L'obbligo del consumo


Tre fatti recenti, indiziari, meritano un'attenta riflessione.

Il primo è, per ora, semplicemente un'informazione che viene dagli Stati Uniti. Secondo alcuni giornalisti il Ministro dell'economia starebbe valutando la proposta di sostituire le monete attualmente in circolazione con altre "a scadenza": monete da fare circolare il più presto possibile perché il trattenerle farebbe perdere ad esse progressivamente valore, fino all'azzeramento. Si tratterebbe, in pratica, di una tassa se non addirittura di un'ammenda che graverebbe sul consumatore negligente che non fa il suo "dovere".

Il secondo fatto, avvenuto in Italia, chiarisce qual è il dovere in questione nell'ottica dei governi allineati con la dottrina economica americana: "Spendere, spendere, spendere". Lo ha esplicitato, qualche settimana fa, il Presidente del Consiglio Berlusconi, che, commentando ottimisticamente lo stato di cose e prevedendo una ripresa a breve termine, ha invitato i connazionali a non farsi prendere dalla paura, distillata ad arte dai catastrofisti (vale a dire dai comunisti), e a consumare il più possibile.

Il terzo fatto è uno spot pubblicitario, apparso su Canale 5, promosso, non per caso, dall'UPA, che rappresenta gli utenti pubblicitari, cioè le aziende. In esso si vede un individuo che va in giro a fare spese con una busta e riceve i calorosi ringraziamenti dei commercianti, che lo abbracciano. Una voce fuori campo commenta: "Forse non ci hai mai pensato, ma sono proprio I tuoi acquisti più semplici che fanno girare l'economia. E se l'economia gira ci guadagnano tutti". Il fotogramma finale mostra per l'appunto un motto stampigliato sulla busta che recita: "L'economia gira con me".

L'intimo nesso tra questi tre fatti non è difficile da cogliere. La crisi economica che investe l'Occidente è una classica crisi da sovrapproduzione, vale a dire da un eccesso di offerta di servizi e di beni rispetto alla domanda. E' difficile però che ciò venga ufficialmente riconosciuto perché l'ideologia che ha sotteso lo sviluppo liberistico degli ultimi quindici anni, che va sotto il nome di supply side economics, è totalmente incentrata sul principio per cui è l'offerta il motore trainante dell'economia. Aumentando il prodotto e dunque il reddito, l'effetto dell'offerta sarebbe quello di mantenere e incentivare il livello dei consumi, realizzando il mitico equilibrio del sistema. Assunta come un dogma, quell'ideologia ha prodotto nel corso degli anni '90, particolarmente negli Stati Uniti, una crescita straordinaria.

I sostenitori della supply side economics non hanno tenuto però conto che, se è vero che la produzione assicura la crescita, non è vero che la distribuzione del reddito avvenga in maniera tale da assicurare una domanda pari all'offerta. La funzione del consumo, come recita una legge elementare dell'economia, dipende infatti dal reddito ma in misura meno che proporzionale. In pratica, via via che il reddito aumenta la quota di esso che viene usata per il consumo diminuisce. Il perchè, detto in termini semplici, è evidente. Un ricco può mangiare in maniera più raffinata e dispendiosa rispetto ad un povero, ma non può mangiare per dieci, può acquistare un computer costosissimo ma non può lavorare contemporaneamente su dieci computers, ecc. Dato che la distribuzione legata al liberismo arricchisce i ricchi e depaupera non solo i ceti meno abbienti ma anche quelli medi, che la supply side economics dovesse determinare una crisi da sovrapproduzione era ovvio.

Non se ne è tenuto conto, come non si è tenuto conto che, intervenendo una crisi dagli sviluppi imprevedibili, la gente che dispone di redditi medi (per non parlare dei poveri), non può non preoccuparsi e tendere a risparmiare.

In conseguenza della crisi, l'economia dell'offerta è stata rapidamente abbandonata a favore dell'economia della domanda ed è cominciato negli Stati Uniti un battage pubblicitario incentrato ossessivamente sulla necessità di consumare per scongiurare la recessione. Dopo l'11 settembre addirittura, il consumo è stato vantato come un'arma patriottica, come lo strumento essenziale per non darla vinta al terrorismo, il cui intento sarebbe stato appunto quello di precipitare l'America in una crisi recessiva.

Influenzati dalla propaganda, agevolati dalla diminuzione dei tassi di interesse e incentivati dalle offerte a prezzi stracciati delle industrie, gli statunitensi, in effetti si sono dati parecchio da fare continuando a comprare case e autoveicoli come se nulla fosse. Perdurando però la crisi, e in conseguenza della restrizione dei redditi dovuti all'ingente numero di licenziamenti, i consumi negli ultimi mesi hanno cominciato a rallentare, lasciando comparire all'orizzonte il fantasma della recessione.

Nasce da qui, dalla necessità di scongiurare la recessione, l'obbligo - si voglia o non si voglia, si possa o non si possa (cioè indebitandosi) - di consumare. L'importante non è cosa né se se ne abbia veramente bisogno. Il consumo, vantato per anni come espressione delle preferenze individuali, vale a dire della libertà del consumatore se e cosa acquistare, è divenuto un comandamento sociale. Dalla somma dei comportamenti virtuosi dei consumatori dipende il bene comune, che la macchina cioè riprenda a funzionare.

Se fosse occorsa un'ulteriore prova dell'irrazionalità del sistema economico liberistico, questa - dell'incentivo al consumo per il consumo - è una prova clamorosa. Il progetto del dollaro a scadenza è un indizio singolarissimo dei tempi. Essa attesta che i cittadini devono subordinarsi ormai totalmente alle esigenze del capitale che, nella sua corsa sfrenata verso lo sviluppo illimitato, non può riconoscere né i loro gusti né i loro bisogni né le loro umane paure.

Consumare il più possibile, dunque. Ma si può prendere sul serio questa ricetta?

E' dal 1970 che, tra gli altri, Ivan Illich propose, come soluzione dei problemi della società industriale, una ristrutturazione incentrata sull'austerità, vale a dire di un uso umano dei beni e dei servizi. Egli intravvedeva già allora il pericolo che la produzione e il consumo sfrenati danneggiassero gli equilibri ecologici e quelli sociali, divaricando la forbice tra i ircchi e i meno ricchi all'interno delle nazioni capitalistiche e nel rapporto tra mondo sviluppato e Terzo Mondo. Il messaggio è caduto nel vuoto.

Non solo il sistema capitalistico non accetta alcuna regolazione e rimane incentrato sul modello dello sviluppo infinito. Esso ha proposto (e tenta d'imporre) se stesso a tutto il mondo come unica via possibile per uscire dal sottosviluppo e dalla miseria. Se il modello fosse universalmente adottato, il pianeta si estinguerebbe in pochi anni, non reggendo il peso dell'inquinamento e dei rifiuti.

In realtà quella proposta ha ben poco di umanitaristico. Essa tende, come ha dimostrato la distribuzione della ricchezza tra nazioni sviluppate e sottosviluppate negli anni '90, a trasferire ulteriori capitali nei paesi avanzati. E a che servono i capitali se non a produrre beni e servizi? Il problema è che, anche all'interno dei paesi ricchi, una volta prodotti secondo una logica che è del capitale e non dei bisogni umani, essi vanno consumati. E qui si finisce nel collo di bottiglia illustrato da Marx, secondo il quale all'estensione della base produttiva non corrisponde l'estensione dei redditi necessari per tenere dietro all'offerta.

E' questo da sempre il nodo gordiano del capitalismo, che appena qualche anno fa i suoi sostenitori davano come risolto e che, invece, si è riproposto drammaticamente.

Non si tratta però di un problema meramente economico, ma di grande portata psicosociologica. Il bisogno di consumo è intrinseco alla natura umana. Ma è vero, come sostengono gli apologeti del capitalismo, che esso tende all'infinito? E' vero che esso si appaga solo in virtù di oggetti? Sembra di no. Il confine tra il consumo umano e il consumismo verte sull'atteggiamento attivo o passivo del consumatore. Più un soggetto è attivo, più egli è spinto ad oggettivare le sue potenzialità nel rapporto con il mondo, e a ricavare piacere dall'uso di tali potenzialità. Più è passivo, più è spinto alla ricerca di oggetti che soddisfino la sua fame di essere.

Si può fare un esempio. Un soggetto attivo può trascorrere un piacevolissimo sabato pomeriggio discutendo appassionatamente con gli amici o, se è solo, dedicandosi alla lettura, alla scrittura, al disegno: attività che richiedono l'uso delle sue potenzialità e un minimo di consumo. Un soggetto passivo tende a trascorrere il sabato fuori casa, facendo shopping, accalcandosi nei locali per mangiare, facendo la fila per andare al cinema. Il consumismo crea il miraggio di un oggetto che, consumato, soddisfi il bisogno di felicità. E' la corsa di un levriero dietro una lepre che non può essere raggiunta, perché la lepre in questione non è la felicità individuale ma il bisogno di consumo dettato dall'offerta.

Novembre 2002