Chi ha scritto la Bibbia


L'analisi critica della Bibbia, che ha antecedenti remoti a partire dal Medioevo, riconosce in Julius Wellhausen (1844-1918) il suo fondatore moderno. Wellhausen ha formulato in maniera precisa l'ipotesi documentaria, secondo la quale l'Antico Testamento è il prodotto di una redazione, riconducibile al periodo post-esilico, che ha amalgamato, fuso e integrato un vasto materiale preesistente distribuito in quattro documenti. Jahvista (J), Eloista (E), Deuteronomista (D), Sacerdotale (P). A tale ipotesi mi sono attenuto nello scrivere il saggio sulla Bibbia (Facci un dio…).

Non ho ignorato la letteratura, in prevalenza cattolica, che ha tentato di evidenziare i limiti dell'ipotesi documentaria. Tale ipotesi non è del tutto incmpatibile con il dogma della Rivelazione. Di certo, però, il punto cardine di questo dogma, vale a dire il carattere ispirato del Libri Sacri, se non compromesso, è fortemente posto in dubbio da un lavorio di stesura avvenuto in tempi diversi e da parte di autori diversi. Il dubbio sul carattere ispirato dei Libri Sacri si approfondisce se, con Wellhausen, si ammette che i diversi autori, e a maggior ragione il Redattore finale, perseguissero intenti teologici diversificati, riconducibili per un verso alla loro collocazione sociale e al contesto storico di appartenenza e per un altro alla necessità, cogente per il redattore finale, di reinterpretare i documenti alla luce dell'esilio babilonese e di un rientro in Gerusalemme mortificato nella speranza della restaurazione del regno davidico.

Non ho tenuto conto, viceversa, della letteratura che ha cercato di approfondire l'ipotesi documentaria per dare ad essa una configurazione più adeguata agli sviluppi della ricerca biblica.

Chi ha scritto la Bibbia? è il titolo di un affascinante libro scritto da Richard Elliot Friedman e pubblicato da Bollati Boringhieri nel 1991. L'ho letto, ahimé, solo di recente. La lettura mi dà modo di tornare su di un problema di grande importanza in sé e per sé, che tra l'altro rappresenta uno dei punti fermi del mio saggio.

L'unità della Bibbia, come ho scritto nel saggio, è solo apparente. Chiunque la legga direttamente, senza il velo dei commenti esegetici che ne espungono le contraddizioni, si rende conto che il testo è un collage estremamente suggestivo e abile nell'occultare l'eterogeneità dei documenti a partire dai quali è stata redatta l'edizione definitiva. In particolare, ho sottolineato il fatto che la Chiesa Cattolica è stata costretta a canonizzare tutti i libri dell'Antico Testamento, compresi quelli il cui spirito razziale e militarista è francamente poco cristiano, semplicemente perché la premessa che dà senso al sacrificio di Gesù si trova nel Genesi, laddove il redattore ha inserito il testo jahvista sul peccato originale e sulla cacciata dal Paradiso Terrestre. Scorporare il Genesi dal Pentateuco non sarebbe stato possibile, se non altro per il fatto che Gesù fa di continuo riferimento alla Legge mosaica, che la sua rivelazione completa (e in una certa misura stravolge). La necessità di assumere il vangelo di Gesù come completamento della rivelazione fatta da Dio a Mosè ha comportato però il mantenersi di un'unità fittizia, al di sotto della quale è tangibile la pretesa della classe sacerdotale di arrogarsi il primato nel rapporto con Dio, di centralizzare il culto, estinguendo i residui pagani, e di organizzare una società teocratica.

Tale pretesa, che si avvia con l'istituzione della classe sacerdotale da parte di Mosé, rappresenta una sorta di continuum nei testi biblici nella misura in cui essa è venuta costantemente ad urtare contro la tentazione idolatrica, vale a dire la protesta popolare contro il potere sacerdotale e la rivendicazione del culto privato, officiato dal capofamiglia. Essa non solo ha indotto un conflitto tra varie classi sacerdotali e tra sacerdoti e potere statale, ma anche tra il popolo ebraico, rimasto fermo alla promessa divina di una società ugualitaristica, e le istituzioni statali e religiose che hanno promosso e alimentato privileg di natura diversa.

Il libro di Friedman non si fa carico di questo aspetto sociostorico, che io ritengo essenziale. Esso si limita a cercare di decifrare la personalità degli autori della Bibbia e i loro intenti. Questo sforzo avviene però in stretto rapporto con la storia del popolo ebreo. L'aspetto più interessante del libro è proprio in questo approccio storico. L'autore scrive: "Per quanti leggono (la Bibbia) in prospettiva storica, l'impresa critica dischiude di continuo scorci inaspettati sugli avvenimenti di varie epoche e sulle reazioni che essi hanno determinato, di volta in volta, nella società biblica" (p. 213).

Di fatto, la lettura storica della Bibbia è di fondamentale importanza per capire il senso complessivo di un'impresa che non ha pari nel Mondo Antico. Con i suoi limiti, essa rimane il documento storico più significativo di quel Mondo: l'unico che, sia pure con difficoltà, consente di penetrare il mistero del rapporto tra storia e ideologia, vale a dire la visione del mondo di un intero popolo e le sue trasformazioni nel corso del tempo.

Le conclusioni cui giunge Friedman sono le seguenti: "E' nel contesto della divisione del regno nelle monarchie d'Israele e di Giuda che presero forma i due documenti jahvista (J) ed eloista (E), i quali risultano legati intimamente ciascuno alle tradizioni e alla vita della comunità da cui proveniva: il primo fu prodotto in Giuda da un sostenitore della famiglia reale di David, il secondo in Israele da un portavoce della famiglia sacerdotale di Silo, forse discendente di Mosé. Ed è sullo sfondo storico della caduta del regno settentrionale e della riunificazione dei popoli divisi che si verificò la fusione dei due documenti in un'opera (JE) in cui potessero riconoscersi le comunità allora riunite. Allo stesso modo, la fonte sacerdotale (P) si inserisce e si spiega nel contesto del regno di Ezechia, un'epoca in cui furono stabilite nuove gerarchie sacerdotali e il clero aronnita di Gerusalemme si venne a trovare in una posizione di preminenza. P infatti costituì l'alternativa proposta da quel clero a JE, un'opera che rispecchiava una visione diversa, talora antagonistica, di Dio e della storia e che, in particolare, presentava la figura di Aronne, il loro antenato, in una luce negativa. A sua volta il clero silonita (forse musita), che aveva conteso al gruppo aronnita il riconoscimento dello status e delle funzioni sacerdotali, celebrò i propri trionfi all'epoca del regno di Giosia, allorché il codice legale che esso aveva conservato si guadagnò l'avallo reale e s'impose come "il libro della torah". Un sostenitore di quel clero, Geremia, o forse il suo scriba Baruch, compilò una storia che, partendo da mosé e da quel codice, giungeva fino agli avvenimenti contemporanei (Dtr1). La morte di giosia e la caduta del regno indussero l'autore a curare una seconda edizione aggiornata dell'opera, in cui si teneva conto di qeugli ultimi catastrofici eventi (Dtr 2). Anche il prodotto finale originato dalla fusione delle fonti, la cosiddetta "prima Bibbia", si staglia sullo sfondo di un preciso contesto storico, il ritorno della comunità giudaica dall'esilio, con il progetto di ricostruire il paese, restaurando il tempio e le proprie forme di culto. A quell'epoca tutti i documenti erano rmai testi troppo diffusi per potere essere ignorati, e così furono combinati con un abile montaggio in un'opera unica. Lo scriba cui si deve la redazione finale (R), e che io identifico con Esdra, era un sostenitore della famiglia sacerdotale aronnita, che allora deteneva il potere. Egli fornì una risposta adeguata alle necessità ideologiche di quel gruppo e alle esigenze del popolo in quel momento. Ma non solo: conservò quelle opere così importanti per la cultura nazionale giudaico-israelita in una forma che divenne canonica per millenni e costituì uno scehma di riferimento per l'interpretazione di altri testi sacri" (pp. 210-211).

Il tessuto argomentativo con cui Friedman giunge a queste conclusioni è fascinoso, poiché il testo procede come se il problema - la genesi del testo biblico - fosse un giallo da risolvere. Esso può essere apprezzato solo in virtù di una lettura diretta del libro. A chi avesse tale intenzione, consiglierei di leggere prima la sintesi della storia del popolo ebraico esposta nella parte prima del mio saggio. Friedman infatti dà per scontata tale conoscenza.

Si tratta di capire ora in quale misura le conclusioni cui giunge Friedman siano compatibili con la lettura che io ho fornito della Bibbia e in quale misura esse comportino delle revisioni.

La compatibilità è assicurata dal fatto che Friedman, più di ogni altro autore, sottolinea il ruolo svolto, nella redazione dei diversi documenti, dalla classe sacerdotale, rivelando l'opposizione tra l'ala musita, che privilegia la figura e la discendenza di Mosé, rispetto a quella aronnita. Tale opposizione, che concerne l'accesso o meno al sacerdozio dei soli Leviti, è solo apparentemente di ordine teologico. Essa si basa per un verso su di una diversa interpretazione della storia biblica e, per un altro, su di una dura contesa inerente i privilegi assegnati alla classe sacerdotale al potere.

Che i testi biblici siano stati prodotti dalla classe sacerdotale, sulla scorta di tradizioni orali di antica data (che friedman tende a minimizzare) non è sorprendente. Nell'ambito della divisione tra il lavoro manuale e quello intellettuale che caratterizza la storia, la specializzazione religiosa, vale a dire la separazione di una classe sacerdotale che si arroga il ruolo di comunicare direttamente con Dio e di officiare i culti, è una costante. E' chiaro però che questo aspetto ha un diverso rilievo se si parte da un punto di vista religioso, che comporta per i sacerdoti un'investitura divina, o se si assume un punto di vista laico e storicistico, in conseguenza del quale quella sacerdotale è una classe sociale che persegue, anche in buona fede, i propri fini.

I fini della classe sacerdotale aronnita che, nella ricostruzione di Friedman, riesce a prevalere su quella musita coincidono con l'avallare la centralizzazione del culto. Ma tale avallo ha delle implicanze teologiche sottili. Il Dio dei sacerdoti, che tengono conto del pensiero profetico, nonostante per molti aspetti esso sia stata vioentemente critico nei loro confronti, è un Dio trascendente che non ha più alcuna caratteristica antropomorfica, propria della tradizione popolare, e che oscilla di continuo tra la misericordia e la giustizia.

L'unico punto del libro di friedman in contrasto con il mio saggio è la retrodatazione del documento P, che Friedman riconduce al regno di Ezechia (716-687). I rapporti intimi tra questo documento e la stesura finale R, che risale all'epoca del ritorno dall'esilio, mi hanno indotto, sulla scorta di ipotesi avanzate da altri autori, a ritenere che esso fosse stato scritto nel corso dell'esilio come una sorta di piattaforma programmatica della classe sacerdotale in attesa del rientro a Gerusalemme, dato per certo in ordine alla promessa divina di non abbandonare il suo popolo. Le argomentazioni di Friedman a riguardo sono suggestive, ma non del tutto probanti. Nulla vieta di pensare che le vicissitudini del regno di Giuda, successive alla fine del regno d'Israele, abbiano avviato una riflessione sulla storia che è lentamente esitata nella definizione di alcuni nuclei tematici (fedeltà a Jahve, patto davidico, osservanza della torah, centralizzazione del culto) che hanno, con diverse inflessioni, rappresentato la matrice comune di D, di P e di R.

Ciò che a me sembra chiaro, ed è un punto poco illuminato da Friedman, riguarda l'opera del redattore finale. Secondo Friedman egli si sarebbe limitato a integrare J, E, D e P apportando solo piccoli cambiamenti atti a connettere i diversi testi, ad espungere le contraddizioni più clamorose e ad omogenizzare le intenzioni dei diversi autori. Io rimango convinto che l'intervento sia stato più incisivo. E' vero che quei testi erano ormai ampiamente diffusi, tal che la soppressione di uno o più di essi avrebbe fatto scalpore. Non è meno vero però che, posta la necessità di utilizzare tutti i documenti, è oltremodo difficile pensare che il redattore, consapevole di scrivere un testo destinato a durare per sempre, non si sia fatto prendere la mano, nel senso almeno di sovrapporre la sua personale visione teologica e storica alla lettera dei documenti.

Rimango insomma convinto che la "prima Bibbia" rappresenti una reinterpretazione di tutti i documenti alla luce dell'esilio e delle difficoltà legate al rientro a Gerusalemme. In essa il tema della colpa del popolo ebraico, riecheggiato dai Profeti, assume un carattere assolutamente drammatico, rispetto al quale la salvezza unica si configura nei termini di un'assoluta fedeltà alla Legge mosaica e soprattutto alla classe sacerdotale, che di essa è garante.

Da questo punto di vista, la "prima Bibbia" rappresenta la matrice del pensiero farisaico, ossessivamente ricolto a scongiurare la colpa, come pure la matrice del pensiero evangelico, orientato ad accentuare la misericordia divina rispetto all'implacabile senso di giustizia di Jahve.

La ricostruzione di Friedman mi sembra lacunosa per un solo aspetto. Essa, che procede dall'analisi testuale, pur riconducendo la stesura dei testi agli eventi storici, non tiene sufficientemente in conto il conflitto tra il popolo ebraico e le classi dirigenti (sia statali che sacerdotali). Non illumina insomma la chiave delle vicissitudini della società ebraica, rimasta perennemente in attesa della prova che la giustizia divina, intesa come ugualitarismo, si dovesse realizzare sulla Terra. Quest'attesa, delusa e frustrata dal comportamento dell'autorità pubblica e della classe sacerdotale, rappresenta l'humus su cui è attecchito il messaggio cristiano.