Corrado Augias e Mauro Pesce

Inchiesta su Gesù

Mondadori, Milano 2006

1.

Ho scritto in un articolo, riprendendo un'ipotesi formulata nella cornice della corrente storica che fa capo a Les Annales, che la ricostruzione, l'analisi e la riflessione sui fatti storici ha valore solo quando raggiunge il livello della concettualizzazione, vale a dire quando ricava dai fatti stessi problemi che, andando al di là della loro contingenza événémentiel o congiunturale, si pongono come universali: riguardano, cioè, alcuni aspetti strutturali della vicenda della specie umana nell'interazione con l'ambiente fisico e culturale.

Questo approccio alla storia va al di là della lezione di Marx, secondo il quale gli uomini si pongono solo i problemi che possono risolvere. Esso, infatti, porta a pensare che l'umanità è da sempre costretta, dalla struttura del suo apparato mentale, a porsi problemi che, se non sono insolubili, sono di una complessità che eccede le potenzialità dell'apparato stesso.

Uno di questi problemi è il senso stesso dell'esistenza della specie umana, il suo appartenere al mondo della natura e il non potere mantenere un equilibrio se non trasformandola, vale a dire producendo la cultura intesa come somma di capacità tecnologiche e di idee, valori, miti, ecc.

In questa ottica, lo studio delle religioni storiche, quelle che si sono originate in epoche remote e sono perdurate nel corso dei secoli, istituzionalizzandosi, assume un significato del tutto particolare. La varietà delle religioni stesse attesta, di fatto, che nessuna di esse, pur presumendolo, possiede la Verità. Tutte però hanno un apparato dottrinario che fornisce una risposta univoca ai problemi dell'esistenza e al destino dell'uomo.

Al di là della valutazione critica dei presupposti su cui si articola quell'apparato dottrinario, che sono i più diversi, il problema centrale della storia delle religioni, in un'ottica laica che le assume come prodotti culturali, consiste nel capire quali circostanze ne abbiano determinato la genesi e ne abbiano assicurato la diffusione e la persistenza nel corso del tempo. Le problematiche esistenziali cui esse danno una risposta sono infatti universali - esistono cioè da quando esiste l'uomo -, ma le religioni storiche - vale a dire l'Induismo, il Buddismo, l'Ebraismo, il Cristianesimo, l'Islamismo - si definiscono tali proprio perché sono sopravvenute, in contesti diversi, in determinate epoche e, coinvolgendo masse imponenti di esseri umani, sono durate nel tempo.

L'origine, la diffusione e la lunga durata delle religioni storiche rappresentano qualcosa di misterioso. Se questo è vero per tutte, lo è a maggior ragione per il Cristianesimo, che nasce, in seno all'Ebraismo e nella Palestina dominata dai Romani, dalla predicazione di un Profeta di umili origini, conoscitore profondo dei testi biblici, ma di sicuro non colto, del tutto estraneo alla cultura greca (la grande cultura dell'Antichità) e, presumibilmente, alieno dall'intento di fondare una religione universale.

Il mistero di Gesù inquieta ancora gli studiosi. Non è un caso che, nella bibliografia piuttosto concisa del saggio di Augias e Pesce, risultano circa dieci libri importanti su Gesù pubblicati negli ultimi dieci anni. E' difficile attribuire questo persistente interesse ai progressi della ricerca biblica, trattandosi in gran parte di interpretazioni che utilizzano documenti noti da tempo.

Il problema, a mio avviso, è che non ci arrende ad una verità. La lettura dei testi evangelici e degli altri scritti neotestamentari, arricchita dalla consultazione dei numerosi scritti apocrifi, pone di fronte a tali e tante contraddizioni, riscattate dall'univoco richiamo ad un universale fratellanza dovuta alla comune filiazione divina, che l'ascesa del Cristianesimo, il suo attecchimento nell'Impero romano e, infine, il suo trionfo in nome di un uomo morto sulla croce, appare ancora oggi un mistero.

Ci sono solo due possibilità di formulare ipotesi a riguardo (prescindendo ovviamente dalla cattura operata sui cuori umani di una Verità rivelata). La prima fa riferimento ad una somma di circostanze storiche e culturali assolutamente casuali, e altamente improbabili, confluite in una rivoluzione epocale. La seconda, viceversa, fa leva sul carisma del personaggio Gesù e sulla sua capacità di lasciare negli Apostoli e nei Discepoli un'impronta tale da giustificare il loro straordinario attivismo nella diffusione e nell'elaborazione di un messaggio che essi ritenevano decisivo per le sorti dell'umanità.

Personalmente, penso che la prima ipotesi sia più verosimile (anche se, ovviamente, inverificabile). Per quanto il messaggio di Gesù, a posteriori, possa apparire denso di significati che, se accettati alla luce della fede, cambiano radicalmente la visione del mondo del credente, aprendo la prospettiva della felicità eterna, e per quanto esso, filtrato dalla civiltà occidentale, abbia assunto il valore di un codice morale umanitaristico e solidale, che è stato accolto (almeno in linea di principio anche nella cornice della cultura laica) rimane il fatto che all'epoca esso non aveva alcun carattere rivoluzionario. Si trattava, infatti, di uno dei tanti messaggi che affioravano nel contesto dell'inquieta terra palestinese, sulla scia del pensiero profetico, per richiamare gli Ebrei al loro "destino" di popolo eletto, alla comune filiazione divina, alla fratellanza derivante da essa e alla necessità di instaurare sulla terra il Regno di Dio nell'ottica dell'utopia del giubileo (che comportava, in pratica, la distribuzione ugualitaria delle ricchezze).

Capire come e perché esso sia riuscito ad universalizzarsi, a recepire alcune istanze presenti già nella cultura ellenica, ad insediarsi nel contesto dell'Impero Romano, a dare luogo alla nascita di potentissime (anche sotto il profilo economico) comunità ecclesiali, e ad avere la meglio rapidamente (nel giro di tre secoli) sulla religione tradizionale romana, è e rimarrà un mistero, perché il trionfo del Cristianesimo, come accennato, sembra ricondursi ad una somma di fattori - inerenti per un verso la sua strutturazione dottrinale e istituzionale, rigida dogmaticamente ma anche estremamente flessibile nei confronti della mentalità dei pagani convertiti, per un altro il lavorio culturale sotterraneo realizzatosi a livello di ceti colti per effetto della diffusione dello stoicismo, e, per un altro ancora, alla crisi progressiva dell'Impero romano - difficilmente riproducibili: ad una congiuntura storico-sociale e culturale del tutto particolare.

Se si prescinde da quest'ipotesi, è inevitabile che l'interesse degli studiosi si rivolga alla comprensione sempre più profonda del carisma di Gesù, agli aspetti rivoluzionari della sua predicazione, al ruolo svolto dagli Apostoli, dai Discepoli e dalle primitive comunità cristiane nel ricavare da testimonianze orali contraddittorie e dai detti di Gesù consegnati a scritti diversi un quadro teologico coerente.

Non escludo che questo approccio, che definirei analitico e riduzionista, uno dei cui rappresentanti e per l'appunto il Prof. Pesce, possa pervenire, in virtù dell'affiorare di nuovi documenti e di dati archeologici, a qualche risultato di interesse. Due anni fa, per esempio, la scoperta di un ceppo funerario nel quale si faceva cenno a Giacomo come fratello di Gesù ha destato un certo scalpore. Nonostante alcuni indizi inducessero a pensare che la tomba potesse riguardare veramente il fratello di Gesù che, dopo aver mantenuto un atteggiamento ostile nei suoi confronti in quanto Ebreo osservante, divenne poi capo della comunità gerosolimitana, la scoperta è stata archiviata giustamente perché una suggestione indiziaria non è una prova. E' evidente, però, che se un giorno l'archeologia fornisse la prova che Gesù aveva dei fratelli, parecchi dogmi cattolici e la stessa biografia di Gesù dovrebbero essere riformulati.

Se è giusto, dunque, valorizzare lo sforzo che i biblisti operano nella cornice di una metodologia analitica e riduzionista, è estremamente improbabile che essa possa portare alla soluzione del mistero cui ho fatto cenno.

L'Inchiesta su Gesù di Augias e Pesce è, a mio avviso, una conferma di tale assunto.

2.

Il prof. Pesce sintetizza in questi termini i contenuti salienti del saggio:
"In questo libro mi sembra di aver sostenuto, in sintesi, che Gesù era un ebreo che non voleva fondare una nuova religione. Non era un cristiano. Era convinto che il Dio delle Sacre Scritture ebraiche stesse cominciando a trasformare il mondo per instaurare finalmente il suo regno sulla terra. Era del tutto concentrato su Dio e pregava per capire la sua volontà e ottenere le sue rivelazioni, ma era anche del tutto concentrato sui bisogni degli uomini, in particolare i malati, i più poveri e coloro che erano trattati in modo ingiusto. Il suo messaggio era inscindibilmente mistico e sociale." (p. 237)

Nell'Introduzione, egli opportunamente espone il principio metodologico cui si ispira la sua ricerca di storico delle religioni:

"Negli ultimi decenni la riflessione storiografica ha portato, se non ad una sfiducia verso i propri metodi, sicuramente ad una maggiore consapevolezza del loro funzionamento e dei loro limiti. Come è ormai pacifico, nelle sue ricostruzioni, lo storico inserisce il suo punto di vista, la sua cultura, finalità estranee ai testi e ai fenomeni osservati. Per quanto cerchi di adattare il suo bagaglio concettuale all'oggetto della ricerca, riesce di rado a sbarazzarsi del filtro personale con cui studia le cose. Se diventiamo consapevoli di questo, fino a che punto possiamo ritenere affidabile una ricostruzione storica? Esistono varie prospettive sul passato, ognuna con una sua legittimità, certezze assolute non ce ne sono più." (p. 8)

In linea di massima, il principio può essere condiviso, a patto di non cadere in una forma di relativismo storiografico assoluto che, in nome della legittimità dei diversi punti di vista sul passato, li pone tutti sullo stesso piano, trascurando che essi possono e debbono essere ordinati in termini di approssimazione alla verità. Se, però, la verità storica è inattingibile, ci si può chiedere che senso ha il criterio dell'approssimazione ad essa. La risposta è che tale criterio può essere riferito al carattere più o meno ideologico (nel senso negativo di mistificazione) delle ricostruzioni storiche. Laddove, per esempio, uno storico si impegna a dimostrare che la Shoa è un'invenzione o un mito, la testimonianza stessa degli Ebrei viventi, che fa riferimento per ciascuno di essi a memorie luttuose legate allo sterminio, definisce la ricostruzione come ideologica o lontana dalla verità. Se insomma è impossibile arrivare alla verità tout-court, non è impossibile valutare il grado più o meno approssimato ad essa delle ricostruzioni storiche.

Applicando tale principio all'interpretazione che il Prof. Pesce, sollecitato dall'intervistatore, dà di Gesù, della sua vicenda e della nascita del Cristianesimo, mi sembra di poter affermare che in essa si dà qualcosa di persuasivo, qualcosa di forzato e qualcos'altro, infine, di lacunoso.

Gesù, di fatto, è un Profeta ebraico, profondamente calato nella tradizione religiosa dell'Ebraismo. Quella tradizione, però, non è omogenea. Essa, infatti, riconosce una componente conservatrice, che si riconduce alla restaurazione di Ezdra, di cui i Farisei sono i rappresentanti all'epoca di Gesù. Secondo tale tradizione, l'osservanza rigorosa e ritualistica delle leggi mosaiche è la salvezza d'israele. L'altra componente, legata ai profeti, e in particolare a Isaia secondo, comporta una concezione di Dio incentrata sulla Misericordia, sull'Amore che egli ha nei confronti dell'uomo e sul legame di fraternità tra gli esseri che ne discende.

C'è, insomma, una dialettica interna alla religione Ebraica, che segna tutta la storia del popolo ebraico e, all'epoca di Gesù, ha dato luogo ad una scissione tra il Potere sacerdotale istituzionalizzato, che accetta lo status quo (la dominazione romana, gli squilibri economici sociali, ecc.) e fa della decima e del sacrificio al Tempio gli elementi fondamentali della fede, e numerosi movimenti dissidenti, tra cui il più noto è quello degli Esseni, fieramente avversi a quel Potere e incentrati sul richiamo all'intimità nel rapporto con Dio, alla solidarietà fraterna e all'uguaglianza economica come espressivi dell'autentica religione.

Pur calato nella tradizione religiosa dell'Ebraismo, Gesù prende nettamente posizione in rapporto ai due orientamenti che la caratterizzano e che, all'epoca, sono giunti ad un livelloo di scissione e di opposizione radicale. La presa di posizione, totalmente spostata dalla parte del pensiero profetico teologicamente più maturo, del tutto avversa dunque al Potere sacerdotale gerosolimitano, consente di comprendere anche la sua ostilità nei confronti dei Farisei, che sono di sicuro alleati con quel Potere, ma mantengono, a differenza di esso, un continuo contatto con un popolo oppresso dalla miseria, dallo sfruttamento romano e da una frustrazione profonda.

Nei Vangeli il primo aspetto è rappresentato, gli altri molto meno. Si viene a sapere, infatti, che gli esattori delle tasse erano avversati, ma la frustrazione del popolo ebraico andava molto al di là dello sfruttamento fiscale. La promessa fatta da Dio ad Abramo, ripetuta a Mosé e riecheggiata da alcuni Profeti concerneva il dominio spirituale del popolo ebraico su tutte le nazioni della Terra. Tale promessa non solo non si era realizzata, ma vedeva il popolo eletto assoggettato al dominio di stranieri pagani che non manifestavano alcun interesse per la loro religione e il loro Dio.

Gran parte dei movimenti dissidenti, uno dei quali - quello incentrato su Giovanni Battista - è rievocato nei Vangeli, accusavano il Potere sacerdotale di avere tradito la missione divina, e propugnavano il suo abbattimento in nome di una rigenerazione religiosa del popolo ebraico.

Gesù ebreo, dunque, come recita il titolo del II capitolo, riprendendo quello di un saggio recente (R. Calimani, Mondadori, Milano 1998)? Senz'altro, ma un ebreo dissidente, animato da una tensione conflittuale teologica contro il Potere sacerdotale e la sua accettazione passiva (o opportunistica) dello status quo, che non poteva non comportare una collisione frontale.

3.

Questo aspetto che, a mio avviso, ha colto meglio di tutti gli studiosi solo Pasolini nel suo film scabro e aspro, è fondamentale per capire molteplici altri aspetti della predicazione e della personalità di Gesù.

Il misticismo di Gesù, che il Prof. Pesce sottolinea a più riprese, è indubbio. Egli appare di fatto, non diversamente dai Profeti, concentrato su Dio e si raccoglie spesso in preghiera rivendicando il diritto di stabilire con Lui un rapporto intimo, partecipe, affrancato dai rituali e dalla mediazione sacerdotale. Attraverso la preghiera e il raccoglimento, Gesù recupera, come accade a tutti i mistici, la serenità e l'equilibrio. Giustamente il prof. Pesce rileva che la pratica della preghiera è una prova quasi decisiva a favore del fatto che Gesù non si identificasse con Dio e non ritenesse di essere suo Figlio in senso proprio. Un Dio che prega se stesso è una contraddizione in termini.

La serenità e l'equilibrio assicurati dal misticismo sono però continuamente messi alla prova dall'interazione con il mondo reale, storico-sociale. Gesù ha continuamente sotto gli occhi la miseria, la malattia, il dolore, l'infelicità del popolo cui appartiene. Dotato di una sensibilità empatica fuori dell'ordinario (en passant tipicamente introversa), egli ha un rapporto con la sofferenza umana - che raccoglie tutti quegli aspetti - assolutamente drammatica. In altri termini, non riesce a farsene una ragione.

Riguardo a questo problema, la sua esperienza sembra trascendere quella dei Profeti, che si sono posti ossessivamente il problema del perché Dio permettesse che gli empi godessero e i giusti soffrissero, giungendo, infine, all'unica soluzione possibile: la necessità di accettare l'imperscrutabile volontà divina e di ipotizzare un altro mondo, al di là di quello storico, nel quale Dio avrebbe ristabilito la giustizia, punendo i primi e premiando i secondi.

Gesù recepisce questa soluzione, facendo più volte riferimento al Giudizio Universale e al Regno della giustizia che esso instaurerà nell'aldilà. Il problema della sofferenza umana, del male, è però da Lui percepito con una tale drammaticità da impedire che quella soluzione tranquillizzi la sua anima esacerbata.

Egli è consapevole che il male ha due diverse origini: c'è, infatti, quello prodotto dall'uomo - la miseria, l'ingiustizia sociale, l'oppressione, ecc. -, e quello intrinseco all'esistenza stessa - la malattia, l'incidente casuale, il lutto, la morte. Queste due diverse origini confluiscono in una problematica unica, che fa capo al fatto che l'uomo è in grado di fare il male e, allo stesso tempo, esposto al rischio di subirlo (dall'Altro e dalla Natura).

Se però Dio ha creato l'uomo, perché lo ha creato con la capacità di fare il male? Perché lo espone alla maledizione del dolore?

Si tratta di una problematica presente nel pensiero profetico che non ha mai riconosciuto una risposta convincente. Gesù non è in grado di fornirla in termini più persuasivi. Giustamente, come scrive il Prof. Pesce, "egli non è un fondatore di società, né un organizzatore di sistemi sociali né un legislatore" (p. 74). Non è neppure -aggiungerei io - un grande filosofo. E' un essere sostanzialmente passionale, indotto a lottare più che a spiegare "l'ingiustizia, la malattia e l'ipocrisia" (id.), nelle quali identifica le cause della sofferenza umana.

L'ingiustizia e l'ipocrisia vengono dagli uomini - i Sacerdoti del Tempio, i Farisei, i Ricchi - e contro di loro l'ostilità di Gesù è implacabile.

La malattia, invece, rimane un mistero insondabile. Se si eccettuano, infatti, i casi - sicuramente frequenti all'epoca - per cui essa è una conseguenza della miseria, della denutrizione, della scarsa igiene -, e si tiene conto che la sua distribuzione, in quanto casuale, non è riconducibile ai demeriti o alle colpe individuali, la malattia si pone come una realtà che, in un'ottica religiosa, non ha senso o si riconduce, addirittura, ad un potere divino arbitrario e irrazionale.

Nella sua passionalità, che implica un'identificazione totale con qualunque essere umano sofferente, Gesù assume il ruolo di guaritore. Gli studi antropologici sullo sciamanesimo dissolvono ogni dubbio sul fatto che tale ruolo sia stato efficace (meno, ovviamente, di quanto affermano i Vangeli, dato che nessuno sciamano fa tornare in vita i morti).

Attribuire il potere taumaturgico di Gesù alla sua natura divina è un non senso. Se, infatti, la malattia, come ha sostenuto la teologia cristiana, è l'espressione dell'imperscrutabile volontà di Dio, il Figlio di Dio avrebbe dovuto richiamare gli esseri umani alla necessità di accettarla, di tollerarla e di dare ad essa un significato salvifico. Il problema è che Gesù non la tollera e utilizza il suo potere taumaturgico per indurre le guarigioni miracolose (in gran parte ovviamente riferibili a condizioni psicosomatiche). Questo gli assicura il consenso delle masse popolari e attiva l'ostilità invidiosa dei Farisei, la cui ideologia esclude il ricorso a pratiche terapeutiche.

A ben vedere, però, l'incessante abbandonarsi di Gesù al potere taumaturgico implica una contestazione, inconsapevole, della volontà divina. Il Dio di Gesù è univocamente un Dio amorevole e misericordioso, la cui giustizia non può investire che gli empi. In questa ottica, i miracoli tentano di rimediare a situazioni che compromettono ciò che contrasta con quella visione teologica.

4.

Il prof. Pesce attribuisce a Gesù un'aspettativa univocamente incentrata sull'avvento sulla Terra del Regno di Dio: un'aspettativa ottimistica (per quanto utopica), vincolata alla possibilità che gli uomini riconoscano la comune filiazione divina e sviluppino al massimo grado tra loro vincoli di fraternità, solidarietà, aiuto reciproco e amore, che consentano di porre fine alle ingiustizie e alle violenze.. Egli scrive: "Gesù attendeva l'avvento imminente del regno di Dio che avrebbe dato inizio ad un periodo di giustizia, di eguaglianza, di benessere e di pace non solo tra gli uomini, ma con la stessa natura, con gli animaliÖ Il suo sogno utopico era una società di uguali, in cui si praticassero la giustizia e l'amore reciproco." (pp. 68 -69)

Aggiunge pero, nelle stesse pagine:

"L'annuncio del regno, il progetto di un rivolgimento radicale, contiene un giudizio severo sull'ingiustizia e sul disordine esistentiÖ L'annuncio del regno di Dio è in primo luogo per lui un annuncio di liberazione per gli schiavi, per i poveri, per gli ammalati. In questo, l'annuncio della "buona novella" ai poveri è essenzialmente politico, denuncia l'ingiustizia esistente e propone un nuovo ordine."

Io ritengo che la lettura dei testi evangelici porti ad una visione più drammatica della vicenda di Gesù. Questi attendeva di sicuro il regno di Dio, ma: primo, dato lo stato di cose esistente, non può mai aver pensato ragionevolmente che un cambiamento storico-sociale e culturale radicale potesse avvenire rapidamente e per incanto; secondo, l'utopia non riguardava la totalità delle persone (neppure degli Ebrei, essendo i Gentili del tutto al di fuori della sua preoccupazione), ma solo i pochi eletti cui fa esplicitamente riferimento, vale a dire i rari individui in grado di elevarsi spiritualmente rispetto alla media e alla massa; terzo, il passaggio dal disordine esistente all'ordine della giustizia, della fratellanza e dell'amore reciproco è stato sempre subordinato all'Apocalisse, alla fine del mondo. In questa ottica, i pochi eletti dovevano solo prepararsi, attenendosi a quei valori, a quel passaggio per salvarsi dal terribile giudizio divino ed essere ritenuti degni della felicità eterna.

Gesù, insomma, non nutriva una grande fiducia nella natura umana, se non altro perché riteneva che essa fosse inquinata dal Male, vale a dire dal peccato originale e dal lavorio continuo e sotterraneo di Satana.

In conseguenza di questa visione sostanzialmente pessimistica e quasi disperata sullo stato di cose esistente, Egli non era attaccato alla vita né incline ad accettare l'interazione con un mondo troppo ingiusto, troppo doloroso, troppo pervicace nella sua disumanità.

Un Buon Pastore? Senz'altro, ma intenzionato a guidare il gregge degli eletti verso la Terra Promessa del regno di Dio, al di là del mondo.

Questo spiega il radicalismo dei suoi atteggiamenti nei confronti del Potere istituzionale, la sua sostanziale indifferenza in rapporto alle conseguenze dei suoi attacchi e delle sue contestazioni, lo scarso peso assegnato al dominio romano, vale a dire a pagani che, più ancora degli Ebrei, erano distanti da una concezione di vita incentrata sui valori spirituali.

Gesù, in breve, ha anticipato i tempi attraverso una vita anelante a liberarsi dalla gabbia del mondo, e sollecitando i Discepoli a credere che, imitandolo e rimanendo fedeli ai suoi insegnamenti, avrebbero visto l'Apocalisse nell'arco di una generazione e avrebbero conquistato la salvezza.

Con quest'ipotesi contrasta solo il lacerante grido di Gesù sulla croce, che gli evangelisti incautamente o inconsapevolmente non hanno censurato. Se Egli si è votato a morire, che senso ha il riferimento all'abbandono del Padre?

Alcune pagine del saggio sono dedicate alla crocifissione, il cui significato è ricostruito in questi termini dal Prof. Pesce: "La crocifissione era un supplizio atroce e infamante. Gli antropologi lo definirebbero un rito di degradazione; il condannato veniva pubblicamente umiliato. Lo scopo era non solo di ucciderlo, ma anche di togliergli ogni onorer e di cancellare nella società ogni sua valutazione positiva. Non bastava sopprimere il colpevole, bisognava mostrare all'intera collettività che le sue azioni e le sue parole meritavano di essere cancellate." (p. 167)

Sfidando i poteri costituiti ebraici - i Sacerdoti, i Farisei - Gesù metteva nel conto di finire come un martire: lapidato o accoltellato. Non essendo un capo politico, non metteva in conto l'intervento decisivo dei Romani e, dunque, la crocifissione. Egli si è reso conto di ciò che essa significava, e ha reagito infine con la disperazione di chi riteneva che quella morte avrebbe vanificato il suo messaggio, e lo avrebbe precipitato nell'oblio.

Così di fatto è stato per gran parte del popolo ebraico, l'unico a cui Gesù teneva.

Il ribaltamento di una tragedia vissuta lucidamente sul piano personale in un trionfo che ha segnato la storia: è questo il mistero cui facevo cenno all'inizio, destinato a rimanere insondabile finché non si accetterà che la storia seleziona e significa gli eventi con modalità che non sono assoggettabili ad un criterio razionale.