L'IO ANTITETICO

1.

Il concetto di io antitetico non appartiene alla tradizione analitica. Se ne può ritrovare di certo qualche anticipazione nelle opere di Jung, Adler, M. Malher, Winnicot, ecc. ma la sua teorizzazione definitiva, almeno per quanto ne sappia, spetta a me e rappresenta il maggior contributo personale al sapere psicodinamico.

Se ripercorro le tracce di questa "scoperta" non è per enfatizzarne la portata (peraltro difficile da minimizzare), bensì perché penso che questa ricostruzione possa aiutare il lettore a comprenderne meglio il significato.

Come ho accennato nell'Autobiografia intellettuale, la mia ricerca è nata dall'insoddisfazione sviluppata nel corso degli anni di formazione e di training nei confronti della teoria psicoanalitica. Ciò che mi turbava in particolare riguardava il modo piuttosto disinvolto con cui i Maestri dell'analisi affrontavano il problema della natura umana. Freud vedeva in essa un impasto di pulsioni ereditate dagli animali e vincolate al principio della scarica, dunque sostanzialmente in conflitto con le esigenze della vita sociale. Jung rifiutava la teoria delle pulsioni, ma, attraverso il concetto di Ombra, ratificava, in ultima analisi, la presenza, negli strati più profondi della mente, di una turbolenza caotica e sostanzialmente irrazionale. Adler intuiva che nell'uomo cíè una spinta verso l'affermazione di sé e la differenziazione, ma la riteneva espressiva di una sorta di volontà di potenza nietzschiana. Margaret Mahler ammetteva, nell'evoluzione infantile,un forte "impeto" verso la separazione decisivo al fine di sciogliere il legame simbiotico con le figure genitoriali e proponeva di assumerlo come una pulsione, ma le sue intuizioni rimanevano vincolate ad un piano sostanzialmente descrittivo.

Su queste basi, mi sembrava che la scoperta formidabile di Freud dell'inconscio e delle sue logiche, fosse destinata a non tradursi mai in una teoria attendibile e coerente dello sviluppo e dell'organizzazione della personalità, normale e patologica.

Allorché avviai le mie prime esperienze terapeutiche, peraltro impegnative concernendo due adolescenti affetti da gravi disturbi ossessivi e un giovane psicotico, mi sembrò estremamente pertinente il concetto freudiano di Super-io. In tutti i casi infatti l'incidenza di sensi di colpa imponenti sembrava trasparente. Dato che la mia formazione comportava già all'epoca il riferimento al fatto che la soggettività ha e non può avere una dimensione storica e culturale, cercai di approfondire la tematica dei sensi di colpa.

Si trattava, con tutta evidenza, di vissuti soggettivi. Nessuno dei pazienti, tranne lo psicotico che in alcune circostanze maltrattava la madre, aveva mai fatto male ad alcuno. Essi sembravano, compreso lo psicotico, inermi. Le loro storie interiori comportavano numerosi riferimenti ad aggressioni o prepotenze di vario genere subite senza reagire.

Da ciò sarebbe stato facile giungere alla conclusione, in accordo con la teoria analitica tradizionale, che il Super-io confonde le fantasie e le emozioni con le azioni, sulla base del principio dell'onnipotenza del pensiero che sarebbe costitutiva degli strati primordiali della mente umana.

In efferri tutti i soggetti erano pieni di emozioni negative (rabbie, odi, rancori, fantasie di vendetta, invidia, disprezzo, ecc.). Agli occhi di Freud essi sarebbero apparsi come testimoni probanti dell'intensità del loro bagaglio pulsionale. Tale bagaglio, sulla base dell'angoscia legata alla rappresaglia sociale, avrebbe attivato l'inibizione dell'aggressività, ritorcendola contro il soggetto.

C'era un punto però che non quadrava. Per quanto drammaticamente intense, le emozioni negative dei soggetti apparivano giustificate dalla loro difficoltà di interagire con gli altri su di un registro conflittuale. Essi tendevano univocamente ad accondiscendere o a subire la volontà altrui. Anche lo psicotico che, ogni tanto, maltrattava la madre, diventava aggressivo a scoppio ritardato, ogniqualvolta scopriva di aver ceduto alla volontà materna (cosa che avveniva regolarmente).

Mi chiesi se l'intensità e la drammaticità delle emozioni negative, anziché ad una dotazione pulsionale originaria, non fosse più facilmente interpretabile facendo riferimento all'inibizione di un bisogno: quello di sentire di essere dotati di una volontà propria capace di interagire con la volontà altrui sia sul piano del consenso che del dissenso, o al limite del conflitto. Di quale bisogno però si trattava, e perché se esso era tanto intenso,non riusciva ad esprimersi nel modo di essere e di porsi dei soggetti in rapporto al mondo?

Non sarei probabilmente giunto ad alcuna conclusione nell'immediato se non mi fossi imbattuto in un libro di psicologia evolutiva (mi pare fosse di Zazzo) nel quale si descrivevano le crisi di opposizione infantili, a partire dalla grande crisi dei tre anni. Nel corso di esse, si realizza qualcosa di assolutamente sorprendente. Per quanto piccolo e totalmente dipendente dai suoi, il bambino in fase oppositiva manifesta in genere una capacità di tenere testa alla loro volontà assolutamente sorprendente. Dice "no" alle loro richieste, o semplicemente si oppone strenuamente ad esse, rimanendo attestato sulla sua posizione come se repentinamente si fosse liberato da ogni soggezione. Alcuni bambini, addirittura, non cedono alla volontà genitoriale neppure se vengono picchiati.

Approfondendo questo problema, mi riuscì chiaro che le fasi oppositive, che punteggiano periodicamente l'evoluzione della personalità sino alla grande crisi adolescenziale, rappresentano momenti critici nel corso dei quali l'affermazione della volontà propria avviene sul registro significativo per quanto apparentemente irrazionale dell'antitesi alla volontà altrui. La loro insorgenza periodica e il cambiamento comportamentale radicale che esse determinano mi convinsero che esse corrispondessero ad una programmazione neurobiologica il cui fine ultimo è la definizione di un'identità personale dotata di una volontà autonoma rispetto agli altri.

Riflettendo sulle esperienze dei soggetti che avevo in terapia, venne fuori infatti che, ad eccezione di uno di essi che aveva avuto una violenta crisi di opposizione in rapporto all'inserimento asilare, poi abortita, nessuno di essi aveva mai sperimentato fasi oppositive.

La conclusione risultò ovvia. Occorreva ammettere l'esistenza, nel programma che sottende l'evoluzione della personalità, di un bisogno di opposizione che in tutti i soggetti in questione era rimasto represso. Le cause della repressione erano ovvie considerando il fatto che in tutti i soggetti che avevo in analisi, il bisogno in questione era venuto ad urtare contro una strutturazione superegoica estremamente rigida. Freud era pienamente consapevole di questo ma attribuiva la rigidità del Super-Io alla necessità di arginare una pressione pulsionale anarchica, asociale e antisociale di ordine costituzionale.

Se il bisogno in questione, configurando l'opposizione alla volontà altrui (degli altri ma anche della cultura che rappresenta una volontà collettiva) come premessa indispensabile per pervenire a disporre di una volontà propria, capace di consentire e di dissentire rispetto a quella altrui, corrispondeva ad una programmazione necessaria al fine di promuovere la definizione di un'identità personale, vale a dire l'individuazione, l'interpretazione freudiana risultava infondata. Veniva piuttosto da pensare che la strutturazione del Super-Io ne avesse promosso e ne mantenesse la repressione.

All'epoca, lo studio delle opere di Freud mi aveva già portato alla conclusione che la sua scoperta del Super-Io, che ritenevo straordinaria, era stata mortificata nel suo valore epistemologico dalla concezione pulsionale della natura umana cui egli faceva riferimento. In conseguenza di questo postulato ideologico, Freud riconduceva il Super-Io all'interiorizzazione dei valori culturali trasmessi attraverso le generazioni e alla paura dell'individuo di dare libero sfogo alle sue pulsioni associata alla consapevolezza di andare incontro ad una rappresaglia sociale. In questa ottica, il Super-Io diventava il rappresentante dell'ordine sociale e della civiltà contro il disordine selvaggio delle pulsioni. A me sembrava chiaro viceversa che l'esistenza e l'universalità del Super-Io fosse la prova incontrovertibile di un bisogno primario di appartenenza/integrazione sociale, e che la sua strutturazione, vale a dire i valori interiorizzati di cui, come Giudice, si faceva garante, producendo sensi di colpa per segnalare vissuti o comportamenti non conformi ad essi, avevano un significato storico-culturale: erano insomma semplicemente valori normativi prodotti dalla tradizione, non necessariamente universali.

Certo, anche la strutturazione del Super-Io è riconducibile ad una programmazione psicobiologica, vale a dire ad un bisogno di socialità che non può prescindere dalla condivisione di un quadro di valori culturali comuni al gruppo o alla società di appartenenza. Il Super-Io è necessario al fine di assicurare ad ogni società umana un certo grado di coesione culturale. Il suo limite però consiste nel sovrapporre la Norma alla diversità individuale nel tentativo di uniformare i comportamenti umani all'interno di un gruppo e nell'assolutizzare valori culturali che, in quanto prodotti storici, possono anche risultare repressivi della libertà individuale e lesivi della dignità umana o poco o punto congeniali con la vocazione personale ad essere.

Mi era chiaro dunque che se il bisogno di appartenenza/integrazione sociale, su cui si erigeva il Super-Io, non fosse stato contrastato e compensato da un altro bisogno - quello, appunto di opposizione/individuazione -, l'individuo semplicemente non sarebbe mai potuto pervenire all'autonomia e alla definizione di un'identità personale differenziata agli altri, capace di consentire ma anche di dissentire con i valori culturali dominanti.

In quest'ottica, il bisogno di appartenenza/integrazione sociale assicurava la stabilità e la coesione della società e dei valori di riferimento in cui essa si riconosceva, mentre il bisogno di opposizione/individuazione assicurava la differenziazione individuale e, in conseguenza di questo, l'evoluzione culturale.

Si trattava solo dunque di trovare un termine adeguato per caratterizzare la funzione psichica che si edificava sul bisogno di opposizione/individuazione. Dopo parecchi dubbi, decisi infine di utilizzare il termine Io antitetico per sottolineare: primo, che esso era integrato con l'Io individuale in opposizione al Noi, che riconosceva nell'individuo semplicemente la parte di un Tutto; secondo, che esso comportava l'opposizione alla logica sistemica del Noi in nome delle potenzialità di differenziazione e dei diritti del singolo individuo.

Per amore di verità, devo aggiungere che la definizione dei due bisogni e del loro carattere geneticamente determinato di programmi, delle funzioni - il Super-io e l'Io antitetico - che si edificano a partire da essi e della tensione intrinseca alla diversa logica che le sottende è giunta a compimento solo nel 1983, a distanza di una decina d'anni dall'avvio della ricerca. Le diverse tappe attraverso cui questa è passata sono almeno in parte testimoniate dai Seminari.

2.

Il vantaggio teorico del concetto di Io antitetico è tanto elevato che riesce difficile esporlo in maniera compiuta. Il vantaggio maggiore è che esso consente di dare finalmente una definizione strutturale compiuta delle polarità di qualunque conflitto psicopatologico. Come noto, Freud ipotizzò che tali polarità fossero riconducibili al Super-Io, rappresentante dei valori morali e culturali essenziali per assicurare un minimo di convivenza tra esseri umani, e all'Es, rappresentante delle pulsioni asociale a morali. La fedeltà degli analisti ortodossi a questa ipotesi sostanzialmente rozza è sorprendente. Anche coloro, però, che la contestano, da Sullivan a Fromm, non hanno fornito alcun'altra ipotesi scientificamente attendibile.

Affermare che il conflitto psicopatologico, in tutte le sue varianti, riconosce come polarità il Super-Io e l'Io antitetico significa, né più né meno, riconoscere che la sua matrice implica una scissione tra il bisogno di appartenenza/integrazione sociale e il bisogno di opposizione/individuazione, vale a dire tra i "doveri" sociali e i "diritti" individuali. Tale scissione si realizza nel corso delle fasi evolutive della personalità, in conseguenza dell'interazione con l'ambiente. Per quanto i due bisogni possano essere rappresentati, infatti, in un corredo genetico individuale in una combinazione poco equilibrata, è impossibile ammettere che questa comporti una predisposizione alla scissione. Qualunque combinazione non può infatti escludere una mediazione tra i bisogni, una configurazione potenziale di equilibrio, sia pure essa spostata dalla parte dei doveri sociali o dei diritti individuali.

Il conflitto psicopatologico, in quest'ottica, si articola dunque su di una tematica universale che ogni cultura in qualche modo affronta e che fa capo alla doppia natura dell'uomo, essere radicalmente sociale per un verso e per un altro dotato di una consapevolezza della sua identità individuale.

Una conseguenza immediata di questa concezione è che la ricostruzione della vita interiore del soggetto, necessaria ad identificare le cause e la genesi del conflitto psicopatologico, giunge ad avvalersi di un riferimento prezioso. Si tratta infatti di volta in volta di capire quali circostanze di interazione con l'ambiente, mediate dai vissuti soggettivi, possano avere determinato la scissione.

Un'altra conseguenza, non meno importante, consiste nello spiegare le conseguenze della scissione. In sé e per sé, in virtù delle diverse logiche che li sottendono, i bisogni intrinseci al corredo genetico sono in tensione tra di loro. La tensione non esclude però, per opera dell'Io, la possibilità di una mediazione tra doveri sociali e diritti individuali secondo formule comportamentali che possono essere diverse in rapporto alle diverse circostanze di vita. In alcune, per esempio, il soggetto può essere motivato a privilegiare i diritti, i bisogni o le aspettative degli altri rispetto alle sue, in altre, viceversa, a privilegiare le proprie esigenze individuali.

La scissione tra i bisogni determina invece una contrapposizione frontale tra la logica del Noi e la logica dell'Io, vale a dire un conflitto irriducibile tra Super-Io e Io antitetico, che si irrigidiscono progressivamente e si autoalimentano. In conseguenza di questo i vissuti e il comportamento del soggetto tendono o a cristallizzarsi rigidamente su di una modalità sociocentrica o egocentrica o a fluttuare dall'una all'altra senza alcuna mediazione.

La contrapposizione tra Super-Io e Io antitetico ha anche un'altra conseguenza. La quota di bisogni che, per effetto del conflitto non riesce a dispiegarsi o rimane repressa e/o rimossa, va incontro ad un processo di ridondanza. In altri termini, un bisogno frustrato si infinitizza. l'infinitizzazione corrisponde alla pressione che esso esercita per sormontare la rimozione o la repressione. Un bisogno infinitizzato però si traduce in emozioni, fantasie e pensieri consci e inconsci che non possono essere riconosciuti dal soggetto nel loro autentico significato. Un bisogno frustrato di appartenenza/integrazione sociale, per esempio, può tradursi in un'angoscia di colpa di estrema intensità, in un vissuto soggettivo di cattiveria, asocialità, antisocialità, ecc. Un bisogno frustrato di opposizione/individuazione può, viceversa, tradursi sotto forma di spinte motivazionali, fantasie e pensieri anarchici e trasgressivi di ogni genere.

Ignorando il principio di ridondanza, Freud è caduto nell'abbaglio di scambiare la fenomenologia del bisogno d'individuazione frustrato come espressione della dimensione pulsionale dell'Es.

3.

L'ipotesi dell'esistenza a livello inconscio di un io antitetico non ha avuto alcuna risonanza al di fuori della cerchia ristretta della mia "scuola", che peraltro non conta più di una decina di allievi.

Da coloro che, estranei alla scuola, hanno dedicato un po' di tempo alla lettura dei miei saggi, sono venute fondamentalmente due critiche. La prima fa capo al fatto che riproporre la teoria del Super-Io come se non fossero accaduti straordinari cambiamenti culturali rispetto all'epoca di Freud non avrebbe senso. Il Super-Io, secondo loro, sarebbe tramontato con la cultura repressiva e gerarchica che lo ha prodotto, e di esso non si darebbe alcuna traccia nelle esperienze psicopatologiche giovanili contemporanee.

Ho discusso questa critica nell'articolo sul Super-io e negli articoli dedicati all'adolescenza di oggi. Non mi affanno a ripeterle se non per sottolineare che essa confonde il Super-Io in quanto funzione strutturale dell'assetto mentale umano, che assicura, di generazione in generazione, la replicazione della cultura, con i contenuti che esso veicola, vale a dire i valori culturali che sono determinati storicamente.

L'altra critica è appena un poco più credibile. Essa contesta che la straordinaria varietà dei vissuti, dei sintomi e dei comportamenti psicopatologici possa essere ricondotta a due soli fattori dinamici. A livello mentale - si sostiene - si danno molteplici se non indefinite motivazioni che possono entrare in confitto tra loro. l'ipotesi monistica per cui ogni conflitto interverrebbe tra Super-Io e Io antitetico, da questo punto di vista, sembra schematica. Non si esclude che essa possa essere valida in alcuni casi, ma sicuramente non in tutti.

La risposta a questa critica è complessa. Occorre considerare anzitutto che è vero che nella mente umana si agitano di continuo motivazioni diverse in competizione tra di loro per influenzare e determinare il comportamento. Ma quale di queste motivazioni può prescindere dal fatto che l'esperienza umana si intrattiene sul registro della relazione tra Io e Altro? Se questo è vero, ogni motivazione può essere ricondotta ad una logica sociocentrica o egocentrica e, in conseguenza di questo, al Super-Io e all'Io antitetico.

E' ancora più importante considerare il fatto che il preteso schematismo della teoria struttural-dialettica viene meno se si tiene conto che il Super-io e l'Io antitetico sono due funzioni variabili, tra le quali si danno infinite combinazioni. E' la varietà del conflitto che da ciò discende a permettere di comprendere la varietà dei vissuti, dei sintomi e dei comportamenti psicopatologici. Penso di avere esaurientemente illustrato questo aspetto in Psicologia strutturale e dialettica.

Nessuno dei miei critici ha rilevato, invece, un'evidente lacuna della teoria struttural-dialettica. Varie volte ho avuto occasione di scrivere che il Super-Io e l'Io antitetico sono substrutture dell'Io, la cui attività dinamica si svolge con assoluta prevalenza a livello inconscio. Ciò significa che esse forniscono all'io spinte motivazionale, rispettivamente sociocentriche e egocentriche, che egli deve impegnarsi a mediare. In quest'ottica, la difficoltà dell'io può derivare solo dal fatto che esso, investito da spinte motivazionali, radicalmente opposte può fallire nella sua funzione di mediazione. E' vero, ma non è tutta la verità.

Una delle scoperte più profonde di Freud, che basterebbe da sola ad invalidare il cognitivismo coscienzialista, verte sul fatto che anche l'Io è rappresentato a livello inconscio. Tenendo conto di questo, riesce immediatamente evidente che, in conseguenza di una scissione tra i bisogni intrinseci e di una contrapposizione tra Super-Io e Io antitetico, l'Io stesso si scinde: una parte di esso si allea con il Super-Io, un'altra con l'io antitetico. Tale scissione ha anchíessa modalità che variano da un'esperienza all'altra: la parte alleata con il Super-io può essere più o meno rilevante, come pure complementarmente quella alleata con l'Io antitetico.

E' la somma di tutte queste variabili che consente di definire una teoria del conflitto psicopatologico che è, nello stesso tempo, semplice, epistemologicamente elegante e flessibile quanto basta a comprendere la varietà dei sintomi, dei vissuti e dei comportamenti psicopatologici.

4.

E' impossibile illustrare lo spettro espressivo dell'attività dell'Io antitetico in conseguenza di un conflitto. Occorre leggere Star Male di Testa per avere un quadro sufficientemente chiaro per quanto approssimativo di tale spettro.

Qui penso sia opportuno insistere sul fatto che la cultura contemporanea, con la sua perpetua insistenza sull'individualismo e sull'autorealizzazione (narcisistica), ha prodotto in effetti dei cambiamenti a livello di psicopatologia giovanile. Si danno ancora molti casi di crisi giovanili all'interno delle quali, in conseguenza spesso di un'educazione e di una pratica religiosa, l'attività di un Super-io rigido e colpevolizzante è del tutto evidente. E' vero però che sempre più spesso l'adolescenza determina la rimozione o la repressione del Super-Io e il definirsi di un orientamento di personalità irretita dall'Io antitetico. Si definiscono, in conseguenza di questo spesso esperienze caratterizzate da una rivendicazione di libertà totale dal controllo parentale e sociale, che assumono anche precocemente una configurazione trasgressiva; esperienze narcisistiche contrassegnate dall'esigenza di dominare gli altri con cui si è in rapporto e dalla pretesa di essere confermati nel proprio valore a qualunque costo; esperienze di falsificazione dell'io sul registro dell'indurimento, del cinismo e dell'aggressività; ecc.

E' evidente in tutti questi casi che il bisogno d'individuazione, se si attiva solo sotto la spinta dell'Io antitetico, realizza una crisi adolescenziale che può perpetuarsi, cronicizzare e non evolvere mai in una direzione dialettica.

Sono tali esperienze, al di sotto delle quali si danno vissuti di colpa e d'inadeguatezza di ogni genere, che comprovano la teoria dell'Io antitetico. Se questa fosse riconosciuta nel suo valore epistemologico, i trattamenti terapeutici otterrebbero migliori risultati di quelli attuali.

Aprile 2005