Il disagio femminile

Analizzate in rapporto al sesso, le statistiche inerenti l’epidemiologia del disagio psichico pongono univocamente di fronte al fatto che la popolazione femminile ne è coinvolta in una misura due o tre volte superiore a quella maschile. Se si pongono tra parentesi le ipotesi genetiche che fanno riferimento alla naturale precarietà dell’equilibrio emozionale delle donne dovuta ai loro particolari assetti ormonali, questo tributo implica l’incidenza di fattori socioculturali e ambientali.

Il disagio femminile coinvolge tutte le fasce di età e tutti i ruoli sociali. Le adolescenti sono affette in particolare dai disturbi del comportamento alimentare e dagli attacchi di panico. Le donne giovani sono falcidiate da difficoltà affettive e sessuali nella relazione con l’uomo. Le casalinghe soffrono di emicranie ricorrenti, angosce ipocondriache, depressioni cicliche più o meno mascherate, disturbi ossessivi (in particolare rupofobici). Le donne che svolgono un doppio lavoro, domestico e extradomestico, sono sempre al limite dello stress, convivono spesso con una depressione frustra e incappano di frequente in attacchi di panico. Tenendo conto della sua diffusione, sembra veramente che il disagio femminile affondi le sue radici in un malessere epocale di non facile analisi.

Un fattore esplicativo di carattere generale riguarda la carriera di vita femminile nel suo complesso che continua ad essere gravata da lacci e lacciuoli di ogni genere. Se le donne sempre più di frequente sfuggono alla nascita al rifiuto che in passato le accoglieva, e sempre meno spesso devono confrontarsi con il privilegio accordato dai genitori ai fratelli maschi, difficilmente si ritrovano a vivere un’esperienza paritaria. Solo alle bambine in genere si insegnano i lavori domestici, solo ad esse si richiede precocemente da parte delle madri una collaborazione. Le adolescenti sono assoggettate a limiti nell’esercizio della loro libertà molto più rilevanti di quelli posti ai maschi. La loro vita affettiva e sessuale deve costantemente realizzarsi nel rispetto di forme la cui trasgressione le espone a duri giudizi sociali, espliciti e impliciti. Lo spettro della solitudine e dello zitellaggio impone loro di perseguire la sistemazione matrimoniale molto più precocemente rispetto agli uomini. La soglia dei trent’anni che per costoro ormai è una soglia minimale per rinunciare allo scapolaggio, per le donne è una soglia massimale e inquietante al di là della quale si configura lo spettro della solitudine, della sterilità e della perdita del potere attrattivo. Il matrimonio le pone quasi sempre di fronte alla necessità di farsi carico dei doveri domestici e dei bisogni di cura e di affidamento degli uomini, che peraltro non vengono mai espressi come tali bensì come privilegi. L’isolamento domestico delle casalinghe, con le frustrazioni che esso produce, è pagato spesso al prezzo di un ristagno o di una regressione culturale che induce sempre più spesso, oltre al consumo di teleromanzi e di mediocri riviste, l’abuso di alcool. L’attività lavorativa viceversa le espone all’assalto, sempre meno rifiutato, della seduzione maschile. Da ultimo, c’è da considerare l’impegno richiesto sul piano dell’assistenza agli anziani della famiglia, sia della propria che eventualmente di quella del marito, resa più onerosa dalla nuclearizzazione dei gruppi familiari e dalla psicologia degli anziani che, rispetto al passato, sono in genere molto più esigenti e egoisti.

Queste circostanze, che sommano alle ‘ingiustizie’ genetiche (le mestruazioni, il parto, l’allattamento, il decadimento fisico più precoce rispetto all’uomo, ecc.) le ingiustizie legate alla cultura maschilista, spiegano solo in parte la rabbia smisurata che pervade oggi le esperienze femminili e che si esprime in forme diverse di disagio. Le spiegano nella misura in cui la rabbia, colpevolizzata, dà luogo a depressioni, angosce ipocondriache, attacchi di panico, sindromi ossessive, mortificazioni di ogni genere, oppure si esprime attraverso comportamenti aggressivi e maltrattanti nei confronti del partner e dei figli. Ma rimane da capire perché essa non venga quasi mai utilizzata nella ridefinizione del proprio ruolo, dei rapporti interpersonali e di un progetto di vita incentrato sui bisogni personali. Problema inquietante perché esso non investe solo la quota di popolazione femminile che, benchè investita da confuse istanze di cambiamento, rimane attestata coscientemente sul rispetto più o meno rigoroso delle tradizioni culturali, ma anche quella consapevolmente e talora pervicacemente orientata verso il cambiamento alla luce dei nuovi valori prodotti dal femminismo.

Tale problema va ricondotto ad una maledizione di antica data che i cambiamenti culturali non hanno rimosso: la condanna di dovere comunque dipendere da qualcuno (la famiglia originaria, l’uomo, il marito, lo psicologo, al limite il sacerdote) che trova il suo fondamento ultimo non già in un’imposizione sociale bensì nella convinzione, profondamente radicata a livello soggettivo, della propria insufficienza ontologica. L’identità femminile ancora oggi è vissuta come funzione di una relazione, come un essere con o un essere per qualcuno. I bisogni di indipendenza, alimentati dalla cultura femminista e dal progresso sociale, non sembrano avere inciso su questo aspetto: essi anzi lo hanno esasperato.

Il conflitto tra una dipendenza coercitiva ma mal vissuta e un’indipendenza intensamente desiderata ma impossibile è riscontrabile in quasi tutte le forme di disagio femminile, anche se esso si esprime in maniera diversa. La dipendenza coercitiva dalla famiglia originaria, riferita sia ai doveri imposti alle figlie che alle limitazioni della libertà, nella misura in cui viene posta in gioco da fantasie spesso inconsce di fuga e di scioglimento dei legami, determina gli attacchi di panico adolescenziali e i disordini del comportamento alimentare. Lo spostamento della dipendenza nel rapporto con il partner maschile produce non pochi problemi. Ad un estremo si danno le esperienze di soggetti femminili che, sotto la spinta di un incessante bisogno di relazione con l’uomo che copre la dipendenza, si sperimentano di continuo in rapporti duali che finiscono regolarmente male. L’esito si realizza o in virtù di un aggrappamento fusionale all’uomo che ne induce la fuga o di un bisogno di controllo e di dominio sul partner maschile che, nel caso questi si ribelli, dà luogo ad un’escalation conflittuale simmetrica che esita nello scioglimento del rapporto, nel caso, viceversa, di un’accondiscendenza maschile, determina un disinvestimento sentimentale. All’estremo opposto si danno le esperienze di soggetti femminili che accettano una relazione duratura, spesso matrimoniale, ma che, con una consapevolezza più o meno rilevante, si ribellano alla dipendenza secondo modalità varie che vanno dal rifiuto della sessualità alla depressione frustra o conclamata, all’ipocondria e all’aggressività isterica.

Non è facile capire il significato di un disagio di tale portata. Tenendo conto dell’universalità del bisogno di relazione duale, la tendenza femminile a lottare, più spesso inconsciamente, contro la dipendenza, a non accettarla e a drammatizzarala, può essere facilmente scambiata come l’espressione di una cultura femminista che ha finito con l’indurre collettivamente una percezione persecutoria dell’uomo. E’ fuor di dubbio che in alcune esperienze femminili tale cultura abbia inciso e incida, com’è attestato dal fatto che, nel corso dell’analisi, si mette a fuoco una diffidenza radicale nei confronti dell’uomo vissuto univocamente come inaffidabile e/o prepotente. Ma l’entità del disagio eccede di gran lunga questa spiegazione.

Per giungere ad una spiegazione più valida occorre tenere conto di uno scarto critico tra l’evoluzione sociale e quadri di mentalità di lunga durata che impregnano la psicologia maschile e femminile. A livello sociale la parità tra uomo e donna è ormai riconosciuta giuridicamente e ciò implica l’attribuzione all’uomo e alla donna degli stessi diritti. Nella pratica, sia a livello pubblico che privato, familiare, la parità, come noto, è ben lungi dall’essere realizzata. Ma non è certo la quota di ingiustizie ancora presenti nella struttura sociale, benchè importanti, a permettere di comprendere un disagio che pervade gran parte delle esperienze femminili. Occorre piuttosto considerare dei tratti propri della psicologia maschile e femminile, culturalmente determinati, che sembrano incidere prevalentemente a livello inconscio.

Per quanto riguarda la psicologia maschile, si dà una contraddizione di fondo tra i privilegi dovuti ad un’antica tradizione in virtù dei quali l’uomo pretende un maggior potere rispetto alla donna e un bisogno di affidamento, particolarmente evidente in Italia per effetto dell’atteggiamento sostanzialmente iperprotettivo delle madri nei confronti dei figli maschi, in conseguenza del quale egli tende a pretendere di essere accudito. Riguardo al primo aspetto, basta considerare il diverso valore che l’uomo assegna ai suoi tradimenti, che vengono giustificati, e ai tradimenti della donna, che vengono drammatizzati. Il secondo aspetto è più inquietante. La pretesa dell’uomo di essere accudito, e quindi l’investimento simbolico della donna come madre, si fonda infatti su di una sorta di handicap o di analfabetismo culturale ancora estremamente diffuso che viene regolarmente misconosciuto. Tale analfabetismo concerne il linguaggio della vita quotidiana, il minimo di competenze domestiche necessarie per badare a se stessi: il pulire e tenere in ordine l’ambiente, la preparazione del cibo, il lavare e lo stirare i panni, ecc.

In conseguenza di questa contraddizione l’uomo si pone nel rapporto con la donna nel contempo con un atteggiamento tendenzialmente, anche se inconsapevolmente, prepotente e bisognoso, come un gigante dai piedi di argilla.

A livello di psicologia femminile, le contraddizioni sono molteplici. Per un verso infatti le donne hanno acquisito dalla tradizione una definizione del proprio essere come naturalmente dipendente, radicalmente bisognoso della conferma maschile e, dunque, ontologicamente insussistente al di fuori della relazione significativa con l’uomo. Ciò promuove, nella relazione con l’uomo, l’assunzione di un atteggiamento complementare, il regredire in una condizione di dipendenza e il porsi in una condizione di disponibilità, di accondiscendenza, talora di servilismo. Ma, nel contempo, esse, quasi sempre inconsciamente, si ribellano a questa dipendenza. La ribellione assume due configurazioni costanti. La prima si traduce in un malessere più o meno profondo, sotteso da una depressione frusta che talora si acutizza, dall'angoscia ipocondriaca, da inumerevoli sintomi psicosomatici, dagli attacchi di panico. Tale malessere, esplorato analiticamente, rivela fantasie incessanti di attacchi al legame che non solo non accedono alla coscienza, essendo incompatibili con la dipendenza, ma danno luogo ad un bisogno crescente di sostegno e di conferma maschile. La seconda configurazione è invece caratterizzata da una vera e propria guerra senza quartiere al maschio che si manifesta peraltro secondo varie modalità. Talora essa si traduce in una strategia di conquista che, col suo realizzarsi, determina una completa perdita di interesse per il partner. Tale modalità comporta una prova di forza, atta a rimediare alla dipendenza, che implica il vissuto per cui chi, nel rapporto, innamorandosi rivela la sua debolezza deve essere punito, eliminato. Altre volte la guerra si traduce in un dominio costante esercitato sull’altro che azzera la sua libertà e lo pone in una condizione di subordinazione. Tale configurazione sembra denotare un’assenza di dipendenza dal rapporto. Il dominio infatti, talora, assume una valenza prepotente, aggressiva e sfidante. Ma tale valenza persiste finchè l’altro accetta la subordinazione. Se egli si ribella e propone la chiusura del rapporto, l’angoscia dell’abbandono si ripresenta con caratteristiche drammatiche.

Tutto ciò porta a pensare che il condizionamento culturale che porta molte donne a viversi come insufficienti ontologicamente e bisognose coercitivamente della relazione con un partner maschile sia incompatibile ormai con il mito dell’indipendenza e soprattutto della forza che pervade la nostra cultura.

Il malessere femminile è, da ultimo, un travaglio di parto che oppone, nelle pieghe della soggettività, ad un antico modo di vedere, incentrato sulla naturale dipendenza femminile, che stenta a morire, un nuovo modo di vedere, incentrato sull’indipendenza, che stenta a nascere.