Dopo Woityla


1.

Inattuali, queste considerazioni, non tanto perché giungono dopo che si vanno spegnendo i fuochi di una retorica mediatica quasi insopportabile, quanto piuttosto perché, al di là della rilevanza umana e culturale del personaggio, cercano di valutare il significato di un papato oltremodo lungo sotto il profilo della storia del Cristianesimo, della dottrina cattolica e dell'istituzione ecclesiale, e di anticipare gli sviluppi della Chiesa post-Wojtila..

In questa ottica, il giudizio sulla persona passa in secondo ordine. La dimensione carismatica di papa Wojtyla è fuori di dubbio. Ma tale giudizio non può fare velo ad un'esigenza critica. Non si tratta solo di sottolineare, come hanno fatto altri, le ombre e le luci di un insegnamento pastorale continuamente oscillante tra grandi aperture culturali e rigide chiusure dottrinali. Si tratta di capire che tali contraddizioni fanno capo ad una realtà di fatto che la trionfale vicenda di un papato suggellato da una morte avvolta nella luce della gloria e dell'agiografia induce a rimuovere.

La realtà è che la Chiesa cattolica, nonostante il suo prestigio mondiale, che papa Wojtyla ha contribuito ad accrescere, è giunta ad un punto di crisi che si può ritenere irreversibile. Inauguratasi sotto la spinta del modernismo, tale crisi è giunta a maturazione con il Concilio Vaticano II, che se ne è fatto carico e ha tentato di porvi rimedio. Ma è stata proprio la "primavera" del Concilio che, facendo affiorare tutta una serie di problematiche istituzionali, dottrinarie e teologiche lungamente represse, e ponendo di fronte alla realtà di una Chiesa unita nella fede in Cristo ma profondamente divisa nell'interpretazione del suo messaggio, ha prodotto un'implosione. Da questo punto di vista, il papato di Wojtyla si può considerare l'estremo tentativo di restituire alla Chiesa un'unità istituzionale e una compattezza dottrinaria che, forse, non sono mai esistite.

I dati attestanti la crisi sono inequivocabili. La Chiesa sta lentamente perdendo terreno in tutti i paesi in cui è radicata da secoli e non sembra dotata, per esempio rispetto all'Islam, di alcuna forza espansiva al di fuori di essi. La diminuzione delle vocazioni religiose, appena compensata dall'afflusso di forze nuove provenienti dai paesi del Terzo Mondo (soprattutto africani) è praticamente continua. Nei paesi cattolici, nonostante la pratica del battesimo consenta di annoverare tra i credenti oltre il 90% della popolazione, in età adulta i praticanti, alcuni dei quali si limitano ad assolvere il precetto della messa domenicale, non sono ormai più del 25%. Una frangia tutt'altro che insignificante di questa percentuale rifiuta, peraltro, di attenersi all'insegnamento morale della Chiesa, soprattutto per quanto concerne la sessualità.

Papa Wojtyla era dolorosamente consapevole di tale crisi. Il suo progetto di evangelizzare nuovamentel'Europa partendo dai paesi dell'Est, e soprattutto dall'amata Polonia, sulla base dell'attribuzione al cristianesimo perseguitato di un valore rigenerativo esprime, in maniera inconfutabile, tale consapevolezza. Lo stato di cose esistente nei paesi dell'Est, ove l'adesione al modello occidentale, ha avviato un processo lento ma percettibile di secolarizzazione, vale a dire di presa di distanza dalle pratiche religiose, attesta che quel tentativo è fallito.

Si tratta, peraltro, di una nemesi storica, densa di significato, alla quale occorre dedicare qualche riga.

Se, infatti, l'Europa ha indubbiamente radici cristiane, la cristianizzazione dell'Europa ha riconosciuto due fasi ben distinte.

L'attecchimento sociale e mentale, destinato a sovvertire l'ordinamento dell'Impero romano, fa capo all'espansione della Chiesa nei primi secoli d. C., allorché essa realizza una formula vincente soddisfacendo, per un verso, l'inquietudine religiosa dei ceti colti e, per un altro, strutturando, sulla base di una disponibilità finanziaria destinata a crescere progressivamente, una rete assistenziale rivolta ai poveri e ai diseredati praticamente inesistente nell'Impero romano. I pagani si convertono perché l'esempio di fraternità e di generosità fornito dalle comunità cristiane è veramente ammirevole, e il venire a fare parte della comunità permette di contare su di una rete di solidarietà molto efficiente.

La diffusione del cristianesimo, prima ancora che un fatto religioso, è un fatto sociale, che sopperisce agli incredibili squilibri di una società - quella imperiale - strutturata per favorire la grande proprietà terriera e sostanzialmente indifferente ai bisogni di coloro che, non godendo del diritto di proprietà, di fatto diritti non ne hanno.

La conversione, che segue ad una lunga catechizzazione rivolta agli adulti, è una scelta di vita personale, addirittura rischiosa fino alla dichiarazione da parte di Teodosio, nel 381, del Cristianesimo come religione ufficiale. La Chiesa originaria è a tal punto rispettosa della libertà individuale che essa non subordina l'assistenza alla conversione. Qualora avvenga, questa ovviamente non rimuove magicamente le radici pagane. La cristianizzazione della società, sia in Oriente che in Europa (laddove riguarda essenzialmente l'Italia), impiega alcuni secoli a trasformarsi in una nuova mentalità. Residui di paganesimo rimangono attivi nelle campagne sino al Medio Evo avanzato.

A partire dal V secolo, allorché la Chiesa si istituzionalizza, le cose cambiano. L'indizio storico di tale cambiamento è la repentina conversione di massa dei Franchi. Essa avviene sulla base di una scelta politica più che religiosa di Clodoveo, il fondatore della dinastia franca. Convertitosi al Cristianesimo, egli in pratica obbliga il suo popolo a seguire il suo esempio. Da questo momento in poi, nonostante l'attività frenetica dei missionari, la pratica della conversione di massa, che si realizza sulla base di una decisione politica dei capi, è destinata a prevalere sulla scelta individuale. E' evidente cosa ciò significhi.

Nella misura in cui si estende a tutta l'Europa, il radicamento spirituale del Cristianesimo è sempre meno profondo. La cristianizzazione dell'Europa procederà sulla base della tradizione, della consuetudine, della scelta che i padri operano per i figli battezzandoli alla nascita, ecc. Sarà, insomma, sempre più un fatto culturale e sempre meno religioso.

La forza di attrazione del Cristianesimo sulle popolazioni barbariche è peraltro direttamente proporzionale al contatto che esse intrattengono con l'Impero romano prima e con la cultura romana dopo la caduta dell'Impero. Le popolazioni europee più lontane dal cuore dell'Impero, come quelle slave, che hanno sempre opposto un'accanita resistenza all'esercito romano, oppongono in genere resistenza anche all'evangelizzazione.

Esaltando la religiosità delle popolazioni slave, a partire dall'amata Polonia, papa Wojtyla rimuove una verità storica imbarazzante.

Fino al IX secolo d. C., le popolazioni slave sono pagane. Il loro incontro con il Cristianesimo avviene solo in conseguenza di un movimento di espansione che, iniziato nel IX secolo, le porta appunto a contatto con le grandi potenze della civiltà medievale: Bisanzio, Roma, il regno dei Franchi. Queste potenze avviano immediatamente un'opera di evangelizzazione degli Slavi per allargare la rispettiva sfera d'influenza politica. Tale opera di evangelizzazione realizza secondo modalità diverse a seconda delle varie popolazioni.

Gli Slavi del Sud e quelli del sud-ovest vengono convertiti nel IX secolo: gli Sloveni, i Moravi, i Croati al rito romano; i Serbi e i Bulgari al rito bizantino. Seguono, nel X secolo, i Polacchi e i Russi: gli uni al rito romano, i secondi a quello bizantino.

La conversione avviene con una certa facilità, ma, mutatis mutandis, sul modello della conversione franca, vale a dire di una decisione politica dei capi-tribù che si estende a tutti i membri del clan. La decisione verte non già sui contenuti della fede cristiana, del tutto distante dal paganesimo praticato dagli Slavi, bensÏ sui vantaggi derivanti dall'accesso alla civiltà medievale.

Del tutto diversa è la conversione degli Slavi del Nord, germani e baltici, il cui paganesimo è denso di dei guerrieri e la cui cultura comporta l'esaltazione della forza e della guerra. Presso tali popolazioni, che non hanno avuto un rapporto stretto con l'Impero romano, la conversione incontra un'opposizione spesso molto aspra, tale che essa si realizza solo in virtù della minaccia delle armi e della violenza.

Occorrono non meno di tre secoli per "cristianizzare" gli Slavi del Nord. L'impresa rappresenta una pagina nera nella storia del Cristianesimo, perché essa comporta un'autentica persecuzione delle popolazioni, con innumerevoli vittime e "martiri" pagani.

L'opportunismo politico dei capi-tribù per un verso e la necessità di piegarsi alla violenza dell'Impero sono dunque le matrici del cristianesimo slavo. Le conversioni individuali, vissute come autentica adesione alla nuova fede, sono oltremodo rare. Non sorprende pertanto che, per più secoli, il cristianesimo, riconosciuto come religione ufficiale, convive con riti, costumi e abitudini pagani. Le idee fondamentali del cristianesimo di fraternità e di amore, di perdono, di compassione e di penitenza si fanno strada solo molto lentamente.

Il radicamento di tali valori, che si realizza nel corso dei secoli, viene a definire una nuova identità culturale. E' in virtù di questa, prodotta dalla sedimentazione storica di una tradizione, che gli Slavi oppongono un'aspra resistenza al tentativo dei regimi comunisti di estirpare le radici della fede.

Che cosa significa tutto questo?

Che il progetto di papa Wojtyla di evangelizzare nuovamente l'Europa, minacciata dal laicismo razionalista, aveva un fondamento precario. Nonostante le apparenze, il radicamento spirituale del cristianesimo non ha raggiunto mai, dopo il V secolo, la stessa profondità dell'Islam. Pur promossa dal razionalismo, la secolarizzazione in atto nei paesi europei ha, insomma, radici antiche. La civiltà europea è indubbiamente cristiana se si fa riferimento a principi (come per esempio l'esistenza di ìqualcosaî che trascende l'ordine naturale, l'immortalità, la retribuzione secondo il merito, ecc.) che sono profondamente penetrati nella mentalità e nell'immaginario collettivo, ma non è mai stata profondamente religiosa.

In questo senso, la secolarizzazione progressiva dell'Occidente è una nemesi storica.

2.

Una visione mitica del Medio Evo e del Sacro-Romano Impero ha sotteso l'esercizio del pontificato di papa Wojtyla: una visione che identifica nella soggezione del potere politico a quello spirituale, fatte salve le diverse competenze, il modello proprio di una società cristiana. In realtà, il Medio Evo è stato un lungo periodo di oppressione delle masse contadine da parte della nobiltà terriera e dell'alto clero, in gran parte di estrazione nobiliare.

Com'è stata possibile una confusione del genere da parte di un uomo di grande cultura? La risposta penso che possa essere ricavata solo da un aspetto che l'opinione pubblica, assuefatta a naturalizzare i fatti storici, vale a dire a perdere memoria delle loro matrici, trascura: il ruolo del papato nella storia della Chiesa.

Originariamente incentrata sulla collegialità, assembleare prima e vescovile poi, la storia del Cristianesimo è stata solo successivamente caratterizzata dall'istituzionalizzazione gerarchica, giunta al punto di identificare il papa come un "monarca" assoluto. Sotterraneamente, però, la tensione conflittuale tra collegialità e potere papale non è mai venuta meno.

La tradizione ecclesiale, ferma al presupposto per cui Gesù ha designato Pietro come suo erede sulla terra, comporta un elenco di papi che, partendo proprio da Pietro, riconosce una successione continua nel corso del tempo. Si tratta di una ricostruzione storica priva di fondamento. Non solo l'autorità di Pietro, anche solo stando agli Atti degli Apostoli, non è mai stata riconosciuta dal Cristianesimo originario, se è vero che la sua interpretazione giudeo-cristiana del messaggio di Gesù si è scontrata ed è poi stata superata da quella ellenistica, paolina, aperta ai pagani. Per almeno due secoli, l'organizzazione del cristianesimo è stata caratterizzata dall'aggregarsi delle comunità intorno alle figure dei vescovi, nessuno dei quali era considerato primus inter pares. Solo verso la fine del II secolo, il vescovo di Roma, in nome del suo trovarsi collocato nella città imperiale e a capo di una comunità numerosa e ricca, ha acquisito un certo prestigio. Ma tale prestigio non comportava alcuna egemonia sui vescovi, come attestano le numerose controversie teologiche intervenute nei due secoli successivi. La definizione del papa come "monarca" assoluto è avvenuta solo nel V secolo con Leone IV.

Se si prescinde dal fatto che siano occorsi cinque secoli per interpretare un messaggio che nei Vangeli sarebbe inequivocabile, si giunge alla conclusione che il papato è un'istituzione storica che si è resa necessaria, come peraltro tutta la gerarchia ecclesiale, a partire da un determinato momento di sviluppo del Cristianesimo. In pratica, via via che il cristianesimo eredita le funzioni dell'Impero romano in crisi e si espande geograficamente, esso deve assumere una struttura istituzionale gerarchica con a capo un "monarca" assoluto.

La persistenza di una struttura del genere nel corso dei secoli è evidentemente un anacronismo, reso ancora più paradossale dal dogma dell'infallibilità del papa quando parla ex-cathedra.

Nulla documenta meglio il carattere anacronistico del ruolo papale della contestazione protestante, che è giunta a rifiutarlo e ad aborrirlo. Ma la scissione protestante non ha risolto il problema. Anche nella Chiesa cattolica la tensione tra collegialità e potere papale assoluto si è mantenuta, ed è riaffiorata anche di recente nel corso del Concilio Vaticano II.

Di fatto, la Chiesa, che identifica se stessa con la totalità della comunità dei credenti, è una realtà estremamente eterogenea, nella quale, ad una maggioranza di moderati che accetta in quasi tutto il magistero della Chiesa, si associano due frange piuttosto inquiete: quella dei conservatori ortodossi, che ostinatamente rifiutano le aperture al modernismo del Concilio Vaticano II, e quella dei progressisti, i quali, viceversa, considerano tale Concilio come l'avvio di un processo di modernizzazione che dovrebbe portare definitivamente la Chiesa su posizioni dottrinarie e pratiche meno rigide su problemi quali il celibato ecclesiastico, il sacerdozio femminile, la castità prematrimoniale, le tecniche anticoncezionali e la bioetica.

Papa Wojtyla ha avuto piena consapevolezza di questa situazione precaria, nonostante le apparenze, e ha cercato di affrontarla in maniera tatticamente accorta. Per un verso, infatti, egli ha recepito alcune preoccupazioni dei conservatori istallando nei posti-chiave del potere centrale, il Vaticano, suoi rappresentanti o simpatizzanti. In conseguenza di questo, i vertici gerarchici della Chiesa, sotto il suo pontificato, si sono piuttosto irrigiditi. Alle inquietudini dei conservatori, Wojtyla ha risposto anche attaccando frontalmente le tendenze teologiche progressiste, soprattutto la teologia della liberazione latino-americana, in nome della necessità di preservare la dottrina cristiana, orientata a guidare gli uomini sulla via della salvezza oltremondana, da qualunque inquinamento con il marxismo umanitaristico. Tale attacco ha praticamente scompaginato e messo fuori gioco la Compagnia di Gesù, dal cui seno provenivano alcuni esponenti della teologia della liberazione, provvedendo a sostituire il suo ruolo storico e la sua influenza con movimenti cattolici più affidabili, tra i quali l'Opus Dei.

Per un altro verso, papa Wojtyla ha rilanciato la dottrina sociale della Chiesa, schierandosi apertamente a favore dei deboli, degli oppressi e dei diseredati, fino al punto di assumere un atteggiamento aspramente critico nei confronti delle società occidentali capitalistiche e ingiuste. Con ciò, egli ha rianimato la vocazione originaria della Chiesa, che ha rappresentato uno dei fattori più importanti della sua affermazione, assegnando nuovamente ad essa il ruolo di un'istituzione deputata a sanare le contraddizioni di un mondo che produce in misura sempre più rilevante squilibri socio-economici al suo interno e all'esterno.

Entrambe le tattiche hanno funzionato: la prima nel sedare le ansie dei conservatori, ai quali interessa il controllo gerarchico della comunità dei credenti; la seconda nell'invalidare l'identificazione della Chiesa come un'istituzione troppo tendente al compromesso col potere politico dominante.

Il problema, destinato a riproporsi, è che la strategia complessiva, vale a dire la somma delle due tattiche non è propriamente parlando dialettica: essa, infatti, è consistita semplicemente nel dare un colpo al cerchio e uno alla botte.

La sua efficacia è da ricondurre soprattutto al fatto che papa Wojtyla, come forse pochi pontefici in epoca moderna, ha esercitato il suo potere in maniera assoluta, sia pure sulla base di un prestigio popolare e mondiale enorme. Egli, in pratica, ha riproposto il ruolo del papa come erede di Cristo e garante in assoluto della rivelazione. Un ruolo, per l'appunto, anacronistico, che fa della Chiesa l'ultima istituzione erede del satrapismo orientale e del modello imperiale romano, fondato sull'assunzione del capo supremo come rappresentante di Dio sulla terra.

Incompatibile con i fermenti che pervadono la comunità dei credenti, orientati a riabilitare se non la collegialità originaria, che aveva carattere assembleare e comportava l'elezione dei vescovi da parte dei fedeli, almeno la collegialità vescovile, tale riproposizione è risultata vincente per due motivi. Il primo è stato il carisma personale di papa Wojtyla, accresciuto dalla capacità di usare in maniera efficace gli strumenti mediatici. Il secondo, invece, è da ricondurre ad un'esigenza di compattezza della Chiesa se non compromessa almeno attentata dalle aperture del Concilio Vaticano II. A tale esigenza, papa Wojtyla ha risposto cogliendo il bisogno di certezze inconfutabili e di verità non negoziabili che la sottende. Le certezze sono quelle rivelate, ovviamente, delle quali la Chiesa è depositaria e custode. Assumendosi il compito di ribadirle, papa Wojtyla ha fatto il suo dovere, dando però al suo ruolo un significato particolare, assoluto, e iscrivendo il suo pontificato in una tradizione di personalità carismatiche (da Leone IV a Gregorio VII) che la Chiesa ha sempre espresso nei momenti di crisi.

Il trionfo di papa Wojtyla, culminato nella commozione a livello mondiale per la sua agonia e la morte, è in realtà il segno di una crisi della Chiesa che egli ha cercato invano di scongiurare.

3.

A questa conclusione si giunge anche tenendo conto delle contraddizioni evidenti tra l'apertura al mondo della sua predicazione e l'irrigidimento dottrinario che si ricava dalle encicliche e da altri discorsi.

Inconfutabile, l'apertura al mondo non va ricondotta agli aspetti che hanno avuto il maggiore impatto mediatico sull'opinione pubblica, vale a dire le incessanti peregrinazioni su tutto il pianeta e la particolare sensibilità manifestata nei confronti dei giovani per un verso e degli oppressi e diseredati per un altro. Essa piuttosto è identificabile in due momenti alti del pontificato: l'uno è stato il pentimento del papa, pronunciato in nome della Chiesa, degli errori commessi nei confronti di Galileo Galilei, che ha avviato lo sviluppo scientifico del mondo moderno, e nei confronti degli Ebrei, nella misura in cui l'accusa di deicidio a loro rivolta dal Cristianesimo può avere contribuito a giustificare le persecuzioni cui essi sono stati sottoposti. Il secondo è stato, nel 1991, il chiamare a raccolta ad Assisi i rappresentanti di tutte le religioni esistenti per sormontare le barriere prodotte dallo sviluppo storico tra confessioni e movimenti religiosi nei quali papa Wojtyla un'istanza comune: quella di assegnare all'uomo una dignità e un destino trascendente il modano che, nella sua ottica, solo il riferimento al sacro può promuovere.

Purtroppo, l'operato del papa non è sempre stato all'altezza di questi momenti.

Il riconoscimento dell'oscurantismo religioso nei confronti della scienza alle sue origini, non ha impedito a papa Wojtyla di avviare un nuovo conflitto con la scienza contemporanea, soprattutto con la biologia e la medicina. Non c'è alcuna sorpresa nella rigidità con cui l'aborto e l'eutanasia sono state respinte e demonizzate come espressione della volontà luciferina dell'uomo di negare la sacralità della vita e di violare un diritto, quello di vivere o di morire, che compete solo a Dio nella sua imperscrutabile volontà. Per quanto affrontati con accenti medievali, queste tematiche si possono agevolmente far rientrare nell'ambito delle verità non negoziabili in un'ottica di fede. La chiusura nei confronti di ogni dibattito sul problema demografico e il divieto di ogni tecnica contraccettiva non naturale è, invece, sorprendente. La contraccezione, praticata comunemente anche da molti cattolici, non implica il rifiuto di assoggettarsi alla volontà procreativa divina, bensÏ nei paesi occidentali la paura di non potere assicurare ai figli adeguate possibilità di sviluppo e, nei paesi sottosviluppati, la consapevolezza di sottoporre un numero rilevanti di esseri alla selezione naturale, implacabile laddove si danno condizioni ambientali caratterizzate da scarso cibo e scarse cure mediche. Assumendo un atteggiamento rigido a riguardo, papa Wojtyla ha operato una scelta perdente che nulla ha a che vedere con il diritto alla vita, poichÈ riguarda esseri umani virtuali.

E' vero che egli ha compensato questa rigidità con un messaggio sociale di indubbio significato, secondo il quale le risorse per assicurare una vita degna a tutti gli esseri umani già ci sono. Da questo punto di vista, si tratterebbe solo di sormontare l'egoismo che affligge la società occidentale opulenta e di distribuire le risorse del pianeta. Tale impostazione terzomondista, che ha suggestionato non poco anche movimenti e partiti di sinistra occidentali, ha assunto la configurazione di una denuncia rivolta al sistema capitalistico, ritenuto responsabile di gran parte dei mali di cui è affetta l'umanità. A tale denuncia, papa Wojtyla ha opposto il modello sociale della Chiesa che, da sempre, è incentrato sulla carità e sull'assistenzialismo a favore dei poveri e dei bisognosi.

Il problema è che tale denuncia non è mai andata al di là del flatus vocis, non si è mai tradotta in prese di posizione concrete atte non solo a stigmatizzare il capitalismo, ma anche ad arginarlo e a lottarlo. Per esempio, essa non è mai giunta ad imporre ai credenti di non speculare in borsa, di non praticare l'usura vietata dalla Bibbia, anche se formalmente legittima, di mettere a disposizione dei poveri i loro beni immobiliari a equo canone, di assoggettarsi ad una tassazione progressiva del reddito a favore della Chiesa, ecc.

E' evidente perché ciò non è avvenuto. Per quanto l'atteggiamento di papa Wojtyla sia stato critico nei confronti del capitalismo selvaggio, egli non se l'è sentita di mettere in discussione il patto implicito intervenuto nell'800 tra il sistema capitalistico e il cristianesimo, che ha scongiurato un conflitto epocale. Il suo intento piuttosto è stato quello di eleggere la Chiesa a istituzione deputata a sopperire, con la sua rete assistenziale, ai fallimenti del mercato, estendendo il suo prestigio e il suo potere.

L'ecumenismo della Chiesa cattolica, poi, esaltato dal rivolgersi a tutti gli uomini di buona volontà accomunati dalla credenza in un unico Dio, è venuto ad urtare contro l'imperialismo proprio della dottrina, secondo la quale si dà una sola rivelazione, quella appunto di cui è depositaria la Chiesa, per cui tutte le altre religioni riguardano una sorta di Dio absconditus, che può essere portato alla luce solo dalla fede in Cristo. E' evidente che tale messaggio non può trovare ascolto laddove, com'è il caso dell'Islam, GesØ non è riconosciuto come Figlio di Dio.

Anche all'interno del Cristianesimo, però, tale richiamo è stato inattivato da comportamenti contraddittori con il riferimento alla comune matrice evangelica. I processi di beatificazione (1400) e di santificazione (480) sottoscritti dal papa, con una progressione che non ha riscontro nei cinque secoli precedenti, non avrebbero potuto certo rasserenare i rapporti con il mondo protestante che in quei processi ha letto sempre un cedimento della Chiesa alle mai sormontate esigenze pagane dei cattolici, e che non riconosce intermediario alcuna tra i cristiani e Dio. L'insistenza sul culto mariano, una vera ossessione di papa Wojtyla, non avrebbe potuto contribuire a distendere i rapporti con la Chiesa ortodossa, che tale culto pervicacemente rifiuta.

Le encicliche - quattordici che, nel loro insieme, contano circa mille pagine - mostrano una cesura radicale. Fino al crollo del muro di Berlino, papa Wojtyla è impegnato nella difesa dei diritti umani che, nella loro definizione cristiana, sono attentati sia in Occidente che nel mondo comunista. E' percettibile la maggiore gravità della violazione operata nel mondo dell'Est, laddove la libertà religiosa è ufficialmente negata. L'anticomunismo di papa Wojtyla è radicale, ma non viscerale. Egli non misconosce le ragioni storiche da cui si è originato il comunismo riconducibile all'oppressione delle classi oppresse e alle ingiustizie sociali.

Dopo il crollo del Muro di Berlino, la preoccupazione del papa si sposta sempre più insistentemente sui temi etici (la violenza, le armi, le droghe, ecc.) e bioetici. Egli si contrappone al relativismo morale strisciante in Occidente, in conseguenza del processo di secolarizzazione, opponendo ad esso i valori cattolici che hanno un fondamento trascendente e, nel loro fondamento assoluto, possono rappresentare l'unica via di salvezza per un mondo in decadenza.

La progressiva sordità del mondo nei confronti di quei valori, rivelati ormai da duemila anni, è una preoccupazione costante di papa Wojtyla. La sua interpretazione di questo fenomeno è senza sfumature. C'è una debolezza intrinseca nella natura umana, dovuta al peccato originale, che espone l'uomo al rischio di infatuarsi della sua libertà e di pensare di agire in nome suo anche quando egli è fuorviato dal Diavolo. Non è certo un caso se, nella sua lunga missione pastorale, egli è tornato ben ventiquattro volte sulla dottrina demonologia cattolica, insistendo sulla necessità che i cristiani credano nell'esistenza del Male come Persona e continuino a combattere in ogni modo come il Nemico.

La riproposizione del tema demonologico rappresenta, forse, l'aspetto più medievale dell'insegnamento di papa Wojtyla, e quello che rivela di più una situazione di crisi della Chiesa.

4.

Analizzato in prospettiva storica, il papato di Wojtyla appare contrassegnato, insomma, da due diverse istanze. Per un verso, egli ha tentato di riattualizzare il Cristianesimo delle origini con la sua spiccata vocazione sociale e un orientamento implicitamente critico nei confronti dello stato di cose esistente nel mondo. Per un altro, egli, consapevole delle tensioni teologiche e ideologiche che pervadono la Chiesa e la comunità dei fedeli, ha tentato di riabilitare il modello istituzionale gerarchico medievale, fortemente incentrato sul potere assoluto papale e sul dogma.

Il primo tentativo è coinciso con una radicale caratterizzazione cristologica della teologia cristiana. Il Gesù paolino, di fatto, è stata l'arma vincente del Cristianesimo originario. Papa Wojtyla, ponendolo quasi ossessivamente al centro di tutti i suoi discorsi, ha colto il fascino che la figura di Cristo può esercitare nell'orizzonte moderno. Tale fascino, però, è più di ordine culturale che religioso: esso fa leva sul messaggio di fratellanza, di pace e di giustizia sociale di cui Gesù è portatore, non sulla teologia della Croce, che Paolo ha esaltato come mistero che schiude all'umanità le porte precluse della felicità eterna, ma, di fatto, articolandosi sulla matrice biblica di un Dio che rimane secolarmente offeso da una debolezza umana, ne rivela la distanza abissale dalla sensibilità moderna. I valori suggestivi del Cristianesimo non sono, infatti, incompatibili con la cultura laica, mentre la teologia della Croce, nella misura in cui si pone come un'interpretazione totalizzante della storia umana e della vicenda di ogni singolo individuo, lo è.

Papa Wojtyla ha insistito sul fatto che solo il Cristianesimo dà senso alla vita, ma la cultura laica ormai oppone ad esso il suo senso: la necessità che ogni uomo sia degno di un'avventura nata dal caso o dalla tendenza della materia a sperimentare forme di organizzazione sempre più complesse, laddove per dignità s'intende consapevolezza, apertura critica, amore per la vita, attribuzione agli altri degli stessi propri diritti e bisogni, ecc.

Il secondo tentativo è quello che più rivela la crisi in cui versa la Chiesa. Tale crisi ha anch'essa una matrice antica. Dal momento in cui la Chiesa ha accettato la separazione tra potere spirituale e potere temporale (separazione, per esempio, ancora rifiutata da una larga parte dell'Islam), essa ha segnato il suo destino di irreversibile per quanto lenta decadenza. Insistendo sui temi della giustizia sociale e della bioetica, e facendo riferimento a valori assoluti che nessun potere temporale può violare, papa Wojtyla ha giocato l'ultima carta: quella di restaurare, sulla base della morale, l'egemonia del potere spirituale su quello temporale. Per giungere a tanto, egli ha però dovuto esercitare all'interno stesso della Chiesa un potere assoluto atto a compattarla dogmaticamente. Per quanto temperato dalla bontà evangelica dell'uomo e dalla sua cultura umanistica, tale esercizio ha restaurato una concezione del ruolo e del potere del Papa che con il Concilio Vaticano II, se non compromessa, era stata messa in discussione. Si può essere certi che essa è destinata a riproporsi drammaticamente.

Settembre 2005