CENSIS

44° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2010

Sintesi del Rapporto
Le «Considerazioni generali» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010

Un inconscio collettivo senza più legge, né desiderio

La società slitta sotto un’onda di pulsioni sregolate. Viene meno la fiducia nelle lunghe derive e nell’efficacia delle classi dirigenti. Tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare le dinamiche sociali

Roma, 3 dicembre 2010 – Abbiamo resistito. Abbiamo resistito ai mesi più drammatici della crisi, seppure con una «evidente fatica del vivere e dolorose emarginazioni occupazionali». Al di là dei fenomeni congiunturali economici e politico-istituzionali dell’anno, adesso occorre una verifica di cosa è diventata la società italiana nelle sue fibre più intime. Perché sorge il dubbio che, anche se ripartisse la marcia dello sviluppo, la nostra società non avrebbe lo spessore e il vigore adeguati alle sfide che dovremo affrontare.

Una società appiattita. Sono evidenti manifestazioni di fragilità sia personali che di massa: comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattativi, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e futuro. Si sono appiattiti i nostri riferimenti alti e nobili (l’eredità risorgimentale, il laico primato dello Stato, la cultura del riformismo, la fede in uno sviluppo continuato e progressivo), soppiantati dalla delusione per gli esiti del primato del mercato, della verticalizzazione e personalizzazione del potere, del decisionismo di chi governa. E una società appiattita fa franare verso il basso anche il vigore dei soggetti presenti in essa. «Una società ad alta soggettività, che aveva costruito una sua cinquantennale storia sulla vitalità, sulla grinta, sul vigore dei soggetti, si ritrova a dover fare i conti proprio con il declino della soggettività, che non basta più quando bisogna giocare su processi che hanno radici e motori fuori della realtà italiana».

Un’onda di pulsioni sregolate. Non riusciamo più a individuare un dispositivo di fondo (centrale o periferico, morale o giuridico) che disciplini comportamenti, atteggiamenti, valori. Si afferma così una «diffusa e inquietante sregolazione pulsionale», con comportamenti individuali all’impronta di un «egoismo autoreferenziale e narcisistico»: negli episodi di violenza familiare, nel bullismo gratuito, nel gusto apatico di compiere delitti comuni, nella tendenza a facili godimenti sessuali, nella ricerca di un eccesso di stimolazione esterna che supplisca al vuoto interiore del soggetto, nel ricambio febbrile degli oggetti da acquisire e godere, nella ricerca demenziale di esperienze che sfidano la morte (come il balconing). «Siamo una società pericolosamente segnata dal vuoto, visto che ad un ciclo storico pieno di interessi e di conflitti sociali, si va sostituendo un ciclo segnato dall’annullamento e dalla nirvanizzazione degli interessi e dei conflitti».

Il declino parallelo della legge e del desiderio nell’inconscio collettivo. Bisogna scendere più a fondo nella personalità dei singoli e nella soggettività collettiva per verificare come funziona l’inconscio. Qui si confrontano la legge (l’autorità esterna o interiorizzata) e il desiderio (che esprime il bisogno e la volontà di superare il vuoto acquisendo oggetti e relazioni). Ogni giorno di più il desiderio diventa esangue, indebolito dall’appagamento derivante dalla soddisfazione di desideri covati per decenni (dalla casa di proprietà alle vacanze) o indebolito dal primato dell’offerta di oggetti in realtà mai desiderati (con bambini obbligati a godere giocattoli mai chiesti e adulti al sesto tipo di telefono cellulare). «La strategia del rinforzo continuato dell’offerta è uno strumento invincibile nel non dare spazio ai desideri». Così, all’inconscio manca oggi la materia prima su cui lavorare, cioè il desiderio. Al tempo stesso, la desublimazione di archetipi, ideali, figure di riferimento rende labili i riferimenti alla legge (del padre, del dettato religioso, della stessa coscienza). «Si vive senza norma, quasi senza individuabili confini della normalità, per cui tutto nella mente dei singoli è aleatorio vagabondaggio, non capace di riferirsi ad un solido basamento».

Tornare a desiderare. Di fronte ai duri problemi attuali e all’urgenza di adeguate politiche per rilanciare lo sviluppo, viene meno la fiducia nelle lunghe derive su cui evolve spontaneamente la nostra società. Ancora più improbabile è che si possa contare sulle responsabilità della classe dirigente, sulle leadership partitiche o su un rinnovato impegno degli apparati pubblici. La tematica rigore-ripresa è ferma alle parole, la riflessione sullo sviluppo europeo è flebile, i tanti richiami ai temi all’ordine del giorno (la scuola, l’occupazione, le infrastrutture, la legalità, il Mezzogiorno) sono solo enunciati seriali. La complessità italiana è essenzialmente complessità culturale. Nella crisi che stiamo attraversando c’è quindi bisogno di messaggi che facciano autocoscienza di massa. Non esistono attualmente in Italia sedi di auctoritas che potrebbero ridare forza alla «legge». Più utile è il richiamo a un rilancio del desiderio, individuale e collettivo, per andare oltre la soggettività autoreferenziale, per vincere il nichilismo dell’indifferenza generalizzata. «Tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita». Attualmente tre sono i processi in cui sono ravvisabili germi di desiderio: la crescita di comportamenti «apolidi» legati al primato della competitività internazionale (gli imprenditori e i giovani che lavorano e studiano all’estero), i nuovi reticoli di rappresentanza nel mondo delle imprese e il lento formarsi di un tessuto federalista, la propensione a fare comunità in luoghi a misura d’uomo (borghi, paesi o piccole città).

Il capitolo «La società italiana al 2010» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010

L’Italia appiattita stenta a ripartire

Crisi e globalizzazione portano disinvestimento dal lavoro, despecializzazione produttiva, risparmi stagnanti. Ma il Paese tiene grazie a intrecci virtuosi: welfare mix e reti di imprese

Roma, 3 dicembre 2010 – (L’appiattimento) Il disinvestimento individuale dal lavoro. Mentre in tutto il mondo la ricetta per uscire dalla crisi prevede l’attivazione di tutte le energie professionali con l’auto-imprenditorialità, l’Italia - patria del lavoro autonomo e imprenditoriale - vede ridursi in questi anni proprio la componente del lavoro non dipendente: 437.000 imprenditori e lavoratori in proprio (artigiani e commercianti) in meno dal 2004 al 2009 (-7,6%). L’Italia è anche il Paese europeo con il più basso ricorso a orari flessibili nell’ambito dell’organizzazione produttiva: solo l’11% delle aziende con più di 10 addetti utilizza turni di notte, solo il 14% fa ricorso al lavoro di domenica e il 38% al lavoro di sabato. E siamo il Paese dove è più bassa la percentuale di imprese che adottano modelli di partecipazione dei lavoratori agli utili dell’azienda (lo fa solo il 3% contro una media europea del 14%). Nei primi due trimestri del 2010 si è registrato poi un calo degli occupati tra 15 e 34 anni del 5,9%, a fronte di una riduzione media dello 0,9%. Poco fiduciosi nella possibilità di trovare un’occupazione, ma anche poco disponibili a trovarne una a qualsiasi condizione, i giovani hanno avvertito più degli altri gli effetti della crisi. Sono 2.242.000 le persone tra 15 e 34 anni che non studiano, non lavorano, né cercano un impiego. Più della metà degli italiani (il 55,5%) pensa che i giovani non trovano lavoro perché non vogliono accettare occupazioni faticose e di scarso prestigio: una valutazione che potrebbe apparire ingenerosa e stereotipata, se non fosse che ad esserne più convinti sono proprio i più giovani, tra i quali la percentuale sale al 57,8%.

Il rischio di despecializzazione imprenditoriale. Tra il 2000 e il 2009, il tasso di crescita dell’economia italiana è stato più basso che in Germania, Francia e Regno Unito. Ma il declino demografico o l’immobilismo del mercato del lavoro non c’entrano. A partire dal 2000, in Italia la popolazione residente è cresciuta del 5,8%, gli occupati dell’8,3% e il Pil dell’1,4% in termini reali. In Germania le variazioni sono: popolazione -0,4%, occupati +2,9%, Pil +5,2%. In Francia: residenti +6,2%, occupati +5,0%, Pil +10,9%. Nel Regno Unito: residenti +4,9%, occupati +5,4%, Pil +13,4%. Esiste un rischio di despecializzazione imprenditoriale. La quota dell’export italiano sul mercato mondiale è passata negli ultimi nove anni dal 3,8% al 3,5%. È migliorato il nostro posizionamento per prodotti come gli articoli di abbigliamento, i macchinari per uso industriale, i prodotti alimentari, ma abbiamo perso terreno nei comparti a maggiore tasso di specializzazione, come le calzature (-3,8%), la gioielleria (-4,3%), i mobili (-4,7%), gli elettrodomestici (-5,8%) e i materiali da costruzione (-13,7%). Il pericolo è che strategie di nicchia, design e qualità non bastino più senza maggiori iniezioni di innovazione nei prodotti.

L’uso stagnante del risparmio familiare. Mattone, liquidità, polizze: sono questi i pilastri ai quali le famiglie si sono ancorate per resistere alla crisi. Nel primo trimestre del 2010 i mutui erogati sono aumentati in termini reali del 10,1% rispetto alla stesso periodo del 2008, superando i 252 miliardi di euro. Nel biennio è aumentata la liquidità detenuta dalle famiglie (+4,6% in termini reali i biglietti e depositi a vista, +10,3% gli altri depositi). Nei primi nove mesi del 2010 i premi per nuove polizze vita sono aumentati del 22% rispetto allo stesso periodo del 2009. Tra le famiglie che fronteggiano pagamenti rateali, mutui o prestiti di vario tipo, il 7,8% dichiara di non essere riuscito a rispettare le scadenze previste, il 13,4% lo ha fatto con molte difficoltà, il 38,5% con un po’ di difficoltà: a soffrire di più sono state le famiglie monogenitoriali e le coppie con figli. Nonostante la generale propensione a evitare impieghi rischiosi, negli ultimi mesi si registra però il ritorno a un profilo meno prudente nella collocazione del risparmio familiare, con un aumento tra il primo trimestre 2009 e il primo trimestre 2010 delle quote di fondi comuni d’investimento (+29,3%) e delle azioni e partecipazioni (+12,5%).

(La proliferazione dell’offerta) L’artificiale promozione dei consumi. Si moltiplicano gli strumenti pubblici e privati di incentivazione della domanda, con la progressiva spalmatura delle offerte promozionali lungo tutto l’anno. Con la crisi, si registra una crescita del credito al consumo (+5,6% nel 2008 e +4,7% nel 2009), mentre il valore delle operazioni con carte di pagamento ha raggiunto complessivamente i 252 miliardi di euro nel 2009. Hanno contribuito soprattutto le carte di credito (+9% di operazioni rispetto al 2008), le carte prepagate (+23,6%), i bonifici bancari automatizzati (+1,3%).

La moltiplicazione delle spese indesiderate. I consumi «obbligati» delle famiglie si sono attestati su un livello mai raggiunto in precedenza. Erano il 18,9% della spesa familiare complessiva nel 1970, il 24,9% nel 1990, il 27,7% nel 2000 e oggi superano il 30%. Crescono le forme di pagamento cui non ci si può sottrarre. Gli aumenti tariffari per il prossimo anno vengono calcolati in poco meno di 1.000 euro a famiglia. Poi ci sono i contributi aggiuntivi per le scuole dell’obbligo, le fasce blu per i parcheggi, le multe che sostengono le esangui casse dei Comuni, le revisioni di auto e caldaie, le parcelle per la dichiarazione dei redditi. Complessivamente, la stima della «tassazione occulta» elaborata dal Censis porta a 2.289 euro all’anno per una famiglia di tre persone.

Gli eccessi nell’urbanizzazione del territorio. Il boom immobiliare degli anni passati ha alimentato una nuova ondata di costruzioni, che cambiano la morfologia del paesaggio metropolitano. La quota di superficie territoriale impermeabilizzata è aumentata al 6,3%. Tra il 2005 e il 2009 le superfici degli ipermercati sono cresciute del 28%, quelle dei grandi centri di vendita specializzati (elettronica, arredamento, sport, bricolage) del 34,5%, il numero dei multiplex (i cinema con almeno 8 schermi) è salito del 21,5%.

(Gli intrecci virtuosi) L’irrobustimento delle reti fra imprese. Nel 2010 sono state varate molte misure che incentivano la costituzione di forme di collaborazione fra imprese. Secondo una rilevazione del Censis, nelle aree distrettuali il dialogo tra tessuto produttivo, enti di formazione, strutture di ricerca, Confidi, centri servizi è cresciuto. Il 57% degli imprenditori intervistati si rivolge a laboratori di prova all’interno dell’area distrettuale, il 53% a strutture di formazione, quasi il 50% a un centro servizi per il distretto, il 43% a una struttura di coordinamento per le attività di esportazione presente nel suo territorio.

I continui aggiustamenti del welfare mix. Le famiglie sono un pilastro strategico del welfare, caricandosi di compiti assistenziali, particolarmente gravosi per le situazioni più problematiche di non autosufficienza e disabilità, di fatto sopperendo ai vuoti del sistema pubblico. Il numero delle persone disabili è stimato in 4,1 milioni. La presa in carico di queste situazioni riguarda le famiglie (i caregiver sono madri, coniugi e figli) e il ricorso alle badanti come soggetti principali dell’assistenza riguarda il 10,7% dei casi. Anche il volontariato continua a garantire una funzione strategica di provider di servizi in tempo di crisi. Secondo una recente indagine del Censis, un italiano su 4 (il 26,2%) svolge una qualche forma di volontariato. I settori nei quali si opera di più sono la sanità (il 33% dei casi) e nel Sud l’assistenza sociale (il 32,7%).

La famiglia protagonista forzata delle vicende scolastiche. Il disincanto delle famiglie non è l’unica reazione sociale in campo educativo. Ad esso si sovrappongono i crescenti oneri diretti e indiretti. Il 56,5% delle scuole italiane (dalla materna alle superiori) ha chiesto in quest’anno scolastico un contributo volontario alle famiglie, aggiuntivo alle tasse scolastiche e al costo della mensa. Il valore medio versato è stato pari a 80 euro, con punte fino a 100 euro nella scuola primaria e 260 euro nei licei. Un quarto delle scuole ha aumentato il contributo richiesto rispetto all’anno precedente. Il 36,4% delle scuole dispone anche di altre forme private di finanziamento: donazioni, proventi da distributori automatici di cibi e bevande, sponsorizzazioni, pubblicità o affitto di locali. Le famiglie tengono alle scuole dei figli, tanto che hanno collaborato ai lavori di piccola manutenzione (come ridipingere le pareti) del 13,6% degli edifici. Tra il 2001 e il 2009 aumenta al 15,7% la quota di minori in età scolare che hanno frequentato almeno un corso o lezioni private (+4,7%). Gli incrementi riguardano le lezioni private per il recupero scolastico (+2,3%), i corsi di tipo artistico o culturale (+2%), o di lingue straniere (+1,3%).

(Gli intrecci perversi) I limiti del galleggiare sul nero. Se il Paese non imbocca con decisione il sentiero della ripresa dipende anche dal fatto che sul sistema pesano come macigni un debito pubblico enorme, che ogni anno drena risorse per il 4,7% del Pil, e un’evasione fiscale che le stime più rosee valutano intorno a 100 miliardi di euro l’anno. L’economia irregolare, dopo un lungo periodo di frenata, ha ripreso a crescere, registrando tra il 2007 e il 2008 un aumento del valore del 3,3%, portando l’incidenza sul Pil dal 17,2% al 17,6%. A trainarla è stata la componente più invisibile, legata ai fenomeni di sottofatturazione e di evasione fiscale (+5,2%), la cui incidenza sul valore complessivo del sommerso raggiunge ormai il 62,8%. Di contro, il valore imputabile al fenomeno del lavoro irregolare resta sostanzialmente stabile (+0,1%) e la sua incidenza scende dal 38,4% al 37,2%. Ma gli italiani iniziano a guardare con preoccupazione al dilagare di questi fenomeni, su cui da sempre si è chiuso un occhio, anche per convenienza personale. Secondo un’indagine del Censis, il 44,4% degli italiani individua nell’evasione fiscale il male principale del nostro sistema pubblico, il 60% ritiene che negli ultimi tre anni l’evasione fiscale sia aumentata, il 51,7% chiede di aumentare i controlli per contrastare l’evasione. Tuttavia, di fronte a un esercente che non rilascia lo scontrino o la fattura, ancora più di un terzo degli italiani (il 34,1%) ammette candidamente di non richiederlo, tanto più se questo consente di risparmiare qualche euro.

I grumi perversi della criminalità organizzata. In Sicilia, Campania, Calabria e Puglia sono 448 i Comuni in cui sono presenti sodalizi criminali, 441 quelli in cui si trovano beni immobili confiscati alle organizzazioni criminali, 36 quelli sciolti negli ultimi tre anni per infiltrazioni mafiose. Complessivamente si tratta di 672 territori comunali, che occupano il 54,8% della superficie delle quattro regioni, dove vive il 79,2% della popolazione (più di 13,4 milioni di persone, che rappresentano il 22,3% dell’intera popolazione italiana). Rispetto a tre anni fa, il numero dei Comuni è aumentato (nel 2007 erano 610). La regione dove la presenza della criminalità organizzata e il controllo del territorio sono più pressanti è la Sicilia (dove il 52,3% dei Comuni presenta almeno un indicatore di criminalità organizzata, coinvolgendo l’83,1% della popolazione), segue la Puglia (con il 43% dei Comuni), la Calabria (38,4%) e la Campania (36,3%). L’indicatore segnala la presenza di attività criminali a diverso livello d’insediamento, con l’ambiguità che dove più si perseguono le mafie ce n’è maggiore evidenza. Tuttavia, la pervasività nel territorio meridionale della criminalità organizzata viene confermata in crescita.

(La frammentazione del potere) Le ambivalenze della verticalizzazione in politica. Dopo il lungo ciclo iniziato negli anni ’80, con la voglia di maggiore decisionismo e governabilità, oggi quasi il 71% degli italiani ritiene che la scelta di dare più poteri al governo e/o al capo del governo non sia adeguata per risolvere i problemi del Paese. Il distacco è più marcato tra i giovani (75%), le donne (77%), le persone con titolo di studio elevato (quasi il 74% dei diplomati e oltre il 73% dei laureati). L’accelerazione dei processi decisionali della politica non si è verificata, se è vero che, ad esempio, secondo l’Eurobarometro il 74% degli italiani giudica negativamente il modo in cui opera la Pubblica Amministrazione nel nostro Paese: un dato nettamente superiore al valore medio europeo (52%) e a quanto rilevato in Spagna (53%), Francia (52%), Regno Unito (49%) e Germania (32%).

I mancati effetti del decisionismo. Secondo un’indagine del Censis, la maggioranza relativa degli italiani (il 34,4%) ritiene che la classe politica litigiosa sia il principale problema che grava sulla ripresa economica del Paese, prima ancora della elevata disoccupazione (29,6%), e soprattutto sulla possibilità di realizzare gli interventi. Molti dei provvedimenti varati negli ultimi anni hanno avuto un modesto impatto reale. I beneficiari della social card sono 450.000, a fronte di 830.000 richieste e una platea di riferimento annunciata di circa 1,3 milioni di persone. Per il Piano casa si parlava di investimenti per 70 miliardi di euro, ma a più di un anno di distanza in oltre 60 Comuni capoluogo di provincia sono state presentate poco meno di 2.700 istanze (in media 42 per Comune). Per realizzare un’opera pubblica nel settore dei trasporti di valore superiore a 50 milioni di euro ci vogliono ancora mediamente 3.942 giorni, quasi 11 anni. I lavori dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria sono stati avviati nel 1997 e il loro completamento, fissato al 2003, è stato posticipato prima al 2008 e poi al 2013.

Federalismo fiscale: la sfida delle responsabilità diffuse. Le amministrazioni locali (Regioni ed enti locali) raccolgono 250 miliardi di euro di entrate, ma di questi meno della metà proviene dall’azione tributaria, mentre il grosso (112 miliardi) è costituito da trasferimenti delle amministrazioni centrali. L’87,3% delle entrate dello Stato ha carattere tributario, ma solo il 37,1% nelle amministrazioni locali. È da questi dati e dalla valutazione sulla componente dei trasferimenti che potrebbe essere oggetto di riscossione diretta che il federalismo fiscale deve partire.

Il capitolo «Processi formativi» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010

Roma, 3 dicembre 2010 – Rallenta la crescita degli alunni stranieri a scuola. Pur se ancora di segno positivo, il tasso di incremento della presenza a scuola di alunni con cittadinanza non italiana manifesta una progressiva decelerazione, attestandosi sul +7% nell’anno scolastico 2009-2010. In termini assoluti, si tratta di un incremento di 44.232 alunni, che portano a un peso percentuale del 7,5% sul totale della popolazione scolastica. In particolare, la presenza di alunni con cittadinanza non italiana supera la quota dell’8% nella scuola dell’infanzia (8,1%), primaria (8,7%) e secondaria di I grado (8,5%), e si mantiene intorno al 5% nella secondaria di II grado (5,3%).

Aumentano le esperienze di alternanza scuola-lavoro. Continua la diffusione nelle scuole secondarie di II grado di esperienze strutturate di alternanza scuola-lavoro, che nel 2009-2010 hanno coinvolto 71.561 studenti (+3,2% rispetto al 2008-2009) di 1.331 istituti (+22,3%). Il numero di imprese coinvolte si avvicina alla soglia delle 30.000 unità.

L’importanza crescente del contributo finanziario di famiglie e privati alle scuole italiane. I contributi volontari versati dalle famiglie sono un’entrata sempre più importante per la gestione delle scuole statali. Secondo un’indagine del Censis, il 53% delle scuole statali di ogni ordine e grado ha richiesto quest’anno il contributo. Le somme richieste a livello pre-scolare o di scuola dell’obbligo sono in media di modesta entità (16,4 euro nella scuola dell’infanzia e 19,8 euro nella scuola secondaria di I grado). Nelle scuole di II grado, invece, il contributo medio supera gli 80 euro pro-capite, con oscillazioni fino ai 260 euro nei licei. Il 25% dei dirigenti dichiara di averne dovuto aumentare l’importo rispetto allo scorso anno. Aderisce alla richiesta l’82,7% dei genitori. Ci sono poi i finanziamenti provenienti da soggetti privati esterni all’istituto scolastico: un fenomeno che riguarda il 36,4% delle scuole. Il principale canale di reperimento di risorse aggiuntive private è costituito dalle donazioni (il 46,4% dei casi), seguono i proventi dovuti all’installazione di macchine distributrici di bevande e alimenti (34,8%), l’individuazione di uno sponsor o la concessione di spazi pubblicitari (31,8%).

La scuola digitale tra aspettative elevate e criticità attuali. L’84,9% delle scuole possiede una o più Lavagne interattive multimediali (Lim), dislocate in aule ordinarie o in laboratori speciali. Si oscilla tra l’88% delle scuole nel Nord-Ovest e l’83,4% nel Sud. È quanto emerge da una rilevazione del Censis sull’introduzione nelle scuole delle Lim come supporti didattici in grado di innovare l’ambiente di apprendimento e le metodologie didattiche. Nel 91,4% dei casi le risorse per l’acquisto delle Lim hanno origine ministeriale. In misura minore, e spesso in aggiunta alle risorse ministeriali, le Lim sono state acquistate dalle scuole con fondi propri (20%) o grazie all’intervento di Regioni ed enti locali (10%), o sono state donate da soggetti privati (6,6%).

Tecnici superiori: sarà la volta buona? Il tasso di diploma post-secondario in Italia è pari al 3%, meno della metà del dato medio Ocse (7,2%), mentre la quota nazionale di studenti che concludono percorsi di istruzione terziaria tecnico-professionali orientati all’inserimento professionale si è attestata nel 2008 sullo 0,7% (media Ocse: 12,2%). Oggi però comincia a innestarsi un nuovo modello d’offerta, il cui asse portante è costituito dagli Istituti tecnici superiori (Its). Sono 15 le Regioni che hanno avviato la costituzione di 48 Its (21 al Nord, 14 al Centro, 13 al Sud e nelle isole) operativi soprattutto nel settore delle nuove tecnologie per il made in Italy (24), mobilità sostenibile (8), tecnologie dell’informazione e della comunicazione ed efficienza energetica (5), tecnologie innovative per i beni culturali/turismo e tecnologie per la vita (3).

Le sfide da affrontare per un rilancio del sistema universitario italiano. Secondo la tradizionale indagine del Censis presso i presidi di Facoltà, al primo posto tra i fattori di spinta della competitività del sistema universitario viene individuato il costante miglioramento dei servizi offerti (53,8%), al secondo e terzo posto la mobilità internazionale degli studenti (46,2%) e lo sviluppo di collaborazioni internazionali (37,5%). Sempre in relazione all’internazionalizzazione, un preside su 4 (26%) indica lo sviluppo di corsi di laurea a doppio o congiunto titolo.

Il capitolo «Lavoro, professionalità, rappresentanze» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010

Roma, 3 dicembre 2010 – Allarme giovani. La crisi ha scaricato i suoi effetti su una sola componente del mercato del lavoro, quella giovanile. Nel 2009 tra gli occupati di 15-34 anni si sono persi circa 485.000 posti di lavoro (-6,8%) e nei primi due trimestri del 2010 se ne sono bruciati quasi altri 400.000 (-5,9%). Di contro, se si esclude la fascia immediatamente successiva, dei 35-44enni, dove pure si è registrato un decremento del livello di occupazione (-1,1% tra il 2008 e il 2009 e -0,7% nel 2010), in tutti gli altri segmenti generazionali, non solo l’occupazione ha tenuto, ma è risultata addirittura in crescita: è aumentata di 85.000 unità tra i 45-54enni (+1,4% tra il 2008 e il 2009) e di oltre 100.000 tra gli over 55 (+3,7%). I primi segnali relativi al 2010 (+2,4% per i primi, +3,6% per i secondi) sembrano andare nella stessa direzione. Tra le ragioni che hanno visto così penalizzata la componente giovanile del lavoro vi è il loro maggiore coinvolgimento nei fenomeni di flessibilità: tra il 2008 e il 2009, a fronte della sostanziale tenuta del lavoro a tempo indeterminato, si è registrata una fortissima contrazione sia del lavoro a progetto (-14,9%), sia del lavoro temporaneo (-7,3%).

Lavoro in proprio cercasi. Nell’ultimo decennio, a fronte di una crescita del lavoro dipendente di 2.406.000 unità (+16,2% tra il 1999 e il 2009), i lavoratori autonomi sono diminuiti di circa 200.000 unità (-3,8%), portando la loro incidenza sul totale degli occupati dal 26,6% al 24,5%. Tra le diverse tipologie di lavoro autonomo, ad essere più in crisi è quella imprenditoriale. Tra il 2004 e il 2009, il numero di imprenditori è passato da 400.000 circa a 260.000, cioè 140.000 in meno (-35,1%). Il lavoro libero professionale ha registrato una piccola crescita (+2,2%), mentre i lavoratori in proprio (piccoli artigiani e commercianti) hanno visto indebolite le loro fila di oltre 90.000 occupati (-2,5%). Sono soprattutto i giovani a cimentarsi di meno nell’attività in proprio. I lavoratori autonomi con meno di 35 anni sono passati da 1.480.000 a 1.070.000, 400.000 in meno (-27,8%), mettendo così in discussione una delle più consolidate certezze del sistema di sviluppo italiano.

L’anno zero della contrattazione. La maggioranza degli italiani sembra ormai convinta che la crescita di competitività di cui il sistema-Paese ha bisogno non possa avvenire senza un surplus di impegno da parte di tutti. Circa l’80% si dichiara d’accordo sul fatto che la retribuzione dei lavoratori dovrebbe essere collegata per una quota significativa alla produttività individuale. Una delle strade da percorrere è il rilancio della contrattazione decentrata. Nell’ultimo decennio, tra le aziende industriali con oltre 20 addetti il ricorso alla contrattazione di secondo livello è andato progressivamente diminuendo: se alla fine degli anni ’90 il 43,4% delle aziende aveva sottoscritto nel corso del decennio (1990-1998) almeno un contratto integrativo aziendale, coinvolgendo il 64,1% degli addetti, nel 2008 la percentuale è scesa al 30,6% e quella degli occupati al 54,4%.

Il nodo del lavoro terziario. Nell’ultimo decennio il terziario è stato, assieme alle costruzioni, il settore che più ha contribuito all’aumento della forza occupazionale del Paese, con la creazione di 2,2 milioni di nuovi posti di lavoro tra il 1999 e il 2009. Si sono così colmate le perdite registrate nell’agricoltura (-150.000 unità circa) e nell’industria (-280.000 lavoratori). La capacità di crescita del terziario si è andata però progressivamente esaurendo: il contributo alla creazione di nuova occupazione è passato da 1,3 milioni nel quinquennio 1999-2004 a 890.000 nel quinquennio 2004-2009. L’andamento negativo dell’ultimo anno (-0,8% tra il 2008 e il 2009), non controbilanciato da una ripresa nell’anno in corso (al secondo trimestre del 2010 i dati evidenziano una tendenziale stagnazione), sembra confermare i segnali già emersi. Le dinamiche interne al settore terziario sono tuttavia molto differenziate. Il mondo dei servizi sociali alla persona e alla famiglia è un’area in forte crescita occupazionale (+36,3% tra il 2004 e il 2009). Il terziario alle imprese è un comparto in consolidamento, registrando una significativa crescita del lavoro (+9,9%). Altri comparti stanno vivendo una vera e propria fase di metamorfosi, con uno stravolgimento degli assetti organizzativi, come il turismo (+12,7% di occupati) e la grande distribuzione (+14%). All’insegna dell’immobilismo altri comparti come il credito, le assicurazioni e i trasporti, dove non si riscontrano apprezzabili fenomeni sul versante del lavoro. In forte ridimensionamento occupazionale è il commercio al dettaglio (-6,1% di occupati) e la Pubblica Amministrazione (-2,8%).

La tenace resistenza delle donne. L’occupazione femminile sembra resistere meglio di quella maschile. Tra il 2008 e il 2009 sono stati gli uomini a registrare i maggiori contraccolpi della crisi, con una perdita secca di 274.000 occupati (-2%). Anche le donne hanno visto ridurre la propria partecipazione al lavoro, ma in misura meno drammatica: sono stati bruciati 105.000 posti di lavoro femminili, con un calo netto dell’1,1%. Una tendenza che sembra confermata anche nel 2010, considerato che nei primi due trimestri dell’anno, a fronte di un’ulteriore contrazione dell’occupazione maschile dell’1,1%, quella femminile registra un calo solo dello 0,5%.

La sicurezza che ancora non c’è: il caso di colf e badanti. Il 44,3% dei collaboratori domestici ha avuto almeno un incidente sul lavoro nell’ultimo anno, l’11,3% addirittura più di uno. Secondo l’indagine del Censis, si tratta di incidenti che nella maggior parte dei casi non comportano alcun tipo di inabilità al lavoro (48,6%), né l’esigenza di assentarsi (71,5%). Tuttavia, una quota non trascurabile di infortuni (il 28,5%), oltre a produrre effetti sulla salute di colf e badanti, condiziona il proseguimento dell’attività comportando l’assenza dal lavoro per inabilità: nel 18,8% dei casi superiore a tre giorni, nell’11,9% superiore a una settimana. Bruciature (18,7%), scivolate (16,1%), cadute dalle scale (12,2%) sono gli incidenti più frequenti tra colf e badanti. Ma la casistica appare ampia, con casi frequenti di ferite prodotte dall’utilizzo di coltelli o elettrodomestici (8,6%), strappi e contusioni da sollevamento (7,6%), intossicazioni con prodotti per pulire (4,2%), scosse elettriche (3,6%). I lavoratori domestici si rivelano poco attenti al problema. Il 12,4% dichiara di non preoccuparsi più di tanto della propria sicurezza, e chi lo fa preferisce le soluzioni «fai da te»: nel 46,1% dei casi dichiarano di affidarsi all’esperienza, nel 18,6% di mantenere la concentrazione durante il lavoro. Solo il 22,9% mostra curiosità e attenzione dichiarando di informarsi sulla materia.

Il capitolo «Il sistema di welfare» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010

Roma, 3 dicembre 2010 – Il volontariato come pilastro della comunità. Più del 26% degli italiani dichiara di svolgere un’attività di volontariato. La scelta di fare volontariato è molto più radicata tra i giovani (più del 34%), rimane elevata tra i 30-44enni (più del 29%), per poi calare al 23% tra i 45-64enni e al 20,3% tra gli anziani. È all’interno di realtà organizzate che circa tre quarti dei volontari svolgono il proprio impegno, e di questi la maggioranza (54,5%) lo fa all’interno di una specifica organizzazione, mentre poco meno del 10% lo fa in più di una struttura. Riguardo alle motivazioni, oltre il 38% dei volontari dichiara di svolgere attività di volontariato perché vuole fare qualcosa per gli altri, mentre il 27,3% richiama ragioni etiche, ideali. Un plebiscitario 97% valuta positivamente l’attività di volontariato in cui è impegnato: il 59% perché fa una cosa alla quale crede nel profondo ed è gratificante, il 38% perché è convinto di incidere positivamente sulla vita delle persone, in particolare quelle che hanno più bisogno. Ospedali, case di cura, strutture sanitarie (69%), case di riposo, comunità alloggio, presidi socio-assistenziali di vario tipo (54,3%), poi le varie forme di assistenza a domicilio per anziani e non autosufficienti (39,9%): sono questi i tre settori in cui i cittadini constatano una maggiore presenza di volontari nelle comunità in cui vivono.

Tutele sociali e crisi, oltre le buone risposte di breve periodo. L’efficacia degli ammortizzatori disponibili di fronte all’emergenza reddituale legata alla crisi occupazionale non attenua il fatto che la crisi sta ampliando, al di là del breve periodo, la platea dei soggetti vulnerabili a forme di disagio sociale. Il 62% degli italiani esprime un giudizio negativo sugli strumenti di tutela e supporto per i disoccupati, quota che risulta nettamente superiore al dato medio europeo (pari al 45%) e lontana dalle valutazioni espresse dai cittadini di altri grandi Paesi come la Francia, dove il giudizio negativo è espresso dal 29% dei cittadini, il Regno Unito (28%), la Germania (39%) e i Paesi Bassi (13%). Anche sul terreno della lotta alla povertà le valutazioni degli italiani non sono positive. Il 59% dichiara che gli interventi finalizzati a migliorare la condizione dei poveri non stanno avendo un particolare impatto, il 21% sostiene che addirittura stanno peggiorando le cose e solo il 10% parla di un impatto positivo. Nella media europea il 64% dei cittadini ritiene neutro l’impatto delle politiche contro la povertà, il 10% negativo e il 18% positivo. Molto più alte le quote di cittadini che valutano positivamente gli impatti delle politiche contro la povertà in Svezia (45%), Paesi Bassi (26%), Regno Unito (18%) e Germania (15%).

Né pensionati, né occupati: la trappola dei lavoratori anziani. L’età media di effettivo pensionamento nel nostro Paese è di 60,8 anni per gli uomini e 60,7 anni per le donne. Sono dati che (fatta salva la Francia, dove l’età media di uscita dal mercato del lavoro è di 59,4 anni per gli uomini e 59,1 anni per le donne) rendono il nostro Paese quello con la più bassa età di pensionamento effettivo rispetto alla gran parte dei Paesi europei. Attualmente ben il 52% degli italiani è convinto che ci sono molte persone che vanno in pensione troppo presto. Questo dato è superiore a quello medio europeo (pari al 43%) e a quello di Paesi come Regno Unito (32%), Olanda (34%) e Germania (42%). Nel nostro Paese lavorare più a lungo sta diventando sempre più importante anche per sostenere il proprio tenore di vita. Il 28% degli italiani è molto preoccupato e il 40% abbastanza preoccupato per il fatto che il proprio reddito in vecchiaia sarà insufficiente a garantire un livello dignitoso di vita. I due dati sono superiori ai valori medi europei, pari rispettivamente al 20% per le persone molto preoccupate e al 34% per quelle abbastanza preoccupate. Il 21% degli italiani di età superiore a 18 anni è convinto che sarà costretto ad andare in pensione più tardi rispetto all’età di pensionamento pianificata, il 20% pensa che dovrà provare a risparmiare di più per quando sarà in pensione, il 19% ritiene che la propria pensione sarà d’importo inferiore a quanto si aspetta.

Le nuove frontiere del consumo farmaceutico. La dinamica di lungo periodo dei consumi farmaceutici mostra un costante aumento dei consumi complessivi in termini di dosi e confezioni, a fronte di un aumento molto contenuto della spesa totale. Quella a carico del Ssn (convenzionata) e quella privata (a carico dei cittadini) hanno andamenti di segno opposto: dal 2001 la prima è rimasta sostanzialmente stabile (quasi 11,2 miliardi di euro nel 2009), mentre la spesa privata fa osservare un aumento continuo (fino a superare i 7,9 miliardi di euro). Nell’anno in cui la crisi ha fatto sentire i suoi effetti sulle famiglie italiane, circa la metà ha dichiarato che la spesa per la salute è molto (11,4%), abbastanza (28,2%) o un po’ (8,3%) aumentata, mentre il 53,3% ha indicato di aver intensificato nel 2009 il ricorso ai farmaci generici con l’obiettivo di risparmiare.

L’onda lunga della comunicazione sulla salute. Il boom dell’informazione sanitaria avvenuto dagli anni ’90 in poi mostra oggi gli effetti positivi della diffusione nel corpo sociale di comportamenti preventivi e stili di vita più corretti. Allo stesso tempo si osservano alcuni effetti perversi che la spettacolarizzazione dell’informazione sanitaria produce sulle conoscenze individuali. Secondo un’indagine del Censis, il 50,2% degli italiani è convinto che non sia vero che le persone con sindrome di Down abbiano pressoché sempre un ritardo mentale, e addirittura il 73% pensa che le persone autistiche siano quasi sempre geniali nella matematica, nella musica o nell’arte. Le narrazioni mediatiche in cui prevale la spettacolarizzazione di singole vicende, statisticamente rarissime, finiscono per sedimentarsi sotto forma di pseudo-nozioni per ampi settori della popolazione. Dell’ictus, ad esempio, pur essendo la terza causa di morte in Italia, solo meno della metà degli italiani sa che colpisce il cervello.

La disabilità invisibile. La dimensione sociale prevalente della disabilità è l’invisibilità, o quanto meno una visibilità distorta, che si allinea con il crescente arretramento delle politiche per le persone disabili. Secondo la recente stima del Censis, si tratta complessivamente di 4,1 milioni di persone, pari al 6,7% della popolazione, con cui gli italiani mostrano di relazionarsi con difficoltà. La maggioranza degli italiani (il 66%) ritiene che le persone con disabilità intellettiva siano accettate solo a parole, ma che nei fatti vengano spesso emarginate, mentre il 23,3% condivide un’opinione più negativa: la disabilità mentale fa paura e queste persone si ritrovano quasi sempre discriminate e sole. Si tende poi a sovrastimare il peso della disabilità motoria (il 62,9% pensa anzitutto a questo tipo di limitazione) e a non includere in questo concetto, o a farlo solo in parte, la non autosufficienza degli anziani, che pure rappresenta un tema che pesa nella vita quotidiana di moltissime famiglie nel nostro Paese: il 29,4% pensa che la disabilità sia equamente distribuita tra i bambini e i giovani, gli adulti e la popolazione anziana.

Il capitolo «Territorio e reti» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010

Roma, 3 dicembre 2010 – L’inossidabile fiducia delle famiglie nell’investimento immobiliare. Dopo il lungo ciclo positivo dell’immobiliare, iniziato nella seconda metà degli anni ’90, durante il quale i volumi delle compravendite sono costantemente cresciuti fino ad avvicinarsi alla soglia degli 850.000 scambi all’anno (nel 2006), la fase di ridimensionamento che ne è seguita sembra essersi conclusa, e si registra una inversione di tendenza. La tradizionale fiducia delle famiglie italiane nell’investimento nel mattone torna a manifestarsi, tanto da far prevedere per il 2010, dopo tre anni consecutivi di calo dei volumi, un leggero progresso nelle compravendite, che possono essere stimate in 630.000 unità residenziali a fine anno (+3,4% rispetto al 2009). Secondo un’indagine del Censis, l’investimento in un immobile è considerato dagli italiani il canale preferibile per l’impiego dei risparmi familiari. Il 22,7% degli italiani ritiene che sia questa la forma di utilizzo dei propri risparmi da privilegiare, contro il 21,8% che pensa che i risparmi vadano mantenuti liquidi sul conto corrente e appena l’8,5% che giudica preferibile acquistare azioni e quote di fondi comuni di investimento. C’è comunque un 39,7% di italiani che dichiarano di non avere risparmi da utilizzare.

Leva urbanistica e scambio pubblico-privato: il rischio della deriva immobiliarista. Gran parte dei programmi di intervento presenti nell’agenda delle città italiane si trova a fare i conti con la scarsità dei finanziamenti pubblici. In questa fase di carenza di risorse, le entrate derivanti dagli oneri di urbanizzazione hanno rappresentato una boccata d’ossigeno per i Comuni: una dinamica che ha portato non poche amministrazioni locali a favorire, per fare cassa, una forte produzione edilizia e un notevole consumo di suolo. Anche nel caso delle infrastrutture di mobilità sta prendendo piede un modello diverso dal passato, che vede come moneta di scambio, per recuperare l’investimento effettuato dal privato, non più la gestione dell’infrastruttura, ma la possibilità di realizzare nuove volumetrie su terreni pubblici o in deroga al piano urbanistico.

L’impaludamento dei servizi pubblici di rilevanza economica: il caso dell’acqua. Non c’è pace nel settore dei servizi pubblici di rilevanza economica. Nonostante sia oggetto da alcuni anni di una incessante attività di riforma, gli utenti sono cronicamente insoddisfatti, gli investimenti ristagnano, i processi di modernizzazione restano al palo e non si consolidano sistemi di gestione di tipo autenticamente industriale. L’11,5% degli utenti denuncia irregolarità nell’erogazione dell’acqua (nel 1995 questa percentuale era simile, il 14,7%). In alcune regioni, come la Calabria, si supera il 30% e nel periodo estivo la media nazionale arriva al 42,7%. In più, il 32,2% delle famiglie utenti dichiara di non fidarsi dell’acqua che sgorga dal rubinetto di casa.

I fattori della centralità dell’industria energetica. La valenza sociale di un settore fondamentale della nostra economia produttiva come quello energetico è spesso poco considerata. Ma i benefici che si originano all’interno della filiera della produzione energetica per il sistema-Paese, per le imprese e per i cittadini sono notevoli. Assorbe un’occupazione diretta consistente (circa 118.000 addetti) costituita dal personale dipendente delle compagnie, di elevata qualificazione. Alimenta importanti settori collegati, sia industriali (dall’impiantistica alle costruzioni, dalla siderurgia all’industria elettromeccanica), sia nei servizi (dalla progettazione ai trasporti, dalla ricerca alla formazione), anch’essi di elevata specializzazione. Produce un fatturato annuo rilevante, che supera i 230 miliardi di euro. Determina importanti investimenti sul territorio (dell’ordine di alcuni miliardi di euro l’anno), in parte legati all’esigenza di aderire a una normativa tecnica, ambientale e relativa ai temi della sicurezza in continua evoluzione. Produce un gettito considerevole per lo Stato anche in termini di imposte indirette, quali le accise, che solo per il settore dell’autotrasporto ammontavano nel 2008 a oltre 23 miliardi di euro.

Opportunità imprenditoriali e occupazionali dalla «torsione verde» dell’economia. Il segmento dell’energia rinnovabile, oltre a simboleggiare la natura intrinseca della green economy, ne rappresenta la componente industriale più dimensionata e più promettente in termini di sviluppo potenziale. L’energia prodotta in Italia da fonti rinnovabili si approssima al 20% del totale. La crescita del comparto, alimentata dalle politiche europee e nazionali, è stata decisamente rapida. In soli quattro anni è aumentata del 39%. Quanto alla distribuzione sul territorio, la produzione, come anche la potenza degli impianti, si concentra nelle regioni settentrionali, dove è determinante il contributo della fonte idroelettrica.

Il capitolo «I soggetti economici dello sviluppo» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010

Roma, 3 dicembre 2010 – Nuova dinamica dei consumi: fine di un ciclo o semplice pausa di riflessione? A partire dal secondo trimestre del 2008, la riduzione dei risparmi delle famiglie si è accompagnata a una sensibile contrazione dei consumi. Se nella maggioranza dei casi (il 51%) le famiglie si sono limitate a ridurre gli sprechi, non pochi (il 24%) sono coloro che si dichiarano costretti a rinunciare a prodotti o servizi giudicati essenziali. Nell’ultimo anno si sono messi in atto comportamenti più parsimoniosi, riducendo pranzi e cene fuori casa (il 60,4% delle famiglie), comprimendo le spese per lo svago (56,9%) e perfino modificando le abitudini alimentari (38,1%). È soprattutto per gli acquisti più impegnativi che si assiste a una tendenza a temporeggiare. Ciò ha portato alla fine del ciclo espansivo legato all’utilizzo degli strumenti di credito al consumo, che nel primo semestre del 2010 subiscono una contrazione in valore del 4,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Si assiste a un calo del 2,4% nel numero di prestiti personali erogati, del 2,1% nei prestiti finalizzati all’acquisto di determinati beni e del 6,3% nelle operazioni di cessione del quinto dello stipendio. La tendenza trova conferma anche nell’ambito delle piccole spese, come quelle effettuate mediante le carte di credito. Rispetto agli inizi del 2009, l’importo complessivo delle operazioni ha subito una flessione del 3,7%. La percentuale di famiglie che utilizzano il credito al consumo si è ridotta dal 17,8% di inizio 2009 al 14,8% di inizio 2010, per poi aumentare leggermente nel corso dell’anno, attestandosi al 16,9%.

Deindustrializzazione competitiva per guardare oltre la crisi. Dall’inizio della crisi, l’Italia ha perso 574.000 occupati (giugno 2008-giugno 2010) e le imprese manifatturiere si sono ridotte di oltre 93.000 unità. La riduzione del valore aggiunto ha colpito tutti i comparti produttivi ad eccezione di quello dell’intermediazione immobiliare. Se in media la riduzione nel Paese è stata del 5,5%, si sono raggiunti a fine 2009 (rispetto all’anno precedente) livelli molto più preoccupanti nel manifatturiero (-14,5%) e nel commercio (-9,5%). Mentre oggi gran parte del terziario appare in recupero (i servizi alle imprese sono cresciuti del 2,2% nell’ultimo anno e le attività professionali del 3,1%), l’industria tradizionale (-1,9%), il comparto agricolo (-2,6%) e l’autotrasporto (-1,7%) continuano a registrare ancora nel 2010 un’emorragia di unità produttive. La fenomenologia emergente non è il declino del manifatturiero tradizionale, ma una più complessa deindustrializzazione competitiva, ovvero un riposizionamento dell’industria in cui il terziario gioca una parte rilevante. La crisi sembra avere accentuato la fase espansiva del terziario alle imprese, con comparti come quelli della consulenza, della logistica, della ricerca, dei servizi Ict in cui il numero di imprese ha registrato a metà del 2010 incrementi intorno al 5% rispetto all’anno precedente.

La metamorfosi dei terziari. Le dinamiche delle imprese e dell’occupazione tra il 2005 e il 2009 evidenziano il riposizionamento del settore terziario. Si registra una sostanziale stagnazione del commercio (le imprese crescono dell’1,4%, gli occupati dello 0,9%), dovuta alla forte contrazione del piccolo commercio al dettaglio. Nei trasporti e nella logistica è forte la contrazione nel numero delle imprese (-6,5%), mentre l’occupazione rimane pressoché invariata (+1%). Nel turismo (alberghi, ristoranti, agenzie di viaggio) crescono a ritmi sostenuti sia le imprese (+12%) che gli occupati (+10,2%). Nel terziario avanzato (servizi alle imprese e intermediazione finanziaria) aumenta rapidamente il numero di imprese (+17%), soprattutto nel comparto immobiliare, mentre è meno rapida, ma pur significativa, la crescita dell’occupazione (+7,8%). I servizi alla persona sono in forte espansione sia in termini di imprese (+8,7%), sia in termini di occupati (+18,4%).

L’inesauribile protagonismo dei distretti industriali. Nel primo trimestre del 2010 la flessione delle esportazioni dei distretti industriali è notevolmente rallentata (-0,9% in termini tendenziali), mentre nel secondo trimestre dell’anno si è finalmente registrato un incremento del 13,8%. Tutti i comparti distrettuali, dalla meccanica alla moda, dagli elettrodomestici ai prodotti per la casa e i prodotti in metallo, si sono riportati su terreno positivo. Un segnale incoraggiante, dopo un lungo periodo di arretramento sui mercati esteri. Se nei mercati di sbocco tradizionali, quali l’Europa e il Nord America, ancora agli inizi del 2010 si registra un sostanziale arretramento (nei primi tre mesi dell’anno le esportazioni distrettuali in Germania si sono ridotte del 2%, in Francia dell’1,7%, negli Stati Uniti dell’1,1%), in Cina le esportazioni sono aumentate di quasi il 22%, ad Hong Kong del 28,8%, in India del 51,8% e negli Emirati Arabi Uniti del 15,8%. La Cina è balzata al settimo posto come area di esportazione dei distretti industriali italiani.

Logistica intermodale per far crescere il Paese. L’Italia è uno dei Paesi europei in cui negli anni pre-crisi il trasporto di merci su rotaia è aumentato maggiormente, con una crescita media annua nel periodo 2004-2008 del 3,5%, inferiore soltanto a quella di Germania e Austria. I traffici intermodali raggiungono un’incidenza sul trasporto ferroviario complessivo pari al 45,1% (la più alta d’Europa), grazie a una rete di strutture interportuali e di terminal intermodali in espansione. Tuttavia, a causa dei mancati investimenti a favore dello sviluppo dei traffici intermodali nei porti italiani, l’Italia è anche il Paese europeo che è riuscito a intercettare di meno l’importante incremento del traffico di container verificatosi tra il 2004 e il 2008. Se la crescita nel nostro Paese fosse stata paragonabile a quella media dell’Europa occidentale (+36%), nel 2008 i porti italiani avrebbero movimentato 2,4 milioni di unità di carico in più rispetto a quante ne sono state effettivamente trasportate. Ciò ha portato a una perdita in termini di fatturato compresa tra 700 milioni di euro (nel caso in cui i container fossero soltanto in transito) e 5,5 miliardi di euro (nel caso in cui i container fossero anche «lavorati» in Italia), e a una mancata occupazione compresa tra 11.000 e 99.000 unità.

Per una nuova politica di sostegno alle imprese e ai localismi. Tra il 2000 e il 2008 le agevolazioni alle imprese concesse dallo Stato e dalle amministrazioni regionali hanno superato gli 88 miliardi di euro, con una spesa media annua di 11 miliardi di euro. Forti le difformità tra il Centro-Nord e il Sud in merito alla tipologia di agevolazioni concesse. Nelle regioni meridionali il 23% dei finanziamenti pubblici è destinato ad attività di innovazione, ricerca industriale e trasferimento tecnologico, mentre nel Centro-Nord si arriva al 57%, a cui si aggiunge il 12% di incentivi per l’export e l’internazionalizzazione.

Il capitolo «Comunicazione e media» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010

Roma, 3 dicembre 2010 – Il futuro della rete, tra sicurezza delle transazioni e gratuità dei contenuti. Il futuro di Internet dipenderà dal modo in cui verranno sciolti due nodi rimasti irrisolti: i problemi di sicurezza delle transazioni on line e la questione riguardante la totale gratuità o meno dei contenuti reperibili in rete. Al momento solo il 43% degli italiani che utilizzano Internet si dice pienamente fiducioso in merito alla sicurezza delle transazioni (per il 5% sono del tutto sicure, abbastanza sicure per il 38%): un dato nettamente più basso del 58% medio rilevato a livello europeo. Molti gli utenti che hanno incontrato problemi legati alla navigazione in Internet. Il 64% lamenta di ricevere una quantità eccessiva di spam, al 58% è capitato di essere infettato da un virus informatico, l’8% si è imbattuto in incidenti relativi alla violazione della privacy, il 3% denuncia problemi legati alla sicurezza dei minori, il 2% è stato vittima di phishing. Tra le principali precauzioni adottate c’è quella di evitare le transazioni finanziarie on line (e-commerce, e-banking, ecc.), come dichiara il 55% degli utenti (un dato più alto di quello medio europeo, pari al 42%). Venendo al secondo nodo irrisolto, secondo una indagine del Censis per il 64,2% degli utilizzatori di Internet la forza della rete sta nella piena libertà dell’utente, che verrebbe compromessa dalla richiesta di pagamenti per l’accesso ad alcuni siti. L’11,8% sostiene che dovrebbero essere Google e gli altri aggregatori di notizie digitali a condividere i loro profitti con i produttori dei contenuti, dal momento che grazie alle inserzioni pubblicitarie monetizzano il traffico generato proprio da quei contenuti. Il 24% è invece favorevole al superamento dell’opzione «tutto gratis»: il 14,9% si dice disposto ad accettare il pagamento da parte dell’utente dei contenuti di informazione reperibili sul web attraverso il meccanismo dei micropagamenti, mentre il 9,1% si dimostra consapevole che la garanzia della libertà di informazione dipende anche da bilanci sani degli editori, che dovrebbero poter trarre qualche profitto dalle versioni digitali del loro lavoro.

Fuga dalle notizie: la cattiva informazione smorza l’audience. Tra settembre 2009 e giugno 2010 c’è stato un calo di spettatori dei telegiornali serali nazionali da 18.333.000 a 14.968.000, con una perdita di audience superiore a 3 milioni. A diminuire in misura maggiore è stato l’ascolto del Tg5 e del Tg1, con una perdita di circa un milione di telespettatori ciascuno. Il confronto settembre 2009-settembre 2010 è altrettanto inesorabile: il Tg1 perde il 3,3% di share e 441.000 telespettatori. Anche peggio va al Tg5, che registra una media del 21,1% di share e 4.601.000 telespettatori, arretrando di 5 punti di share e di 813.000 telespettatori. Nel mese di settembre 2010 il Tg1 e il Tg5 hanno concesso molti più minuti al Pdl (il Tg1 il 35,8% del tempo totale contro il 17,3% al Pd, con un’ora e mezza di differenza; il Tg5 il 30,7% contro il 23%, con una differenza di 37 minuti). Lo sbilanciamento nello spazio concesso alle notizie di una parte piuttosto che dell’altra può aver provocato il distacco di una porzione degli ascoltatori.

Leggere nel futuro: il digitale sorpasserà il cartaceo? Si prevede che la quota di mercato dei libri digitali triplicherà quest’anno, passando dallo 0,03% allo 0,1%, per un valore di oltre 3,4 milioni di euro. Si registra anche una forte crescita delle vendite di libri on line: +94,4% tra il 2006 e il 2009, +11,9% tra il 2008 e il 2009, con ricavi superiori a 100 milioni di euro. Anche i primi mesi del 2010 sono positivi: rispetto al giugno del 2009, le librerie on line fanno registrare un incremento dell’attività del 24,5%. Nel 2009 i libri elettronici pubblicati sono stati 685, per un totale di 2.257 opere disponibili sul mercato. I dati al settembre 2010 mostrano una produzione pari a 945 titoli (+38%), raggiungendo così un totale di 3.202 titoli elettronici disponibili nel nostro Paese (+41,8%). D’altra parte, gli utenti Internet rappresentano per alcune testate giornalistiche una significativa percentuale del totale dei lettori: il 19,6% per la Repubblica, il 18,2% per Il Sole 24 Ore, il 15,1% per il Corriere della Sera.

L’informazione medica corre sul web. Dall’indagine del Censis in merito ai principali canali utilizzati dagli italiani per informarsi sui temi legati alla salute si evince che il medico gode sempre di un’ampia considerazione: ricorre al medico di famiglia il 20,3% del campione (dato che sale al 31,1% tra i soggetti meno istruiti), il 2,5% si rivolge al medico specialista e il 2,3% al farmacista. C’è poi il passaparola tra amici, colleghi e parenti, indicato come il mezzo principale per acquisire le informazioni dal 18,7% degli intervistati. Ma la prima fonte di informazione è la televisione, secondo il 42,9% delle opinioni raccolte, mentre il 25,8% degli italiani le cerca in giornali e riviste. Va sottolineato, però, che il 12,6% individua in Internet il primo strumento a cui ricorrere per informarsi su tematiche mediche (il web è la principale fonte di informazione sanitaria per il 17,8% dei laureati). Se però si valuta un uso più generico di Internet in relazione alla propria salute, il dato degli utilizzatori sale al 34% degli italiani (il dato oscilla tra il 5,4% dei soggetti con la sola licenza elementare fino a oltre il 45% di diplomati e laureati). Il 29,5% usa il web per cercare informazioni su patologie specifiche, il 18,4% per trovare informazioni su medici e strutture a cui rivolgersi, il 2,1% (e il dato arriva al 7,4% tra i soggetti laureati) frequenta forum on line, chat, blog e consulta altre communities di pazienti per scambiare informazioni e pareri. A questi comportamenti vanno sommati anche altri comportamenti funzionali, come l’abitudine a prenotare visite specialistiche e analisi mediche via Internet, che riguarda il 5,3% (il 9,5% dei laureati), o l’acquisto di farmaci on line, praticato dall’1,9%.

Le responsabilità sociali dei media e l’opacità delle norme. L’accelerazione tecnologica e l’evoluzione dei media rendono la triangolazione «famiglie, minori, media» sempre più complessa. Il 18,2% dei minori utilizza il Pc da solo in casa. Le differenze tra i bambini e i ragazzi di 3-17 anni dovute al titolo di studio dei genitori sono molto forti: ha usato il Pc negli ultimi 3 mesi il 64,9% dei bambini e dei ragazzi con almeno un genitore laureato rispetto al 34,6% di quelli con genitori con al massimo la licenza elementare. I bambini e i ragazzi con genitori con titoli di studio bassi sono svantaggiati sia nell’uso a casa sia nell’uso combinato casa-scuola, a dimostrazione del fatto che la scuola non riesce a colmare il profondo divario dovuto a uno svantaggio sociale.

Il capitolo «Governo pubblico» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010

Roma, 3 dicembre 2010 – L’apnea della finanza pubblica. Il Pil potrebbe aumentare quest’anno dell’1,2%, riportando il rapporto debito pubblico/Pil intorno al 115% nel 2013 (dopo un picco, atteso per il 2011, del 119,2%), con un ammontare del debito che sfiorerebbe i 2.000 miliardi di euro. Non sarà soddisfatta l’attesa per una riduzione della pressione fiscale, la quale si manterrà costantemente al di sopra della soglia del 42%. I principali interventi del Governo dovranno portare: a una riduzione del costo della Pubblica Amministrazione per un valore di oltre 6 miliardi di euro; a una riduzione dei costi politici e amministrativi per 181 milioni di euro nel 2010 e 39 milioni nel 2013; al contrasto all’evasione fiscale e contributiva, dal quale ci si attende un forte recupero soprattutto a partire dal 2011, con un importo complessivo superiore ai 21 miliardi di euro.

La Pubblica Amministrazione possibile volano per l’innovazione. Il Ministero per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione ha deciso di puntare su tre aree prioritarie: scuola, sanità e giustizia; nonché su tre obiettivi settoriali: sistema pubblico di connettività, rapporti tra Pa e cittadino e dematerializzazione. Su scuola e università il processo è avviato: al 31 luglio le scuole connesse in rete risultavano 4.000 (il 12,2% delle scuole presenti in Italia) e da un anno è attivo il portale «ScuolaMia» che offre servizi alle famiglie: dalla pagella digitale alla segnalazione delle assenze, fino al registro elettronico e ai certificati on line. Il Fascicolo sanitario elettronico si prospetta come una innovazione epocale. Secondo il piano, la storia clinica di ogni cittadino sarà disponibile in formato digitale e in rete con il Sistema sanitario nazionale. Sul versante della dematerializzazione, un ruolo centrale è svolto dalla casella di posta elettronica certificata (Pec). Più di 267.000 cittadini hanno richiesto una casella, ma non tutte le amministrazioni pubbliche ne sono provviste. A luglio di quest’anno le imprese dotate di Pec ammontavano a poco più di 400.000 (circa il 10% delle imprese italiane) e la possedevano circa un milione di professionisti, praticamente la metà degli iscritti agli Ordini. Nei rapporti tra cittadino-utente e Pa è stata avviata l’iniziativa «Mettiamoci la faccia», che dà la possibilità di esprimere un giudizio sulla qualità dei servizi ricevuti attraverso l’uso di interfacce emozionali (emoticons). A settembre 2010 si conta l’adesione di 230 amministrazioni tra centrali, locali ed enti di previdenza, con 1.429 sportelli sparsi sul territorio e più di 4 milioni di giudizi (lusinghieri in oltre il 90% dei casi) espressi dagli utenti in merito alla qualità dei servizi ricevuti.

Le università spingono la R&S anche a favore delle imprese. L’importo dei fondi per la ricerca delle università è in crescita costante (+69,6% negli anni 2004-2008) e sempre meno dipendente dai fondi pubblici. L’incidenza dei contratti di ricerca e consulenza (R&C) e dei servizi tecnici finanziati da terzi è cresciuta progressivamente, fino a diventare la quota più rilevante (27,4%), dopo aver superato il peso dei fondi provenienti dal governo centrale (23,8%). Dal 2000 a oggi si è quintuplicato il numero delle imprese spin-off gemmate dalle università (806 nel 2009): circa l’80% è localizzato nelle regioni dell’Italia centro-settentrionale.

L’europeismo fideistico degli italiani. Nel 1999 l’appartenenza all’Unione europea era vista con favore dal 60% degli italiani, dieci anni dopo la percentuale è scesa al 49%. Siamo dunque passati da un euroentusiasmo a un euroscetticismo? Quello che alimenta il nostro europeismo è un’idea quasi messianica: solo l’Europa ci può salvare. Anche se confessiamo la nostra ignoranza (non sappiamo bene cosa sia e come funzioni l’Europa) e la nostra distanza dalle istituzioni europee, continuiamo a fidarci più di queste ultime che di quelle nazionali.

Il capitolo «Sicurezza e cittadinanza» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010

Roma, 3 dicembre 2010 – Aspettando il Piano carceri. Ci sono voluti quattro anni dall’ultimo provvedimento di indulto per riportare gli istituti carcerari a vivere gli stessi problemi di allora, con quasi 70.000 detenuti (nel 2006 erano 60.000) e un tasso di sovraffollamento che supera il 150%, ma che in alcuni casi (in Puglia, Emilia Romagna e Calabria) oltrepassa il 170%. Andando avanti di questo passo, a fine 2012 si dovrebbe sfiorare la quota di 100.000 detenuti. Oltre al sovraffollamento ci sono altri fattori di disagio: il 36,9% dei detenuti è straniero, il 24,5% è tossicodipendente, il 2,3% è dipendente da alcol, l’1,8% è infetto da Hiv, le guardie penitenziarie sono 39.569 rispetto alle 45.121 previste per legge, il costo medio giornaliero per detenuto è sceso dai 131,9 euro del 2007 ai 113,4 euro stimati per il 2010. Circa 30.000 detenuti si trovano in carcere per avere contravvenuto alla legge sulla droga e circa 4.000 a quella sull’immigrazione. Circa 30.000 detenuti (pari al 44% del totale) sono in attesa di uno dei gradi del procedimento. Tra questi, la gran parte (15.111) è in attesa del giudizio di primo grado.

La ripresa del contrabbando. In Italia i fumatori di età superiore ai 15 anni sono circa 11 milioni, pari al 21,7% del totale della popolazione. L’età media in cui si inizia a fumare è 17 anni, con una media di 13 sigarette al giorno. Nel 2009 sono stati venduti 89,1 milioni di kg di sigarette, il 3,1% in meno rispetto ai 92 milioni del 2008. I dati relativi ai primi 9 mesi del 2010 confermano un calo nell’ordine dell’1,3%. Ma i dati sui sequestri negli ultimi quattro anni rivelano una ripresa del commercio illegale: si passa dalle 240.785 tonnellate di tabacchi esteri sequestrati nel 2006 alle 297.689 del 2009. I danni economici derivanti dalla contraffazione e dal contrabbando delle sigarette si stimano da un minimo del 3% a un massimo del 5% del fatturato del settore, per un importo che oscilla tra i 500 e i 700 milioni di euro annui.

Pubblico e privato si integrano in nome della sicurezza. Accanto alle forze dell’ordine, le guardie giurate collaborano in un sistema di sicurezza integrato. Si tratta di 924 aziende attive nel 2008, per un totale di 49.137 dipendenti e un fatturato di 2,4 miliardi di euro. Quanto all’identikit delle guardie giurate, si tratta per la grande maggioranza di uomini (le donne sono 4.146 e rappresentano l’8,4% del totale dei dipendenti), che in oltre la metà dei casi provengono da una regione del Sud d’Italia. Le province in cui è maggiore la richiesta di guardie giurate sono quelle dove sono presenti le città maggiori: a Roma si contano 7.008 dipendenti, a Milano 4.096, a Napoli 3.814.

Un’Agenzia per restituire alla collettività i patrimoni mafiosi. A settembre 2010 sono oltre 11.000 i beni immobili confiscati alle mafie dallo Stato in tutte le regioni italiane, con l’esclusione della sola Valle d’Aosta. Di essi, 6.423 risultano destinati. Più di mille sono le aziende. La maggioranza dei beni immobili si trova in Sicilia (44,7%), Campania (15,1%), Calabria (13,9%) e Puglia (8,3%), ma è elevato il numero di beni confiscati anche in Lombardia (913, pari all’8,3% del totale, di cui 184 aziende) e nel Lazio (482, il 4,4% del totale, di cui 105 aziende). La graduatoria provinciale vede in testa Palermo, dove si trova il 30% del totale dei beni sottratti (3.316 in valore assoluto), poi Reggio Calabria (9,2%), Napoli (8,3%) e Catania (5,4%), seguono ancora Milano, Caserta, Roma, Trapani, Bari e Catanzaro, per un totale di 8.195 beni confiscati in questi territori, pari al 74,2% del totale. Per superare le difficoltà nelle fasi di gestione, destinazione e consegna dei beni, quest’anno è stata istituita l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità: un organismo autonomo, dotato di proprie risorse finanziarie (3 milioni di euro per il 2010 e 4 milioni di euro per il prossimo anno), sotto la vigilanza del Ministro dell’Interno.

La conoscenza della lingua italiana: un obbligo su cui investire di più. A breve la conoscenza dell’italiano diventerà un requisito essenziale per poter soggiornare regolarmente sul territorio nazionale, come prevede la legge 94/2009. Una ricerca del Censis su un campione di 13.000 immigrati che lavorano in Italia ha messo in evidenza come l’8,9% degli immigrati ha un’ottima conoscenza della nostra lingua, il 33,1% ne ha una conoscenza buona, per la gran parte (circa il 43%) il livello è sufficiente, mentre la quota di chi non conosce a sufficienza l’italiano è pari al 15,1% del totale. I migranti che durante l’anno scolastico 2008/2009 hanno partecipato ai corsi di istruzione degli adulti presso i Centri territoriali permanenti (Ctp) sono 134.627, ovvero il 44,3%, dell’utenza complessiva.

Gli immigrati come occasione per ripensare i servizi per l’impiego. I lavoratori stranieri nel 2009 sono 1.898.000 (il 68,4% dei quali proviene da Paesi non Ue) e rappresentano l’8,2% del totale degli occupati, con un incremento dell’8,4% rispetto all’anno precedente. Il tasso di attività e il tasso di occupazione evidenziano una partecipazione al mercato del lavoro della popolazione straniera più elevata rispetto alla popolazione italiana: gli stranieri presentano un tasso di attività del 71,4% contro il 47,3% degli italiani, mentre il tasso di occupazione è del 63,4% per gli stranieri e del 43,7% per gli italiani. Maggiore di quello degli italiani, e in preoccupante crescita, è invece il tasso di disoccupazione, che è salito di ben 2,7 punti percentuali nell’ultimo anno, arrivando all’11,2% contro il 7,5% degli italiani. Secondo un’indagine del Censis, appena l’1,9% degli immigrati che lavorano ha trovato una occupazione attraverso l’intermediazione di un Centro per l’impiego: dato che può essere confrontato con il comunque basso 3,9% riferibile ai lavoratori italiani.