Commento all'Enciclica Deus caritas est


1.

La cultura laica sembra ormai, con poche eccezioni, preda di una sorta di soggezione nei confronti della Chiesa: capace di fronteggiarla anche vigorosamente quando essa invade territori morali sui quali pretende accampare i suoi dogmi, imponendoli urbi et orbi, assume un atteggiamento acritico e giubilatorio quando si confronta con il nucleo del messaggio cristiano. In esso, di fatto, risuonano temi - la solidarietà, la giustizia, la pace — che sono congeniali alla cultura laica, e sembrano comportare una possibile alleanza. Tale alleanza viene poi smentita nei fatti. Occorrerà ricordare che, al di là della contestazione del comunismo sovietico, suo mortale nemico, la Chiesa ha sempre chiuso un occhio — da Franco a Pinochet — sui regimi dittatoriali di destra che le accordavano piena libertà d’azione, e, come attesta anche la recente storia italiana, esprime una costante predilezione per i partiti e i governi di centro-destra?

Dal punto di vista politico, il Papa non potrebbe essere più chiaro. Egli scrive: "La costruzione di un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente affrontare. Trattandosi di un compito politico, questo non può essere incarico immediato della Chiesa. Ma siccome è allo stesso tempo un compito umano primario, la Chiesa ha il dovere di offrire attraverso la purificazione della ragione e attraverso la formazione etica il suo contributo specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili."

E’ un linguaggio curiale, ma inequivocabile. Il contributo della Chiesa al realizzarsi del regno della giustizia passa attraverso la purificazione della ragione e la formazione etica, vale a dire l’adesione delle forze politiche ai suoi dogmi e ai suoi valori morali. Su questo terreno, è evidente che l’incontro con i partiti, le correnti e i movimenti che si richiamano al socialismo è praticamente impossibile, poiché essi non possono rinunciare al carattere laico della loro ideologia che stabilisce un legame di solidarietà tra gli esseri umani il quale prescinde, o può prescindere, da qualsivoglia trascendenza.

Mi rendo conto che avviare l’analisi critica di un’Enciclica dedicata all’amore sottolineando la sua valenza politica, che è una conseguenza dei presupposti teologici su cui si fonda, può apparire una forzatura arbitraria. Ma non lo è. La Chiesa ormai da tempo ha rinunciato a far politica nel senso stretto della pretesa di un potere temporale. Ma intanto la rinuncia definitiva è relativamente recente, risalendo in Italia a poco più di un secolo. In secondo luogo, tale rinuncia non è mai stata, a ben vedere, radicale. Pur limitandosi ad amministrare il potere spirituale, infatti, la Chiesa ha sempre, esplicitamente e implicitamente, fatto capire che lo ritiene, per investitura divina, superiore a quello temporale. Ciò significa che quest’ultimo dovrebbe subordinarsi all’altro o comunque non entrare in conflitto con esso.

Si obietterà che, nell’Enciclica, non si dà alcun riferimento ad una cosa del genere. Ma anche questo è un errore, che deriva dal fatto di non sapere leggere tra le righe. I documenti ecclesiali, infatti, richiedono di essere decifrati perché in essi c’è sempre un eccesso di significati impliciti.

Cito integralmente:

"L'amore – caritas – sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell'amore. Chi vuole sbarazzarsi dell'amore si dispone a sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo. Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un'istanza burocratica che non può assicurare l'essenziale di cui l'uomo sofferente – ogni uomo – ha bisogno: l'amorevole dedizione personale. Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga, nella linea del principio di sussidiarietà, le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La Chiesa è una di queste forze vive: in essa pulsa la dinamica dell'amore suscitato dallo Spirito di Cristo. Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell'anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale...

Anche se le espressioni specifiche della carità ecclesiale non possono mai confondersi con l'attività dello Stato, resta tuttavia vero che la carità deve animare l'intera esistenza dei fedeli laici e quindi anche la loro attività politica, vissuta come " carità sociale ".

Cosa significano queste affermazioni? Alla lettera, che la Chiesa, in nome della carità, integra e corrobora le strutture pubbliche che tendono a soddisfare i bisogni sociali dei quali il sistema capitalistico non può né vuole farsi carico. Lo spirito, però, è tutt’altro. Si chiede né più né meno che lo Stato rinunci a regolare e a dominare tutto l’ambito dell’assistenza sociale, che esso si faccia da parte per non rischiare di trasformarsi in un’istituzione burocratica e che deleghi alla Chiesa e ai movimenti che ad essa fanno capo il compito di assicurare la soddisfazione dei bisogni sociali frustrati. Solo l’Istituzione ecclesiale e la comunità dei fedeli può infatti erogare, oltre agli indispensabili aiuti materiali, l’amorevole dedizione di cui necessitano le persone bisognose.

Si tratta di una proposta politica, rivolta implicitamente alle forze "liberali" che sollecitano l’alleggerimento dello Stato sociale e si orientano, sul modello americano, verso una "privatizzazione" dell’assistenza, vale a dire verso la trasformazione dei diritti sociali in bisogni e la delega a qualcuno di rispondere ad essi su base volontaria: sulla base, insomma, della compassione e della beneficenza.

La Chiesa insomma si candida per vicariare o sostituire lo Stato assistenziale.

Lo fa naturalmente alla luce di una tradizione di lunga data, che l’Enciclica rievoca come caratterizzata da un’assoluta continuità. Ora, che l’arma vincente del Cristianesimo originario sia stata la solidarietà comunitaristica, che ha cooptato le enormi masse di diseredati dell’Impero romano, è fuori di dubbio, come pure che l’attenzione ai poveri e ai bisognosi abbia rappresentato nel corso dei secoli una delle anime del Cristianesimo, spesso espressa ai limiti dell’eresia. Una continuità in senso proprio, però, non si è data, tanto è vero che la nascita dei movimenti socialisti ha colto di sorpresa la Chiesa, costringendola ad una rincorsa affannosa.

Onestamente il Papa riconosce questa verità scrivendo:

"È doveroso ammettere che i rappresentanti della Chiesa hanno percepito solo lentamente che il problema della giusta struttura della società si poneva in modo nuovo."

La sconfitta del comunismo ha però risolto la competizione a favore del Cristianesimo, creando una situazione nuova, tale che "anche a causa della globalizzazione dell'economia, la dottrina sociale della Chiesa è diventata un'indicazione fondamentale, che propone orientamenti validi ben al di là dei confini di essa."

Sconfitto il comunismo, l’avversario che rimane — il capitalismo liberista — sembra ben meno pericoloso. Non solo perché esso ha una disposizione naturale al compromesso con la Chiesa, ma anche perché, nella misura in cui fomenta l’egoismo individuale, crea le premesse perché il messaggio solidaristico della Chiesa possa nuovamente risuonare come un messaggio di speranza e di giustizia. In un mondo disumanato dalla necessità di rispettare le regole, che il liberismo ritiene oggettive e cui accredita una capacità di autoregolazione che non va interferita dallo Stato, quale rimedio migliore si può dare dell’altruismo solidaristico e dell’amore per il prossimo che lenisce e ripara le ferite inferte al tessuto umano dall’egoismo?

Questa è la ricetta che la Chiesa propone alla crisi dei valori che serpeggia in Occidente. Non ci vuole molto a capire che, ponendosi essa come complementare e sussidiaria, vale a dire non in opposizione con il potere politico e con il mercato, il rischio che, nonostante la suggestione che esercita sulle forze di sinistra, essa possa essere più facilmente accettata da quelle di centro-destra è elevato.

Ho scritto più volte che tra la visione del mondo liberale e quella cristiana si dà un’incompatibilità radicale, e che la convivenza di entrambe queste visioni del mondo all’interno della nostra civiltà la caratterizza come "schizofrenica". E’ pur vero però che, se si fa eccezione per l’ala laicista e radicale del liberismo e quella fondamentalista del Cristianesimo, le due visioni del mondo hanno avuto storicamente la tendenza a trovare un compromesso che evitasse uno scontro frontale temuto da entrambe.

La dottrina sociale della Chiesa, nella versione che emerge dall’Enciclica in questione, appare come un ulteriore tentativo di mantenere per l’appunto una situazione di non belligeranza con il liberalesimo. Il documento manifestamente smorza gli accenti anticapitalistici, o interpretati come tali, di alcuni discorsi di Papa Woytila.

2.

Se accantoniamo il significato politico dell’Enciclica, peraltro chiarissimo, per prendere in considerazione i contenuti dottrinari, teologici e filosofici, l’analisi critica sembra più complessa.

Ma l’apparenza anche a questo livello è ingannevole.

Il nucleo concettuale dell’Enciclica è fornito nell’Introduzione ad essa:

""Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui " (1 Gv 4, 16)...

Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4, 10), l'amore adesso non è più solo un " comandamento ", ma è la risposta al dono dell'amore, col quale Dio ci viene incontro....

In un mondo in cui al nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell'odio e della violenza, questo è un messaggio di grande attualità e di significato molto concreto."

Pochi dubbi possono sussistere riguardo al fatto che identificando nel Cristianesimo la religione dell’amore il Papa intende definirne la specificità e la singolarità (che trova riscontro solo in alcune correnti sincretiche del Neo-Induismo), differenziandolo e ponendolo su di un registro di superiorità rispetto all’Islam, almeno per quanto concerne le correnti fondamentaliste e integraliste.

Purtroppo, però, il testo dell’enciclica non sfugge al sospetto che si tratti di un’operazione ideologica più che teologica. Come avviene da sempre, infatti, la Chiesa non può fare a meno di rivendicare il nesso di continuità tra l’Antico e il Nuovo Testamento, e di iscrivere tutta la Rivelazione nella cornice dell’Amore di Dio per l’uomo.

Si tratta però di una forzatura, che può essere mantenuta solo a patto di fare cominciare l’Antico Testamento con il pensiero dei Profeti, che, di fatto, fondano un’altra religione.

Il Dio veterotestamentario è, infatti, allo stesso tempo, il Dio della Misericordia e della Vendetta, intesa come espressione primaria di Giustizia infinita. Da questo punto di vista, Allah, che mantiene entrambe queste caratteristiche, è più credibile del Dio cristiano, che, con l’avvento dei Profeti prima, di Gesù poi e, infine, di S. Paolo, letteralmente cambia pelle.

Il Dio veterotestamentario, inoltre, non ama l’umanità, se è vero che la prima creazione si conclude con un genocidio (il Diluvio universale) e la specie viene rigenerata a partire dal capostipite degli Ebrei, Noè. Egli ama solo il suo popolo prediletto, e lo ama con una passione tale che, per insediarlo nella Terra Promessa, gli concede di sterminare i popoli che da tempo la abitano.

Anche se non si dà credito storico alla conquista della Palestina com’è descritta trionfalisticamente nell’Antico Testamento, e dunque si attribuisce alla mitologia popolare ebraica la catena di crudeltà che l’avrebbero caratterizzata, promosse e guidate da Dio stesso che incita allo sterminio dei vinti, rimane il fatto che quella conquista è avvenuta e ha dato luogo alla fondazione di un Regno.

Certo, il monoteismo ebraico è un aspetto assolutamente singolare nella storia delle religioni e delle culture antiche. Ma si tratta di un monoteismo in gran parte funzionale alle esigenze di una classe sacerdotale, fondata da Mosé, di rivendicare il suo potere univoco di comunicare con l’unico, vero Dio. Per molti secoli, come risulta dall’Antico Testamento, il popolo ebraico ha continuato a coltivare l’idolatria: trasgressione — questa — alla quale vengono ricondotte le terribili punizioni inferte da Jahve sotto forma di deportazioni.

E’ solo con i Profeti e con Ezdra che il monoteismo si impone, non senza resistenze. Ma si impone all’insegna non dell’amore, ma della paura di Dio, i cui ultimi rappresentanti sono i Farisei.

L’amore di Dio per tutta l’umanità non è riconducibile neppure a Gesù, la cui predicazione è rivolta alle pecorelle smarrite di Israele. Esso è un’invenzione di S. Paolo: un’invenzione obbligata dalla resistenza opposta dagli Ebrei nel riconoscere Gesù come Figlio di Dio e dalla necessità di cooptare nella nuova fede i Gentili.

Il tentativo della Chiesa di iscrivere tutta la Rivelazione nella cornice di un appassionato amore di Dio per tutte le creature è, dunque, un’interpretazione insostenibile in rapporto ai testi biblici.

Posto che questa continuità non c’è e che il Cristianesimo si deve considerare come una nuova religione, che nasce da una rottura radicale con quella sul cui tronco nasce — l’Ebraismo -. viene da chiedersi se, comunque, il messaggio cristiano dell’amore universale e della carità non possa essere riconosciuto come un messaggio culturale e morale di infinito valore, che schiude gli orizzonti di un mondo fatto a misura della dignità umana.

Anche su questo aspetto occorre avanzare delle riserve. In un’ottica di fede — di una fede peraltro vincolata alla tradizione mistificata della Chiesa -, esso è senz’altro valido. Proporre però quel messaggio come l’unico rimedio ai mali e allo smarrimento del mondo è discutibile.

Emozionarsi per la sottile dissertazione del Papa sulla differenza tra eros e agape, come pure per l’esaltazione dell’amore di coppia, che viene riconosciuto come uno dei modi in cui l’uomo può raggiungere l’estasi, attesta una certa debolezza della cultura laica. Non solo perché l’amore di cui si parla ha bisogno comunque di affrancarsi dalle sue matrici istintuali ("l'eros ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare all'uomo non il piacere di un istante, ma un certo pregustamento del vertice dell'esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende") e di raggiungere un certo grado di integrazione tra corpo e spirito ("l'uomo diventa veramente se stesso, quando corpo e anima si ritrovano in intima unità; la sfida dell'eros può dirsi veramente superata, quando questa unificazione è riuscita"): condizioni queste dietro le quali si cela l’innata diffidenza della Chiesa per il corpo e la sessualità, sulla cui base rimane ferma una teologia morale repressiva.

Il problema è che l’amore, in tutte le sue espressioni — dalla empatia e dalla simpatia all’affettività e alla passione — non viene riconosciuto come una dimensione intrinseca alla psiche umana. Anche se a riguardo nell’Enciclica si danno delle contraddizioni, è fuor di dubbio che l’amore umano è un riflesso di quello divino ("Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4, 10), l'amore adesso non è più solo un " comandamento ", ma è la risposta al dono dell'amore, col quale Dio ci viene incontro"; "Nella liturgia della Chiesa, nella sua preghiera, nella comunità viva dei credenti, noi sperimentiamo l'amore di Dio, percepiamo la sua presenza e impariamo in questo modo anche a riconoscerla nel nostro quotidiano. Egli per primo ci ha amati e continua ad amarci per primo; per questo anche noi possiamo rispondere con l'amore. Dio non ci ordina un sentimento che non possiamo suscitare in noi stessi. Egli ci ama, ci fa vedere e sperimentare il suo amore e, da questo " prima " di Dio, può come risposta spuntare l'amore anche in noi). E’ l’essere amati da Dio che, dunque, mobilita nella psiche umana l’impulso ad amare l’altro.

Ciò significa implicitamente che, se non esistesse un Dio che dona gratuitamente all’uomo il suo amore, questi sarebbe un essere egoista e indifferente nei confronti dei simili.

3.

L’amore indifferenziato per il prossimo è, di fatto, un valore estraneo alla cultura laica. Ma c’è veramente bisogno di esso per costruire, come sostiene l’Enciclica, un mondo umano? In un recente articolo (Il valore dell’uomo) ho già scritto quello che penso a riguardo. Non avrebbe senso ripetere cose già dette. Mi limito a sottolineare che la pietas, vale a dire il riconoscimento, a partire da sé, della condizione esistenziale umana come vulnerabile, precaria e finita, esposta al rischio di infinite vicissitudini dolorose, si può ritenere un valore più elevato, naturale e nobile dell’amore indifferenziato per il prossimo, che muove dal riconoscere in esso una creatura divina.

La pietas promuove la solidarietà, non necessariamente l’amore, l’attribuzione all’altro di bisogni, desideri e diritti che ogni soggetto sperimenta dentro di sé, l’apprezzamento della pari dignità dell’altro quali che siano le differenze etniche, culturali, economiche e religiose, il dovere spontaneo di non fargli del male per non sentirlo sulla propria carne.

La pietas muove dalla natura umana e non dall’inserimento della specie in una cornice che la trascende e dà ad essa senso. E’ piuttosto il non senso dell’esistenza a renderla obbligatoria moralmente, civilmente, economicamente e politicamente.

Qualcuno ritiene che l’amore cristiano per il prossimo e la pietas siano valori facilmente integrabili. Sicuramente essi convergono nello stigmatizzare qualunque comportamento, privato o pubblico, incentrato sull’indifferenza, sull’insensibilità, sullo sfruttamento e sul danneggiare l’altro. I presupposti da cui muovono sono però radicalmente diversi.

Il Dio "amante con tutta la passione di un vero amore" di cui parla l’Enciclica è un patetico antropomorfismo.

L’uomo, piuttosto, come scrive Marx, "è passione che tende con forza al suo oggetto". Ma qual è questo oggetto? Il dispiegamento nella massima misura possibile delle sue potenzialità, che implica anche, in una concezione antropologica affrancata dalla cultura liberale, il dispiegamento della sua sensibilità sociale e della pietas.

Il Papa scrive: "L'amore – caritas – sarà sempre necessario, anche nella società più giusta." Non tiene conto che, se e quando ci si arriverà, la società più giusta implicherà già un legame profondo tra gli esseri umani, omologabile a quello che si dà tra i naufraghi su di una zattera. E’ la consapevolezza del naufragio che difetta, non la patetica menzogna d’essere stati gettati nel mondo in nome di un Disegno Intelligente.