Dio distratto?


Un terremoto di una certa intensità produce sempre danni alle cose e alle persone. Quello sopravvenuto in Molise ha colpito particolarmente l'opinione pubblica perché, a S. Giuliano di Puglia, esso ha agito nel modo più "crudele", facendo crollare una scuola e provocando la morte di ventisei bambini (oltre che tre adulti).

I bambini sono esseri bisognosi di protezione in quanto ancora inadeguati ad affrontare i problemi della vita. Il saperli coinvolti in un dramma più grande di loro, intrappolati in una situazione di dolore e di terrore, invocanti invano l'aiuto degli adulti, destinati a morire senza scampo evoca una pietas impregnata di angoscia. Una situazione del genere, infatti, rappresenta, nell'immaginario collettivo, la condizione esistenziale propria di ogni uomo nella misura in cui egli sa di essere precario, esposto alla possibilità di soffrire e inesorabilmente solo di fronte alla morte.

La solidarietà sociale, in casi del genere, rivela i suoi limiti. Pur tenendo conto della possibilità di migliorare le tecniche ingegneristiche, adottando metodologie antisismiche, di potenziare i servizi della protezione civile e della medicina di urgenza, e di educare i cittadini a prepararsi all'impatto del terremoto, rimane il fatto che il "male" eccede le capacità di controllo degli esseri umani. La scienza consentirà, forse, all'uomo di raggiungere e colonizzare nuovi pianeti, ma le viscere della terra, con i loro moti di assestamento, rimangono al di fuori di qualunque possibilità di intervento e di "cura".

La singolarità del sisma consente di comprendere le reazioni che esso evoca a livello collettivo.

La causalità dei fenomeni sismici è ormai ampiamente nota a livello geologico. Nella misura in cui, però, essi provocano morte e distruzione, la causalità scientifica non riesce a soddisfare il bisogno di senso che è proprio della coscienza collettiva. Questo bisogno non si rivolge solo all'accertamento di responsabilità umane, che possono incidere sia in un difetto di prevenzione che di intervento ex-post: responsabilità che, nel caso in questione, sembrano già evidenti e molteplici. Esso è più radicale: si traduce nella ricerca del perché ultimo dell'evento, intollerabile in quanto rivela drammaticamente la precarietà dell'uomo e sembra alludere crudelmente alla sua insignificanza nell'economia del cosmo. Inesorabilmente questo perché schiude una problematica religiosa.

E' proprio per compensare la sua precarietà e per negare la sua insignificanza ontologica che l'uomo ha "inventato" la magia prima e la religione poi. Sia l'una che l'altra, originariamente, corrispondevano al bisogno di disporre di un qualche potere in rapporto al male, provenisse esso dagli spiriti maligni, dai nemici o dalla natura matrigna (sotto forma di catastrofi: siccità, inondazioni, terremoti, ecc.). Successivamente, la religione ha schiuso l'orizzonte dell'immortalità e della felicità eterna. Soluzione magica poiché essa ha radicalmente trasformato il negativo - il male - in positivo. Il dolore è divenuto una prova meritoria, la morte un passaggio alla vera vita. La finitezza si è dissolta, come pure l'incubo dell'insignificanza.

Un problema però è rimasto irrisolto nell'ottica religiosa: l'irrazionalità del male. Eventi come il terremoto molisano, nella misura in cui mietono delle vittime innocenti, lo ripropongono.

Una terremotata lo ha espresso nella forma più ingenua, chiedendosi:"Che cosa abbiamo fatto per meritarci questo?". La domanda non fa capo solo ad un'esigenza, sia pure primitiva, di razionalità per cui il terremoto potrebbe essere intervenuto come effetto di comportamenti umani contrari ad un ordine cosmico o religioso, né ad una concezione arcaica della religione per cui il male rappresenta sempre e comunque una punizione divina. Essa esprime anche una logica profondamente radicata nell'inconscio umano per cui tutto ciò che avviene, e quindi anche il male, non può prescindere da una logica di giustizia.

Tale domanda non può essere però recepita a livello religioso perché essa implica il riferimento ad un Dio biblico che agisce in una forma oggi ritenuta perversa (per quanto ampiamente rappresentata nella Bibbia), punendo nei figli le colpe dei padri.

"Liberiamoci dall'immagine di un Dio perverso. Di un Dio cattivo. Di un Dio che non alza un dito per fermare il terremoto dei bambini, per impedire la morte dei piccoli angeli" ha detto il Priore di una comunità monastica. Il Dio veterotestamentario è di fatto incompatibile con il Dio d'amore evangelico.

Accordare però un evento quale quello accaduto nel Molise con il Dio d'amore non è semplice. Un sacerdote del posto ha espresso questa difficoltà, chiedendosi sconvolto dov'era Dio quando la scuola è crollata sulle piccole vittime. La sua prima risposta è stata che Dio deve essersi distratto. Ha capito rapidamente, forse perché rimbrottato da qualcuno, d'avere detto un'eresia e si è corretto.

Un Dio distratto è incompatibile con la fede dei credenti che hanno bisogno di sentirsi protetti. Esso è in gioco ogniqualvolta si chiede un miracolo che non si realizza, vale a dire nella maggioranza dei casi. Ma la circostanza è compensata dai miracoli, sia pure rari, che si realizzano. La distrazione rientra nell'ambito dell'imperscrutabile volontà divina.

Ma allora, se non si è distratto, perché non è intervenuto? Il Papa, associando il suo dolore a quello dei terremotati, non ha fatto cenno al problema. Ha risposto invece il Priore della comunità monastica:" Ho sentito anch'io quel prete che si chiedeva dov'era Dio… ma questa domanda, anche davanti a quel disastro, io non me la sono posta. Non certo perché io abbia è più fede di quel prete. Ma perché penso che Dio sia presente sia nel bene che nel male. E non è stato certo Dio a mandare questo castigo, né a permetterlo. Il mondo che è uscito dalle sue mani ha una sua autonomia, e lui non può fare nulla per togliere il male dal mondo, come non può impedire di essere cattivi e di commettere degli errori. Dovremmo avere il coraggio di cambiare una certa immagine di Dio, che a volte ci libera dal male, e allora è un grande protettore, e altre volte ci lascia cadere nel male, e allora è un Dio cattivo. Invece è l'uomo che può scegliere il bene o il male, e Dio non può costringerlo a nulla, non può nemmeno castigarlo finché starà sulla terra. Se così non fosse, non saremmo liberi, e lui sarebbe solo un povero Dio. Dobbiamo liberarci dall'immagine di questo Dio perverso che continua ad essere presente nella nostra tradizione cristiana, Dove c'è qualcuno che soffre, Dio c'è sempre. Anzi, c'è ancora di più. E proprio nel male, nel dolore, nella sofferenza, è lì che ci chiede di continuare ad amare".

Il Dio impotente è di certo meno problematico del Dio perverso. Ma, con questo escamotage, il problema non è risolto. Estendere alla natura il concetto del libero arbitrio sembra una forma di antropomorfismo. D'accordo, se l'uomo non fosse libero di scegliere tra il bene e il male, non si darebbe né colpa né merito. Estendere alla natura questa libertà è insensato. La natura non sceglie, è governata da leggi che, per molti aspetti, sono deterministiche. Il terremoto poi non è un male se non per chi lo subisce. E' un movimento di assestamento "salutare" da un punto di vista geologico. Se avesse voluto, Dio non avrebbe potuto lasciare consolidare le viscere della terra prima di creare l'uomo?

La realtà è che di fronte a fatti del genere la Chiesa non sa che pesci prendere. Essa deve, in fin dei conti, rifugiarsi nell'esaltazione del dolore come strumento di prova e di redenzione e sospendere il giudizio sulla distribuzione (iniqua) del male in nome dell'imperscrutabile colontà divina. Per essere accolto, però, questo messaggio richiede una vocazione alla santità. Esso ferisce e mortifica l'aspettativa dei credenti di sentirsi in qualche misura protetti e di vantare un credito. Si tratta di un atteggiamento primitivo? Senz'altro, ma se esso venisse meno la schiera dei credenti si ridurrebbe ad un manipolo di santi.

Il problema del male, dal quale pure è nata la religione, appare insolubile nell'ottica religiosa. Il dolore, tanto più se irrazionale, come prova meritoria urta contro una resistenza psicologica insormontabile. Tale resistenza è riconducibile alla giustizia, vale a dire all'esigenza inconscia che bene e male siano distribuiti equamente, secondo una logica rispettivamente di merito e di colpa. La religione afferma che questa logica fa parte della perfezione divina e che essa sarà realizzata nell'aldilà. Questo però sembra non bastare agli esseri umani.

L'angoscia di precarietà è così poco tollerabile che la difesa più costante che viene adottata nei suoi confronti è quella di identificare qualcuno che la genera. La vulnerabilità umana al dolore, alla malattia, alla morte viene riferita costantemente ad un agente vulnerante, vale a dire ad un colpevole.

Nella circostanza specifica, responsabilità pare che ce ne siano di diverso genere. Il piano sopraelevato della scuola è stato costruito in cemento armato su un'infrastruttura di mattoncini. La costruzione è avvenuta senza tenere conto della possibilità di un sisma. L'appartenenza dell'area terremotata ad una zona a rischio, stabilita da dieci anni, non è stata comunicata al comune o, se è stata comunicata, è andata ignorata.

Responsabilità pesanti, nessuna delle quali è ovviamente riconducibile ad una volontà deliberata di uccidere dei bambini. Nella sala in cui erano state depositate le salme dei piccoli, varie volte però sono echeggiate accuse specifiche: "Me l'hanno ammazzato!", "Assassini, assassini!". Reazioni comprensibili dato il dolore, ma nondimeno significative. Un limite della psicologia umana sta nel non potere ammettere che evento dolorosi non riconoscano un colpevole. L'identificazione del colpevole è necessaria in virtù del fatto che essa può permettere di agire punitivamente, di fare giustizia. Nessuno potrà essere messo a morte per la tragedia. Nell'inconscio collettivo, questa però sarebbe la giusta punizione.

L'insignificanza dell'esistenza, poi, è aborrita psicologicamente e culturalmente. L'uomo ha bisogno di credere che la sua esperienza personale, la storia della specie, la vita, l'universo abbiano senso. Tutto ciò che compromette questa convinzione è sistematicamente rifiutato.

Si tratta di un limite della mente umana che deriva dal fatto che la consapevolezza umana pone il problema del senso dell'esistenza e lo pone in termini tali, oggettivi, per cui il vicolo cieco della religione è inevitabile. Il senso oggettivo non può riconoscere infatti il suo fondamento che in un ordine esterno rispetto all'uomo e che lo trascende. Quest'ordine poi non può essere il caso, poiché si ritiene impossibile che un insieme di fattori congiunturali abbiano prodotto una specie intelligente. Deve trattarsi dunque di un essere dotato di intelligenza.

Quale vantaggio d'altronde - ci si chiede - potrebbe produrre l'accettazione dell'insignificanza dell'esistenza? Essa non produrrebbe solo demotivazione, angoscia, depressione, disperazione? Non è detto. Rinunciare al senso oggettivo dell'esistenza potrebbe significare infatti promuovere la necessità di riempire la vita di un senso soggettivo. Si tratterebbe dunque di un'assunzione di responsabilità su di una strana avventura avviata dal caso. Ma se per questa via l'uomo potrebbe scampare alla disperazione, non ricadrebbe egli inesorabilmente nel limbo dell'egoismo, dell'edonismo, del carpe diem? Neppure questo sembra vero.

L'insignificanza dell'esistenza, come ha intuito Leopardi ne La ginestra, potrebbe altresì produrre una pietas universale che porterebbe gli uomini a coalizzarsi nella lotta contro il male, nei limiti in cui ciò è possibile. A sentire dunque di condividere un destino comune, a solidarizzare e ad astenersi dall'aggiungere al male naturale il male prodotto dall'uomo: la violenza, lo sfruttamento, la guerra. Un'utopia. Di certo se è vero che la violenza, lo sfruttamento, la guerra rappresentano sinora la soluzione laica al problema del senso della vita, concedendo al più forte l'illusione di essere invulnerabile e onnipotente. Ma è una via alternativa che, forse, occorrerebbe tenere in conto.