La fobia della debolezza


1.

Qualche giorno fa, ho visto in studio Laura una ragazza di sedici anni. E' venuta a parlarmi perché ha provato una "strana" emozione: la paura. Non conoscendola, è rimasta smarrita, confusa: ha percepito - pare per la prima volta - una perdita di controllo su di sé. Gli occhi le s'inondano spesso di lacrime, la notte non riesce a dormire e fa fatica a muoversi con la sua Ligier. La genesi di questo stato d'animo non è affatto misteriosa. Il sabato precedente, cinque suoi compagni di scuola, tre dei quali erano suoi amici, si sono schiantati all'alba contro un muro. Due di essi sono morti di colpo, uno è in coma irreversibile, gli altri se la sono cavata con fratture multiple. Laura trascorreva spesso il sabato con loro, sballando. Per puro caso, quel sabato l'ha trascorso con un'altra compagnia. Si sente insomma una sopravvissuta.

Lo stato d'animo non è solo luttuoso. E' come se Laura avesse aperto gli occhi su di uno stile di vita volutamente rischioso, che lei ha praticato dall'età di quattordici anni, scoprendo, appunto, di averne paura. Un paura folle, incontrollabile, che le impedisce, oltre che di dormire, di guidare l'automobile. E' questo che non accetta: di sentirsi repentinamente precipitata, da ragazza padrona di sé, volitiva, determinata - iperadulta insomma - nel ruolo di una bambina tremebonda. Vuole tornare ad essere come prima, anche se si rende conto che sarà difficile e irragionevole. Nel suo intimo - confessa - sapeva che, nel suo modo di essere, c'era qualcosa d'innaturale, che non andava. Ma la sua identità iperadulta la gratificava socialmente. Certo, non si è trattato di una libera scelta. Il giro delle sue amicizie impone di essere così: chi non ce la fa, è esposto al rischio, se non addirittura di essere emarginato, di essere ridicolizzato.

La vicenda è esemplare, psicologicamente e socialmente. Laura e i suoi amici non sono sbandati, sfigati, coatti. Appartengono a famiglie medio-abbienti, frequentano un istituto privato elitario, studiano con buon impegno, hanno dei progetti. Sono insomma ragazzi normali, che devono però - non si sa bene in nome di cosa - vivere in maschera, fingendo di essere iperadulti, e soprattutto sprezzanti del rischio. Il sabato sera è solo il momento in cui questa maschera va indossata con maggiore determinazione. E' il momento della "verità", la prova del nove di chi è degno di appartenere al gruppo e di chi non ne è degno.

Non è difficile ricondurre questa condizione al falso io, di cui si parla in un altro articolo. Il problema è capire come essa si sia determinata socialmente e culturalmente, come s'imponga agli individui, perché si mantenga e anzi tenda ad interessare fasce sempre più larghe della popolazione giovanile.

Il problema dello "sballo", peraltro, è solo uno dei modi in cui si esprime una terribile fobia della debolezza. Ne esistono altri, inquietanti anche se meno pericolosi. Ho preso spunto da una circostanza specifica, ma intendo affrontare il problema nei suoi diversi aspetti.

2.

L'intuizione che si stesse organizzando un quadro di mentalità nuovo, particolarmente a livello giovanile, risale, per quanto mi riguarda, alla metà degli anni '80. Tale intuizione ha preso forma nell'analisi dei codici mentali svolta in un capitolo de La politica del Super-Io. In esso è scritto: "Il sistema di valori neoliberale, apparentemente propositivo, poiché promuove l'affermazione personale, il prestigio, la libertà, la razionalità pragmatica, è animato in realtà da quattro nuclei fobici, che fanno capo all'essere inadeguato e impotente, all'esibizione di comportamenti che attestano origini miserabili o una condizione attuale di indigenza, al trovarsi in una condizione di penosa costrizione che attesta l'appartenenza al mondo simbolico degli schiavi, e alla manifestazione di una sensibilità che, in quanto debolezza, rende vulnerabili ad un attacco. Questi quattro nuclei fobici integrano altrettanti codici mentali, che, sotto forma di ideali superegoici, animano l'universo psicopatologico contemporaneo, e che possono essere definiti rispettivamente come codice adultomorfo, rupofobico, claustrofobico, anestetico". Nell'analisi dei codici, facevo presente che una loro temibile diffusione di massa avrebbe comportato conseguenze temibili sotto il profilo sociale e psicopatologico. Purtroppo, la previsione si è realizzata al di là di ciò che all'epoca pensavo.

L'adultomorfismo è attestato dal passaggio sempre più frequente da una condizione infantile ad un assetto di personalità iperadulto. Ragazzi e ragazze, intorno ai tredici-quattordici anni, cominciano a rivendicare, inconsapevoli del problema giuridico della loro minore età e della patria potestà, una libertà e una responsabilità piena sulla loro vita sulla base del fattoi di avere le idee chiare e di sentirsi padroni di sé. L'adolescenza, non solo come fase di transizione, ma soprattutto come fase di dubbio, che dovrebbe rendere la soggettività pienamente consapevole della precarietà e della finitezza intrinseca all'esperienza umana, nonché del carattere intrinsecamente pericoloso della libertà, non esiste più, nonostante la dipendenza materiale dalle famiglie, in nome di crescenti bisogni, si mantenga ben oltre la fine della fase evolutiva.

La rupofobia si esprime sotto forma di un'ossessione estetica senza limiti, che porta gli adolescenti a frequentare le palestre, a curare l'abbigliamento e l'igiene, a sottoporsi a diete, e, talora, a rivolgersi addirittura al chirurgo plastico, ecc.

La claustrofobia è attestata dalla rivendicazione precoce di una libertà illimitata, dalla difficoltà d'intrattenere rapporti affettivi stabili, dalla paura di diventare preda dell'altro e, nei casi estremi, dalla tendenza a vivere sul resgistro del disimpegno e dell'anarchia.

La fobia della sensibilità, promossa dal codice anestetico, è senz'altro l'aspetto più inquietante di questo nuovo quadro di mentalità. Venti anni fa l'ho descritta in questi termini:

"Con i suoi ideali di libertà e di giustizia, frustrati secolarmente, l'illuminismo, che non è affatto preda del mito di una fredda ragione, mette in movimento, in tutta Europa, uno sconvolgimento emozionale di massa, che rapidamente si configura come incontrollabile.

La civiltà borghese che utilizza, per affermarsi, questo sconvolgimento, orientato verso l'assolutismo conservatore e la religione, si legalizza contrapponendo all'isterismo delle masse popolari, inclini alle passioni, ai pregiudizi e alle superstizioni, il modello morale e sociale del gentiluomo dotato di un perfetto autocontrollo emotivo e capace di mantenere, in ogni circostanza, un atteggiamento equilibrato. Uno degli elementi costitutivi della forza di carattere, necessaria ad affrontare attivamente le difficoltà della vita, diventa il "sangue freddo", che, a differenza del sangue blu, può essere acquisito solo in virtù d'un'educazione mirante a temperare e a controllare gli eccessi passionali propri della natura umana.

Il codice dell'autocontrollo emotivo, che non è ancora un codice anestetico, implica un rapporto pragmatico con il sociale, un ritiro nel culto degli interessi privati e degli affetti familiari, un bisogno estremo di sicurezza che giunge, rapidamente, a configurare il modo d'essere borghese sul registro dell'aurea mediocritas. La misura emotiva è in realtà, un difetto di spontaneità, che mortifica l'identificazione con l'altro e sconsiglia, al di là del sistema familiare, ogni autentico investimento emozionale. Questa ideologia, vagamente ossessiva, fondata sul calcolo, sulla previdenza e sulla prudenza, promuove una serie di reazioni irrazionalistiche il cui rappresentante principale è Nietzsche, che al modello borghese contrappone l'uomo dionisiaco, il barbaro capace di dare sfogo a tutte le passioni positive — l'orgoglio, la gioia, l'amore sessuale, l'odio, la brama di potere. In realtà, l'irrazionalismo nietzschiano coglie un pericolo reale: che l'uomo rinunci a "sentire" per vivere tranquillo, e che il suo orizzonte vitale si esaurisca nella difesa della sua vulnerabilità emozionale rispetto ad un mondo che i fenomeni dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione rendono socialmente inquietante e carico di tensioni.

Il conflitto tra bisogno di sicurezza e di appartenenza sociale, e bisogno di individuazione, il quale ultimo postula il coraggio di "squilibrarsi" emotivamente in rapporto al mondo, è colto drammaticamente anche da Freud, che, però, pur stigmatizzando le costrizioni eccessive che la civiltà pone all'espressione delle emozioni, non può non giungere a ritenere la normalità una condizione difensiva, configurandosi l'Es, con le sue passioni selvagge, come una fonte pulsionale controllabile ma, in sé e per sé, indomabile.

L'urto tra razionalismo borghese e irrazionalismo vitalistico si realizza, inesorabilmente, nel corso della seconda guerra mondiale. E lascia tracce nelle popolazioni civili, che hanno sofferto l'indicibile nella memoria collettiva.

Nel corso del dopoguerra, in rapporto agli sviluppi della scienza e della tecnologia, il richiamo alla razionalità pragmatica diventa un'ideologia ufficiale. La passionalità viene stigmatizzata come promotrice di utopie pericolose, che possono disinnescare le potenzialità distruttive che incombono sull'umanità. Coinvolti in un processo storico che ormai sembra sfuggire al controllo di chicchessia, e si tiene sul filo del rasoio di equilibri precari, gli uomini non possono trovar rifugio che in ritiro emotivo dal mondo.

Ma non si tratta di una difesa che assicura la quiete: perché il ritiro emotivo dal mondo non coincida con un'autoesclusione, occorre adattarsi razionalmente e rispondere alle pretese di una società in cui i ritmi di sviluppo diventano vieppiù affannosi. Il codice anestetico si fa carico di questa duplice necessità — di isolarsi emotivamente e di competere senza tregua — e promuove un nuovo modello antropologico: quello dell'uomo che, alla stregua di un elaboratore elettronico, valuta razionalmente i suoi investimenti nel mondo — sia a livello sociale che privato — in termini di costi e di benefici.

Anni fa, un film fantascientifico — L'invasione degli ultracorpi — aveva preconizzato l'avvento del codice anestetico: liberati dalle emozioni da una trasformazione parassitaria, che, per il resto, rispettava tutte le altre caratteristiche, fisiche e psichiche, gli individui attestavano una completa beatitudine. Il protagonista, che rifiutava visceralmente quella trasformazione, riusciva a scampare all'invasione e a dare l'allarme al mondo. In un remake più recente il lieto fine saltava: non c'era più scampo per nessuno.

La psicopatologia contemporanea, più della sociologia, che ha indotto Lasch a definire la condizione dell'Io minimo, che, sentendosi assediato e vulnerabile, mira unicamente a sopravvivere, funziona come un'inquietante documento dell'incessante pressione del codice anestetico. Già le statistiche attestano che, negli Stati Uniti, un quarto degli utenti si rivolgono a psichiatri e psicoterapeuti per una sorta di apatico interesse nei confronti della vita, che invano si tenta di inquadrare in una fenomenologia depressiva, mancando, di fatto, ogni altro sintomo che non sia un difetto di sensibilità. Ma, al di là delle statistiche, i dati tratti dalla pratica sono ancora più inquietanti. Indubbiamente, gran parte delle depressioni larvate attuali, che non compromettono l'efficienza individuale, ma tolgono la gioia di vivere, attestano la necessità di una difesa anestetica dalle tensioni della vita.

Ma c'è di più. La struttura isterica si va trasformando ed estendendo a macchia d'olio: anziché le brusche esplosioni emozionali di un tempo, essa si esprime nell'accettazione della vita nella logica della sopraffazione. Molti giochi relazionali senza fine, tra coppie coniugali o tra genitori e figli, sono caratterizzati da dinamiche sado-masochiste il cui obiettivo è l'insensibilità, che viene perseguita da ciascuno sia esprimendo cinismo che ricevendo dall'altro rappresaglie che, facendo soffrire, dovrebbero produrre una sorta di mitridatizzazione al dolore.

Più drammatica è la condizione di adolescenti che, avendo adottato il codice anestetico, tendono a socializzare a partire da una identificazione immaginaria dell'Io come invulnerabile e immune da risonanze emotive. Essi vivono, per periodi più o meno lunghi, in una maschera che attesta l'insensibilità. Ma, prima o poi, vengono ad urtare in situazioni di coinvolgimento emotivo che comportano catastrofi di destrutturazione.

Del tutto recente, infine, è un quadro psicopatologico giovanile, tributario della struttura ossessiva, caratterizzato dall'identificazione del soggetto con il computer. Tale quadro si presenta o sotto forma di un ideale dell'Io compiutamente razionalizzato, che esclude qualsivoglia squilibrio emozionale, o sotto forma di delirio.

In quest'ultimo caso il soggetto vive un'avvenuta trasformazione del suo essere, che è divenuto una macchina senza alcuna emozione: e la trasformazione giustifica il fatto che egli non solo non ne risente, ma giunge a gioirne".

3.

Il tempo trascorso, impone di aggiungere qualche notazione, soprattutto per quanto concerne il mondo giovanile. L'ipercontrollo delle emozioni borghese, che è la matrice storica del codice anestetico, era strettamente funzionale a privilegiare il calcolo razionale dell'interesse privato, vale a dire a reprimere una sensibilità sociale che, comportando l'identificazione con l'altro, poteva introdurre un elemento di pietas incompatibile con lo sfruttamento dei meno abbienti e la concorrenza spietata tra pari. Affrancandosi dalle sue matrici storiche, l'ipercontrollo sulle emozioni è poi divenuto una virtù, che differenzia l'adulto dai bambini e da tutti gli esseri deboli. Esso comportava la capacità di correre rischi, ma in termini razionali.

Per effetto in gran parte dei mass-media, che negli ultimi venti anni hanno proposto insistentemente eroi e eroine di cartone, il codice anestetico a livello giovanile è cambiato. All'ipercontrollo promosso dalla generazione dei padri, i giovani hanno aggiunto, per differenziarsi, il rischio irrazionale, lo sprezzo del pericolo, la sfida all'umana debolezza. C'è da chiedersi perché ciò sia accaduto. La risposta non è difficile.

La fobia della sensibilità è funzionale ad arginare lo scorrimento delle emozioni sociali, a reprimere la pietas, che induce l'identificazione con l'altro, e soprattutto con il debole, ma essa vale anche a schermare la soggettività in rapporto al mondo interiore, laddove si dà il carico di ansia esistenziale - riferita alla finitezza, alla precarietà, alla vulnerabilità e alla mortalità dell'individuo - che denota l'umana debolezza.

La fobia della sensibilità è strettamente associata all'autofobia, alla paura di stare da soli e di guardare dentro di sé. Essa costringe i giovani alla socializzazione forzata, perché solo stando in relazione si sentono affrancati dalla solitudine e possono esibire la loro forza.

Il fenomeno, dunque, va ricondotto, oltre che alle sue matrici storiche e culturali, a quello che, in un articolo precedente, ho definito il buco nero dell'anima giovanile, vale a dire il rifiuto di fare i conti con l'ansia esistenziale. Al limite estremo, questo rifiuto comporta le negazione della propria vulnerabilità e mortalità.

Si tratta di un codice mostruoso, tanto più che esso spinge a ritenersi onnipotenti soggetti la cui debolezza è resa evidente dalla continua fuga che operano in rapporto al loro mondo interiore e la cui unica forza consiste nell'assumere una maschera che, essendo adottata dai più, è reciprocamente ingannevole.

4.

Alla fine del colloquio, Laura mi ha reso partecipe delle sue previsioni, avvalorate da un'analoga, per quanto meno grave, circostanza accaduta due anni prima. Per due-tre mesi - ha detto - ci concederemo di avere paura, saremo prudenti, indosseremo le cinture, limiteremo l'assunzione di alcolici e andremo più piano in macchina. Poi, tutto tornerà come prima. Di fatto, è impossibile che i giovani questo problema lo risolvano da soli, preda come sono di miti le cui matrici ignorano e della'autofobia. Ma chi li aiuterà?

Settembre 2003