresì, disponiamo di una teoria che falsifica l’incontrollabilità - come è stato fatto - possiamo chiederci come e perché una struttura mentale è giunta ad edificarsi a partire da uno scacco del processo educativo o autoeducativo.

Sono evidenti le implicazioni di questo modo di vedere per una nuova scienza del disagio psichico. Se la costruzione della mente mira ad una visione del mondo, e se, necessariamente, essa postula l’integrazione dei dati dell’esperienza con dati ideologici, il fatto che essa, poi, funzioni o no, nel senso di soddisfare o no i bisogni, va imputato meno ai dati dell’esperienza che a quelli ideologici. Naturalmente, esistono dati di esperienza più o meno facilmente ideologizzabili…

L’ipotesi costruttivistica si integra con l’impostazione che si è data alla rivisitazione dell’universo psicopatologico, incentrato sulle tre grandi paure, di morire, di impazzire, e di commettere crimini. Il disagio psichico non è che un vicolo cieco dell’esperienza soggettiva nella quale l’individuo va a finire quando, per risolvere problemi di vitale importanza, la mente utilizza dati che comportano soluzioni tanto drammatiche da dover essere scongiurate piuttosto che realizzate. Ma, posto che non si danno problemi insolubili, se la mente finisce in un vicolo cieco, è perché essa è fuorviata da dati ideologici.

Il seminario di oggi, che, forse, è un po’ diverso rispetto a quanto ci si attendeva, mira a provare quanto è stato affermato.

L’importanza di questa verifica non potrà risultare che da riflessioni successive.

 

2. Analisi della struttura onirica

E’paradossale, forse, che, per accreditare la necessità di radicare una nuova scienza del disagio psichico in un terreno che riconosca il peso del sociale nella strutturazione della personalità, si utilizzi il materiale onirico, e cioè un prodotto della mente ritenuto, più di ogni altro, carico di valenze soggettive e di fantasmi. Torneremo ulteriormente, in sede di riflessione teorica, sul problema dei sogni.

Per ora, ai fini del discorso che stiamo conducendo, può bastare l’analisi di un sogno, quello riferito nella microstoria di Francesca. Con assoluta evidenza, è un sogno strutturato, che verte sul rapporto tra mondo interno e mondo esterno, e sulla necessità che questo rapporto sia mediato da un controllo, che riconosca cioè un confine a livello del quale, aprendosi o chiudendosi, l’individuo senta di esercitare la sua libertà. E’ un sogno che allude, insomma, ai due bisogni che noi abbiamo assunto come fondamentali nello sviluppo e nella dinamica di ogni personalità: il bisogno di individuazione e il bisogno di integrazione sociale. Nella struttura del sogno, sono evidenti le due fasi attraverso le quali passa lo sviluppo di ogni personalità: la fase del controllo dell’esterno - segnalata dalle imposte - e la fase del controllo interno. La microstoria ci ha posto in grado di ricostruire - sia a livello familiare che a livello scolastico - un controllo dall’esterno molto marcato, rigido e selettivo. Dalla sofferenza che questo controllo ha indotto, e che viene rievocata lucidamente da Francesca, ci si aspetterebbe ben altro di quello che accade nel sogno. Ci si aspetterebbe che Francesca, giunta all’autoconsapevolezza e a poter disporre di sé, utilizzasse la libertà in maniera più adeguata ai suoi bisogni di integrazione sociale. Ciò che accade, invece, è che essa ratifica la chiusura sociale e l’isolamento con le sue stesse mani, sottoponendosi, dunque, ad un autocontrollo addirittura spietato. Che senso ha questa autocondanna che conferma, ed esaspera la repressione dell’esterno?

Se non partiamo dal presupposto, maturato nel corso del seminario sull’interpretazione schatzmanniana del caso Schreber, che quanto accade a livello soggettivo non è riducibile a mera riproduzione passiva degli atteggiamenti pedagogici, dobbiamo anzitutto dare a quell’autocondanna un significato difensivo, e dunque positivo, rispetto ad un pericolo vissuto come tremendo. Nel sogno, è chiaro che la chiusura di Francesca al mondo, per quanto angosciosa, serve a tutelare l’individualità. Ma perché mai - è questo il problema - il bisogno di integrazione sociale viene vissuto da Francesca, anziché come un momento di realizzazione dell’individualità, come una grave minaccia? La microstoria ci ha fornito un elemento esplicativo di un certo interesse: è all’epoca del primo tradimento, realizzato dopo la separazione dal marito, che Francesca sviluppa un grave senso di colpa. In questo periodo, e tutti i successivi rapporti che avrà lo confermeranno, Francesca intuisce che la sua liberazione sessuale è avvenuta solo ad un livello sovrastrutturale, e che in lei continua ad incombere, su una pratica della sessualità svincolata da un contratto, il fantasma della puttana. Sarebbe interessante avviare un discorso sulla storicità di questo fantasma, veicolato da una tradizione antica, e sulla sua capacità di radicarsi in strati profondi della personalità. Ancor più interessante, sarebbe ricostruire la dinamica soggettiva in virtù della quale questo fantasma, che giustificava le repressioni parentali, è giunto a configurarsi come fantasma di una libertà tanto desiderata quanto paurosa. Già a questo livello, infatti, potremmo constatare gli effetti paradossali e fuorvianti dei fantasmi sociali sulla struttura e sulla dinamica della soggettività. Ma, dato che una ricerca non deve arrestarsi a verità parziali, è bene cercare di andare al di là. Quel fantasma, infatti, appartiene in modo così evidente ad una tradizione educativa che vede nella femminilità un pericolo in sé e per sé da lasciare aperto il problema del perché Francesca abbia reagito ad esso in modo così drammatico. Questo problema non avrebbe senso se attribuissimo a Francesca bisogni di libertà più intensi rispetto ad altre persone che hanno avuto, presumibilmente, la stessa esperienza. Ma, in tal caso, rimarrebbe insolubile il problema dell’autocondanna, tranne che non si voglia pensare che i fantasmi sociali, radicandosi nella struttura della personalità in fasi precoci dello sviluppo, giungono a parassitarla, a mortificare la libertà della coscienza. Quest’ipotesi è però invalidata dal sogno: l’angoscia infatti insorge perché Francesca si rende conto che essa, con le sue stesse mani, si è chiusa al rapporto con il mondo: quando scopre, cioè, che l’autorepressione esprime un esercizio di libertà. E’ evidente che ci deve esser dell’altro…Non ci si sorprenderà, dunque, che, per chiarire questo mistero, ci si immerga ancor più profondamente nell’ esperienza soggettiva di Francesca. E‘ al fondo della soggettività, infatti, secondo i presupposti della nostra ricerca, che si trovano le chiavi che la congiungono al sociale.

La liberazione sessuale di Francesca, per essere risultata così angosciosa, deve essere stata una pseudoliberazione, e cioè non tanto un’ affermazione della propria libertà, quanto un tentativo di celare e di mortificare i bisogni più radicali e profondi. Rispetto a quali bisogni può risultare ideologica la pratica dell’amore libero, pervicacemente teorizzata da Francesca? Non è un mistero: la pratica dell’amore libero produce angoscia quando essa serve a negare un bisogno di legame affettivo e di dipendenza. Francesca, del resto, è giunta, nel corso della psicoterapia, a confessarlo serenamente: il suo sogno, fin da adolescente, non è stato quello di diventare una "divoratrice di uomini", bensì di incontrare un uomo con il quale stabilire un rapporto di unione totale e reciproca. Il mitico ‘principe azzurro’, insomma… Ma non è all’epoca dell’adolescenza che riconduce il sogno con il particolare delle mani? All’adolescenza risale infatti la presa di coscienza del suo cuore sognante, incline al rapimento e all’amore totale, e del ‘cinismo’ degli uomini, tesi a profittare di questa disponibilità per conquistarla, usarla o imporle un dominio. L’amore, dunque, come perdizione di sé nell’altro, segnato dal brusco risveglio di essere divenuta preda dell’altro, e come tale essere trattata. È dalla possibilità di un cedimento sentimentale che potrebbe espropriarla della sua libertà e della sua individualità, dunque, che si difende Francesca: è il suo ‘cuore’, che insiste ad utilizzare ogni spiraglio offerto dalla realtà per alimentare il sogno di un amore totale, che la perseguita e la minaccia. In rapporto a questa minaccia, e la difesa ad oltranza della propria intimità e la pratica del libero amore, pur se le impongono rispettivamente una solitudine atroce e un grave senso di colpa, si possono ritenere mali minori. Ma noi sappiamo che la solitudine e il senso di colpa alimentano in Francesca la paura di morire, e già una volta l’hanno spinta al suicidio. In rapporto a quali pericoli, dunque, la paura di morire e il desiderio di finirla con la vita rappresentano delle difese? Siamo ad un passo dal cuore della verità. Ma è una verità sconvolgente: sia la solitudine che il senso di colpa legato alla pratica della sessualità fuori dal matrimonio difendono Francesca dalla possibilità paurosa di cadere letteralmente nelle mani di un uomo forte, virile e spietato, capace di tenerla sotto controllo con la brutalità che essa pensa di meritare. Nonché un principe azzurro, dunque, la proiezione del suo Super-Io rigido e sadico. C’è una figura storica che dà corpo a quest’uomo, ed è quella, affascinante e terrificante al tempo stesso,del nazista. In uno dei suoi racconti più commoventi, Francesca descrive l’esperienza di una ragazza che, chiacchierata ed emarginata in un paese piemontese all’epoca della guerra, finisce con l’esprimere la sua ribellione nei confronti della meschinità dei paesani divenendo l’amante di un colonnello nazista e tradendo i suoi.

L’identificazione è evidente, e in questa Francesca versa tutta la sua rabbia nei confronti di un perbenismo piccolo-borghese che odia. Ma è un’identificazione tremenda, che dà corpo contemporaneamente al fantasma della puttana e a quello dell’eroina che, per amore, si acceca letteralmente sulla realtà dell’uomo che ama. E’ la potenza e la cecità dell’amore, infine, che possono far perdere la ragione e spingere a fare cose orribili, che Francesca teme. In rapporto alla percezione di questa passionalità senza controllo, la figura dell’ uomo forte, senza debolezze, o, addirittura, senza cuore, assume un significato evidente e complementare.

E’ evidente che la struttura del sogno assume, alla luce di questa analisi, una logica precisa. Assoggettata ad un severo ipercontrollo esterno, Francesca non ha potuto educare il suo cuore in virtù di esperienze reali, soprattutto a livello adolescenziale. L’amore in lei è rimasto un sogno, ed è venuto ad assumere dimensioni sempre più ‘folli’e passionali. In rapporto a questo pericolo, Francesca non ha trovato di meglio che chiudersi nella torre d’avorio del suo isolamento intellettuale. Ma, continuando a percepirlo, si sente esposta al rischio di un cedimento totale, tanto più pauroso quanto più esso evoca il fantasma di un partner capace di contenerlo, e, in una certa misura, spietato.

La struttura della personalità di Francesca risulta, dunque, totalmente votata a contenere una ‘debolezza’ radicale: ma questo contenimento,originariamente dovuto ad un controllo esterno, viene pagato al prezzo di una solitudine atroce. Uscire dalla solitudine significa, però, ‘perdersi’ nell’amore: e questa possibilità ripropone la necessità di un controllo esterno.

A fondo del disagio di Francesca troviamo, dunque, una percezione terrificante di un ‘cuore’ la cui pericolosità è data dal fatto che esso funziona secondo il principio del tutto o del nulla. Questo pericolo determina tre atteggiamenti difensivi inadeguati: la difesa dell’individualità in virtù di un totale isolamento sociale; l’evocazione di un partner ‘nazista’, il cui dominio argini una perdita di controllo totale; e, infine, il rifugio nel fantasma della puttana, che ha rapporti liberi con gli uomini.

Colto così il nucleo psicodinamico dell’esperienza umana di Francesca, e analizzato il modo in cui esso struttura il disagio psichico,ci si può porre il problema della sua genesi. Abbastanza chiaramente, vediamo che in esso confluiscono due dati, uno di ‘natura’, l’altro di ‘cultura’. Il dato di ‘natura’ è rappresentato da una presunta incontrollabilità affettiva: ci si può chiedere perché la paura di innamorarsi assuma in Francesca un carattere terrificante. La risposta è, ormai, semplice: gli affetti, intesi come vincolanti, non possono essere vissuti come realizzazione di sé nel legame sociale, se essi minacciano l’individualità. Il dato di ‘natura’ può essere, dunque, convertito immediatamente in dato di cultura, ché non sussiste alcuna prova che la dipendenza affettiva originaria - la ‘sventura’ per cui il bambino non può amare - debba essere vissuta angosciosamente se colui o coloro da cui si dipende non la utilizzano -consapevolmente o meno- per imporre alle persone delle regole che vengono vissute come minaccianti la propria individualità. Qual è, però, la difesa da una situazione persecutoria che non si può risolvere su un piano di piano di realtà con la fuga? E‘ il troncare il rapporto dentro di sé, è cioè nell’operare una rivoluzione interiore che, dato il persistere della dipendenza, assume fatalmente i caratteri sempre più trasgressivi, e in opposizione al modo di vivere che viene proposto.

Non è difficile descrivere i termini in cui in Francesca la rivoluzione si è configurata: autonomia, libertà sessuale, rapporto paritario con l’uomo. In realtà, questa presa di coscienza è meramente ideologica, ché, negli strati profondi della personalità, l’incontrollabilità urge ed evoca, a livello di relazione fantastica, la figura dell’uomo capace di contenerla, di assoggettarla e di frustarla.

Al di là delle dinamiche personali, c’è un dato di cultura che organizza l’esperienza interiore di Francesca: questo dato di cultura insiste sulla radicale debolezza della natura femminile e sulla necessità di vincolare tale debolezza in virtù di un rapporto con un uomo forte. Ma, dato che la debolezza si associa in Francesca ad uno spirito di indipendenza e di ribellione marcati, quest’uomo forte deve avere caratteristiche particolari: deve essere un dominatore, un colonizzatore spietato. E’ un vero e proprio rapporto di sfida che Francesca intrattiene con l’uomo: la solitudine le ripropone, con l’angoscia, il suo radicale bisogno di un compagno; ma, se essa esce dalla solitudine, gli uomini non si dimostrano più all’altezza. Il metro con cui Francesca li misura è il loro essere borghesi nel senso deteriore della parola. L’altro, verso cui gravita, è il nazista, colui che, con la forza, può imporre fine alla sua disperata e vana lotta per un’indipendenza che è solo negazione del suo bisogno dell’uomo.

Al fondo di una vicenda soggettiva sofferta troviamo, dunque, un nucleo ideologico elementare, che si può esprimere nei seguenti termini: la donna è un essere debole e tendente alla perdita di ogni controllo; essa ha bisogno, radicalmente, del rapporto con l’uomo: l’uomo, per arginare la sua incontrollabilità deve essere forte e usare le maniere dure; se la donna si ribella al dominio dell’uomo, essa rimane sola e preda delle paure che attestano la sua inadeguatezza ontologica.

E’ chiaro che la metodologia che abbiamo adottato per ricostruire la struttura dell’esperienza di Francesca va al di là della psicoanalisi, anche se essa comporta un debito innegabile. La metodologia, a differenza della psicoanalisi che tende a risalire alle emozioni ultime che informano l’esperienza del soggetto, postula, né più né meno, che non esistono emozioni ultime, nel senso che la vita emotiva di un soggetto è sempre presa in una rete di discorsi che, infine, tendono a strutturarsi sotto forma ideologica, e che è la posizione, di accettazione o di rifiuto, che il soggetto adotta nei suoi confronti dell’ideologia di cui è preda, che caratterizza la normalità o la diversità.

 

Quadri mentali collettivi e esperienza delirante

 1. Dell’esser ‘donna’

A diciotto anni Pina, uscendo di chiesa a testa bassa, passa accanto ad una macchina in sosta. Il suo sguardo incontra quello del ragazzo al volante, e, rimovendo ogni castigatezza, saetta un fuoco di seduzione. P. si riprende e si allontana con la consapevolezza di aver commesso una colpa. Il ragazzo, in effetti, ha perduto la testa per lei. Ovunque vada, il ragazzo la segue con la muta devozione di un cagnolino. A qualunque ora del giorno, se solleva le tendine della finestra, lo vede passare più volte. Esaltata per questa cattura, nonostante il cuore le rimorda, P. sta al gioco, facendo finta di non accorgersi di nulla: la sua ritrosia ha, però, lo scopo di alimentare la passione del ragazzo. Dopo circa un anno, si decide infine a guardarlo: si accorge che è brutto e intuisce di non ricambiare il suo sentimento. Lo ha dunque preso in giro. Sentendosi in colpa, P. si risolve ad affrontare il ragazzo per dirgli la verità e risolvere la questione. Ed è a questo punto che scopre, con sgomento, di non riconoscerlo. Più precisamente: quand’egli passa in macchina, e dunque a distanza, P. ne identifica infallibilmente il ‘tipo’ –la sagoma un po’ massiccia, i capelli neri e ricci, e, soprattutto, lo sguardo da innamorato – ,ma, se gli si avvicina, l’identificazione diventa incerta. P. teme di sbagliare, di fermare un altro ragazzo, di salire, per inganno, sulla macchina e di fare la fine che merita una che abborda uno sconosciuto: di essere, insomma, violentata. Questa circostanza non la terrorizza tanto per sé, quanto per le conseguenze che potrebbe avere: P. sa che il suo ragazzo la pensa in maniera tradizionale e che mai le perdonerebbe uno sbaglio del genere.

Avendo scoperto la difficoltà di identificazione, P. comincia a lanciare dei messaggi al ragazzo, per fargli capire che deve essere lui a prendere l’iniziativa. Ma quegli, evidentemente ferito nell’orgoglio dell’atteggiamento altezzoso avuto fino a quel momento da P. e, probabilmente, incredulo, continua a seguirla con la stessa costanza ma persistendo nella sua passività. Il problema appare,dunque, insolubile. A questo punto entrano in scena i parenti e gli amici del ragazzo, sdegnati per la presa in giro. Dapprima con velate allusioni poi con messaggi inequivocabili, essi lasciano intendere che non credono alla ‘storia’ del mancato riconoscimento, e che concedono a P. una sola possibilità di scampo alla loro persecuzione: un matrimonio riparatore. Attendono -ovviamente- che sia lei a fare il primo passo. E’, per sollecitarla, la sottopongono quotidianamente, persino tra le mura della sua casa, ad un fuoco di fila accuse infamanti.

Puzzle insolubile, l’esperienza di P. si cristallizza: dopo dieci anni nulla è mutato. Il ragazzo continua ad essere perdutamente innamorato di lei, ma non fa un solo cenno che agevoli il riconoscimento. I suoi parenti ed amici sottopongono P. ad un vero e proprio assedio, col duplice scopo di tenerla sotto controllo e di indurla, schiacciandola sotto il peso della colpa, a riparare. P. vive nell’isolamento più completo. Esce di rado, quando la disperazione la spinge a cercare in qualunque modo la soluzione finale: ma ogni qualvolta la distanza con il ragazzo si riduce, essa è preda della paura paralizzante di sbagliare, e di offrirsi ad un altro.

Sarebbe vano tentare di illustrare la raffinatezza logica con cui il delirio, nel corso di dieci anni, è stato razionalizzato, fino al punto di configurarsi come un gioco delle parti in cui tutti hanno le loro buone ragioni, che risultano però o non comunicabili o non credute.

P. ammette la sua originaria colpa, lo sguardo di seduzione che ha fatto perdere la testa al ragazzo e l’indifferenza apparente in virtù della quale, nel corso del primo anno, ha alimentato la passione di quello. Essa è disposta a riparare, anzi, nonostante l’aspetto non attraente del partner, non desidera altro: ma, stante la difficoltà di riconoscimento, essa non può permettersi di rischiare l’irreparabile. Ciò che è incredibile per gli altri, il fatto che, dopo dieci anni, essa non riesca, da vicino, a riconoscere bene il ragazzo, P. lo spiega con estrema semplicità: maliziosa ma non sfrenata, essa si è sempre limitata a fuggevoli sguardi. Oltre le caratteristiche generali della sagoma, essa, in realtà, non conosce del ragazzo che lo sguardo d’amore: il riconoscimento è, dunque,empatico, e non fisionomico. Nel corso degli anni, la passione del ragazzo non ha mai mostrato nessun segno di affievolimento: a qualunque ora del giorno, sollevi P. le tendine della finestra o scenda per la strada, egli è lì nella macchina. Solo se P. si avvicina, egli si avvia per indurla a precipitarsi. La sua aspettativa passiva, che non si traduce in un minimo segno di incoraggiamento rivolto a P., esprime uno straordinario orgoglio: ma è l’orgoglio comprensibile di un uomo ferito.

Quanto ai parenti e agli amici, la loro persecuzione, spietata nella forma e nei contenuti, ha, in ultima analisi, un fine buono: essa mira infatti a colpevolizzare P. per indurla a riparare.

La struttura di questo delirio è, quant’altri mai, definito da un confine morale, che ha una precisa definizione spaziale: al di qua, P. è oggetto di un amore perenne che attesta, sì, la sua capacità di seduzione, ma la vincola pure ad un rapporto ‘pulito’ di assoluta fedeltà e destinato a concludersi con il matrimonio; al di là, P. è esposta al rischio di perdersi tra le braccia di uno sconosciuto. Al di qua, P. attende che sia l’uomo a prendere l’iniziativa, al di là è lei a doversi lanciare tra le sue braccia.

Se si valorizza adeguatamente il confine simbolico, riesce chiaro ch’esso definisce due ambiti della moralità, due strutture mentali inerenti il rapporto uomo-donna. La struttura mentale al di qua si fonda sul contratto monogamo e assegna alla verginità della donna il significato di una garanzia: se essa giunge vergine al matrimonio, ciò significa che non è stata di nessun altro, e che, vincolandosi, sarà per sempre di un solo uomo. La struttura mentale al di là è invece la struttura del desiderio cieco, che può portare alla perdizione, se la donna si abbandona ad esso.

E’ importante rilevare un elemento comune alle due strutture: è la verginità della donna nella prima, così come la sua resistenza alla cecità del desiderio a mantenere la moralità. L’uomo, viceversa, può godere della sua immoralità, sia perché, nell’ambito della prima struttura, nulla lo impegna a non avere esperienze prima di vincolarsi monogamicamente, sia perché, nella seconda, gli è manifestamente riconosciuto il diritto di profittare di ogni occasione che gli si offra.

E’ superfluo, forse, dire che P. è stata educata al rigido rispetto della prima struttura mentale. Convinta, fin dall’adolescenza, che gli uomini, nonostante la loro immoralità, sono tremendamente tradizionalisti, e che pertanto, se una ragazza giunge deflorata al matrimonio, questa colpa le viene rimproverata per tutta la vita, essa si è comportata di conseguenza nell’unico modo atto a scongiurare tale pericolo: si è tenuta bene a distanza da ogni occasione di incontro. Ha pagato, per ciò, il prezzo di una radicale solitudine affettiva, esasperata da un cambiamento di costumi che l’ha, poco alla volta, indotta a vivere la sua moralità come fuori del tempo: come una camicia di forza, piuttosto che come un velo protettivo. Uscendo dalla chiesa, una ribellione covata a lungo affiora repentinamente nella sua mente sotto forma di desiderio: "come sarebbe bello sedurre un ragazzo e fargli perdere la testa". In questo desiderio, non si potrebbe riconoscere altro che il riscatto di una giovane graziosa e vitale rispetto a una mortificazione giunta all’estremo dell’avvilimento. Ma il tribunale della mente di P., espressione di una struttura mentale assolutamente coerente, lo assume come capo d’accusa di una ‘natura’, nonostante le apparenze, non doma. Sedurre il ragazzo, e dunque un qualsiasi ragazzo, non significa forse sedurre tutti? Da timorata che era uscendo di chiesa, P. diventa una pericolosa maliarda. E se sedurre non le bastasse, se oltre a sedurre desiderasse anche di possedere e di essere posseduta? Se, infine, si abbandonasse totalmente alla cecità dei desideri, cosa diventerebbe se non una puttana o, peggio ancora, una ‘ninfomane’ che insegue gli uomini?

Queste possibilità sono latenti all’interno della prima struttura mentale, edificata per scongiurarle: la verginità della donna, barriera fisica che comprova e preserva la moralità, non è forse valorizzata al massimo perché, una volta caduta, non si vede quale freno possa porsi ad un desiderio ‘svergognato’?

Ciò che il tribunale della mente di P. assume come capi d’imputazione sono le ovvie conseguenze di un recinto mentale che impone una moralità sottesa da infinite paure. Ma, nel momento in cui P. si ribella alla costrizione, essa si destina a soffrire. Desiderando, semplicemente, di catturare un ragazzo, con l’unico strumento di cui dispone la sua inesperienza, lo sguardo, è come se essa si abbandonasse alla cecità dei desideri. La punizione scatta in tutta la sua severità: ha osato sedurre e, dunque, le piaccia o no, quel ragazzo, il primo, dovrà essere anche l’ultimo della sua vita, il suo sposo. Nel momento in cui accetta questa condizione, P. è soggetta ad un'altra punizione: non riconoscendolo, infatti, può solo rischiare di sbagliare. La difesa della verginità le impone di rifuggire dall’errore, ma, con ciò stesso, dalla possibilità di consumare il matrimonio. E infine, siccome non si può avere più fiducia nelle sue capacità di autocontrollo, è giusto che essa sia controllata dall’esterno, dai parenti e dagli amici del ragazzo, che, al tempo stesso, tutelano la sua fedeltà nel mentre le rivolgono le accuse più ignobili di immoralità.

Come in ogni delirio, anche in quello di P. c’è la soluzione di una condizione invivibile: per quanto essa debba scontare con l’isolamento e con le rampogne la colpa di aver tentato di infrangere un codice morale, che le impediva di nutrire la speranza di amare e di poter essere amata, essa, in virtù di quella colpa, non è più sola: c’è un ragazzo che la ama perdutamente da dieci anni e la cui passione, se mai si realizzerà, è già sentita come inestinguibile…

L’analisi strutturale, sincronica di un delirio, la cui caratteristica essenziale sembra essere quella di un ‘organizzazione inerte dal punto di vista evolutivo, non deve misconoscere la dinamica genetica. Ma -e si assuma pure questo assunto come provocazione- il metodo biografico, sia esso rivolto all’esplorazione della vita intrapsichica che alla ricostruzione delle transazioni intersoggettive, urta contro un limite insormontabile, che si può assumere come ostacolo epistemologico. Esso infatti, pur ponendo in luce fissazioni a stadi di sviluppo infantili o paradossi comunicativi, non può permettere mai di ricostruire la genesi della struttura mentale inerente la moralità all’interno della quale si articola il discorso del soggetto, nei suoi momenti fondamentali di ribellione e di autopunizione. Esso può, tutt’al più, aiutarci a comprendere perché quel soggetto piuttosto che un altro ha preso tanto sul serio quella struttura da non poter vivere dentro di essa e da non poter evadere se non a un duro prezzo. Ciò è senz’altro importante, ma, per quanto il metodo biografico possa essere approfondito, esso non può andare al di là dei motivi che hanno indotto un soggetto a prestar fede ad una struttura mentale che sembra far capo a dei principi naturali, e che, invece, si articola come un discorso culturale sulla natura umana, sul desiderio, sul rapporto uomo-donna, sul matrimonio, sul libero amore, ecc…Questo discorso culturale non è, né può essere,un prodotto soggettivo o intersoggettivo, bensì una struttura mentale normativa: la faccia di una medaglia il cui verso è una certa normalità, il cui retro è una qualche follia.

 

2. Dell’esser ‘uomo’

A ventotto anni, Miro, sposato, operaio in una fabbrica di materiale elettronico, prende a delirare: si accorge dapprima che qualcuno lo osserva derisoriamente, poi comincia a sentire che si mormora di lui, infine coglie distintamente delle accuse infamanti sulla sua omosessualità. Sapendo che esse non hanno alcun fondamento, resta calmo e fa finta di nulla. Ma le "voci" corrono, la calunnia si diffonde: il suo nome, pronunciato con disprezzo, è sulla bocca di tutti, ed egli, di conseguenza, viene a trovarsi isolato e a sentire che lo si evita, come un "appestato". Non sopportando più questo stato di cose, aggredisce verbalmente un tecnico che, nel pulmann dell’azienda, sparla di lui. L’alterco è ben presto sedato, ma l’aver perso il controllo incrementa l’isolamento: nonché omosessuale, tutti ormai credono che è pazzo. Agenti in borghese, cui sarebbe stato denunciato dai dirigenti, lo seguono e lo spiano ovunque, per raccogliere prove di una presunta pericolosità.

Miro è un giovane intelligente, di buona cultura, militante comunista,conscio delle sue responsabilità familiari. Non vuole perdere il posto, e tanto meno vivere sulle spalle della moglie. Essendo convinto dell’assoluta rispondenza al reale dell’esperienza che sta vivendo, mi consulta con il solo proposito di rafforzare la sua capacità di tollerare la persecuzione calunniosa. La ‘cattiveria’ sociale che questa esprime gli sembra tanto ingiusta per quanto lo riguarda, quanto comprensibile: ‘come tutti’,egli stesso prova nei confronti degli omosessuali una repulsione estrema.

La genesi immediata dell’esperienza delirante offre degli elementi di comprensibilità. Dopo aver atteso per due anni un figlio, Miro e la moglie si sottopongono agli esami presso un centro per la cura della sterilità. L’esigenza di un controllo, in verità, è avanzata dalla moglie, il cui desiderio di maternità si è esasperato con il passare dei mesi, e, essendo di origine meridionale, comincia a vergognarsi di un matrimonio senza figli. Miro risulta non fertile a causa di un’infiammazione dei tubuli seminali, destinata -secondo lo specialista- a risolversi completamente con le cure. Apparentemente, nessuno dei due dà gran peso a quest’esito: ma a Miro sembra che la moglie cominci a stimarlo di meno e lo guardi con ‘occhi diversi’.

In seguito all’accertamento dell’infertilità, e senza cogliere alcun nesso con questa, Miro sperimenta, nell’ambiente di lavoro, un progressivo disagio: si sente impacciato, insicuro e timoroso nel contatto con gli altri. In fabbrica, gran parte delle ‘battute’ vertono sulla sessualità: Miro, che prima partecipava con arguzia, si imbarazza, prende a balbettare e arrossisce. Gli altri si accorgono di ciò e, secondo Miro, cominciano a calcare la mano. Il rendimento lavorativo diminuisce sino a diventare insufficiente. La fiducia dei capi viene meno, e uno di loro giunge a dirgli, bruscamente, che si è ‘rammollito’.

L’infiammazione seminale guarisce, e gli esami attestano la fertilità. Ciononostante, il figlio non viene. Dopo alcuni mesi, lo specialista consiglia alla coppia di aver fiducia nel tempo, ma accenna vagamente la possibilità di un’ incompatibilità. La moglie, che è sull’orlo di un esaurimento nervoso, lascia intendere a Miro che, se non viene un figlio, non è disposta a continuare a vivere con lui. Miro, che sente di non avere alcuna colpa, cade in uno sconforto totale. Comincia a sentirsi inferiore agli altri, a isolarsi, ad invidiare quelli che hanno figli. Le mani gli tremano, e, dato che lavora in un reparto di microelettronica, l’inconveniente è grave. Viene convocato dal dirigente in reparto, un ingegnere nei cui confronti ha provato sempre stima profonda: in maniera educata ma decisa, questi lo rimprovera e gli consiglia di prendere un periodo di riposo. Al suo cospetto, Miro si sente "piccolo come un bambino", farfuglia delle scuse, infine, con sgomento, nota che il suo sguardo si fissa con ostinazione sui genitali del dirigente. Pensa che questi possa essersene accorto, o che qualcuno possa aver spiato. Si isola ulteriormente, sta sempre a capo chino, e, nel pulmann, si nasconde dietro il giornale. Questo atteggiamento da ‘inibito’ da ‘complessato’ naturalmente non sfugge all’attenzione di chi -egli pensa-, incuriosito dalle sue stranezze, lo spia. Cominciano a fiorire sorriseti, insinuazioni, mormorii. Il delirio prende corpo. Per non perdere il posto, Miro progetta di corazzarsi fino al punto di dimostrare la sua forza nel tollerare le calunnie.

 La comprensibilità dell’esperienza psicopatologica di Miro sembra, a tutta prima, confermare puntualmente la teoria psicoanalitica. Il trauma dell’infertilità scuote l’identità sessuale di Miro, e dà luogo ad una regressione che lo riconduce ad una fase di sviluppo che si è fissata: al suo essere piccolo e sterile in rapporto al padre grande e fecondo. La fissazione giustifica una fantasia omosessuale passiva, e cioè un attacco invidioso al pene del padre, che Miro vorrebbe prendere dentro di sé con la sua fecondità. Ma questa verità soggettiva è intollerabile, e dunque non può essere che proiettata, trasformata in calunnia.

Non è arduo dimostrare che la teoria psicoanalitica storicizza un’esperienza in maniera singolare: spiegando il presente con il passato remoto, ma azzerando letteralmente la diacronia che li congiunge. Non solo: essa ricostruisce un passato che è sempre mitico, e cioè ideologico, la cui verifica avviene solo in virtù del fatto che il soggetto, per guarire, deve confessare e riparare la sua colpa, ammettere cioè, quali che siano state le circostanze culturali e intersoggettive, di aver egli, infine, imboccato un vicolo cieco.

Riflettiamo sui dati forniti, con l’intento di tradurre in termini problematici ciò che la griglia psicoanalitica dà per scontato senza che lo sia.

Il trauma dell’infertilità attiva in Miro sentimenti di inadeguatezza e di inferiorità. Ciò, nonostante egli continui ad avere rapporti con la moglie soddisfacenti e, nei periodi fecondi, addirittura frenetici! La sterilità è, dunque, una condizione che vanifica la potenza, e definisce l’inutilità, l’insufficienza radicale di un uomo. Ciò è comprovato dal fatto che la situazione precipita quando la fertilità è recuperata, senza che ciò dia luogo al concepimento. Lo specialista parla di incompatibilità, di una responsabilità reciproca. Ma, all’interno della coppia, è scontato che la colpa è di Miro: la moglie lo colpevolizza, ed egli si colpevolizza! Da un certo punto di vista, il fatto che un uomo non riesca a fecondare una donna è una colpa che lo assegna alla categoria degli esseri sterili: i bambini, gli eunuchi, gli omosessuali. Per quanto riguarda Miro, è evidente che la regressione lo riconduce dapprima a sentirsi piccolo come un bambino. Ma questo vissuto, che in sé e per sé non esclude la speranza di crescere, e cioè l’identificazione con un adulto potente e fecondo, viene drammatizzato fino al punto di definire uno scarto radicale e irreversibile tra bambino e adulto, non fertile e fertile. Questa inferiorità radicale, che mortifica la speranza di crescere del bambino, non può essere riscattata che da un attacco invidioso nei confronti di chi -l’adulto- ha ciò che a lui manca e mancherà sempre. Ma l’invidia, nel caso in questione, non può esercitarsi né competitivamente né sotto forma di furto: essa per realizzarsi, postula l’assoggettamento all’adulto. Il farsi mettere sotto da questi, alla lettera, è l’unica possibilità concessa al bambino di diventar fertile.

La trama dell’esperienza di Miro è dunque riconducibile ad un discorso che può essere enunciato nei seguenti termini: un bambino sterile può diventare fertile se e solo se si lascia sottomettere e penetrare dalla potenza e dalla fertilità del padre. Ma il delirio persecutorio non insorgerebbe se questa necessità non comportasse ulteriori clausole. Una, per esempio, potrebbe essere questa: il bambino, che, per diventare fertile si assoggetta al padre, deve assoggettarsi in maniera radicalmente diversa rispetto alla donna. Se ciò accade, può diventare fertile. Se non accade, e cioè se egli assume una posizione femminile, non solo non diventa fertile, ma commette un crimine contro natura, in virtù del quale viene ad appartenere alla categoria degli omosessuali,esseri spregevoli, disgustosi e contaminanti.

Il delirio di Miro, attesterebbe, in ultima analisi, una subordinazione colpevole e trasgressiva al padre.

Tutto ciò - confessiamolo - è francamente misterioso, e assolutamente incomprensibile da un punto di vista intrapsichico. Nella trama dell’esperienza soggettiva e del delirio di Miro intravediamo una serie di elementi che rimandano ad un codice morale che regola i rapporti adulto/bambino, maschile/femminile, fertile/sterile estremamente articolato e complesso, che non può essere il prodotto né di un individuo né di una famiglia. Questo codice, per di più, non si sovrappone all’esperienza di Miro, ma la informa: individuare il momento di fissazione del suo sviluppo in una fantasia omosessuale passiva colpevolizzata è meramente ideologico, se non si distinguono, nella struttura di questa fantasia, due ordini: l’ordine soggettivo, d’inferiorità radicale di Miro rispetto al padre potente e fertile e di attacco invidioso sotto forma di sottomissione totale, e l’ordine culturale, che definisce quest’atteggiamento come una colpa contro natura, dà ad essa un nome specifico -omosessualità- e la assegna all’ambito dei fatti umani disgustosi e contaminanti, tanto da richiedere come sanzione l’isolamento sociale.

L’ordine soggettivo non pregiudica lo sviluppo: la fissazione, evidentemente, avviene in virtù del codice culturale. Questo codice non si può ritenere già acquisito, nella sua totalità, da un bambino: esso, che originariamente stigmatizza, forse, solo l’invidia, viene appreso progressivamente, durante la fase di latenza. Introiettato nella sua totalità, esso vigila sulle possibilità che lo sviluppo, bloccato, imbocchi di nuovo una via culturalmente interdetta: ogniqualvolta ciò accade, esso interviene con i consueti strumenti del terrorismo intrapsichico. Posto il problema in questi termini, occorre ora verificare se la biografia interiore di Miro permette di comprendere l’ordine soggettivo, il vissuto insistente per cui egli sente di non poter crescere se non in virtù di un assoggettamento totale invidioso all’adulto.

Se ciò è possibile, occorrerà, infine, per spiegare il delirio, esplicitare il codice morale che ha reso perversa e infamante siffatta pretesa: tentare, cioè, di inoltrarsi nell’analisi dell’inconscio sociale.

Miro è figlio unico. Vive i suoi primi anni in campagna, in un clima di spensierata libertà. Quando egli ha sette anni, i genitori decidono di vendere il piccolo fondo che coltivano e di inurbarsi, accettando di gestire un portierato in uno stabile di media borghesia. Dallo spazio aperto della campagna al seminterrato buio e alla guardiola, dal lavoro autonomo a quello servile, il salto è grande. Il padre, bell’uomo, vigoroso, narcisista, di carattere tendenzialmente ribelle e autoritario, accusa il colpo della frustrazione sociale. Da allegro ed espansivo che era, diventa cupo, nervoso, irascibile. Ce l’ha un po’ con tutto il mondo, ma in particolare con i ‘signori’: l’inurbamento ha risvegliato una confusa coscienza politica che ha sempre oscillato tra l’ossequio al partito dei lavoratori e una fede sostanzialmente cristiana. Visti da vicino, del resto, -la guardiola è un osservatorio sui generis- i signori risultano meno dignitosi di quanto si potesse pensare: non sono rari i tradimenti coniugali, le liti, le separazioni. Qualche famiglia vive, manifestamente, di traffici non del tutto chiari. Lo spaccato d’un campione qualunque della borghesia induce, nella famiglia di Miro, una reazione tipicamente moralistica: ‘loro’ sono poveri ma onesti.

Miro sviluppa precocemente una visione severa della vita, incentrata sul lavoro, sul dovere, sull’onestà, sul rispetto dell’autorità. Su di lui i genitori puntano le speranze di un riscatto sociale. Miro risponde a queste aspettative come può, comportandosi bene, primeggiando a scuola. Sviluppa, negli anni delle elementari, una vera e propria passione per lo studio e per le lettere. Ma, paradossalmente, questo comportamento non ottiene l’affetto sperato. Il padre di Miro ha potuto frequentare le scuole solo fino alla terza elementare, e sa a malapena leggere e scrivere, ma copre riottosamente questa inferiorità sostenendo che la vita insegna tutto e i libri niente. Dapprima entusiasta del rendimento scolastico di Miro, che dà i punti ai figli dei signori, ben presto comincia a manifestare una certa insofferenza per un modo di vivere che gli sembra strano: pur essendo ben inserito nella scuola, Miro, in effetti, preferisce stare in casa a leggere, piuttosto che uscire a giocare. Il padre comincia a contrastare questa tendenza, che gli sembra da "femminuccia": lo porta con sé all’osteria, vuole che impari a giocare a carte, che beva del vino dal suo bicchiere, che ascolti le battute e i lazzi, spesso osceni, dei suoi amici. Miro reagisce a questa violenza: l’osteria, le carte, il vino gli appaiono aspetti ‘volgari’ della vita. Si definisce un contrasto tra lui e il padre, che prende a stuzzicarlo, a sfotterlo, a deriderlo. La madre si schiera a favore di Miro con un atteggiamento protettivo: stando a casa, tra l’altro, il figlio allieva una solitudine penosa, quella tipica di una donna di paese sradicata dal suo contesto parentale e culturale. Il padre si sente tradito da questa alleanza: accusa la moglie si trattare il figlio come una femmina, di volerlo viziare. A undici anni Miro sviluppa una sorta di ‘esaurimento’: non ha più appetito e non rende a scuola, diventa magro e pallido come un cencio. Il padre vede in ciò l’avverarsi dei suoi timori: il troppo studio -lo ha ripetuto infinite volte- fa male al cervello.

Poco alla volta Miro si rimette. Il conflitto con il padre si riapre però intorno alla scacchiera: nel gioco della dama, Miro riesce costantemente a prevalere, ma il padre non ci sta. Impreca contro la sfortuna e lo accusa di avere in ‘culo rotto’. Da ultimo, si rifiuta di giocare e rimane rancoroso.

Miro va per la sua strada: studia, legge, sviluppa molteplici interessi culturali, frequenta sia le persone che l’associazione giovanile del partito comunista. Sviluppa un ideale di vita elevato, venato di un certo ascetismo adolescenziale. Lo scarto culturale rende anonimo e freddo il rapporto con il padre, che, non avendo molti strumenti per prevalere sul figlio nelle discussioni, le tronca mettendo avanti le sue esperienze di vita e trattandolo come un ‘mocciosetto’. Ai suoi occhi il figlio ha assunto l’aria di un ‘signorino’ saputello e presuntuoso, che pretende di conoscere tutto dalla vita, ma, in fin dei conti, a diciassette anni, non ha neppure la ragazza. Miro frequenta delle ragazze,va a ballare, riesce simpatico, ma, per principio, esclude di intrattenere rapporti sessuali. Terminate le superiori con esito brillante, Miro esprime il desiderio di frequentare l’università. Il rifiuto del padre è netto: lo accusa di essersi montato la testa, gli rinfaccia di averlo mantenuto fin troppo (lui ha cominciato a lavorare in campagna a nove anni) e lo rimprovera di voler continuare a vivere alle sue spalle. L’alleanza con la madre è ancora valida: è lei a passargli dei soldi per i piccoli consumi, a condividere i suoi programmi. Ma, espropriata com’è dall’amministrazione dello stipendio, più che tanto non può fare. Miro deve lavorare: questa necessità gli sembra che castri le sue possibilità di ascesa sociale. In questo stesso periodo, matura una delusione che conferma questo vissuto. Da circa un anno, Miro fa l’amore, ricambiato, con una ragazza che abita nel suo palazzo, figlia di un professore di liceo.

Venuto a conoscenza della cosa, questi allontana la figlia da casa, sistemandola presso una zia, e affronta Miro, consigliandoli di lasciar perdere. Il motivo, implicito, è chiaro: la differenza di classe.

Venendo meno due ‘illusioni’, Miro sente che il mondo gli cade addosso. Comincia a nutrire strane paure inerenti la sua identità sessuale: teme di non essere sviluppato normalmente, che il suo pene sia stato inesorabilmente danneggiato dalle masturbazioni. Confessa questo dramma personale al padre, che rimane sconvolto e lo fa visitare da uno specialista che rassicura entrambi. Le paure sembrano svanire. A ventuno anni Miro incontra la ragazza che diventerà sua moglie, e sperimenta con lei un rapporto sereno e sessualmente soddisfacente. A ventiquattro anni trova lavoro in fabbrica. L’inserimento non è facile: per la sua cultura e per i suoi interessi, Miro sente l’ambiente estraneo, volgare. La sua ammirazione è totalmente rivolta ai ‘capi’ ai dirigenti; per conseguire la loro stima lavora accanitamente e cerca di mantenersi in luce, pur sapendo che la sua carriera è limitata dal titolo di studio. Alcuni colleghi di lavoro giungono a considerarlo un ‘leccaculo’, disposto a ‘dare il culo’ ai padroni, pur di far carriera. Miro non si preoccupa di queste critiche, finchè l’infertilità non mortifica le sue capacità di difesa.

Queste note biografiche, pur estremamente sintetiche, possono permetterci di portare avanti il discorso. Cercheremo, anzitutto, di decifrare la struttura del disagio psicopatologico di Miro, in secondo luogo tenteremo di illuminare la genesi di questa struttura tenendo conto del sistema familiare, in terzo luogo cercheremo di evidenziare ciò che nell’esperienza di Miro, non è comprensibile né sul piano intrapsichico né su quello intersoggettivo, ciò che, dunque, rimanda all’inconscio sociale. Utilizzeremo, infine, questo ‘sintomo’ per tentare di decifrare struttura e genesi dell’inconscio sociale in questione.

La struttura del disagio psicopatologico di Miro è riconducibile ad un sentimento di inadeguatezza, di insufficienza, di inferiorità, che, inducendolo a sentirsi ‘piccolo’, promuove in ‘identificazione con l’adulto grande e potente. Quando l’identificazione si attiva, Miro, però, anziché viverla come un bisogno di crescita, è indotto a colpevolizzarla, e sentirla come espressione di una debolezza vergognosa: e, siccome essa riguarda figure maschili, a giudicarla infine come prova della sua omosessualità. Egli dunque deve reprimerla, occultarla: ciò lo condanna a rimanere in una condizione di inferiorità senza scampo, che, prima o poi, si esprimerà nuovamente in un bisogno di identificazione.

La struttura della follia di Miro è chiusa poiché i bisogni di crescita, cui si associa la speranza di diventare grande, quando si attivano, sono profondamente colpevolizzati e ritenuti espressione di omosessualità. Per crescere egli è condannato a sentirsi omosessuale, per affrancarsi da questo vissuto egli è condannato a rimanere ‘piccolo’.

Per quanto riguarda la colpa, che cristallizza l’esperienza di Miro, si può aggiungere qualcosa. Essa, infatti, sembra caratterizzata dalla natura invidiosa che assumono i bisogni di crescita: Miro si identifica con i suoi dirigenti, che sono laureati, e la cui potenza potrà mai essere da lui eguagliata. Questo scarto radicale, non gli consente che di invidiarla, di sviluppare cioè la fantasia di ‘rubarla’. Questa fantasia è funzionale a tenere in vita i bisogni di identificazione: senza di essa, Miro, cioè, dovrebbe arrendersi ad una condizione di subordinazione e di una minorazione permanente.

La genesi della struttura chiusa dell’esperienza di Miro è ricostruibile, almeno in parte, tenendo conto del sistema familiare.

L’impatto della famiglia di Miro, di origine contadina, con la cultura urbana ha avuto due conseguenze: da una parte, ha indotto, specie nel padre, una frustrazione sociale che ha alimentato sentimenti di riscatto e di ‘vendetta’;dall’altra, in virtù della presa di coscienza traumatica dei ‘vizi’ della società borghese, prima misconosciuti, ha prodotto un rafforzamento e un irrigidimento del codice morale, già tradizionalmente conservatore, proprio della cultura contadina. Ambedue queste conseguenze sono venute a pesare nello sviluppo psicologico di Miro, che si è sentito investito del ruolo di colui che deve rispondere alle aspettative di riscatto della famiglia nel rispetto, però, dei valori tradizionali di onestà, di rispetto dell’autorità, di saldezza morale. Questo ruolo Miro ha tentato di realizzarlo negli studi e nell’elaborazione di un ideale dell’ Io molto elevato. Ma ciò, paradossalmente, ha scatenato un conflitto con il padre, evidentemente legato a modelli patriarcali che impongono la subordinazione perenne dei figli. Sentendosi scavalcato, egli ha reagito in due modi: per un verso, squalificando l’impegno intellettuale di Miro, fino al punto di farglielo vivere, piuttosto che come valore, come segno di mollezza, di debolezza; per un altro, accentuando le caratteristiche maschilistiche della propria personalità e offrendole al figlio come modello da invidiare ma non eguagliabile. La crescita di Miro, vissuta come una minaccia al primato paterno, è giunta così in un vicolo cieco: miro è andato avanti da solo, crescendo intellettualmente, ma, dal punto di vista emozionale, non ha potuto identificarsi con la figura adulta. Lo scacco dell’identificazione giustifica il suo vissuto di inferiorità e gli attacchi invidiosi alla potenza del padre. Ma perché mai questi attacchi invidiosi sono colpevolizzati fino ad essere vissuti come prova do omosessualità? Qual è, in altri termini, il codice che traduce l’invidia del pene di un maschio in omosessualità? Il problema è risolto, semplicisticamente, se ci si rifà all’ortodossia freudiana: l’invidia del pene, da questo punto di vista, definisce una posizione tipicamente femminile.

L’assunzione di questo atteggiamento da parte di un maschio quale altra categoria definisce se non quella dell’omosessualità? Il problema si complica però se si tiene conto che, nel caso in questione, è il padre ad invalidare lo sviluppo del figlio, offrendoglisi come modello da invidiare,ma, evidentemente, in un modo che esclude e un atteggiamento femminile e il superamento di una posizione subordinata. A Miro, insomma, il padre impone di subordinarsi, ma con modalità che siano maschili e non femminili. Che senso ha questa imposizione? E a quale codice culturale essa appartiene?

Per rispondere a questo interrogativo, dobbiamo necessariamente esorbitare dal contesto intersoggettivo, dal sistema familiare. La relazione tra il padre e Miro si è svolta, all’interno di un quadro mentale che giustifica la subordinazione perenne del figlio al padre e, al tempo stesso, interdice l’invidia del pene, e cioè un tipo di subordinazione ritenuto passivo, proprio della donna. Questo quadro mentale struttura l’inconscio individuale del padre di Miro e si impone al figlio, che, infatti, lo usa condannandosi a non crescere. Ma qual è la sua coerenza interna e la sua matrice storica?

La subordinazione del figlio al padre serve a sancire che, all’interno di un nucleo familiare, il potere spetta solo al capofamiglia: il figlio non può contenderglielo, ma può aspirare ad acquisirne uno analogo nel momento in cui si sposa e mette al mondo dei figli. La sua subordinazione è perenne per quanto riguarda il rapporto col padre, non il potere, ch’egli, in virtù della sua identità, può acquisire. Questa subordinazione dunque è radicalmente diversa rispetto a quella femminile, che è e deve essere passiva, e cioè non può in alcun modo contendere il potere al maschio. Il codice in questione comporta dunque una gerarchia che può essere esemplificata dallo schema seguente:

Padre

-------------------------------

figli maschi

--------------------------------

Madre

---------------------------------

figlie femmine

 

La linea di scissione ordina l’universo umano in due sfere: la sfera maschile, che è quella del potere, e all’interno della quale la subordinazione del figlio non esclude l’accesso al potere, purchè ciò avvenga in virtù della formazione di un nuovo nucleo familiare; la sfera femminile, che è quella della subordinazione totale, che esclude ogni possibilità di accesso al potere.

Questo codice culturale ricava il suo vigore dal fatto di risultare naturalizzato: anziché un certo ordinamento sociale, esso infatti intende definire e sancire uno stato di natura.

All’interno di questo codice - morale, sociale e simbolico - la situazione del bambino maschio è precaria, poiché, naturalmente, egli ha delle caratteristiche in comune con l’universo simbolico femminile -la dipendenza, la debolezza, l’impotenza-, ma la sua identità biologica lo assegna di diritto al campo simbolico maschile. Sicché, anziché far maturare la sua ‘debolezza’ fino a risolverla, egli è impegnato precocemente a lottare contro di essa, per conseguire al più presto un identità psicologica adeguata a quella biologica. E’ evidente che questo codice, come deve far pesare al bambino la sua condizione di ‘donnicciuola’ così non può che stigmatizzare e reprimere in tutti i modi le fantasie invidiose che, non arrendendosi alla subordinazione, e osando tradursi nell’invidia del pene, esprimono un disordine contro natura, e devono dunque risultare disgustose e infamanti. Se esse infatti fossero riconosciute come naturali, e funzionali alla crescita, tutto l’ordinamento –sociale e simbolico- che si regge sulla rigida scissione maschile/femminile sarebbe minacciato.

La rigidità del quadro mentale in questione non può non tener conto di circostanze particolari, come quella di Miro, spinto, contemporaneamente, a subordinarsi al padre e a superarlo. La necessità della subordinazione è, nell’economia del quadro mentale, più forte, sicché l’istanza di crescita, che rischia di minacciarla, va patologizzata: e ciò è possibile solo a patto che Miro sia indotto a invidiare il padre, e riconoscere lo scarto radicale tra la sua inferiorità e la superiorità di quello. Ma, a tal fine, è anche necessario che egli assuma una posizione femminile: perché l’ordine del quadro si mantenga, egli deve condannarsi. Ha osato, né più né meno, sfidare il padre: ed è giusto che paghi il prezzo della colpa in termini di castrazione. Ciò, come si è visto, è avvenuto a vari livelli: sul piano di realtà, sotto forma di castrazione del suo desiderio di laurearsi e di delusione sentimentale; sul piano intrapsichico, sotto forma di dubbi sulla propria identità virile, e, infine, di delirio persecutorio.

Ma, infine, non basterebbe riferirsi all’Edipo per spiegare l’esperienza di Miro? L’Edipo, che, nella forma, comporta la capacità di rinunciare come fondamento della moralità, nella realtà storica può funzionare come alibi ideologico, atto ad imporre rinunce ben più radicali rispetto a quelle necessarie per accedere alla convivenza sociale. Miro non deve rinunciare alla madre, deve - tout court - rinunciare a crescere, perché la sua crescita minaccia un ordine che, comunque, va confermato. Anche a prezzo della follia.

 

 

Appendice. La struttura delirante

P. è una ragazza di ventotto anni, letteralmente murata viva nel suo delirio da dieci anni. La storia dell’esperienza delirante, ridotta all’essenziale, è semplice e fatale: dieci anni prima, in un periodo di atroce solitudine affettiva, P., uscendo di chiesa, fa gli ‘occhi dolci ’ad un ragazzo. Questi rimane sedotto, in vitrù d’un colpo di fulmine, e comincia a seguirla assiduamente. La seduzione si ripete più volte, finché P. scopre di non amare affatto il ragazzo. Dunque, lo ha preso in giro. Comincia ad essere accusata, rimproverata ed umiliata da tutti. Ha finto: e, per coprire la colpa, deve continuare a fingere. Potrebbe risolvere questa situazione solo in virtù di un chiarimento. Ma ciò è impossibile: ché il ragazzo, offeso, aspetta che sia lei a prendere l’iniziativa, ma lei non può farlo perché lo riconosce solo da lontano. Da vicino, è paralizzata dalla paura di sbagliare, di scambiare ‘lui ’ per qualcun altro.

Non può dunque fare nulla: ma la gente non ci crede. I rimproveri, i giudizi pesanti, le ingiurie piovono ormai da ogni parte. Il circolo è chiuso: i ‘ personaggi’ sono cristallizzati in ruoli che si ripetono all’infinito.

La struttura del delirio va analizzata a vari livelli. Ad un primo livello, si tratta di una storia d’amore ‘fatale’: dopo dieci anni, il ragazzo continua a seguirla ovunque, ad aspettare un suo cenno. E’ dunque ancora innamorato, e perdutamente. A questo livello, è chiaro che la struttura del delirio soddisfa il bisogno di P. di essere amata, di essere, per qualcuno, il centro del mondo. Ad un secondo livello, è la storia di un amore nato da una colpa -la seduzione- e che non può realizzarsi: ogniqualvolta P. tenta di avvicinarsi al ragazzo, la sua vista si confonde, ed essa è paralizzata dalla paura di buttarsi nelle braccia di un estraneo. Questa paura ha un contenuto specifico: P. teme che un qualunque ragazzo, che non sia il ‘suo’, possa ‘farle la festa’, infrangere la sua verginità. Solo di ‘lui’ è sicura, perché chi ama tanto non fa violenza. Ma, non potendolo riconoscere, deve arrendersi al fatto che la sua verginità è consacrata a colui con il quale non potrà mai venire a contatto. Ad un terzo livello, è la storia di un amore colpevole assoggettata perpetuamente al giudizio di un mondo che non comprende, e quindi giudica severamente e impietosamente il comportamento di P., ritenendola una ‘maliarda’.

La struttura del delirio si articola quindi su tre ruoli: P., soggetto colpevole e innocente al tempo stesso, ingenua seduttrice che, senza volere, ha avviato una storia che non le concede scampo; il ragazzo, vittima della seduzione, perdutamente e cronicamente innamorato, chiuso, però, nel suo ruolo di amante offeso e umiliato; gli altri che giudicano dall’esterno, adottando categorie oggettive implacabili e senza sfumature.

Si tratta, in ultima analisi, di un delirio erotico sotteso da un sentimento di colpa atroce, e la cui cristallizzazione serve, senza dubbio, a scongiurare la possibilità di una violazione della verginità. Esso esprime, dunque, un desiderio, il più naturale dei desideri –il desiderio di un uomo- inibito nella meta da un valore che ne impedisce la realizzazione.

 

Un Sogno

Un sogno esemplare ci fornisce elementi per comprendere le dinamiche che sottendono la struttura delirante cristallizzata. Nel sogno P. è finalmente con il ragazzo: è il giorno delle nozze, ed essi si accingono a celebrarlo nella casa della nonna. Sulla soglia della camera da letto, ove P. trascorreva le vacanze estive con i genitori, il ragazzo scompare. P. vede nell’ombra avvicinarsi la sagoma di un uomo: preda di un ardente desiderio si spoglia. L’uomo le si avvicina, eccitato: P. riconosce suo padre.

La sostituzione ci riconduce ad una indiscutibile ‘fissazione’ edipica. P. rievoca di aver visto i suoi far l’amore in quella stanza, e di essersi eccitata. Una traccia di questa ‘fissazione’ persiste nel presente: ancora adesso P., quando il padre le è vicino, si sente eccitata. Ma -ovviamente –prova per ciò un tremendo fastidio, un vero e proprio disgusto.

Il sogno ci permette di ricostruire la genesi remota del delirio. P., come tutte le bambine, deve aver provato attrazione per suo padre, e deve aver desiderato di sedurlo. Deve, al tempo stesso, aver fantasticato che, se la madre fosse venuta a conoscenza di ciò, l’avrebbe severamente rimproverata. Svelandosi il segreto, la ‘madonnina’ sarebbe risultata null’ altro che una ‘puttanella’, una ‘seduttrice’, una ‘ladra di uomini ’. Quest’ipotesi è avvalorata da due episodi adolescenziali, accaduti precedentemente l’avvio del delirio. In classe, P. con gli ‘occhi dolci’ aveva rubato il fidanzato ad un’amica.: e, per qualche mese, aveva dovuto subire il muto rimprovero di tutti i compagni. Poco dopo, si era convinta di aver sedotto suo zio, fino al punto di credere che questi ipotizzasse di separarsi dalla moglie per stare con lei. Aveva avuto però il coraggio di rivelare quest’atroce dubbio: e, di fronte all’atteggiamento rassicurante e comprensivo degli zii, la cosa era finita nel nulla.

 

L’elemento superegoico nel delirio.

Il delirio di P. è un delirio di colpa: P. si sente al centro di un tribunale, che l’accusa, la offende, le rivolge di continuo innumerevoli rimproveri. E’ evidente la ‘proiezione’ dell’istanza superegoica. P. per suo conto, dice di non sentirsi affatto in colpa: essa sa di aver agito in modo innocente, inconsapevole, e di non aver avuto alcuna intenzione di far nulla a chicchessia.

L’innocenza soggettiva di P. e la marcata ‘esternalizzazione’ del sentimento di colpa ci riconducono a fasi precoci dello sviluppo. Di fatto P. non ha vissuto la sua attrazione per il padre e il desiderio di sedurlo in termini colpevoli: la ‘cosa’ è risultata mostruosa solo quando P. deve aver fantasticato le conseguenze che sarebbero sopravvenute se il segreto fosse stato scoperto.

Questa ‘esteriorizzazione’ si può interpreatare in due modi: o dandole un significato difensivo, nel senso che attribuendo agli altri il suo atroce sentimento di colpa P. trova modo, almeno soggettivamente, di alleviare la tensione superegoica e di continuare a sentirsi innocente; o presumendo che essa, pur funzionando difensivamente, abbia anche un significato genetico. Che riproduca cioè le fasi più precoci di sviluppo del Super-Io, la cui origine è all’esterno, e cioè nel Super-Io delle figure parentali.

 

Genesi del Super-Io

Il dilemma ripropone il problema della genesi del Super-Io. E’ noto che Freud riconduce tale genesi all’introiezione delle figure parentali, e, in particolare, del loro Super-Io. E’ altrettanto noto che la Klein, precocizzando tale genesi, la riconduce alla percezione terrificante della propria distruttività: sicché il Super-Io entrerebbe in funzione per tutelare l’oggetto buono all’interno e all’esterno di sé.

Qualche considerazione sulla struttura delirante di P. può aiutarci a risolvere questa contrapposizione teorica e, posto che si possa accreditare l’una piuttosto che l’altra, ad approfondirla in termini analitici.

Consideriamo i capi di accusa che menano P. nella sua condizione di condannata a vita. Terremo conto, nell’elencare tali capi d’ accusa, di estrapolarli non solo dal delirio, ma da tutta l’esperienza soggettiva di P.

Dunque: P., ha un aspetto da madonnina, ma, in realtà, è una puttanella, una ‘ladra d’uomini’, una seduttrice, una maliarda che con gli occhi può far perdere la testa ad un uomo, ma è pure un ingannatrice, una che, per sedurre, finge di essere appassionata, ma, in effetti, non prova nulla. Sono tutti capi d’accusa che si fondano su giudizi di valore; e, dunque, è importante far emergere questi giudizi, e le logiche che li sottendono. Il primo postula che l’aspetto esterno debba corrispondere a quello interno; il secondo che l’uomo sia una proprietà privata, e, per di più, una sorta di ‘oggetto’ trafugabile; il terzo, che le donne, almeno alcune di esse, posseggono un potere di seduzione la cui intensità misura la vulnerabilità degli uomini, o di alcuni di essi; il quarto, che sedurre un uomo senza amarlo sia un inganno, e configuri una colpa enorme.

Si tratta, nel complesso, di giudizi di valore che fanno capo ad un reticolo logico inerente il rapporto uomo/donna, che, senza sforzo, si può configurare come una vera e propria ‘struttura mentale’.

Quanto alla donna, questa struttura contrappone due ‘polarità’: la donna ‘madonnina’, ingenua nell’aspetto e nell’interiorità, rispettosa dei legami altrui, timorata (che non guarda in faccia agli uomini..), sincera nei suoi sentimenti; e la ‘puttanella’, ingenua, casomai nell’aspetto, ma tremendamente pericolosa, non rispettosa di alcun vincolo, ‘spietata’ e falsa.

Quanto all’uomo, la struttura mentale sembra più povera: l’uomo è debole e vulnerabile, è un oggetto la cui proprietà, per essere esso vulnerabile, è sempre incerta, è infine uno che si lascia ingannare, sedurre e prendere in giro. Non ci preoccupiamo, qui, di ricostruire la genesi culturale di questa ‘struttura mentale’. Diciamo solo che essa si articola intorno alla polarità della donna angelicata e della maliarda, e che queste polarità, con le quali si confronta la vulnerabilità degli uomini, decidono della stabilità o meno dei legami, e, in ultima analisi, dell’integrità della famiglia, che è assicurata dalla donna angelicata e minacciata perpetuamente dalla maliarda.

Se torniamo alla struttura del delirio di P., è evidente che la sua genesi è riconducibile all’Edipo: all’aver P. avvertito la pericolosità dei suoi attacchi al legame parentale dai suoi desideri rivolti al padre. Ma è anche vero che questo urtare dei desideri edipici di P. contro il principio di realtà rappresentato dal legame parentale, non ci permette di ipotizzare che una confusa angoscia di colpa. E che per spiegare il fatto che quest’angoscia si sia strutturata in un ‘quadro’ mentale così complesso ed articolato, occorre tener conto di fattori culturali quali il pregiudizio dell’innocenza infantile, la concezione proprietaristica dei legami uomo e donna, l’attribuzione alla donna di un perfido potere di seduzione e, agli uomini, di una fatale vulnerabilità. Tra l’angoscia di colpa, che P. può aver provato per i suoi desideri edipici, e il delirio, c’è di mezzo un ‘quadro’ mentale che P. non può aver prodotto, ma solo aprreso culturalmente. Un quadro mentale che è anche un codice di moralità.

 

Il codice in questione

Si tratta di un codice singolare, che attribuisce all’uomo solo la vulnerabilità, la debolezza, una tendenza naturale al cedimento, e alla donna il potere di amministrare questa debolezza: soccorrendola e tutelandola, in virtù del vincolo coniugale, se essa è virtuosa; sfruttandola ed esasperandola, se essa è disonesta. Codice singolare, ancora, poiché esso postula un fondamentale a-morale dell’uomo: sicché il problema della moralità ricade tutto dall’altra parte, dalla parte della donna, la cui virtù introduce nel mondo dei rapporti uomo/donna l’ordine, la cui massima espressione è la struttura familiare, e la cui disonestà introduce il disordine, minacciando ogni stabilità o, addirittura, disintegrandola. Un codice, in fondo, maschilista, se è vero che esso deresponsabilizza l’uomo, e delega la donna a risolvere, col suo comportamento, il problema della moralità. Un codice maschilista, anche, che impone alla donna onesta di non far nulla per attrarre gli uomini: di esibire solo le sue virtù, e discretamente, attendendo di essere scelta.

Per gli storici non dovrebbe essere difficile definire la genesi e la funzione socio-culturale di questo codice, che appartiene certo ad una tradizione di lunga durata, se è vero che, ancor oggi, nei casi di violenza carnale, qualcuno ritiene inconcepibile che l’accaduto non comporti una qualche responsabilità morale della vittima…

 

L’introiezione del codice

Colpevolizzata angosciosamente dai suoi desideri edipici e dai suoi attacchi al legame parentale, P. ha introiettato un codice culturale estremamente mortificante. Dovrebbe essere ovvio che è questo codice, e non qualche colpa, la causa del suo delirio. Ciò è di importanza fondamentale, poiché mette in discussione due capisaldi della teoria psicoanalitica: il concetto di ‘fissazione’, e l’ipotesi secondo cui al periodo edipico subentra una fase di latenza che si risolve nella riedizione dell’Edipo in età adolescenziale. Ambedue questi capisaldi servono a sostenere una genesi meramente intrapsichica del disagio psichico. Se teniamo conto di quanto detto finora, è evidente che il ‘quadro’ mentale che sottende il delirio di P., e che fa capo ad un codice morale ben identificabile, è e non può essere che un prodotto culturale: il che vale a dire che P. non può averlo appreso ed utilizzato intrapsichicamente, che nel periodo di latenza. E, inoltre, che, dando per scontata una ‘fissazione’ edipica, ciò che ha cristallizzato questa fissazione è l’apprendimento del codice.

Nella storia di P., c’è un episodio che comprova ciò. Prima che si avviasse l’esperienza delirante, P., uscendo dal suo consueto isolamento dovuto alla timidezza, partecipò ad una festa da ballo e fece colpo su un ragazzo. Questi tentò, per qualche tempo, di corteggiarla, ma P., chiusa nel suo ruolo di donna ‘onesta’, lo rifuggiva, teneva gli occhi bassi, non dava alcun cenno d’interesse. Il ragazzo si scoraggiò e cedette. P. cadde in una vera e propria disperazione, dalla quale uscì solo grazie alla seduzione immaginaria che avviò il delirio.

 

La soluzione impossibile.

Il delirio di P. rappresenta la soluzione impossibile di una serie di problemi. In virtù di esso, P. realizza ambedue i ruoli riconosciuti dal codice: agli occhi degli altri è una maliarda, una seduttrice e un’ingannatrice; ai suoi, è innocente, onesta e ingiustamente accusata. Ma sono ruoli realizzati parzialmente: nonostante la sua onestà, essa ha sedotto un ragazzo. Questo le assicura un amore destinato ad accrescersi nel tempo, piuttosto che a deperire (come è proprio di tutti gli amori..). Ma, al tempo stesso, non potendo essa venire a contatto con il ragazzo, si tratta di un amore perfettamente ‘spirituale’, che le consente di rimanere oggetto di un intenso desiderio ma vergine. Il mondo che la circonda, del suo Super-Io, è severo e cattivo nei suoi confronti: ma ciò accade perché esso non comprende che, se è vero che ingenuamente, essa ha sedotto un ragazzo, e se dunque non ha potuto reprimere un desiderio, è altrettanto vero che essa non ne ha ricavato altro utile che quello di sentirsi amata a distanza. E lo svantaggio di sentirsi umiliata e rimproverata quotidianamente: per uno sguardo…

 

Conclusioni

La struttura del delirio di P., riconducibile a tutta prima ad una angosciosa fissazione edipica, ha una complessità che esclude un’interpretazione in termini intrapsichici. Per un verso, infatti, esso pone in luce la difesa dell’Io, ottenuta proiettivamente, dagli attacchi di un Super-Io sadico e mortificante. Ma, per un altro, questo stesso Super-Io si rivela strutturato secondo un codice di moralità ben definibile in termini socio-culturali. Si può dire, anzi, che senza di esso, il delirio non prenderebbe ‘forma’. Occorre dunque ammettere, al di là di un’inequivocabile ‘proiezione’edipica, un apprendimento del codice, avvenuto presumibilmente nel periodo della latenza, il cui effetto è stato quello di fissare definitivamente l’Edipo e di non concedere al soggetto alcuno sbocco se non il delirio. Se ciò è vero, la stessa teoria dell’Edipo va storicizzata. Che, se la proibizione dell’incesto è una legge universale, ciò è riconducibile al fatto che essa rende obbligatorio lo scambio e la comunicazione tra famiglie e gruppi in ogni società (secondo l’interpretazione di Levi-Strauss). Essa, cioè, è piuttosto una legge sociale che non morale. Laddove essa funziona come legge morale, atrocemente colpevolizzante, occorre interpretarla come elemento di una struttura di moralità prodotta storicamente e che riguarda, in toto, il ruolo dell’uomo e della donna, i loro rapporti, la sessualità. Contestualizzato, l’Edipo assume la sua importanza: ma il discorso sulla genesi del disagio psichico non può prescindere dalla struttura inconscia socio-storica del sistema all’interno del quale si manifesta.