Appunti sulla ricerca


1.

Una rilettura del materiale elaborato sinora impone un bilancio critico della ricerca. Nella consapevolezza del rischio ideologico che corre qualunque teorizzazione il cui oggetto siano i fatti umani, si tratta di valutare in quale misura quel rischio si è realizzato o è stato scongiurato. Ogni teoria ambisce offrire una chiave di lettura della realtà. Per questo aspetto, la ricerca portata avanti sonora sembra peccare per eccesso: è difficile, infatti, negare che essa offre una chiave di lettura dei fenomeni psicopatologici che sembra strutturata in maniera tale da risolvere ogni problema teorico. E' proprio questo eccesso di coerenza interna che può destare delle preoccupazioni, poiché è fuor di dubbio che esso deriva dalla rimozione di qualche difficoltà. Una teoria non può non semplificare: la realtà, non di meno, rimane complessa. Lo scarto tra teoria e realtà rappresenta il punto su cui la critica deve far leva per produrre altre verità. Con questa nota, tenterò di ripercorrere il tragitto della ricerca, per mettere in luce la dialettica interna del discorso, e, successivamente, per promuovere una serie di puntualizzazioni, il cui scopo è di alimentare la riflessione.

2.

La relazione "Colpa, follia, liberazione", elaborata l'anno precedente l'avvio della ricerca, formulava un'ipotesi sulla genesi e sulla dinamica del disagio psichico che ha rappresentato il nucleo di partenza della ricerca stessa. L'ipotesi muoveva dall'intuizione freudiana (abbandonata, purtroppo, alle ortiche) secondo la quale il disagio psichico, comunque si manifesti, è sempre espressione di più o meno intensi sensi di colpa, e cioè della logica mortificante e alienata di istanze morali agenti nel soggetti parassitariamente. Freud non ignorava l'origine sociale di queste istanze introiettate nel corso della fase evolutiva in virtù dell'autorità dei genitori, veicoli essi stessi di codici morali tradizionali. Ma le fantasie immorali, anarchiche e trasgressive che affioravano nella trama delle esperienze soggettive, lo indussero ad ammettere, all'origine dei sensi di colpa, un rifiuto dei soggetti di accettare il principio di realtà e di rinunciare all'infinità libertà dei desideri. Questo rifiuto avrebbe, sì, preservato la natura umana dalla regressione della civiltà, ma lasciandola allo scoperto, come caos di impulsi, passionali feroci bestiali.

La debolezza dell'argomentazione freudiana consisteva nel non cogliere il paradosso della coesistenza, all'interno delle strutture di esperienze del disagio psichico, di una natura selvaggia e di codici morali di implacabile rigore. Risolto logicamente, il paradosso avrebbe portato ad ammettere che proprio i soggetti più docili all'introiezione dei codici morali sarebbero stati i più ribelli alle esigenze della moralità. L'ipotesi avanzata nella relazione citata tentava di risolvere questo paradosso sostituendo alla presunta fissazione un processo più articolato e dinamico in tre tempi: l'introiezione precoce dei codici morali, l'effetto mortificante sullo sviluppo della personalità sperimentato nel corso della fase di latenza, e, infine, il tentativo dei soggetti di correggere quest'effetto in virtù di una ribellione rabbiosa, che, attivando fantasie trasgressive ed anarchiche, avrebbe finito per intrappolarli nei sensi di colpa.

Quest'ipotesi offriva, ad una considerazione critica, due punti deboli. Il primo consisteva nell'assumere, come causa dell'introiezione, la pressione sociale dei codici morali, e in particolare il modo rigido e autoritario in cui essi sarebbero stati proposti o imposti. In pratica, l'introiezione veniva assunta come espressione di una violenza perpetrata dalle istituzioni pedagogiche sui soggetti nelle fasi evolutive della personalità. La debolezza di questa concezione meccanicistica dell'introiezione era di lasciare insoluto il problema del diversificarsi dell'esperienza umana in contesti socio-familiari identici od omologabili, e di rendere del tutto incomprensibili le esperienze di disagio nella cui ricostruzione storica non fossero individuabili violenze pedagogiche.

Il secondo punto debole consisteva nell'enfatizzare, come causa precipitante del disagio una ribellione soggettiva agli effetti mortificanti dei codici morali, di cui non si forniva un'adeguata giustificazione, e che pertanto induceva ad ammettere una sorta dì consapevolezza critica del carattere repressivo di quei codici, smentita dalla forma di liberazione - fantastica o comportamentale - adottata, di carattere meramente oppositivo, trasgressivo e anarchico.

3.

Se si ripercorre l'itinerario della ricerca, risulterà evidente che l'ipotesi originaria è stata corroborata, e che i problemi ch'essa lasciava aperti hanno trovato entrambi una risposta critica. L'introiezione dei codici morali risulta, ormai, un processo dovuto a due variabili: le pressioni educative per un verso, e la sensibilità morale dei soggetti per un altro. Quanto a questa qualità, che definisce il potenziale di educabilità, molto si è detto. Forse il concetto più importante è che essa è e non può essere che direttamente proporzionale alla ricchezza del corredo dei bisogni originari, e, di conseguenza, alla tensione dialettica che li anima. Posto ciò, è facile comprendere che codici morali non dialettici, che propongono formule di normalità mediocri, incidano su soggetti con un corredo di bisogni particolarmente ricco piuttosto che su altri.

Quanto al secondo problema, è ormai ovvio che esso amplifica il paradosso di una ricchezza che si traduce in miseria. Dotati di una spiccata sensibilità morale, i soggetti destinati al disagio psichico investono questa ricchezza nel modellarsi, con un rigore estraneo agli altri, sui codici morali che vengono offerti dall'ambiente, e che questo processo diventa sempre più attivo e personale - nel senso di relativamente autonomo rispetto all'ambiente - nel corso della fase di latenza. Ma, alla conclusione di questo processo, dall'adolescenza in poi, essi sono esposti al rischio di scoprire che l'impegno autoeducativo non li ha affatto predisposti a vivere come esseri autonomi e capaci di relazione, bensì li ha mortificati, rendendoli e dipendenti e ribelli ai legami.

E' questa scoperta traumatica che promuove un nuovo investimento della ricchezza della personalità o nella direzione di una orgogliosa conservazione del proprio modo di essere, rafforzato da una razionalizzazione ideologica, o nella direzione di una brusca rivoluzione - fantastica o comportamentale. Ambedue questi tentativi di soluzione del problema di come si debba vivere producono un'ulteriore alienazione dei bisogni fondamentali. La trappola psicopatologica scatta per impedire che il soggetto si alieni definitivamente, e il senso di colpa funziona, paradossalmente, come un fattore di autoregolazione, per impedire o che l'individuazione si traduca in una totale chiusura rispetto al mondo o che l'integrazione sociale si realizzi secondo modalità dispersive e alienanti . In altre parole, il senso di colpa assicura un equilibrio strutturale minimale destinato a durare se il soggetto si arrende a vivere sul registro nevrotico, e ad evolvere se il soggetto, tentando di modificarlo bruscamente, si destina ad una destrutturazione-ristrutturazione psicotica.

4.

Il corpus teorico elaborato sorprende per la sua potenzialità onnicomprensiva rispetto ai fenomeni di disagio psichico. E' una sorpresa che potrebbe sterilmente inorgoglirmi, se non sapessi che il presentarsi dì una teoria sotto forma di struttura chiusa esprime un difetto e non un eccesso di verità, il realizzarsi del rischio ideologico che funziona occludendo i pori della teoria che rimangono aperti al confronto con la realtà. Consapevole di ciò, occorre riaprire il discorso laddove esso presenta delle lacune o delle imprecisioni. Tener conto, soprattutto, di ciò che rimane fuori della teoria, e che rischia pertanto di non essere visto.

Nonostante alcuni accenni, sparsi nel seminario sulla "natura umana" e in quello sui sogni, il problema delle incidenze biologiche è stato affrontato in maniera molto riduttiva.

Questa lacuna deriva dal fatto che la cosiddetta psichiatria biologica. erede di una tradizione i cui guasti sono noti, si propone ancora oggi in termini provocatori. Non è giusto rispondere con un'irritazione scettica e superficiale, tanto più se si ritiene che l'enigma biologico delle strutture e delle funzioni cerebrali rappresenti una delle frontiere più avanzate del sapere dell'uomo su se stesso. Basta pensare, per mettere da parte ogni scetticismo, alla rivoluzione epistemologica avviata dalla scoperta biochimica delle endorfine, fiore all'occhiello di una nuova scienza, l'algologia, nei cui confronti non si può rimane re indifferenti, poiché è con la realtà del dolore che ci si confronta quotidianamente in ambito psichiatrico. 0, per fare un altro esempio, alla neurofisiologia del sogno, destinata, forse, come si è accennato, ad indurre un cambiamento critico nella concezione della vita mentale. Su questi, ed altri argomenti, che una sorta di esoterismo sottrae alla formazione degli operatori, di origine non medica, si tornerà successivamente. Per ora, interessa focalizzare i due problemi che investono più da vicino una nuova scienza del disagio psichico: il problema genetico, dell'ereditarietà delle malattie mentali, e il problema della causalità biologica.

Il problema genetico, per motivi ideologici, è stato affrontato sinora male, andando alla ricerca della frequenza delle malattie mentali negli alberi genealogici o tentando di dimostrare la non significatività dei fattori ambientali nella genesi delle malattie nei gemelli affidati precocemente a famiglie adottive diverse. Trascurando un'analisi critica delle ricerche (che può essere approfondita in Il gene e la sua mente di S. Rose e coli. - Mondadori), ciò che sorprende è l'ingenuità di fondo dell'ipotesi genetica, che confonde predisposizione e malattia. Dal mio punto di vista, ammettere una predisposizione non riduce le responsabilità ambientali, neppure quelle delle famiglie adottive, i cui fantasmi educativi in rapporto ai bambini come "oggetti misteriosi", quanto alle origini e al sangue che scorre nelle loro vene, nessuno si è dato la cura di indagare.

La predisposizione, infatti, è un corredo genetico particolarmente ricco sotto il profilo dei bisogni fondamentali. Una ricchezza potenziale dunque che è anche un fattore di rischio. La genetica, se e quando lo potrà, deve dar conto di questa ricchezza: il perché e il come questa si traduca in miseria, in disagio psichico, cade fuori dai suo ambito, poiché, rappresentando una delle possibilità di espressione fenotipica del corredo genetico, è ricavabile solo dalle interazioni ambientali. Si tratta, però, di asserzioni di principio, e c'è da chiedersi come esse possano essere verificate. Questa possibilità, a mio avviso, è legata ad un diverso uso del cavallo di Troia della genetica. Occorrerebbe indagare, con il metodo microstorico, le famiglie in cui più di un membro manifestano disagio e fornire una chiave esplicativa non genetica. Tenterò, l'anno prossimo, di fornire un contributo parziale a questa linea di ricerca.

li problema della causalità biologica si pone, dal mio punto di vista, in termini che sono conseguenti alle premesse secondo cui la personalità, nella struttura e nella dinamica, è espressione di un processo costruttivo il cui equilibrio è assicurato dal potere reale - socia le e mentale - che l'individuo giunge a conseguire sui mondo interno e su quello esterno.

Il disagio, insorga esso criticamente o subdolamente, attesta la necessità di aumentare questo potere anche ai prezzo di mettere in gioco l'equilibrio raggiunto. Questo punto di vista funzionalistico subordina il problema biologico ad un'ottica che, in senso lato, può definirsi psicosomatica. Non c'è alcun motivo di negare che alcune esperienze psicopatologiche corrispondono a disordini di livello biochimico o neurofisiologico. Ma, se si ammette che esigenze che fanno capo alla personalità, e muovono dalla percezione di un inadeguato potere reale sul mondo, possano adattare a se stesse le funzioni cerebrali, sia sotto il profilo biochimico che neurofisiologico, il problema biologico non si pone più come un problema di causalità primaria bensì secondaria, nel senso che gli squilibri biologici, indotti da necessità originariamente mentali e funzionali al raggiungimento di certi obiettivi, nei quali l'individuo vede la soluzione dei problemi fondamentali, possono poi autonomizzarsi rispetto a quelle necessità e allontanare il soggetto dagli obiettivi prefissi. La biologia del disagio sarebbe dunque una biologia originariamente funzionale, che, solo secondariamente, diventa disfunzionale e causa essa stessa di disagio.

Questo discorso è di un'importanza tale che va esemplificato. Un primo esempio è fornito dall'anoressia, che insorge, negli adolescenti, come protesta contro una dipendenza che essi sentono minacciosa per l'individuazione. Si tratta, in fondo, di uno sciopero della fame la cui motivazione ha la stessa dignità del comportamento volontariamente posto in atto per la difesa di valori, che trascendono la sopravvivenza del corpo. La capacità del mentale di adattare a sé il biologico, fino al punto di inibire il cosiddetto istinto di conservazione, in questi casi è clamorosamente evidente. E occorre ammettere delle modificazioni funzionali e, forse, biochimiche, per spiegare 1'inibizione del senso della fame. Ad un certo punto, questa protesta, però, determina dei disordini biologici, che possono giungere al coma, in virtù dei quali l'individuo, anziché raggiungere l'indipendenza, si consegna nelle mani dei curanti in una condizione di dipendenza totale. Spesso, egli viene salvato con sonde e fleboclisi.

Un secondo esempio è fornito dall'attivazione di alcune crisi d'eccitamento maniacale, che muovono da un'angosciosa fame di vivere che esprime il modo mortificante e depressivo - clinicamente apprezzabile o meno, non importa - in cui il soggetto è vissuto fino allora. La fame di vivere inibisce il bisogno di riposo e di modulazione degli stimoli che è costitutivo dell'equilibrio. Per contrastare questo bisogno fisiologico - per esempio, di sonno - il soggetto è costretto a tenersi su facendo ricorso a sostanze ad effetto stimolante o euforizzante - la nicotina, la caffeina, l'alcol, ecc. -. Minacciato dalla stanchezza, nella quale vede il pericolo di arrestarsi e di crollare nella depressione, il soggetto è costretto continuamente ad alzare il tiro della strategia maniacale: a "drogarsi" letteralmente sempre più sia con le sostanze che con situazioni stimolanti (musica, movimento, sessualità, ecc.). Lo stato di guerra dichiarato al riposo comporta l'attivazione di tutte le risorse nervose, neurovegetative ed endocrine. Conseguenza di una scelta di vita, legata a motivazioni originariamente psicologiche, questa tempesta di attività intrinseca del sistema nervoso si autonomizza, e, da un certo punto in poi, trascina il soggetto, configurandosi come "malattia'" biologica.

Un terzo esempio può essere fornito dagli episodi deliranti che si organizzano a partire da uno stato d'animo (wahnstimmung) ben noto in psicopatologia. Si tratta, in pratica, di uno stato d'allarme che avvia un atteggiamento funzionale di esplorazione vigile e attenta del mondo il cui fine è la decifrazione, il riconoscimento e la difesa dagli oscuri pericoli da cui il soggetto si sente minacciato. Come ogni atteggiamento mentale rivolto a trovare ciò che si cerca, lo stato di allarme, dopo un periodo più o meno lungo, scopre il temuto pericolo solitamente sotto forma di minaccia sociale. Pur persistendo, esso non risulta più sufficiente. Si richiede l'entratain azione di strategie volte a scongiurare il pericolo. Ma si tratta di una situazione limite sotto il profilo psicologico, ché, il più spesso, l'insidia si cela ovunque. Il soggetto deve adattarsi a vivere nella dimensione tragica e disumana dell'uno contro tutti. In questa fase, è evidente che devono intervenire modificazioni funzionali e biochimiche atte a sostenere un guerra che va al di là delle possibilità individuali.

Non penso che il problema "biologico" possa esaurirsi in poche righe. Ciò che intendo dire è che una nuova scienza del disagio psichico non deve negarlo, tranne che sul piano della causalità primaria (un'ipotesi sostanzialmente insignificante). Esso può essere assimilato alla teoria proposta secondo il modello psicosomatico, arricchito dal criterio di reciprocità in virtù del quale "squilibri" funzionali e biochimici del sistema nervoso, originariamente determinati da esigenze mentali, possono poi autonomizzarsi e parassitare la libertà soggettiva. Quest'ipotesi, avanzata da Arieti in Interpretazioni della schizofrenia sulla scia di Sullivan, richiede ancora un lungo lavoro di verifica. I "grilletti" che autoinducono l'eccitamento maniacale sono, da questo punto di vista, di importanza epistemologica estrema: un contributo a riguardo potrà essere fornito l'anno prossimo.

Non minori problemi evoca la causalità psicologica, in particolare per quanto concerne le teorie psicanalitiche che attribuiscono un valore determinante, nella genesi del disagio psichico, alle fasi primarie dello sviluppo.

Qualche cenno è stato fornito nel corso del seminario sulle teorie della personalità, ma, da un punto di vista critico, è giusto non essere soddisfatti. Non possono sussistere ragionevoli dubbi sull'importanza dell'esperienza infantile riguardo la strutturazione della personalità. Ma, posto ciò, è giusto distinguere le teorie che privilegiano in assoluto alcune fasi di sviluppo (i primi mesi di vita da parte dei kleiniani, l'Edipo da parte dei freudiani) e teorie, come quella che si va costruendo, che vedono ne lo sviluppo un continuum segnato da momenti critici e gravitante verso strutture ed equilibri nuovi.

Le prime archeologizzano i problemi; le seconde li storicizzano, nel senso che postulano il loro continuo riproporsi, in termini più. ricchi e complessi, sino alla grande crisi adolescenziale che, sotto il profilo psicodinamico, è in assoluto lo snodo più importante dell'esperienza soggettiva.. La differenza più marcata tra questi due approcci è data dalla valutazione del periodo di latenza, e cioè della seconda infanzia e della prepubertà: praticamente insignificante per le teorie archeologiche, esso rappresenta, dal mio punto di vista, un momento di importanza fondamentale, poiché è nel corso di esso che il soggetto comincia ad utilizzare codici culturali per elaborare la sua esperienza, avviandosi verso l'ideologizzazione adolescenziale.

La differenza tra questi diversi approcci è anche epistemologica: le teorie archeologiche sono inverificabili e inconfutabili, le altre si aprono alla possibilità di una verifica. Forse non è insignificante rilevare, però, che la seconda infanzia, nonostante gli sforzi di Piaget, è un continente ancora poco esplorato scientificamente...

C'è ancora una differenza, tra i due approcci, che è importante rilevare:. Le teorie archeologiche esaltano l'attività fantasmatica del soggetto fino a dare ad essa il significato di una tendenza sistematica a "distorcere" la realtà; le teorie microstoriche tendono altresì a privilegiare le distorsioni che l'ambiente induce su di un corredo potenzialmente ricco. Le distorsioni sono agevolate meno dai fantasmi che dalle necessità che il bambino ha di interpretare la realtà: necessità che rappresenta un fattore di rischio e per il difetto di strumenti critici proprio dell'infanzia e per il modo di porsi della realtà ambientale che, il più spesso, trascura questa necessità, mortificando il bisogno di sapere (motivazionale) del bambino. Anziché far ricorso ai fantasmi, sarebbe più giusto affermare che, paradossalmente, i bambini e gli adolescenti sono "psicologi", nel senso che si interrogano su ciò che c'è dietro i comportamenti e le regole, mentre gli adulti, il più spesso, sono ingenui realisti convinti che i loro comportamenti parlino da soli.

Con ciò si arriva al cuore del problema psicogenetico, il cui paradosso è dato dal fatto che è proprio la prova che dovrebbe confermare la psicogenesi a confutarla. La prova è il vissuto, sotteso a tutte le esperienze di disagio psichico, che connota di minacce, al limite persecutorie, le relazioni interpersonali e, in particolare, i legami affettivi. Esso restituisce un'intuizione che, benché spesso inconsapevole, sembra avere una carica di verità assoluta: coloro che soffrono "sanno" che l'origine della loro sofferenza è nella "condanna ad amare" che fa dell'infanzia una condizione di dipendenza e di esposizione relazionale rischiosa.

E' quasi ovvio vedere in questo vissuto la registrazione di critiche esperienze dolorose di ordine affettivo (ferite, abbandoni, delusioni, manipolazioni, ecc.) il cui ricordo impone al soggetto di difendersi. Ma che senso ha che le difese rappresentino quasi sempre un rimedio peggiore del male? che esse riparino da un pericolo presunto producendo un danno certo? In termini più concreti, che senso ha che l'anoressico si lasci morire di fame, il depresso si suicidi, l'ossessivo si incarceri nei suoi rituali, l'ipocondriaco viva nell'incombenza della morte, 1' eccitato sfidi le regole sociali mettendo in gioco la libertà cui tiene tanto, il perseguitato si faccia restituire dagli altri orribili verità che lo riguardano? Che in tutte queste esperienze incomba un vissuto persecutorio riferito alla relazione con gli altri, e che questo vissuto revochi la drammaticità dell'esposizione relazionale infantile, è fuor di dubbio. Ma è l'eccesso della struttura rispetto al pericolo a configurarsi come un problema, soprattutto perché essa, che dovrebbe difendere il soggetto, finisce con il condannarlo in virtù dei. sensi di colpa che produce. Le esigenze difensive non possono spiegare la genesi della struttura, perché, tra l'altro, se ciò fosse vero, la fenomenologia psicopatologica sarebbe univoca.

La struttura, in effetti non rappresenta solo una difesa rispetto ai pericoli relazionali, bensì un progetto di soluzione dei problemi posti dai pericoli. Definire la natura progettuale del disagio psichico non significa misconoscere le radici emozionali, bensì sottolineare che essa postula una "teorizzazione" dei pericoli e dei mezzi atti a scongiurarli, o, in altri termini, che essa implica l'adozione di codici interpretativi dei fatti umani. La psicogenesi non può andare al di là della ricostruzione di come e perché i problemi si siano posti all'interno di un'esperienza soggettiva: i codici interpretativi adottati è le soluzioni da essi ricavati sono estranei al livello psicogenetico. Essi sono o mutuati dall'ideologia familiare o elaborati in rapporto ad esse in virtù della logica degli opposti.

La loro inadeguatezza fa capo alla difficoltà di risolvere problemi a partire dalle stesse premesse (dato che gli opposti coincidono) che li hanno posti. Il disagio psichico, quali che siano le sue origini interesperienziali, esprime, in ultima analisi, un ricatto ideologico. La psicogenesi deve, a questo punto, cedere il passo allo studio dei codici mentali.