IL FALSO IO

1.

Nella cornice della teoria struttural-dialettica, la personalità è riconducibile all'interazione di tre funzioni: L'Io, Il Super-Io e l'Io antitetico. Si tratta indubbiamente di una semplificazione che ha lasciato perplessi molti colleghi, anche psicoanalisti, che, in tema di personalità, si riconducono ormai costantemente al concetto del Sé e tendono, se non a rinnegare, a dare poca importanza al punto di vista strutturale dell'ultimo Freud.

Il concetto di Sé, nato in ambito cognitivista e psicosociologico, è di fatto piuttosto povero. Esso si definisce come "il quadro di riferimento del significato che la persona attribuisce a se stessa - percezioni di natura cognitiva e affettiva riguardo a sé in quanto oggetto, derivanti dalle disposizioni innate e dalle interazioni sociali lungo l'arco della vita, e caratterizzate da pensieri, emozioni e azioni relative ad una struttura sociale di ruoli, regole, norme e valori" (Harré, Lamb, Mecacci, Dizionario eciclopedico di psicologia, Laterza, Bari 1998). Esso in pratica si riduce a come il soggetto si vede, si giudica e si vive sia nell'interazione sociale che a livello introspettivo, vale a dire all'immagine sociale e all'immagine interna che egli ha di sé. Il limite del concetto di sé è che esso riduce il problema dell'identità nei limiti della coscienza, e ignora del tutto il problema dell'immagine interna inconscia, che appare decisiva in ambito psicopatologico.

Nessun problema più del falso Io pone in luce l'utilità e la pregnanza di una teoria strutturale della personalità.

Il falso Io è un tema che è stato imposto all'attenzione da Laing, e si riconduce ad una teoria della personalità piuttosto semplice, che, ne L'io e gli altri, è sintetizzata in questi termini: "Un soggetto è, in primo luogo, la persona che gli altri dicono che è. Crescendo, poi, egli conferma, o cerca di invalidare, la definizione con cui gli altri lo hanno individuato. Può decidere di essere quello che si dice che sia. Può cercare di non essere quello che, nella sua intimità, è pervenuto a riconoscere che è. O può tentare di strappare da sé quell'identità "aliena" che gli hanno attribuito, o alla quale è stato condannato, e creare, per mezzo delle sue azioni, un'identità per se stesso, cercando di costringere gli altri ad accettarla. Quali che siano le vicende sucessive, tuttavia, l'identità di un soggetto è, in primo luogo, quella che gli viene attribuita. Si scopre quello che già siamo". Il falso io di Laing, dunque, definisce l'identificazione totale del soggetto con un'identità che gli è stata attribuita. la quale ha poco a che vedere con la sua vocazione ad essere. Si tratta di una maschera che esprime in massima parte l'accondiscendenza del soggetto ai desideri e alle aspettative altrui, relazionali e interiorizzate, e che può celare ed occultare un io vero inconscio.

La teoria di Laing comporta almeno due aspetti che, a posteriori, vanno criticati.

Il primo riguarda l'opposizione netta, e dunque non dialettica, tra io falso e io vero. Un certo grado di mistificazione è costitutivo di ogni soggettività cosciente: primo, perché nessuno tollererebbe un contatto pieno con il proprio mondo interiore; secondo, perché il bisogno di coesione, vale a dire di un'identità definita e univoca, impone di rimuovere qualche contraddizione di troppo; terzo, perché le aspettative normative sociali non possono essere mai del tutto disattese. Il grado di mistificazione soggettivo è diverso da persona a persona a seconda della carriera di vita, delle circostanze ambientali, degli strumenti introspettivi di cui ciascuno dispone, ecc. Anche quando però questo grado è elevato, ritenere - come fa Laing - che esso sia in toto una maschera priva di significato e caduca, è inammissibile. Per quanto infatti si possa ritenere importante l'influenza condizionante dell'ambiente, essa opera selezionando alcune potenzialità costituzionali al prezzo del sacrificio altre. Per esempio, la personalità totalmente accondiscendente alle aspettative altrui, che rappresenta il riferimento costante della teoria di Laing, comporta senz'altro, in nome del mito dell'armonia, l'inibizione di potenzialità conflittuali individuanti che sono sempre presenti a livello inconscio. L'accondiscendenza esprime però comunque una sensibilità sociale molto viva, che permette di intuire le aspettative altrui, di farle proprie e di rispettarle, la quale si può ritenere propria del soggetto.

Il falso io insomma non è mai del tutto falso: esso rivela qualcosa dell'individuo al prezzo di celare qualcos'altro. Il rapporto tra ciò che esso rivela e ciò che cela determina il grado di falsificazione.

Il secondo aspetto concerne l'io vero che Laing presume esistere sempre a livello inconscio, per cui in terapia non si tratterebbe altro che di farlo venire alla luce. In realtà le cose non stanno, se non rarissimamente, così. Le potenzialità che non si dispiegano a livello cosciente tendono infatti, in conseguenza del principio di ridondanza, a disordinarsi (come accade ad un corso d'acqua che, se trova un ostacolo allo scorrimento, vortica e diventa turbolento) e a configurarsi sotto forma di un io antitetico la cui "liberazione" può dare luogo piuttosto ad uno smottamento della personalità e ad un acting out che ad un'autenticazione. L'io falso di fatto rimuove dalla coscienza delle potenzialità autentiche che vanno recuperate filtrando quanto di "alienato" esse hanno accumulato in conseguenza della rimozione.

Quando si dà una scissione nel capitale dei bisogni intrinseci, sia quello che si realizza a livello apparente sia quello che viene ad essere rimosso finiscono insomma con l'essere alienati. L'io vero, autentico non è mai dato, è sempre da costruire integrando in una nuova identità le potenzialità dei due bisogni.

2.

La teoria di Laing va aggiornata anche per un altro aspetto. Il falso io che egli ha analizzato è sostanzialmente incentrato su di un'accondiscendenza radicale alle aspettative altrui. In termini strutturali, si tratta di un falso io superegoico, che sovrappone alla volontà propria la volontà altrui interiorizzata e induce il soggetto ad assumerla come propria. Si dà però almeno un altro modello di falso io, caratterizzato dal fatto che il soggetto si identifica con l'io antitetico e, in nome di questo, si oppone sistematicamente alla volontà altrui interiorizzata, finendo con il negare non solo le influenze sociali ma la sua stessa sensibilità sociale.

Questi due modelli sono ancora oggi facilmente reperibili a livello adolescenziale, e rappresentano i presupposti di sviluppi psicopatologici. Si danno, di fatto, per un verso, adolescenti il cui sviluppo infantile è stato lineare, che non hanno dato mai problemi, e che, giunti all'adolescenza, sembrano fare un salto ulteriore e definitivo sulla via di una precoce maturità. L'assetto iperadulto in un adolescente, tanto più quando completa un tragitto evolutivo lineare, è sempre un falso io, al di sotto del quale urgono le potenzialità oppositive e individuanti che sono state rimosse.

Si danno, per un altro verso, adolescenti il cui sviluppo infantile può essere stato lineare o oppositivo, i quali, giunti all'adolescenza, assumono un atteggiamento radicalmente antitetico rispetto rispetto alla famiglia, alle norme e ai valori culturali correnti. Se questo atteggiamento, evolutivamente significativo, non viene sormontato, si definisce un falso io che, in nome di una rivendicazione incoercibile di libertà dalle influenze sociali, determina la necessità di reprimere la sensibilità sociale, di indurirsi e di agire comportamenti più o meno marcatamente asociali o antisociali.

L'importanza di questi due modelli non può essere minimizzata. Non è azzardato sostenere che una condizione di falso io preesiste sempre a qualunque sviluppo psicopatologico adolescenziale e giovanile. Tenere conto di questo sgombrerebbe il campo dalle ossessioni diagnostiche della neopsichiatria. Il collasso del falso io può avvenire in forma acuta o strisciante, esprimersi attraverso una depressione, un attacco di panico, un episodio psicotico, un delirio, ecc. In ogni caso, la psicodinamica del collasso è sempre la stessa. Essa infatti o si riconduce a sterili difese in nome delle quali il soggetto pretende di mantenere e confermare la sua identità preesistente, compromessa dall'attivazione delle potenzialità rimosse, o all'affiorare di queste potenzialità a livello cosciente sotto forma antitetica.

Si tratta certo di una semplificazione, ma così fedele alla realtà clinica che mi chiedo ancora oggi come sia possibile non tenerne conto. La risposta a questo quesito porta su di un altro terreno discorsivo, che non può rimanere implicito.

3.

Delle tre componenti che concorrono ad indurre un certo grado di mistificazione, le due prime (la necessità che la coscienza sia schermata rispetto all'inconscio e il bisogno di un'identità coesa) si possono ritenere universali e costanti, la terza invece, legata alle influenze culturali, rappresenta una variabile. La somma di queste componenti non è la stessa in tutti i contesti culturali. Si danno culture che promuovono l'autenticazione e culture che concorrono ad incrementare il grado di mistificazione.

La nostra cultura, in nome delle sue matrici illuministiche, positivistiche e razionaliste, ritiene di favorire al massimo grado l'autenticazione. Non ci vuole molto a capire che si tratta di un'illusione. Il grado di mistificazione proprio di ogni cultura dipende sostanzialmente dalla concezione della natura umana cui essa si ispira. Più quella concezione è positiva, socratica o rousseauiana, più l'uomo non ha paura di guardare dentro di sé; viceversa, più è negativa, più essa induce la paura dell'introspezione, fino al limite dell'autofobia.

Ora la nostra cultura riconosce al suo fondo addirittura due concezioni negative della natura umana: quella cristiana e quella borghese. Per la prima, l'uomo alligna nel suo intimo, in conseguenza del peccato originale, il male, contro il quale deve lottare tutta la vita per non esserne travolto. Per la seconda, egli è un essere sostanzialmente egoista, asociale e preda di pulsioni irrazionali che solo il controllo sociale riesce, almeno in parte, a contenere. Entrambe queste concezioni hanno un dato in comune - l'attribuzione alla natura umana di potenzialità malvagie . Esse differiscono solo nell'interpretare la genesi del male.

Su questa base ideologica, che fa parte della mentalità corrente, ed è univocamente rappresentata nella soggettività conscia e inconscia degli educatori, è pressochè impossibile che si costruisca una personalità autentica. Di fatto, ciò che accade, in rapporto alla disposizione individuale e alle influenze ambientali, è che le personalità tendono a strutturarsi o sulla base di un modello morale che sovrappone al male la virtù (disponibilità sociale, altruismo, ascetismo, ecc.) o sulla base di un modello sociale che accetta l'egoismo e persegue ciecamente l'affermazione individuale. Quest'ultima circostanza comporta poi due varianti: la prima è caratterizzata da una competitività che riconosce come unico limite il rispetto delle regole del gioco, vale a dire delle leggi; la seconda, viceversa, tende ad esprimersi sul registro antitetico della trasgressione e della devianza.

Non è difficile distribuire le personalità "normali" presenti nel nostro mondo in uno spettro che riconosce ai due limiti estremi questi due modelli. Il problema è che, all'interno di questo spettro, non si danno personalità autentiche ma solo personalità ibride e al limite dissociate: per esempio, personalità che funzionano in alcuni contesti interpersonali secondo il modello della virtù e in altri secondo il modello dell'egoismo competitivo.

Questo significa, né più né meno, che nella nostra società la condizione del falso io è prevalente rispetto a quella dell'io autentico, che si realizza solo eccezionalmente.

Questa teorizzazione è importante per due motivi. Il primo è che la presa d'atto di questo problema dovrà portare ad un ripensamento sulla natura umana, che va affrancata dai pregiudizi. Ciò comporterà una revisione dei modelli e delle pratiche pedagogiche. Il vero e unico problema inerente la natura umana è che la soggettività adulta gode di un grado di libertà dai controlli istintuali unico nell'ambito dell'universo animale. In nome della libertà, l'uomo può anche agire il male. Questo riconoscimento non ha nulla a che vedere con l'attriobuzione alla natura umana di una tendenza al male. Occorre da questo punto di vista riabilitare Socrate. L'uomo autentico e consapevole di sé, della sua doppia natura individuale e sociale, tende a non fare agli altri quello che non vuole che gli altri facciano a lui.

Il secondo motivo dà ai collassi psicopatologici che mettono in gioco il falso io un significato evolutivo. Sia infatti che essi avvengano in conseguenza dell'attivazione di un io antitetico, che non sopporta più un regime di virtù eccessiva, sia che avvengano in conseguenza dell'attivazione di una sensibilità sociale mortificata da una più o meno lunga repressione, essi attestano una vocazione personale verso l'individuazione, che va utilizzata terapeuticamente.

Da questo punto di vista, Laing aveva ragione. Le crisi psicopatologiche non definiscono una condizione d'inadeguatezza rispetto ad una normalità che molto spesso è mistificata. Esse attestano piuttosto una difficoltà inconscia di normalizzarsi secondo uno dei due modelli mistificati cui si è fatto cenno e il bisogno di trascendere la normalità corrente.

En passant, non è superfluo rilevare che, avendo la neopsichiatria restaurato un concetto estremamente discutibile di normalità, identificando questa condizione con l'assenza di una sintomatologia psicopatologica, essa non vede più alcun rapporto tra normalità e anormalità, che si configurano nuovamente come due categorie chiare e distinte. La reificazione della normalità, che serve a tutelare la tranquillità di tante persone che vivono nell'inautenticità, ricade su coloro che hanno dei disturbi psichici come un pregiudizio. Insomma, per la neopsichiatria è come se Marx, Freud, Nietzsche e Laing non siano esistiti.

Settembre 2003