Bisogni umani, strutture sociali e codici mentali


L'esigenza di questa nota corrisponde ad un debito metodologico contratto con l'avvio stesso della ricerca. L'intento della ricerca - la possibilità di fondare una nuova scienza del disagio psichico immune dal rischio del riduzionismo (organicista, psicologista, sociologista) -, dato il suo oggetto - i fenomeni psicopatologici -, non si è mai associata all'illusione di poter pervenire a delle conclusioni spogliate di ogni valenza ideologica. Se oggi nessuna scienza può pretendere di essere assolutamente obiettiva (è luogo comune ormai citare Popper: "tutte le descrizioni scientifiche di fatti sono estremamente selettive e dipendono da una teoria"; "la teoria può essere definita come la cristallizzazione di un punto di vista"; "nessuna teoria è conclusiva e ogni teoria ci aiuta a selezionare e ad ordinare i fatti"), tanto meno può pretenderlo una scienza il cui oggetto sono i fatti umani. Questi, infatti, possono sì essere oggettivati - basti pensare alle scienze umane e sociali che si ispirano ad una metodologia positivista - , ma non estraniati: l'antropologo più etnocentrico, lo psichiatra più tradizionalista non possono ignorare che l'oggetto della loro ricerca concerne degli esseri appartenenti, almeno, alla loro stessa specie.

L'effetto di distorsione che comporta, nell'ambito delle scienze umane e sociali, l'identità di soggetto e di oggetto può essere affrontato in modi molteplici. Il modo che io ho scelto anticipatamente è stato quello di esplicitare i presupposti ideologici cui si ispirava la ricerca: i presupposti antropologici, psicologici e sociologici. Non mi si rimproveri di pedanteria, se li denuncio ancora come postulati in sé e per sé inverificabili.

Quanto alla "natura umana", l'assunto teorico di fondo è che essa è libera da rigidi controlli istintuali (l'istinto di conservazione, l'unico che si può ammettere ragionevolmente, essendo, riferito ad un essere vivente, una tautologia), e dotata pertanto di un potenziale plastico incommensurabile a qualunque altra specie animale. Nel contempo, questa plasticità non sembra informe, riconoscendo, come "organizzatori", i due bisogni fondamentali di appartenenza/integrazione sociale e di opposizione/individuazione.

Questi bisogni, che ritengo geneticamente determinati (e, in ciò, la teoria struttural-sialettica è più radicale rispetto a quella marxiana), appaiono univocamente orientati verso la relazione con l'altro, a partire dal loro porsi originario sotto forma di "condanna ad amare", e cioè di investimenti relazionali affettivi assolutamente necessari. Se si dà valore a questo aspetto, che sottolinea la tendenza propria della natura umana ad esprimersi e a realizzarsi in virtù di legami significativi con altri esseri umani, e si prescinde dal dare ad esso solo un carattere strumentale, dovuto alla condizione di impotenza e di dipendenza infantile, è lecito sostenere che la natura umana veicola una radicale socialità, e che il suo prendere forma in rapporto alle interazioni ambientali dipende da come l'ambiente si pone nei confronti di ciò.

E' l'interazione tra natura umana, con il suo corredo di bisogni, e l'ambiente a definire, infatti, la costruzione e la struttura della personalità. Riguardo a ciò, il presupposto ideologico cui ho fatto riferimento è che la definizione della personalità non sia riducibile a livello di interazioni psicologiche. Ogni ambiente familiare, infatti, o, in senso più lato, pedagogico, in quanto costituito da soggetti storici, veicola, oltre che le qualità (e i difetti) personali dei soggetti, modi di vedere il mondo e di significare la vita che incidono immediatamente a livello sia d'allevamento che di educazione del bambino. D'altro canto, la concezione attiva della natura umana porta ad escludere che la costruzione della personalità avvenga in virtù di un'impronta. Da questo punto di vista, ciò che appare decisivo è il modo in cui ogni bambino registra le aspettative dell'ambiente e si adatta attivamente ad esse. Usando la terminologia piagetiana, si potrebbe dire che l'accomodamento, in quanto sforzo attivo del soggetto di modellarsi in rapporto alle condizioni ambientali, cos" come esprime il grado di plasticità individuale (e quindi di ricchezza potenziale) può dar luogo allo strutturarsi di una personalità più o meno alienata per quanto riguarda i bisogni fondamentali.

Ciò che appare decisivo sotto il profilo psicologico, e cioè della soggettività, è, per l'appunto, il grado di alienazione e/o di integrazione dei bisogni fondamentali. L'adattamento della personalità, sino all'adolescenza, è un indice apparente, al di sotto del quale possono darsi condizioni diverse: ampiamente evolutive o già alienate al punto tale da non poter interagire attivamente con gli ulteriori ambienti nei quali il soggetto si inserisce.

A livello cosciente, l'alienazione dei bisogni fondamentali non appare mai. Con l'adolescenza, che, a mio avviso, è lo snodo fondamentale di ogni vicenda umana, ciò che interviene è un processo di ideologizzazione: l'esperienza microstorica privata viene, al tempo stesso, utilizzata e rimossa in virtù del definirsi di una visone del mondo totalizzante, in rapporto alla quale il soggetto progetta la sua vita. Questo processo, sulla cui importanza non si rifletterà mai a sufficienza, comporta l'adozione di categorie ideologiche che il soggetto non produce da sé, ma che adotta dall'ambiente, e che utilizza per tendere verso la realizzazione di valori nei quali vede la possibilità di soddisfare i bisogni fondamentali. E' a questo livello che l'interazione sociologica, intesa in senso proprio, assume il massimo significato: ché le categorie che il soggetto adotta - libertà, felicità, prestigio, socialità, amore, ecc.- possono risultare più o meno astratte in rapporto alla sua concreta esperienza microstorica.

Non si rifletterà mai abbastanza su questo aspetto, in virtù del quale ogni soggettività si modella su autentici valori la cui forma storica può risultare astratta per due versi: in sé e per sé, in rapporto ai bisogni fondamentali della natura umana (per esempio, la costrizione della tendenza attiva a godere il mondo entro le forme del consumo passivo dei beni); in maniera specifica, e cioè in riferimento ad un'esperienza particolare, perché quella forma trascura del tutto i dati concreti dell'esperienza (un esempio di ciò può essere l'autoimposizione di abbandonare la famiglia come prova della propria maturità ed indipendenza, che si attiva nonostante una persistente dipendenza e una cronica carenza di relazioni extrafamiliari).

La componente ideologica che caratterizza, all'interno di ogni esperienza soggettiva, la percezione dei bisogni fondamentali e la progettazione di sé non può essere ricavata - ed è questo un ulteriore presupposto della teoria struttural-dialettica - dal piano psicologico né soggettivo né interpersonale. Essa attesta, infatti, la potenza catturante dei codici mentali normativi, la cui funzione è di coprire l'inadeguatezza delle strutture reali - economiche e sociali - in rapporto ai bisogni umani. Che essa si eserciti massimamente nelle esperienze che queste inadeguatezze hanno sperimentato con maggiore intensità, entro spazi anche ma mai solo psicologici, è una dato di enorme interesse.

Questo dato, infatti, rivela che, mentre a livello ideologico collettivo, la funzione dei codici mentali è di tener lontana la coscienza sociale dalla possibilità di una percezione critica del reale, a livello individuale, soggettivo, la loro funzione è di psicologizzare esperienze di vita, confinandole entro spazi di elaborazione microstorica e di progettazione che non comportano che due possibilità: o l'accesso alla normalità cos" come essa si pone all'interno del contesto sociale, o l'imbocco del vicolo cieco psicopatologico alla ricerca di valori che il soggetto vive come propri, ma che sono null'altro che il ricatto che la normalità opera su esperienze espropriate dal potere reale di interagire attivamente con il mondo.

Questi presupposti, a mio avviso, possono permettere di fondare una nuova scienza del disagio psichico che non ha bisogno di mettere tra parentesi la soggettività per sfuggire il rischio dello psicologismo o la relazionalità microsistematica per sfuggire al rischio del sociologismo. L'oggetto di questa nuova scienza è il disagio cos" come esso affiora e si pone immediatamente: come denuncia soggettiva o, al limite, come rilievo di anormalità da parte degli altri. A partire da questo dato, quella scienza si impegna in un processo di liberazione che ne restituisce il senso autentico e univoco in termini di alienazione microstorica dei bisogni fondamentali, resa non dialettica, e dunque strutturata, dai codici mentali ai quali il soggetto fa ricorso per perseguire la realizzazione di quei bisogni nonostante la loro alienazione.

La soggettività, e dunque l'esperienza psicologica, è il livello da cui muove la nuova scienza del disagio psichico, riconoscendo in essa una mortificazione della concreta storia dell'individuo nel mondo: ma una mortificazione che non si può porre tra parentesi, poiché essa è depositaria del capitale microstorico, e cioè del rapporto tra bisogni fondamentali, ambiente sociale e codici mentali, senza il cui investimento non si dà liberazione. Liberazione, salute, potere reale sul mondo interno e su quello esterno sono, da questo punto di vista, termini equivalenti.

Detto ciò, il problema della scientificità della teoria che si sta elaborando rimane in sospeso. Anche l'eventuale efficacia della teoria non varrebbe come prova di scientificità: in ultima analisi, i soggetti disagiati potrebbero avere i loro motivi per convalidare guarendo -una teoria che, sostanzialmente, ridona dignità e valore alle loro esperienze (compresi gli errori, le cattiverie e la distruttività). E dunque? Secondo Popper, la scientificità di una teoria consiste nel trovare in essa un punto debole, in breve nel confutarla. Da ora in poi, l'impegno non può essere che questo.