Sullo statuto mistificato della coscienza

1.

Nella storia si danno numerose rivoluzioni culturali abortite, la cui realizzazione avrebbe potuto arricchire la civiltà umana. Anche la cultura, infatti, non diversamente dalla natura, ha i suoi criteri selettivi. Mentre in natura, però, tali criteri sono determinati casualmente dall'ambiente, a livello culturale la selezione avviene sulla base della capacità che hanno le coscienze individuali e collettive, già acculturate, di recepire e accettare qualcosa di nuovo che mette in gioco, talvolta radicalmente, il loro assetto emozionale e cognitivo identitario.

Tra queste rivoluzioni abortite mi sembra che si possa ormai inserire a pieno titolo quella che avrebbe dovuto avviare l'umanità verso una maggiore autoconsapevolezza, trasparenza e criticità: la contestazione delle false certezze dell'Io o, per essere più precisi, dello statuto normalmente mistificato della coscienza umana.

Riproporre questa tematica in un periodo di crisi epocale, contrassegnato da una globalizzazione selvaggia, che induce tutti i popoli - occidentali e non occidentali -, le etnie, le comunità, i gruppi e gli individui ad aggrapparsi letteralmente alle tradizioni, alle convinzioni, ai miti su cui si fonda la loro identità, può sembrare paradossale. In realtà è assolutamente necessario perché, se ancora esiste la possibilità di una fuoriuscita dalla crisi, questa si potrà realizzare solo in conseguenza del riavviare e portare a buon fine la rivoluzione sullo statuto della coscienza umana.

Come noto, tale rivoluzione prese corpo agli inizi degli anni '70 sotto forma di denuncia intellettuale e politica della normalità borghese come alienazione, mistificazione, ipocrisia, rinuncia al sentire autentico, al pensiero critico, allo sforzo di andare al di là delle tradizioni, dei miti, delle ideologie, dei pregiudizi. Per quanto l' Uomo ad una dimensione di Marcuse abbia goduto di un maggior successo, il "manifesto" di tale denuncia si può ritenere La politica dell'esperienza di R. D. Laing, un libro che ancora oggi conserva un fascino sottile. In esso lo statuto normale della coscienza viene identificato con uno stato di ipnosi persistente dovuto alla cultura e al conformismo di massa, che impedisce all'uomo un contatto autentico con la vita, la natura, la realtà storica e il suo mondo interiore.

A posteriori, non è difficile capire perché la rivoluzione in questione sia abortita. Pur essendo maturata lentamente sull'onda dello sviluppo di diversi saperi (filosofia, antropologia culturale, sociologia critica, psicoanalisi, ecc), essa, infatti, assunse rapidamente una configurazione ideologico-politica di matrice dichiaratamente marxista, con due nefaste conseguenze. La prima è da ricondurre ad una carica implicita di disprezzo nei confronti della coscienza e del modo di essere normale o normalizzato che, all'interno di una società a larga maggioranza borghese, non poteva esitare che in un rigetto. La seconda, complementare alla prima, fu il prodursi, tra i giovani e gli intellettuali che aderivano all'ideologia della demistificazione, di un atteggiamento irritante e provocatorio, oltre che ampiamente contraddittorio: quello degli illuminati dalla verità, disalienati dunque, che potevano permettersi di ergersi a giudici implacabili di un mondo rimasto immerso nelle brume della falsa coscienza.

Muovendo da un presupposto giusto - quello della tendenza naturale della coscienza umana alla mistificazione -, il movimento di contestazione della cultura borghese giunse alla conclusione errata di pensare che la semplice presa d'atto di questa verità potesse valere a sormontare d'emblée tutti i condizionamenti storico-culturali e portare ad uno stato di coscienza demistificato, autentico, illuminato appunto. Tanto poco valida era tale conclusione che non pochi artefici di quella rivoluzione sono nel corso dei decenni regrediti nella direzione di un recupero dei valori e delle tradizioni all'epoca rifiutate e contestate, e oggi militano nelle file dei neo-con se non addirittura dei teo-con.

Riprendere oggi il discorso sullo statuto normalmente mistificato della coscienza umana richiede anzitutto di tenere conto delle diverse prospettive filosofiche e scientifiche che sono in esso confluite.

Anche se si tratta di una semplificazione, non si va lontano dal vero riconducendo tali prospettive a coloro che oggi vanno sotto il nome di maestri del sospetto: Marx, Freud, Nietzsche. Alla lista penso che si debba aggiungere ormai anche Darwin, sul quale, dopo aver attaccato e contestato i tre grandi, stanno convergendo gli strali dei conservatori.

Nell'accezione corrente, i maestri del sospetto avrebbero demolito le certezze tradizionali su cui si fondano le culture e al loro interno le soggettività individuali, promuovendo il relativismo dei valori che rischierebbe di avere un effetto disintegrativo sull'identità del gruppo, dell'individuo, sulle radici culturali, sulla coesione sociale, ecc.

Si tratta di accuse prive di fondamento, che possono valere tutt'al più per alcuni eredi di quei pensatori.

Per riavviare un salto di qualità sulla via della demistificazione collettiva e individuale, penso che si debba partire ancora oggi dal pensiero di quei maestri, integrandolo casomai con i contributi degli sviluppi delle scienza naturali, umane e sociali successivi ad essi.

2.

Una tradizione filosofica corrente interpreta l'evoluzione culturale avvenuta a partire dal '600, in seguito alla nascita della fisica, come univocamente incentrata sulla frustrazione del bisogno umano di essere al centro del cosmo, di avere un'anima destinata all'immortalità e un Io consapevole, razionale, capace di operare scelte libere. In questa ottica, la rivoluzione galileiana ha definito il pianeta-Terra come piccolo e appartenente ad una delle infinite galassie dell'Universo; Darwin ha ricavato l'evoluzione della specie umana da un meccanismo (la selezione naturale) che assegna ad essa una natura animale e definisce come casuale la sua comparsa; Marx ha scoperto che, nel rapportarsi al mondo storico-sociale, la coscienza umana cede alla suggestione delle ideologie correnti, scambiando l'apparenza per l'essenza delle cose, e giungendo a naturalizzarla; Freud, oltre ad avere identificato nell'Es un bagaglio pulsionale ancestrale di natura animalesca, ha radicalmente contestato sia la pretesa unità dell'Io sia il senso di padronanza che l'uomo ricava da essa; Nietzsche, infine, ha avanzato il dubbio che i valori più elevati sui quali si fonda la nostra civiltà potrebbero essere semplicemente funzionali ad impedire la selezione sociale e l'evoluzione dell'umanità verso uno stadio più avanzato e autentico.

C'è naturalmente molto di vero in questa tradizione interpretativa. Questo articolo, però, non si propone di rispolverarla, bensì di articolarla in termini più complessi e integrati.

La coscienza umana ha rapporto con tre mondi: l'ambiente naturale, il mondo storico-sociale, all'interno del quale si danno relazioni interpersonali, e il mondo interno, percepito come fondamento della propria identità.

Su tutti e tre questi fronti, essa tende naturalmente alla mistificazione, vale a dire a costruire una visione dei mondi in questione che, analizzata criticamente, appare superficiale, semplificata, riduttiva o, al limite, francamente errata.

Nel rapporto con l'ambiente naturale, la mistificazione è dovuta essenzialmente ai limiti percettivi e cognitivi della coscienza umana quando essa funziona spontaneamente, vale a dire non riflessivamente. Ponendo tra parentesi gli errori macroscopici del passato, allorché la terra sembrava essere al centro dell'Universo e appariva come un piano univocamente orizzontale, i limiti percettivi e cognitivi incidono ancora. Essi, infatti, non solo celano all'uomo aspetti reali assolutamente impercettibili (come gli atomi e le particelle, i virus e i batteri, i raggi ultravioletti, gli ultrasuoni, i gas inodori, ecc.), ma "donano" al mondo esterno una stabilità che non ha, inducono a considerare fisse le specie viventi, fanno percepire lo spazio come una sorta di scatola occupata da oggetti, le cui dimensioni sono lineari, ecc.

E' evidente che la loro funzione consiste nell'organizzare una visione dell'ambiente naturale oggettiva e stabile, che aiuta l'uomo ad orientarsi in essa. Cionondimeno, tale visione si può ritenere in senso proprio mistificata, vale a dire non corrispondente alla realtà indagata dai fisici, dai chimici, dai botanici, dai biologi.

La scienza naturale, di fatto, nella sua totalità è un rimedio alla mistificazione della coscienza comune e spontanea.

In questa ottica, la lezione di Darwin ha un particolare significato. I fisici, i chimici, i biologi hanno superato infatti quella mistificazione sulla base non solo di ipotesi teoriche formulate riguardo a una serie di fenomeni inspiegabili nei limiti del senso comune, ma anche di attrezzature e di strumenti (cannocchiale, microscopio, ecc.) che hanno consentito loro di estendere il campo percettivo. Darwin, viceversa, ha costruito la sua teoria sulla base di osservazioni fatte ad occhio nudo, che gli hanno consentito di raccogliere una messe smisurata di dati.

Si può senz'altro pensare che la sua capacità di osservazione fosse guidata da un'ipotesi di fondo, che egli cercava di confermare, e che dunque vada ricondotta ad un'attenzione selettiva che gli ha consentito di filtrare il flusso di informazioni caotico proveniente dalla natura.

Rimane il fatto che i dati che egli ha raccolto, e sui quali ha articolato la sua teoria, erano da sempre sotto gli occhi di tutti. L'infinita varietà della natura e delle specie viventi è una realtà di comune osservazione. Essa implica anche una serie di somiglianze, all'interno della specie e tra le specie, e di differenze tra individui appartenenti alla stessa specie o di specie diverse che sembrano chiaramente alludere a qualcosa di costante e a qualcos'altro che muta con una qualche continuità.

Solo Darwin però è riuscito ad andare al di là dell'apparente fissità delle specie che, nel tempo breve dell'esperienza umana, appare come un dato di fatto, e a vedere che, anche sul piano dell'hic et nunc, quella fissità comporta variazioni che alludono ad un'evoluzione delle specie da forme più semplici a forme più complesse.

Si può credere o no nell'evoluzionismo, anche se il non credere si fonda più che su di una critica scientifica su di una sorta di narcisismo antropologico promosso dalla religione, per cui l'uomo deve negare la sua animalità. Rimane il fatto che Darwin, del tutto inintenzionalmente, ha rivelato la capacità che ha la coscienza umana di mistificare il rapporto con la Natura, ricavando dall'ordinamento del flusso caotico delle percezioni, anziché gli indizi che portano ad intuire la sua complessità e il suo stato perennemente dinamico, una visione stabile, solida, coesa e, in una certa misura, fissa.

La mistificazione riferita al mondo esterno, il senso comune sull'ambiente e sui fenomeni naturali si possono ritenere minimamente pericolosi. Ma non è così.

Due esempi valgono a capire perché.

Il primo concerne per l'appunto l'attacco al darwinismo, e la proposta di sormontarlo in nome del creazionismo o del riconoscimento di un disegno intelligente sotteso all'evoluzione naturale. Tale attacco si fonda per l'appunto, fino a partire dal livello pedagogico, sullo sfruttamento della tendenza alla mistificazione percettiva. Ci si rivolge ai bambini e agli adulti sollecitandoli a credere nei propri occhi, a considerare la bellezza, la varietà e l'apparente stabilità del creato come la prova che l'evoluzione non può essere avvenuta casualmente. Li si induce viceversa a chiudere gli occhi (della mente) sul fatto che quella bellezza è di ordine soggettivo, e che l'universo nella sua totalità, compreso l'ecosistema in cui viviamo, è un insieme caotico nel quale si danno isolette di determinismo, che vengono più facilmente percepite.

La varietà del mondo animale, poi, cela una verità sgradevole che è sotto gli occhi ma viene rimossa. Anche volendo rifiutare l'evoluzionismo, è un fatto che il mondo animale, con la sua distinzione tra prede e predatori (nonché parassiti di ogni genere), è la contestazione vivente di un disegno intelligente, poiché quella distinzione impone ad un numero sterminato di esseri (compreso l'uomo) di vivere nella paura e di morire in seguito all'attacco di altri viventi.

Il secondo esempio concerne l'equilibrio ecologico, che, eccezion fatta per le catastrofi naturali, si pone alla coscienza comune come un dato fisso e costante.

L'inquinamento urbano è percepito, in qualche misura, dalle persone; il buco dell'ozono, il riscaldamento planetario, la siccità, la deforestazione, l'inquinamento delle acque, la scomparsa di alcune specie animali, ecc. lo sono molto meno. Per capire gli effetti dell'attività antropica a livello globale, occorre trascendere la visione del mondo spontanea prodotta dalla coscienza: andare insomma al di là delle apparenze.

La mistificazione percettiva e cognitiva dell'ambiente naturale può essere superata solo in virtù di uno sforzo che permette all'Io cosciente di sviluppare una concezione scientifica della realtà.

2.

Molto più pericolosa della mistificazione percettiva e cognitiva riferita all'ambiente naturale è quella che concerne il mondo storico-sociale prodotto dall'uomo stesso.

La lezione di Marx riguarda il modo in cui l'uomo si rapporta al mondo storico da lui stesso prodotto, vale a dire al mondo della cultura materiale e spirituale. Tale modo è mistificato non solo perché costantemente preda delle apparenze, che non danno ragione delle cause per cui il mondo è divenuto quello che è e persiste ad essere tale, ma soprattutto perché esso, per effetto delle ideologie, tende a naturalizzare l'esistente, ignorando per l'appunto che si tratta del prodotto di una lunga evoluzione.

Via che evolve, dandosi una struttura istituzionale, il mondo storico produce anche ideologie o quadri mentali che danno ad esso senso, ne mascherano le contraddizioni, lo assolutizzano e lo restituiscono alla coscienza delle persone come se esso fosse sempre stato così e destinato a rimanere tale.

Il concetto di ideologia in Marx, come è noto, non è stato sufficientemente approfondito. Esso è rimasto vincolato all'opposizione tra sovrastruttura culturale e infrastruttura economica e materiale, la prima, coincidente appunto con l'ideologia, considerata semplicemente come una falsificazione e un mascheramento, nonché una giustificazione, della seconda, che rappresenterebbe la vera realtà.

L'intuizione di Marx è stata però sviluppata ulteriormente sia nell'ambito del marxismo che al di fuori di esso. Nell'ambito del marxismo, l'elaborazione teorica più profonda del concetto di ideologia si deve a Ferruccio Rossi-Landi (Ideologia, ISEDI, Milano 1978), secondo il quale essa è da ricondurre ad uno spettro che va dall'estremo della mistificazione intesa in senso stretto come menzogna all'estremo opposto di una visione totalizzante del mondo che si pone come verità assoluta.

La coscienza comune, individuale e collettiva, può cadere con una certa facilità nella trappola della menzogna: basta considerare, per esempio, il credito accordato da molti cittadini italiani ad un uomo politico che fa della falsificazione dei dati reali la sua arma vincente per rendersene conto.

La menzogna, però, può essere ad un certo punto scoperta e denunciata.

Molto più insidioso, invece, è il pericolo legato al bisogno della coscienza di una visione del mondo storico che, naturalizzandolo, lo stabilizzi, e dia modo di credere in esso, nei valori e nelle istituzioni su cui si fonda.

Per questo aspetto, lo sviluppo più interessante è avvenuto nell'ambito della corrente di storici francesi legati alla scuola de Les Annales. Essi, sicuramente ispirandosi a Marx, hanno identificato l'ideologia (che definiscono mentalità) come un aspetto strutturale proprio di ogni società in interazione reciproca con l'organizzazione economica e sociale. Nella loro ottica, ogni società ha bisogno, non meno che di un assetto produttivo che consenta di soddisfare il bisogno di beni materiali e di un assetto sociale che definisca diritti e doveri dei singoli membri, di una visione del mondo coerente e coesa. Tale visione del mondo funziona, in ogni epoca, come un recinto mentale collettivo, che costringe in qualche misura i soggetti a sentire, a pensare e ad agire in determinati modi che essi vivono come espressivi della loro libertà, ma di fatto sono influenzati dalla mentalità.

Nella sezione Storia della Bibliografia ho recensito un articolo di Duby (Storia sociale e Ideologie della società) che si può ritenere a riguardo un autentico capolavoro.

Ciò che vi è di insidioso nella mentalità definita dagli storici francesi è che essa agisce a livello di inconscio sociale e si replica di generazione in generazione a livello di inconscio individuale.

Ciò non significa solo che una mentalità sopravvive anche quando le coscienze pensano di essersene liberate. Il problema è che, per liberarsene, occorrono strumenti atti ad oggettivarla e a demistificarla che nessuna società, nel suo apparato pedagogico e culturale, fornisce.

Lo statuto mistificato della coscienza in rapporto al mondo storico è, dunque, un dato di fatto inoppugnabile. Tanto più tale statuto è rilevante via via che l'evoluzione storica, rendendo il mondo sempre più complesso e il passato sempre più stratificato, sollecita le coscienze a vivere in una dimensione presentificata, all'interno della quale un flusso imponente di informazioni mediatiche dà l'illusione di sapere.

Non è superfluo rilevare che le contestazioni di alcuni studiosi (cognitivisti, ideologi liberali, ecc.) alla teoria della coscienza storica mistificata, secondo i quali tale teoria ignorerebbe l'attività selettiva e interpretativa della coscienza in rapporto alla realtà per cui, sullo sfondo di una comune visione del mondo, ciascuno costruisce una sua visione del mondo, sono inconsistenti e contraddittorie.

Il riferimento alla mentalità non implica che le coscienze individuali siano ipnotizzate. In quanto recinto ideologico, la mentalità non esclude che le singole coscienze possano percorrere al suo interno i tragitti più vari. Essa esclude che, senza strumenti adeguati e uno sforzo critico, esse possano rendersi conto del recinto entro cui pensano, sentono e agiscono, oggettivarlo e fuoriuscire in qualche misura da esso.

Il cognitivismo stesso, peraltro, ha fornito, con la scoperta dell'attenzione selettiva, una prova inconfutabile a favore del concetto di ideologia di matrice marxista.

L'attenzione selettiva è un meccanismo che agisce in parte a livello cosciente e in parte a livello inconscio. Esso fa sì che, investito dal flusso delle informazioni, un soggetto, dotato di una sua visione del mondo, seleziona e acquisisce quelle che la confermano, mentre trascura o rimuove quelle che la contraddicono.

In virtù dell'attenzione selettiva, ogni individuo giunge a credere che la sua visione del mondo è corroborata da troppe prove tratte dall'esperienza reale per poter essere messa in discussione. In realtà essa può essere anche del tutto mistificata.

Non si stenta a comprendere l'importanza di questo aspetto in un mondo, come il nostro, nel quale il contatto sempre più intenso tra le diverse culture che l'umanità ha prodotto nella sua lunga storia si intensifica di continuo. Per ora, la conseguenza della globalizzazione culturale è univoca. Le coscienze collettive e individuali, per arginare un flusso di informazioni che relativizzano i sistemi di valori in cui credono e su cui si fonda la stabilità della loro cultura, si recintano sempre più nella convinzione della superiorità di questa in rapporto alle altre.

L'etnocentrismo e la difesa identitaria sono i dati più rilevanti della nostra epoca. Il primo, per cui ogni cultura ritiene implicitamente ed esplicitamente, di essere superiore a tutte le altre, è un male assoluto. Il secondo si può ritenere un male relativo. Senza alcun riferimento identitario qualunque cultura sarebbe votata all'anomia e alla disorganizzazione. Ciò non significa però che quel riferimento, che comporta il culto delle radici e delle tradizioni che hanno permesso ad una cultura di svilupparsi, debba essere vissuto ideologicamente e assolutizzato. l'ideologia a riguardo si fonda sulla logica per cui tutto ciò che mantiene il suo valore nel corso del tempo, e dunque sfugge alla selezione culturale, non può non essere vero. Occorrerebbe rinunciare a tale convinzione in nome del fatto che anche i falsi valori - per esempio la schiavitù come fatto di natura o il razzismo - hanno dimostrato nel corso della storia il potere di perpetuarsi.

La demistificazione, da questo punto di vista, coinciderebbe con il mantenersi di un atteggiamento critico nei confronti delle radici identitarie.

3.

Più complesso, infine, è il discorso sulla tendenza che l'io cosciente ha a mistificare il rapporto con il suo mondo interiore, vale a dire a costruire un'immagine di sé che non coincide con la realtà di quel mondo e con il piano dei comportamenti.

Occorre, a riguardo, tenere conto anzitutto di un limite strutturale.

La soggettività umana è caratterizzata dalla percezione di avere un'esperienza interiore sulla quale si fonda la consapevolezza di un'identità psichica, di essere in breve un io. Tale percezione però riguarda una parte che si può considerare sempre e comunque parziale in rapporto alla totalità del mondo interno.

Anche se la quantificazione del rapporto tra coscienza e inconscio non può essere oggettivamente convalidata, tutti gli studiosi sono d'accordo sul fatto che la coscienza rappresenta non più del 20% dell'attività mentale complessiva.

Questo limite strutturale, reso necessario dal fatto che se la coscienza fosse totalmente trasparente e invasa dall'attività mentale interiore, un soggetto vivrebbe in uno stato di confusione perpetua o, addirittura, morirebbe rapidamente per intossicazione informazionale, non va drammatizzato. Nulla, infatti, sulla carta vieta di pensare che anche una percezione parziale della propria attività mentale potrebbe essere autentica, cogliere cioè l'essenziale del mondo interiore.

Nella realtà, però, questa possibilità si realizza solo eccezionalmente. Il più spesso infatti ciò che avviene è che l'io cosciente, in nome del suo bisogno supremo di unità, di coesione e di coerenza, adotta meccanismi di repressione e di rimozione nei confronti di tutti gli aspetti interni contraddittori, quindi costruisce un'immagine di sé unitaria che è falsificata.

Questa tendenza spontanea alla falsificazione ha una diversa incidenza nelle singole esperienze. La componente che si può ritenere universale riguarda il fatto che il bisogno di unità dell'io contrasta con una realtà inconfutabile a livello interiore, che io mi arrogo il merito di avere valorizzato al massimo grado. Tale realtà è riconducibile al fatto che ogni essere umano alberga due nature - l'una sociale, l'altra individuale - sottese da logiche del tutto diverse: la prima infatti assume il soggetto come parte indifferenziata del gruppo cui appartiene e di cui è funzione; l'altra viceversa lo assume come ente distinto da tutti gli altri, unico e irripetibile.

Questa doppia natura è costitutiva della soggettività umana, ma non è facilmente accettata perché ciò richiederebbe la consapevolezza di albergare due "anime" - l'una tendenzialmente socio-centrica, l'altra ego- centrica - la cui interazione non è mai priva di un'intrinseca tensione.

Al di là di quest'aspetto, che si può ritenere universale, occorre tenere conto che l'evoluzione verso uno stato di coscienza autentico, vale a dire fedele a ciò che l'individuo è nella sua vocazione costituzionale e a ciò che le circostanze di vita e le sue scelte lo hanno fatto diventare, richiede una capacità introspettiva, un'apertura emozionale alla verità e strumenti culturali che non sono consueti. Né essi bastano se non si dà a livello soggettivo un bisogno di autenticità che implica uno sforzo costante di fare i conti con la propria realtà esistenziale, la propria storia interiore, le influenze ambientali, ecc.

Non è sorprendente pertanto che la maggior parte degli uomini rinuncino a tale sforzo costruendo un'identità per molti aspetti immaginaria, che assicura un senso di identità e di coesione anche quando essa è clamorosamente smentita dal modo di comportarsi della persona. Lo scarto tra ciò che l'individuo di fatto è e ciò che pensa di essere è facilmente rimediato dalla straordinaria capacità dell'Io cosciente di giustificare i propri comportamenti con le argomentazioni più varie che lo convincono di essere comunque un'unità che gode di un certo controllo su di sé.

Questa tendenza naturale è ovviamente incrementata dai criteri normativi propri di una determinata società, tali per cui basta attenersi ad essi per essere confermati anche dagli altri sulla propria identità.

Andare al di là di questa mistificazione non è affatto semplice. Rimanerci dentro però significa avallare lo statuto proprio della normalità statistica che, per esigenze di coesione e di stabilità sociale, produce di continuo personalità la cui struttura è quella del falso io.

Tornerò ancora su questo tema, fondamentale per la costruzione di una nuova scienza dell'uomo e dei fatti umani. Per ora, importante era sottolineare che esso è stato impropriamente rimosso dal senso comune e dalla cultura ufficiale.