Il segreto di Madre Teresa di Calcutta


1.

La Chiesa non sarebbe sopravvissuta storicamente se non avesse maturato e utilizzato la capacità di dare a fenomeni sopravvenuti nel corso della sua lunga vicenda significati del tutto diversi da quelli apparenti. Tale capacità è la sua forza ma anche la sua debolezza. Andare al di là delle apparenze è un esercizio interpretativo periglioso, perché, se è vero che esso comporta la possibilità di approdare alle essenze, a ciò che si dà dietro i fenomeni, esso comporta anche il rischio di elaborare significati arbitrari e astratti. E’ evidente che, nel momento in cui un’Istituzione si definisce depositaria della Verità rivelata, e dunque assoluta, essa ha sempre buon gioco nel fare rientrare in essa fenomeni che apparentemente sembrano contraddirla.

La premessa introduce un argomento molto delicato.

E’ venuto a galla in pieno agosto il segreto di Maria Teresa di Calcutta. Pur non avendolo mai occultato, la Chiesa ha fatto il possibile per tenerne l’opinione pubblica al riparo, nell’attesa di poterlo rivelare dando ad esso un senso “positivo”, atto a corroborare la fede dei credenti piuttosto che ad ingenerare dubbi. Ora i tempi sono maturi al punto che a breve sarà pubblicato un libro delle lettere cui Madre Teresa ha affidato il suo segreto. Certo, il titolo preannunciato «Come be my light» appare già paradossale, perché nelle sessanta lettere che scandiscono quasi tutto l’arco di vita di Madre Teresa il riferimento più insistente è il buio, l’oscurità, il vuoto, la perdita di contatto con Dio.

Chiarisco anticipatamente che l’intento di questo articolo non verte sulle acrobazie che la Chiesa sta facendo e farà per ammortizzare l’impatto delle lettere in questione sui credenti, bensì sul tentativo di interpretare il dramma di Madre Teresa in termini che restituiscano ad esso la dignità che ha e il suo significato profondo.

Il dramma, testimoniato dalle lettere, è quello di un’anima che, operata una scelta di vita radicale, incentrata sulla fede in Dio e nel suo Figlio, non viene mai meno all’obbligo di tradurre quella fede in un’operatività rivolta ad aiutare i fratelli che soffrono, ma, allo stesso tempo, perde il contatto emozionale, mistico con Dio e vive nell’abbandono, nel vuoto, nell’oscurità, nella freddezza e nell’aridità spirituale.

Per oltre 50 anni, è stato co­sì: non la fugace crisi spirituale, durata pochi mesi, di cui già avevano parlato i biografi, rievocando anche l’esorcismo cui Madre Teresa era stata sottoposta da un sacerdote. Ma molto di più e di più profondo, un cammino di decenni sull’orlo del precipizio… Alcuni brani delle lettere confermano la continuità di un’esperienza letteralmente dissociata tra un’apparente pace e serenità e un travaglio interiore angoscioso:

Mi hai respinto, mi hai gettato via, non voluta e non amata. Io chiamo, io mi aggrappo, io vo­glio, ma non c'è Alcuno che ri­sponda. Nessuno, nessuno. So­la... Dov'è la mia Fede... Perfi­no quaggiù nel profondo, null'altro che vuoto e oscurità - Mio Dio - come fa male que­sta pena sconosciuta...

Per che cosa mi tormento? Se non c'è alcun Dio non c'è neppure l'anima, e allora anche tu, Gesù, non sei vero... Io non ho alcuna Fede. Nessuna Fede, nessun amore, nessuno zelo. La salvez­za delle anime non mi attrae, il Paradi­so non significa nulla... Io non ho nien­te, neppure la realtà della presenza di Dio”

“Signore, mio Dio, perché mi hai abban­donato? Io ero la fi­glia del Tuo amore, divenuta ora la più odiata, quella che Tu hai respinto, che hai gettato via come non voluta e non ama­ta. Io chiamo, io mi aggrappo, io vo­glio, ma non c'è Alcuno che risponda. Nessuno, nessuno. Sola... Dov'è la mia Fede? Perfino quaggiù nel profon­do, null'altro che vuoto e oscurità.

Mio Dio, come fa male questa pena sconosciuta... Io non ho Fede. Non oso esprimere le parole e i pensieri che si affollano nel mio cuore e mi fanno sof­frire un'agonia indicibile. Ho dentro di me così tante domande senza rispo­sta che temo di rivelarle per paura di dire una bestemmia: se ciò accadrà, mio Dio, Ti prego perdonami, quando cerco di elevare il mio pensiero al cielo, è così schiacciante il vuoto, che quegli stes­si pensieri ritornano come pugnali acumi­nati e feriscono la mia anima. Mi vien detto che Dio mi ama. E tuttavia la realtà dell'oscurità, e del freddo e del vuoto, è così grande, che nulla tocca la mia ani­ma. Che abbia fatto un errore, nell'ar­rendermi così ciecamente alla Chiama­ta del Sacro Cuore?

«Il sorriso è una maschera, un mantello che copre il resto. Ho parlato come se il mio cuore fosse sta­to innamorato di Gesù, un amore tenero, personale; ma se lei (padre, ndr) fosse stato qui, avrebbe detto: che ipocri­sia!»

«C'è un'oscurità terribile in me, come se ogni cosa fosse morta. Ed è stato più o meno così da quando ho cominciato il mio lavoro»

«Sono nel tun­nel...»; «mormoro le preghiere della Comunità e mi sforzo per trarre da ogni parola la dolcez­za che essa deve regalare, ma la mia preghiera di unione non esiste più, io non prego più». «Mi dica, padre, perché c'è tan­ta pena e tanto buio nel mio cuore?»

“Se questo Ti dà gloria, se porta a Te le anime, io accetto tutto con gioia fi­no alla fine della mia vita.”

“Il silenzio e il vuoto sono così grandi che guardo ma non vedo, ascolto ma non sento.”

 

La decisione della Chiesa di pubblicare le lettere contro la volontà di Madre Teresa (che, un giorno, aveva chiesto al suo confessore di distruggerle) è un atto di coraggio, temperato però dal ritenere che lo “scandalo” che esse potrebbero suscitare risulterà ammortizzato da un’interpretazione edificante. Ai let­tori sarà comunicato - più che la tenta­zione scorante del dubbio - il conforto di un esempio condi­viso: del sapere cioè che anche una santa ha dovuto lottare tanto, e non si è arresa. In secon­do, secondo la Chiesa, la stessa Madre Te­resa, nelle sue lettere, indica la luce nel buio: se il Cristo senza peccato, sulla Croce, grida «Dio mio, perché mi hai abban­donato?», anche lei può e deve condividere la stessa pena, lei che scrive «Voglio amare Gesù come non è mai stato amato da nessuno finora», o «Se mai diventerò una santa, sarò di si­curo una santa dell'oscurità. Continuerò ad essere assente dal Paradiso, per dar luce a co­loro che sono nell'oscurità sul­la terra. Voglio soffrire per tut­ta l'eternità, se è possibile».

 

2.

L’esperienza di Madre Teresa è sorprendente, tenendo conto che essa, nell’immaginario collettivo cattolico, ha rappresentato fino alla fine non solo un esempio luminoso di altruismo sacrificale e di donazione di sé agli altri, ma anche di quiete interiore e di beatitudine: sorprendente, ma tutt’altro che eccezionale. Come ben sanno gli storici della Chiesa, in parecchi scritti di mistici si ritrovano pagine in cui viene segnalata angosciosamente la perdita del contatto vissuto con Dio, il vuoto, la freddezza, l’abbandono. L’angoscia associata a questa esperienza è tale che alcune mistiche, come Santa Teresa di Lisieux, ne hanno descritto anche conseguenze psicosomatiche che, a posteriori, appaiono del tutto omologabili ai sintomi dell’astinenza che sperimentano i tossicodipendenti.

Il carattere singolare del vissuto di Madre Teresa è la sua persistenza in un arco di tempo molto lungo. E’ possibile interpretare un’esperienza del genere prescindendo dal codice interpretativo della Chiesa, che Madre Teresa stessa ha adottato, secondo il quale Dio mette alla prova i suoi figli migliori e li fa straziare in vita per poi ripagarli nell’aldilà? Io penso di sì, anche se i fenomeni mistici – riconosciuti come espressivi di un’estrema tensione spirituale all’interno di tutte le religioni – sono avvolti da un’aura sacrale che ne rende difficoltosa l’analisi.

Questa si articola su due diverse linee interpretative: la prima concerne il modello di vita che Madre Teresa si è proposta e ha tentato di realizzare; la seconda riguarda dinamiche inconsce che investono qualunque rapporto di dipendenza nel quale il soggetto assegna alla relazione con l’altro un significato vitale.

Per quanto riguarda il primo aspetto, non v’è dubbio che il modello in questione sia da ricondurre all’altruismo sacrificale, vale a dire all’annullamento completo di sé a favore degli altri, vissuto come espressione e realizzazione suprema della fede cristiana.

Più volte, ho rilevato che questo valore non trova riscontro nei testi evangelici, il cui comandamento supremo è “Amare il prossimo tuo come te stesso”. Si potrebbe sostenere che tale formula corrispondeva, all’epoca in cui è stata espressa, all’esigenza di proporre al popolo un criterio morale che comportasse il superamento dell’egoismo, senza pretendere l’eroismo della santità. Da questo punto di vista, quella formula poteva essere considerata valida per i cristiani che intendevano aspirare alla salvezza, ma non per coloro che volevano imitare Cristo. Di fatto, l’esempio di Cristo, che rinuncia alla sua vita per il bene degli altri è divenuto la matrice dell’altruismo sacrificale.

C’è da pensare però che la formula in questione esprimesse una profonda “saggezza” in rapporto alla natura umana, della cui doppia natura, socio-centrica ed ego-centrica, essa si faceva carico, senza la pretesa di azzerare l’una a favore dell’altra.

 Di recente, il fondamento della formula è stato espresso in termini pregnanti e suggestivi da E. Fromm ne L’Arte di amare:

““Se è virtù amare i miei vicini come esseri umani, deve essere virtù, e non vizio, ama­re me stesso, poiché anch'io sono un essere umano. Non esiste concetto d'umanità in cui io stesso non sia incluso. Una dottrina che proclami una simile esclusio­ne è contraddittoria.” (p 67)

“Non solo altri, ma anche noi stessi siamo l'oggetto dei nostri sentimenti e attitu­dini; le attitudini verso gli altri e verso noi stessi sono fondamentalmente congiuntive. Rispetto al problema in questione ciò significa: l'amore per se stessi si trova in coloro che sono capaci di amare il prossimo.” (p. 67)

“Il mio io deve essere un oggetto di amore tanto quanto ogni altro essere. L'affermazione della propria vita, felicità, crescita, libertà è determinata dalla propria capacità di amare, cioè nelle cure, nel ri­spetto, nella responsabilità e nella comprensione. Se un individuo è capace di amare in modo produttivo, ama anche se stesso; se può amare solo gli altri, non può amare completamente.

Se l'amore per se stessi non è disgiunto dall'amore per gli altri, come ci spieghiamo l'egoismo, che ovviamente esclude qualsiasi interesse genuino per gli altri? L'egoi­sta s'interessa solo di se stesso, vuole tutto per sé, non prova gioia nel dare, ma solo nel ricevere. Vede il mondo esterno solo dal punto di vista di ciò che può ricavarne; non ha interesse per i bisogni degli altri, né rispetto per la loro dignità e integrità. Non riesce a vedere altro che se stesso; giudica tutto e tutti dall'utilità che gliene deri­va; è fondamentalmente incapace d'amare. Questo non prova che l'interesse per gli altri e l'interesse per se stessi sono alternative inevitabili? Sarebbe così se l'egoismo e l'amore per se stessi fossero la stessa cosa. Ma questa convinzione è l'errore che ha suscitato tante conclusioni errate riguardo il nostro problema. Egoismo e amore per se stessi, anziché essere uguali, sono opposti. L'egoista non ama troppo se stesso, ma troppo poco; in realtà odia se stesso. Questa mancanza di amore per sé, che è solo un'espressione di mancanza di produttività, lo la­scia vuoto e frustrato. È solo un essere infelice e ansioso di trarre dalla vita le soddisfazioni che impedisce a se stesso di raggiungere. Sembra interessarsi troppo di sé, ma in realtà non fa che un inutile tentativo di compen­sare la mancanza di amore per sé. Freud sostiene che l'egoista è un narcisista, che ha concentrato su se stesso ogni capacità d'amore. E vero che gli egoisti sono incapa­ci di amare gli altri, ma sono anche incapaci di amare se stessi.” (p. 68-69)

Più volte ho scritto che l’uomo non è padrone ma amministratore di se stesso, facendo riferimento al fatto che il cervello umano ha le sue leggi che comportano vincoli naturali. La libertà umana può naturalmente esprimersi, in ordine ai più vari motivi,  in maniera tale da violare quelle leggi. La conseguenza però è univoca: la violazione, infatti, dà luogo a meccanismi di compenso automatici che tendono a restaurare l’equilibrio secondo natura.

E’ possibile applicare questo principio alle esperienze che, come quella di madre Teresa, imboccano la via dell’altruismo sacrificale radicale? Penso di sì. I compensi, infatti, sono di due generi.

Per un verso, infatti, chi tenta di annullare se stesso a favore degli altri sviluppa periodicamente, e spesso inconsciamente, fantasie di rigetto nei confronti di coloro per cui si sacrifica i quali, senza colpe, divorano la sua vita e la estenuano. Dietro il rigetto non c’è alcuna ostilità sociale, ma solo il richiamo ad un Io al quale il soggetto non dedica neppure una minima delle attenzioni che dedica agli altri.

Se la protesta dell’inconscio nei confronti di una formula squilibrata di vita non viene recepita, il senso di colpa che ne deriva, il quale fa capo ad un’immagine interna negativa, induce un atteggiamento riparativo, per cui il soggetto sente sempre di più la motivazione a dedicarsi agli altri.

Per questa via si originano quelle paradossali situazioni di soggetti che conquistano la stima, l’ammirazione e la gratitudine di tutti, ma, nel loro intimo, si ritengono indegni. Se questo si realizza in associazione ad una vocazione religiosa, l’abbandono di Dio riesce immediatamente comprensibile: Egli, infatti, sa qual è la verità, laddove gli altri non la colgono.

Il secondo meccanismo di compenso è il ritiro emozionale dalla vita, vissuta come troppo onerosa e al limite intollerabile. Tale ritiro può riguardare gli altri, ma di solito esso non determina un cambiamento di comportamento. Il soggetto, in pratica, continua ad annullare se stesso per gli altri, ma, nella sua anima, subentra la freddezza, la sterilità, il non senso dell’esistenza, la depressione.

3.

La seconda linea interpretativa si fonda su un presupposto banale, le cui implicanze psicodinamiche risulteranno chiare ulteriormente.

Quali che siano i motivi che inducono un soggetto a credere in una religione che fa riferimento ad un unico Dio che ha creato il mondo, è fuor di dubbio che la fede implica, coscientemente o inconsciamente, l’accettazione di un dato ritenuto teologicamente costitutivo dell’essere umano: la sua insufficienza ontologica. Tale dato significa, né più né meno, che la soggettività umana non ha in sé e per sé la possibilità di sussistere e di sostenere il peso della sua precarietà e della sua insignificanza: a tal fine, necessita di una relazione significativa con Dio, vale a dire con l’Essere la cui onnipotenza fa da “protesi” all’esistente.

Non è certo un caso che, di fronte alla confutazione di quel dato, affiorata nel seno della cultura laica, la Chiesa assume un atteggiamento rigidissimo. L’uomo che sostiene di non avere bisogno di Dio e di un destino trascendente per dare senso alla sua vita e coltivare valori morali umanitari è tacciato di presunzione e di tracotanza. Quando quest’accusa viene interagita con serena fermezza e ragionevolezza, i toni della Chiesa cambiano. Il laico che non può essere imputato di nefandezze e vive coerentemente con i suoi valori morali viene identificato (arbitrariamente) con un essere naturalmente cristiano. A nulla vale rovesciare questa formula sottolineando che il cristiano (quando lo è davvero) è un essere naturalmente umano.

L’insufficienza ontologica dell’essere umano significa che egli in tanto sussiste in quanto riconosce la sua dipendenza da Dio e la sua sostanziale disautonomia. In altri termini, più il rapporto con Dio è coltivato e riconosciuto come fondante la propria realtà esistenziale, più il soggetto raggiunge la serenità e la quiete interiore perché egli sente che la sua esperienza condivide quella divina e si integra con essa. Su questa base, è naturale attribuire a coloro che operano una scelta religiosa di vita e s’impegnano più degli altri nell’imitazione di Cristo una beatitudine interiore senza limiti.

Purtroppo, questo assunto, teologico e logico al tempo stesso, si è imbattuto più volte in drammi simili a quello di Maria Teresa, vale a dire in travagli interiori, fino al limite del panico e della disperazione, che sono del tutto sconosciuti ai credenti “normali”, quelli che aspirano alla vita eterna, ma non al prezzo di una completa rinuncia a quella terrena.

Il paradosso è meno incomprensibile di quanto possa sembrare, se si tiene conto delle dinamiche che investono i fenomeni di dipendenza psicologica (categoria cui appartiene anche la dipendenza spirituale).

Dipendere significa, né più né meno, essere in balia da colui da cui si dipende, e quindi essere esposti al rischio dell’abbandono. L’unica eccezione a questo vissuto è rappresentato dalle esperienze interpersonali fondate sulla condivisione della dipendenza. Questo, però, può valere tra due amici, due amanti, due sposi, non certo nel rapporto con Dio, l’Essere autosufficiente per eccellenza. La dipendenza che il credente deve accettare, come conseguenza della sua insufficienza ontologica, si associa, dunque, ad un vissuto di precarietà il cui arginamento è possibile solo in virtù del mantenersi di un rapporto continuativamente sentito con Dio. Paradossalmente, poi, più la fede è intensa e il bisogno di Dio viene vissuto come radicale e necessario, più la precarietà, la paura dell’abbandono e della perdita di contatto aumentano.

C’è da chiedersi perché, nell’esperienza di Madre Teresa, come peraltro di tanti mistici, l’abbandono, il distacco e il vuoto assoluto che ad essi segue si realizza.

La Chiesa banalizza questo problema. Nell’impossibilità di accusare i mistici di un difetto di fede, essa fa riferimento all’imperscrutabile volontà divina, che può rispondere o no alle esigenze del soggetto e, al limite, può farlo soffrire per metterne a prova la fede. Forse la Chiesa non si rende conto che un’interpretazione del genere, anche se madre Teresa l’ha fatta propria, implica non una volontà imperscrutabile, ma una volontà sadica. Prescindo da un’interpretazione del genere, che mi sembra, oltre che poco rispettosa di una concezione dignitosa di Dio ( lo dico naturalmente da non credente), anche piuttosto campata in aria.

Veniamo, dunque, al sodo.

 

4.

In ambito psicodinamico, la distinzione tra una dipendenza normale e una patologica è semplice da operare. Una dipendenza è patologica allorché una relazione interpersonale assume un significato di vita o di morte, nel senso che la sua perdita si associa alla paura di un collasso dell’io. In che senso si può definire patologica una dipendenza del genere? Nel senso che essa implica una strutturazione dell’io che non ha raggiunto un grado di autonomia sufficiente ad accettare, sia pure dolorosamente, la perdita di un rapporto. Conseguito tale grado, infatti, un soggetto, se perde una relazione significativa e importante, indubbiamente soffre, ma non sente messo in gioco lo statuto di un Io che ha un centro di gravità interno, vale a dire che sussiste anche in difetto della relazione.

Applicare questo criterio alla dipendenza implicita nella fede è ovviamente difficile, perché, sulla base del presupposto dell’insufficienza ontologica dell’essere umano, essa viene teologicamente ritenuta naturale e necessaria da accettare.

La dipendenza patologica che si esplora nel corso delle esperienze analitiche, offre, però, dei criteri che possono avere una qualche utilità.

Nonostante il fatto che il soggetto il quale la vive ritiene che la precarietà e l’angoscia dell’abbandono siano una conseguenza di un’inesauribile sete d’amore, quello che riesce chiaro è che egli, inconsciamente, lotta in ogni modo contro il legame di dipendenza. Le strategie messe in atto sono del più vario genere, ma in gran parte sono riconducibili ad accuse rivolta al partner di non essere sufficientemente presente, disponibile, confermativo, espressivo del suo sentimento, ecc.

Nelle lettere, ovviamente, madre Teresa si guarda bene dall’accusare Dio: essa, infatti, in conseguenza della sua fede, dà per scontato che la freddezza e l’abbandono di Dio devono ricondursi ad imperscrutabili ragioni. La sostanza dei messaggi però è identica.

La dipendenza patologica si fonda su di un paradosso. La paura dell’abbandono riconosce come matrice primaria il desiderio inconscio del soggetto di sciogliere la relazione. In tale desiderio si esprime sia l’intollerabilità del dolore che il soggetto stesso vive stando in relazione sia un bisogno inconscio d’indipendenza. E’ tale desiderio che consente di comprendere il mantenersi della paura dell’abbandono e il senso di vuoto anche laddove il partner conferma di continuo il suo amore. Il sollievo legato alla conferma è transitorio, e viene rapidamente soppiantato dalla paura della perdita del rapporto.

Mi rendo conto che applicare queste categorie dinamiche all’esperienza di un soggetto in via di santificazione può apparire blasfemo.

Il problema è che se Dio ha creato l’uomo ha fatto un po’ di confusione. Per un verso, infatti, ha posto nelle sue viscere la consapevolezza della sua finitudine, della sua insufficienza e della sua precarietà, che postulano una relazione o una rete di relazioni significative tale per cui il soggetto stesso può pensare di contare su qualcuno al fine di diminuire il carico emotivo di quella consapevolezza. Si dà, dunque, nella natura umana, un incoercibile bisogno di socialità. Per un altro verso, però, l’uomo è programmato per giungere ad uno statuto d’indipendenza psicologica, che non ha nulla a che vedere con l’autosufficienza, poiché esso comporta solo il sentire che la propria identità ha una sua dimensione autonoma che sussiste in sé e per sé, come espressione – certo – delle interazioni sociali, ma non sul registro di una perpetua necessità di conferma.

Non ha senso quantificare questi bisogni, vale a dire chiedersi quale dei due sia il più potente. La realizzazione del secondo dipende dal primo, ma, nella misura in cui esso è programmato, se il suo dispiegamento viene inibito o represso impedendo alla personalità di raggiungere uno statuto autonomo, è inevitabile che continui, vita natural durante ad operare una pressione dinamica, e ad entrare in conflitto con qualunque relazione di dipendenza “patologica” in quanto fondata sull’attribuzione al soggetto di uno statuto che, per sussistere, richiede una “protesi” relazionale.

Mi pesa dirlo, ma ai miei occhi il dramma di Madre Teresa appare più di ordine psicologico che non teologico, come espressione di un opposizionismo del tutto inconscio nei confronti di una relazione fusionale con Dio. Un elemento almeno convalida questa ipotesi. Com’è possibile che Madre Teresa non abbia recepito come conferma da parte di Dio la gratitudine, la stima, l’amore espressi nei suoi confronti da infinite persone? Com’è possibile che essa abbia vissuto nel suo intimo la freddezza e l’aridità spirituale nonostante tanto amore donato ai fratelli e da essi ricevuto?

L’ipotesi, peraltro, trova una conferma anche in ambito analitico. Accade di frequente che soggetti femminili, affetti da una dipendenza patologica, pure interagendo con un partner che le ama, sviluppino una depressione che le anestetizza, le induce a non sentire più l’amore dell’altro né l’amore per l’altro, e vivano interiormente, nonostante le conferme che ricevono, su di un registro di freddezza, di vuoto, di aridità. In questo caso, l’opposizionismo nei confronti della dipendenza, che si esprime nell’impossibilità del soggetto di fare a meno del legame, si traduce nella fuoriuscita emotiva dal legame stesso: nel non sentirlo più che equivale al come se esso non esistesse.

 

5.

Mi rendo conto che questo discorso può lasciare perplessi. Come accennavo all’inizio, però, l’intento dell’articolo non è l’analisi del dramma di Madre Teresa, per capire il quale difetto di dati biografici, bensì di affrontare alcuni aspetti del rapporto tra psicologia umana e religione.

Una fede autentica postula l’accettazione dell’insufficienza ontologica del proprio essere e il riferimento a Dio come unico ente atto a rimediare ad essa. Vissuta in profondità, la fede amplifica la consapevolezza di questa insufficienza e incrementa progressivamente il bisogno di mantenere con Dio una relazione confermativa costante. Per questa via, la possibilità che un soggetto giunga ad una percezione mistica della vita, vale a dire a sentire la sua esperienza fusa con la Totalità dell’Essere è elevata. Elevato, però, è anche il pericolo che la regressione nella dipendenza attivi meccanismi di opposizionismo tali per cui la fusione viene interferita da momenti di defusione, vale a dire dalla percezione di una perdita del rapporto e dall’assenza di Dio.

Nel momento in cui si sperimenta la fusione con Dio lo stato d’animo è esaltato, viceversa, quando si realizza la defusione, esso precipita in una voragine di depressione impregnata di angoscia. L’alternarsi di questi stati d’animo è l’indizio del gioco dinamico tra abbandono alla dipendenza e rivendicazione (inconscia) d’indipendenza. Se questo è vero, il prevalere o il perpetuarsi a tempo indeterminato dell’angoscia di abbandono segnala un incoercibile e frustrato bisogno d’indipendenza.

Quale può essere l’importanza di queste considerazioni? E’ semplice.

Esse portano a pensare che, in rapporto alla psicologia umana, una fede profondamente vissuta, che implica un abbandono totale a Dio, non può coincidere che con uno stato d’animo più o meno fluttuante, la cui onda negativa comporta la perdita di contatto con il divino.

Dato che questo è confermato dall’esperienza di molti mistici (almeno occidentali), che cosa pensare delle torme di credenti (a partire dal Papa ai catecumeni) che manifestano uno stato d’animo costantemente sotteso dalla certezza di essere costantemente in rapporto con Dio: uno stato d’animo privo di turbamento e di inquietudine e affrancato dalla paura dell’abbandono? Affermare che, forse, non credono quanto vogliono dare a credere agli altri è un azzardo. Di sicuro, però, la loro fede è più cognitiva che emozionale. Di sicuro, essi rimuovono o nascondono agli occhi degli altri i dubbi e i turbamenti che avvertono. Di sicuro, essi sono più testimoni della volontà di credere che non di una fede profondamente vissuta.

Al loro confronto, madre Teresa merita di essere onorata perché l’autenticità della sua esperienza è fuori di dubbio. Essa è vissuta nell’amore di Dio e nell’amore degli uomini senza sentire Dio. Ha incarnato, cioè, a modo suo, il modello della teologia senza Dio (che presumibilmente conosceva). Forse, quel modello è l’unico modo concesso agli uomini di vivere autenticamente la fede.